martedì 30 settembre 2008

Lucia di Lammermoor al Met

Le protagoniste di Lucia di Lammmermoor al Metropolitan dal 1883 al 1995 rappresentano la storia stessa dell’interpretazione del personaggio donizettiano, presenti come sono, sul palcoscenico del più famoso teatro americano, tutte le interpreti di rilevanza del titolo.
Strana vicenda quella della storia dell’interpretazione di Lucia perché, esclusa Fanny Tacchinardi Persiani, prima interprete e fra le più famose primedonne fra 1830 e 1845, nessuna grande primadonna, almeno sino al 1880, ossia sino ad Adelina Patti, passò alla storia per l’interpretazione di Lucia. E questo perchè i soprani cosiddetti assoluti delle generazioni precedenti la Patti (Grisi e Tadolini in primis) non praticarono Lucia. Personaggio che ben conveniva alla divina Adelina, per giudizio comune poco avvezza al genere drammatico ed all’accento tragico, sino ad allora il distinguo delle prime donne più autentiche e quotate.
La “divina” Adelina cantò, nel 1892 nel corso di una tourneé americana, una recita di Lucia sul palcoscenico del Met.
Per contro almeno sino al 1880, l’opera fu essenzialmente opera per tenore. Gaetano Fraschini, detto “il tenore della maledizione” e Napoleone Moriani, “il tenore della bella morte”, devono gli appellativi a due topici del capolavoro donizettiano.
A conferma che poetica e vocalità del personaggio convenivano ai soprani cosiddetti angelicati, è che il personaggio non subì o subì in maniera limitata i travisamenti, di cui furono oggetto altri personaggi con la rarefazione, prima, e la sparizione, poi, del cosiddetto soprano drammatico di agilità. Pensiamo alla protagonista di Sonnambula e ad Elvira dei Puritani.
Ciò non significa che Lucia come categoria vocale appartenga al soprano leggero, o di coloratura, modello vocale creato dalle epigone della Patti, applicate, per lo più all’opera francese.
Le prime Lucie del Met non furono affatto soprani cosiddetti leggeri. Marcella Sembrich cantava anche Ernani e Maestersinger, abitualmente Traviata. Le registrazioni, sia pure tardive e realizzate con mezzi primordiali, comprovano che la Sembrich nulla avesse del cosiddetto sopranino delle generazioni successive.
Medesime caratteristiche vocali aveva l’altra famosissima Lucia della golden age del Met: Nellie Melba, i cui stilemi vocali (suoni medio alti spesso fissi) ed interpretativi (accento essenzialmente inerte) non incontrarono però, a differenza della Sembrich, polacca di nascita e italiana per studi, i favori del pubblico italiano. Nellie Melba fu la diva del Met e del Covent Garden, appunto.
Anche Frieda Hempel (Lucia dal 1912 al 1915) frequentava quello che sarebbe diventato il repertorio dei soprani leggeri, quale Zerbinetta, di cui fu prima interprete, ma fu anche la prima Marescialla, praticando un condomino, ai giorni nostri, possibile solo per cantanti come la Sutherland e la Sills. Le registrazioni, ancora acustiche, ma di una cantante nel pieno della carriera e con doti virtuosistiche cospicue, testimoniano una voce morbida e ben oscurata al centro, quindi, sonora in tutta la gamma, una linea di canto castigata, ma al tempo stesso variegata. Anche esecuzioni più drammatiche come i duetti Violetta–Germont con Pasquale Amato, sono ben lontane da qualunque meccanicità delle esecuzioni dei cosiddetti soprani di coloratura.
Anche Amelita Galli-Curci, Lucia dal 1921 al 1930, pur con una voce chiarissima e non certo dotata degli armonici di una Sembrich, risponde alle caratteristiche tecniche ed interpretative della Sembrich e della Hempel.
Fra l’altro le caratteristiche virtuosistiche di Marcella Sembrich, Frieda Hempel ed Amelita Galli erano cospicue, capaci come erano di eseguire ogni genere di figura ornamentale, di smorzare suoni a qualsiasi quota, di sfoggiare trilli complessi e di granitura difficilmente eguagliabile anche dalle più agguerrite trillatrici del dopo Callas.
Sotto il profilo interpretativo e, premesso che nessuna registrò il duetto con il baritono, sono Lucie astratte distaccate dalla realtà. Un modello, che connoterà, mezzo secolo, dopo Joan Sutherland, dichiarata ammiratrice di queste cantanti, della loro tecnica e del loro gusto.
Va anche detto che il personaggio allucinato sin dall’inizio, adolescente, sopraffatta, dagli eventi offre poche alternative interpretative.
Non per nulla la temperie verista, poco incline alla stilizzazione, fece di Lucia, in uno con Amina ed Elvira, tutte accomunate da una certa fragilità mentale, il prototipo dell’orfanella abbandonata capace solo di meccaniche esecuzione di passi di agilità.
Il gusto verista, poi, imponeva anche suoni marcatamente bianchi ulteriore segno di infanzia, infantilismo e sicuro disturbo psicologico.
A questo schema interpretativo ed anche vocale si attennero Luisa Tetrazzini, Maria Barrientos e sopra tutte Lily Pons. Ma almeno le voci della Barrientos e soprattutto della Tetrazzini erano eccezionali per ampiezza e penetrazione in zona acuta. Caratteristiche, sempre e progressivamente, mancanti in Lily Pons Lucia dal 1931 al 1953 con voce sempre più bianca, poi, accorciata ed artefatta al centro e dal virtuosismo ridotto a serie di staccati e picchettati.
Lily Pons è uno degli inspiegati ed inspiegabili miti del Met a maggior ragione se si pensa che dopo i brevissimi interregni della Ottein e della Talley, la Pons prese il posto della Galli–Curci nel repertorio di coloratura.
Galli–Curci al cui mito venne sacrificata Toti dal Monte, che nella stagione 1926 cantò due recite di Lucia ed una di Gilda del Rigoletto . Unica presenza al Met della Toti.
Nella stagione 1956 Maria Callas fu Lucia al Met. Non si poteva pensare ad un soprano più antitetetico alle Lucie in voga.
Fiumi di parole e di inchiostro su questa Lucia. Il concetto era che la Callas avesse tolto al cosiddetto sopranino il personaggio restituendolo al giusto e filologico drammatico d’agilità.
Tesi affascinante. Smentita storicamente in quanto i cosiddetti soprani drammatici a partire da Giulia Grisi ed Eugenia Tadolini, per arrivare alla Penco, alla Titjens ed alla Cazzaniga non avevano mai avuto in repertorio la creatura donizettiana.
Tesi per altro smentita, persino, dalla protagonista della asserita storica restaurazione, la quale per Lucia, esattamente come per Amina, sentì la necessità di inventare una voce, prima ancora che un accento, che richiamasse quello del soprano leggero. A questa idea, credo, rispose anche la scelta di utilizzare per l’”ardon gli incensi” la cadenza, non certo delle più spericolate e teatrali, composta per la Toti.
Quasi pleonastico parlare dell’accento della Callas, dell’abilità di fraseggiatrice, della resa del dolore e dello strazio della infelice protagonista. Il tutto, anche sotto quest’ultimo profilo, con fondato dubbio che Lucia sia Lucrezia o Maria Stuarda.
Dubbio accresciuto dalla prestazione, ciascuna irripetibile, ciascuna di rilevanza storica o quasi delle tre Lucie post Callas , ossia Joan Sutherland, Renata Scotto, Beverly Sills.
Alla astratta, siderale e d’un virtuosismo mai sentito, siccome affrontato con voce piena e mordente, protagonista creata dalla Sutherland, rispondeva il fraseggio analitico, l’assoluta attenzione ad ogni accento ed una dinamica tanto sfumata da essere, forse, leziosa di Renata Scotto. A metà fra le due linee interpretative Beverly Sills proponeva una protagonista dal tasso acrobatico e virtuosistico superiore alla Sutherland e con risorse di fraseggiatrice sorprendenti, pur con un timbro tutt’altro che privilegiato.
Quanto a tipologia vocale tutte e tre potevano più di ogni altra cantante riprendere il modello di una Patti o di una Sembrich.
Il dopo, che è poi il presente o il passato prossimo, è costituito di protagoniste dalle doti vocali straordinarie, dalla solidità tecnica ammirevole, che consente carriere quarantennali, o dalle potenti agenzie, ma che non hanno argomenti vocali o interpretativi, che consentano di competere con i colossi del passato.

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