domenica 28 dicembre 2008

La Sonnambula Dessay-Meli-Pidò: recensione

Esaminati altrove i problemi filologici rimangono quelli dell’edizione, che potrebbe essere pregevole e rilevante a prescindere dalle tonalità e dai raggiusti. I quali, però, per onestà intellettuale dovrebbero essere dichiarati nei libretti di accompagnamento e, in difetto, chiaramente dichiarati e rivelati dalla critica togata. In difetto non vi è rispetto del pubblico, il silenzio è forviante specie per chi si avvicini, giovane ed inesperto, all’opera.

Dopo l’ascolto dell’Elvino di Francesco Meli un qualsivoglia giovane ascoltatore si meraviglierà e si domanderà, lecitamente, per quale motivo un Bergonzi non abbia mai avuto stabilmente in repertorio Elvino o perché un Kraus ed un Pavarotti abbiano avuto approcci fugaci con la parte. Perché l’Elvino di Francesco Meli canta spesso su una tessitura che è simile a quella di Nemorino.
L’aggiusto e l’accomodo erano, da sempre, al servizio del carattere del personaggio e dell’interpretazione, quindi. Nell’edizione, invece, abbiamo solo aggiusti ed accomodi. Manca, però, il corrispettivo della interpretazione rispettosa della poetica del personaggio e dell’autore. Perché il signor Meli, dotato in natura di un timbro di qualità, non pratica il canto professionale (le idee su sostegno, copertura e proiezione del suono, immascheramento sembrano sconosciute, alla fine dell’ascolto) tanto è che appena compare un mi3 o un fa 3 si strozza e, a scelta, emette falsettini o grida. Quindi nessuna dinamica perché la mancanza di tecnica lo costringe ad emettere piani “indietro”, ad ignorare i numerosi trilli o mezzi trilli a pasticciare i pochi passi di agilità previsti.
Elvino non sogna perché non fraseggia a mezza voce, Elvino non spara acuti, Elvino non ricorda la indiscussa ascendenza rossiniana del suo canto. Gli esempi si sprecano, bastano i toni dei recitativi veristi, i moderati dei duetti privi di legato, il suono indietro e sfibrato ad ogni tentativo di addolcire e smorzare; lo “Sposi or noi siano” del famoso “Prendi l’anel ti dono” è la summa della tecnica e del gusto del protagonista maschile.
E tralascio che in una registrazione con velleità culturali non venga eseguito il da capo della cabaletta “Ah perché non posso odiarla”. Con una simile scelta il protagonista maschile perde la sua scena più importante, che ne fa un vero protagonista e non un “puntello” alla protagonista.
Eppure in altra epoca di nessuna attenzione filologica con trasporti meno evidenti di quelli proposti per, edizione critica Tito Schipa, Alfredo Kraus ed anche il supremo trasportatore, Fernando de Lucia hanno sfoggiato dinamica ed accento assai più pertinenti al personaggio ed alla poetica belliniana.
Le osservazioni sono identiche per la protagonista, che sarebbe il più celebre soprano d’agilità oggi in carriera, stando a luoghi e titoli delle sue esibizioni.
In generale sentiamo una voce usurata, che stenta a legare e non brilla nei passi acrobatici, proposti nella versione letterale, il più delle volte, o con abbellimenti che non rispondono alla principale funzione dell’abbellimento.
Passando in rassegna la parte i limiti della protagonista sono costantemente identici. La voce suona molto vuota nella zona bassa, gradevole al centro,a condizione di non superare il mezzo forte e appena si avvicina la zona del passaggio superiore compaiono suoni, che gergalmente parlando, sono di gola, ovvio che gli acuti siano duri, faticosi, esibiti al minimo. Ossia la negazione della voce impostata secondo le prescrizioni della scuola italiana, incondizionatamente seguite da tutte le protagoniste di levatura. Ma anche dalle solide professioniste.
E’ una Amina, che, rimanendo ai soprani leggeri nei passi patetici, (la signora Dessay più volte ha manifestato insofferenza per l’aspetto acrobatico spettacolare del melodramma italiano, donde il dubbio del perché lo affronti sì spesso) non può certo competere con l’esecuzione della giovane Scotto o con i 78 giri di una Galli–Curci o di quel che resta (sempre troppo) di Adelina Patti o di Marcella Sembrich.
Sul canto di agilità vuoi la cabaletta della sortita che il rondò finale manca lo sfoggio di acrobazie che il momento scenico impone, ma anche un accento particolare e peculiare per la protagonista. Anche in questo caso il confronto con una cantante, prima di tutto “eloquente” come Renata Scotto è insostenibile per la Dessay.
Il conte Rodolfo di Carlo Colombara, un tempo dotato di vera voce di basso (e questa come tutte le parti di Filippo Galli è molto baritonale) ricorda, più che un nobile signore ancor disponibile ad amori ancillari, un versione nostrana di Gremin con canto in lingua paraslava. Anche qui una versione che si picca di essere filologica e critica dovrebbe essere importata ad un ripristino o tentativo di ripristino delle categorie vocali del tempo.
Se poi andiamo ad esaminare i suoni orchestrali non troveremo certo raffinate e tenui sonorità che richiamino il clima da idillio pastorale, ma suoni piuttosto pesanti e grevi e nessun finezza. Non mi sembra, fra l’altro, ma posso sbagliare di avere sentito il suono delle due trombe ad introdurre l’aria di Elvino. E poi sempre per coerenza, almeno nella registrazione l’esecuzione completa e completa di variazioni sarebbe non solo doverosa, ma onesta nei confronti del pubblico, che si illude di acquistare un prodotto non solo artistico, ma anche filologicamente valido.
Buon ascolto ?

2 commenti:

Jean de Reszke ha detto...

Torno adesso dalla nuvola di Lillian Nordica, che ha una parabola migliore della mia e prende senza interferenze le dirette Rai. Questo Meli della Sonnambula è lo stesso Meli che ha strillato tutta sera nella Maria Stuarda della Scala? Poveri noi... credo sia proprio ora di buttare le parabole e di ricominciare a far musica fra di noi. Meglio le nostre gole centenarie e un po' scassate di queste moderne fauci da verduraio. Perdonate la franchezza.

Giulia Grisi ha detto...

Ciao Jean. Benvenuto.
..forse potresti postare la recensione appena l'avrò pubblicata......qualche minuto ancora......