venerdì 29 febbraio 2008

Happy Birthday Gioachino!

Mio caro Gioachino,
so bene che non siete dell’umore giusto per festeggiare il vostro compleanno, ma ….a che giova?
I tempi sono quelli che sono, è certo! E devo dire che non posso non condividere il Vostro sdegno per la rovina e il mercato che della Vostra Arte si fa nei teatri, principiando da quello della città natale.
La Vostra Arte si onora con il nostro canto.
Voi stesso, caro ed illustre maestro, ci avete insegnato che la Vostra Arte è tutta ideale, astratta dalla realtà.
La perfezione del nostro mestiere è l’istrumento per cercare di rendere il sublime dell’arte e della poesia Vostra.
Ma i tempi che corrono sono quelli che sono, ripeto: come possiamo pretendere che questi giovani capiscano che l’arte Vostra consiste nella metafora e nella sublimazione dei sentimenti?
Che il nostro mondo è fatto di “rappresentazioni” di idee di sentimenti e non di sentimenti reali? Oggi riderebbero delle forme della Vostra cara, unica Marietta, dimenticando il sogno del suo canto, il suo essere l’eroe più bello che ci fosse, perché il suo canto era il più bello.
Del resto, questo oggetto che chiamano televisione si illumina, e dentro la gente è solita guardare la realtà e considerarla al pari dell’arte. La gente è ormai abituata a quello, mio caro Gioachino, purtroppo è così. Voi vi sentite incompreso e bistrattato, e vi capisco. Tutti noi vi comprendiamo, perché è assai frustrante cercare di far dell’arte per chi non sente il bisogno di vedere sulla scena qualche cosa che sia diverso da quanto vede per la strada; per chi è ormai avvezzo a questa moderna estetica del “brutto”, del grido, del bisbiglio, del sussurro, dello spoglio e del tetro quando non della farsaccia da fiera ?
Il nostro è un mondo lontano ormai, mio caro Gioachino, tanto lontano che ormai anche quei vecchi colleghi che hanno cantato la Vostra musica eccezionalmente nella loro carriera paiono specialisti al fianco dei moderni cantatori. Ma proprio su questo ho riflettuto, con altri. Talvolta, infatti, proprio chi non è chiamato, come modernamente si usa, “specialista” maggiormente sa riecheggiare il nostro mondo. E che talvolta qualche giovane, forse perché diversamente educato da come oggi si usa, calca le scene a modo proprio, solitario e magari incompreso.
Mio caro ed illustre Maestro, le nostre voci, il nostro canto lo avete ascoltato, lo avete stimato, illustrato, glorificato, quando ci onoravate della Vostra attenzione, accomodandoci le parti.
Si racconta che dopo di noi e pochi altri ci fu il diluvio, la morte del Vostro canto. Sbagliato Maestro, fu opinione di gente ignorante e poco avvezza all’orecchio!
Vi fu la fine dell’arte Vostra intesa come sublime sulla scena, come rappresentazione dell’universo amore, dell’universo odio. Ma la Vostra lezione di canto, quella che il caro Garcia ha tramandato dopo avere tanto ascoltato, quella che Lamperti e la Matilde Marchesi hanno continuato non sono morte hanno continuato a vivere. Erano più vive settant’anni or sono che non oggi!!!! Basta sapere e voler ascoltare, caro maestro.
Abbiamo scelto un omaggio, omaggio di chi per il gusto e la poesia del tempo suo non poté cantare tanto la Vostra musica, ma che ne aveva tutte le caratteristiche . Il respiro, il sostegno e la saldezza di ogni nota di Marcella Sembrich o di Ebe Stignani sono quelle della nostra istessa scuola.
E che dire del legato, del cantare piano con voce dolce e sonora bella e proiettata del grande Mosè di Nazzareno de Angelis. Lui trilla come trillava il Garcia padre o il nostro Antonio Tamburini.
Certo la Vostra concittadina v’onora con la voce degli angeli ed il gusto di Verdi, però. E voi non lo amavate, non era il Vostro, ma mai sui nostri palcoscenici, se si fa eccezione per la mia o di Madama Cinti, si ebbe ad udire una voce di quella liquida dolcezza.
Come non si ebbe mai a sentire dopo la Vostra Illustre sposa o la nostra Git lo slancio, la precisione, la magia di Maria Callas, che non certo bellissima nell’aspetto, era la più seducente maga che si potesse immaginare. Quando ciascuna di noi l’ha invidiata per il dono di far rivivere le magie di Isabella Vostra.
Quando la Vostra poetica ed i Vostri capolavori sono stati nuovamente disvelati al pubblico tanti cantori e cantatrici si sono avvicendati sui palcoscenici del mondo. Spesso hanno dovuto lottare per affermare l’arte loro e la Vostra. Talvolta come è capitato per chi interpreta le pagine dei Vostri Aureliano, Zelmira e Bianca in questo nostro piccolo omaggio lo hanno fatto per una sola volta.
Non disperate, Gioachino, non fatelo. Chissà, nonostante i tempi forse qualcosa di buono tornerà proprio quando non nessun se lo aspetta più.
I miei migliori auguri di un felice compleanno
Vostra
Giulia




Aureliano in Palmira
Atto II, scena VI - Perchè mai le luci aprimmo - Martine Dupuy

Elisabetta, regina d'Inghilterra
Atto II, scena III - Bell'alme generose - Leyla Gencer

Il barbiere di Siviglia
Atto I, scena I - Ecco ridente in cielo - Alfredo Kraus
Atto I, scena IX - Una voce poco fa - Ebe Stignani, Renata Scotto

Armida
Atto I, scena III - Sventurata, or che mi resta - Maria Callas

Ermione
Atto I, scena I - Mia delizia, un solo istante - Marilyn Horne

Bianca e Falliero
Atto I, scena VI - Della rosa il bel vermiglio - Gianna Rolandi

Zelmira
Atto I, scena VIII - Perchè mi guardi e piangi - Lella Cuberli & Martine Dupuy

Semiramide
Atto I, scena IX - Bel raggio lusinghier - Marcella Sembrich
Atto II, scena IX - Deh!...ti ferma, ti placa, perdona - Tancredi Pasero

Le siège de Corinthe
Atto III, scena VII - Giusto Ciel, in tal periglio - Renata Tebaldi

Moise et Pharaon
Atto II, scena II - Eterno! Immenso! Incomprensibil Dio! - Nazzareno de Angelis

Guillaume Tell
Atto I, scena V - Ah! Matilde, io t'amo - Leo Slezak
Atto II, scena II - Sombre forêt - Beverly Sills
Atto IV, scena I - O muto asil del pianto - Giovanni Martinelli, Giacomo Lauri-Volpi

Stabat Mater
Inflammatus - Renata Tebaldi

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mercoledì 27 febbraio 2008

Jaroussky e il Cusanino: voce di castrato?

Scorrendo la storia dell’ opera seria (cioè quel particolare genere che tra XVII e XVIII secolo costruì, attraverso le meraviglie della vocalità, e con precise, collaudate e codificate strutture formali, il trionfo del teatro musicale barocco) accanto ai nomi dei grandi compositori, quali Handel, Bononcini, Porpora, Hasse, si leggono con pari o addirittura maggior frequenza e rilevanza, quelli del Broschi, del Carestini, dell’Annibali, del Salimbeni, del Bernardi. Gli evirati cantori: ossia gli strumenti e al tempo stesso i creatori (giacchè i grandi compositori per loro soltanto, per quelle voci e figure, scrivevano la loro musica) di quella irripetibile mirabilia che fu il canto barocco. I castrati, per cui il mondo civile impazziva, che da San Pietroburgo a Madrid, da Londra a Roma, diventavano gli idoli di teatri, corti, regge e palazzi nobiliari, contesi da re e imperatori, principi e cardinali (ma anche desiderati da aristocratiche dame, marchese e baronesse, per altre doti che non quelle canore). Semidei che suscitavano ovunque furori e svenimenti, per cui si formavano fazioni e partiti, ma anche oggetto di intrighi, invidie, rivalità, ricchezza, onori, drammi e tragedie.
Questo era il mondo dei castrati: un intreccio di musica meravigliosa, politica, eccessi, miserie, passione, scandalo, al ritmo avvincente di un romanzo storico. Come pensare di ritrovare anche qualche frammento di tutto questo variopinto e mutevole mondo nelle prosaiche, pallide, artificiose ed effemminate vocine degli odierni falsettisti? Quale mente bizzarra potrebbe accostare il nome di Francesco Bernardi, il Senesino (per cui Handel scrisse capolavori quali Rinaldo, Radamisto, Muzio, Floridante, Ottone, Flavio, Giulio Cesare, Tamerlano, Rodelinda, Scipione, Alessandro, Admeto, Riccardo Primo, Siroe, Tolomeo, Partenope, Poro, Ezio, Sosarme, Orlando) o quello di Carlo Broschi, il famoso Farinelli, ad un rubicondo giovanottone imberbe come David Daniels dallo sguardo languido e lamentoso? In cosa le voci del Domenichino, del Caffariello o del Giziello, riecheggerebbero in un Bowman dall’espressione babbea o in un Cencic con quell’aria da bamboccio allampanato? Solo la decadenza della nostra epoca ha potuto produrre un simile abominio, a spacciarlo per vero, a imporlo come corretto, autentico. Del resto i falsettisti sono la naturale conseguenza dei dogmi baroccari: in una perfetta equazione, agli strumenti finti antichi dei complessini filologici, corrispondono, giustamente, voci altrettanto finte.
Nessuno di noi, ovviamente, ha mai ascoltato un castrato cantare: ci resta però la musica scritta per loro dai grandi compositori (musica di enorme difficoltà che richiede dei veri fuoriclasse) e le testimonianze e i giudizi dei loro contemporanei. Su ciò che ci resta si deve ragionare e valutare. Necessariamente. E da tutto questo non si può che evincere come l’impiego di tali falsificazioni vocali sia assai scorretto, e per fattori fisici e per ragioni musicali. I primi sono dovuti chiaramente al fatto che gli effetti che l’evirazione comportava sulla crescita e lo sviluppo della persona (in particolare l’espansione della cassa toracica) non sono riproducibili artificialmente. I secondi dipendono dalle enormi differenze tra ciò che ci è tramandato come voce di castrato (“timbro chiaro e penetrante, molto distante dalla dolcezza giovanile pastosa delle voci di donna: ma brillanti, leggere, piene di splendore, assai forti ed estese” e ancora “Sono ugole e suoni di voci da usignoli; sono fiati che fanno mancare la terra sotto i piedi e che quasi tolgono il respiro” o anche “Non ci sono iperboli, non ci son eccessi di penna poetica che possano bastare a tessere le lodi di una simile virtù” – a tutto ciò si accompagna, poi, l’uso spregiudicato delle agilità, possedute con sicurezza spavalda, visto il trattamento vocale a loro serbato dai compositori, e gli strabiliati giudizi tramandati dai contemporanei), e la quotidiana miseria che ci è dato ascoltare nei prodotti dei baroccari: intonazione traballante, agilità pasticciate e aspirate, suoni fissi come sirene della polizia, assenza di colore e fraseggio, mancanza di emissione di forza (per tacere di innumeri difetti di pronuncia, accento e dizione, dipendenti dal fatto che questo repertorio viene per lo più affrontato da cantanti che non conoscono una parola di italiano, né lo sanno pronunciare almeno decentemente – e questo la dice lunga sulla filologia baroccara, che ha bellamente ignorato questo aspetto fondamentale, per concentrarsi su di una discutibilissima e dogmatica visione della prassi esecutiva).
Oggi poi, l’utilizzo dei falsettisti (sempre scorretto per i motivi sopra esposti) è addirittura abusato: vengono cioè impiegati in ruoli scritti espressamente per cantante donna o per autori che mai o quasi hanno scritto per castrati (penso a Rossini – che scrisse un solo ruolo per il Velluti: Arsace nell’Aureliano in Palmira – oggetto di sempre più frequente interesse da parte dei falsettisti: da Tancredi ad Arsace a Ciro, fino addirittura ad arrivare a Semiramide e Rosina). Si aggiunga poi che Handel stesso (le cui opere – almeno nelle esecuzioni più recenti – sono invase da contraltisti e sopranisti) detestava questo tipo di voci, e non risparmiava critiche o sagaci giudizi quando, in particolar modo negli Oratori, si trovava costretto a scritturarli.
Esponente di spicco, di questa odierna schiatta di falsettisti, che si arrabattano a scimmiottare quelle voci perdute, è Philippe Jaroussky: vera e propria star dei nostri tempi baroccari. La sua ultima uscita discografica ha un titolo ambizioso: Jaroussky – The story of a castrato: Carestini. E, a parte la strizzata d’occhio al marketing (che risente ancora dell’esotismo e della curiosità suscitata dal fenomeno del Farinelli cinematografico) è un tentativo tanto presuntuoso, quanto immotivato, di creare un collegamento ed una identificazione tra sé stesso e una delle più straordinarie personalità della vocalità barocca, Giovanni Carestini (1705-1760), detto il Cusanino (dal nome della famiglia Cusani, suoi primi protettori a Milano). Cantante tra i più celebrati del suo tempo, cantò in decine di opere, sui palcoscenici di tutta Europa, in ruoli che scrissero appositamente per lui Scarlatti, Fux, Albinoni, Vinci, Porta, Galuppi, Hasse, fino a che a Londra, nel 1733, fu ingaggiato da Handel per la sua compagnia di canto. Per lui il caro sassone compose brani di incredibile successo, che ancora oggi lasciano strabiliati, per lui creò ruoli in Ottone, Sosarme, Arianna in Creta, Ariodante ed Alcina. Ebbe uno straordinario successo, Hasse di lui scrisse: “Chi non ha ascoltato Carestini, non ha conosciuto il più perfetto stile di canto”. La sua voce è descritta dai suoi contemporanei come un’autentica meraviglia. Charles Burney, che lo conobbe all’apice del successo scrive: “Giovanni Carestini aveva una voce di soprano chiara e potente, che si trasforma più tardi in una bellissima voce di contralto, piena e profonda. Quando si esibì a Praga, la sua voce aveva un’estensione di sedici note, dal si basso al do alto; era dotato di una sorprendente facilità nell’eseguire di petto trilli difficili, con uno stile articolato e ammirevole, secondo la scuola di Farinelli e di Bernacchi, e abbellimenti e passaggi complicati riscuotendo di solito grande successo anche se risultava a volte arbitrario e troppo estroso. Si muoveva sulla scena in modo ammirevole, pieno di slancio e ardore, tanto come attore che come cantante; in seguito migliorò notevolmente nell’esecuzione degli adagi”.
Passando dalla lettura di queste testimonianze e dall’immaginata meraviglia di una voce siffatta, alla realtà dell’esecuzione del suo preteso epigono, lo stacco avvertito è drammatico, sconsolante, mortificante: come scendere dal cielo all’inferno. Nelle arie contenute nel cd, infatti non v’è traccia alcuna di questa straordinarietà, di questa facilità negli acuti, di queste agilità sicure ed eseguite di petto, di questa forza e luminosità, di questo fascino vocale che pare abbia stregato tutti i suoi ascoltatori. Tralascio l’imbarazzante copertina (che presenta, in un’elegante foto in bianco e nero, il divo in completo scuro, col volto coperto da una ridicola maschera di pizzo nero a forma di farfalla che tutt’al più richiama alla mente certi filmati porno amatoriali, piuttosto che la gloria del belcanto) per concentrarmi sul programma, che appare particolarmente difficile e complesso. Abbraccia, infatti, i ruoli più significativi interpretati dal Cusanino, dal Siface di Porpora a I fratelli riconosciuti di Capelli, dai grandi ruoli handeliani (Alcina, Ariodante, Arianna in Creta) al Farnace di Leonardo Leo, passando per La clemenza di Tito di Hasse e il Demofoonte di Gluck, fino all’Orfeo di Graun. E si caratterizza per la grande varietà tra i diversi brani che richiedono sfacciato virtuosismo, straordinaria tenuta di fiati, versatilità di carattere e di tono, ora “di furore” ora più elegiaco. L’interprete è dunque chiamato ad un oneroso compito. Compito del tutto disatteso dal buon Jaroussky (che ad essere sinceri non è certo il peggiore del suo genere, anzi, se paragonato ad altri colleghi, presenti e passati, risulta addirittura quasi convincente – il problema è però alla radice, alla legittimità stessa dei falsettisti). Non passerò in rassegna ciascun brano presentato, ma (esclusivamente per preferenze personali – lo ammetto – e per il fatto che le considerazioni riservate ad esse bene si attagliano a tutti gli altri) dedicherò la mia attenzione alle due arie tratte dall’Alcina di Handel, in particolare ad uno dei miei brani preferiti in assoluto: l’aria di Ruggiero, “Sta nell’Ircana” (e la memoria non può che correre alle esecuzione della Berganza, vertice assoluto, nemmeno lontanamente sfiorato dalla pallente voce di questo, e di qualsiasi altro, sopranista). Dopo la breve introduzione strumentale (meccanica, piatta, monocroma, come è solita la Haim e la sua grigia e noiosa compagine), Jaroussky inizia molto male, con un attacco sporco ed incerto, la voce fin da subito appare sbiancata e fissa come la sirena di un allarme; il primo salto di quarta (RE-SOL) è lanciato alla “viva il parroco”, con un SOL preso malissimo e di intonazione traballante. Quando scende, poi (e l’aria in oggetto e piena di salite e discese vertiginose) la voce sparisce e il timbro già povero, diventa ancora più misero e debole. Il peggio deve però venire: la prima serie di agilità è pietosa, tutta aspirata, slabbrata e pasticciata (altro che i gorgheggi di petto di cui parla ammirato il Burney), alcuni trilli vengono omessi (o forse sono eseguiti così male da non essere percepibili) e il termine della cadenza è raggiunto a stento e con estrema difficoltà, con un fastidioso effetto apnea (ovviamente i fiati non reggono all’artificio del falsetto) tanto che Jaroussky è costretto ad accelerare (con sgradevole scollamento ritmico dall’orchestra) perché il fiato non è in grado di reggere i tempi già veloci della metronomica Haim. E così via per tutta la prima parte del brano: alternando suoni fissi e sbavature, voce stridula e sbiancata in alto, gutturale e sospirosa in basso. La seconda sezione dell’aria, poi, è eseguita senza alcun cambiamento ritmico o d’accento rispetto alla prima, contraddicendo con ciò il senso stesso dell’aria tripartita barocca (che prevede due distinti episodi musicali caratterizzati da dinamiche, tonalità e carattere contrastanti, ed un terzo episodio, “da capo”, che è la ripetizione del primo, ma variato e ornato di abbellimenti e colorature che erano i “cavalli di battaglia” dei grandi virtuosi, il luogo dove si realizzava pienamente la meraviglia del canto barocco). Il “da capo” di Jaroussky, presenta sì delle variazioni e degli abbellimenti, ma non sempre efficaci e coerenti con la linea di canto, con i soliti salti e acuti difficoltosi, stirati e fissi, e poi scale e acciaccature di gusto spesso discutibile (con costante debito di fiato e di intonazione).
Del medesimo livello la splendida “Mi lusinga il dolce affetto”, una delle pagine di più struggente bellezza scritte da Handel, dove sono messi a dura prova i fiati e la loro tenuta. Jaroussky la risolve in modo analogo a prima, con gli stessi difetti e con la stessa inadeguatezza che la voce del falsettista comporta (a prescindere dalla capacità tecnica dell’interprete). Ancora i fiati risultano assai problematici (e i respiri vengono presi dove capita), i bassi sono sfocati (laddove occorrerebbero smaglianti e corposi, caldi e rotondi), e gli acuti striduli. Di nuovo non si percepisce alcuna differenza con la seconda sezione dell’aria (evidentemente Jaroussky e la Haim ignorano i fondamentali del canto barocco e dell’opera seria italiana). E ancora il “da capo” delude: Jaroussky esagera in variazioni e abbellimenti, soffocando la morbidezza della linea di canto handeliana, fraintendendo il carattere elegiaco e trasognato dell’aria. Lascio il resto del cd all’ascolto dei più volenterosi, ma le stesse considerazioni potrebbero ripetersi identiche.
A conclusione di queste riflessioni (che si potrebbero tranquillamente estendere a tante altre “delizie” dell’universo baroccaro, strumentale e vocale, sacro e profano) cito un brano di Parini (riguardante la sua insofferenza per i castrati – ma ricordando che egli scrive in epoca già post barocca, in ambiente lombardo-veneto di cultura austriaca – e allora a Vienna Gluck aveva già “ucciso” il belcanto, con la sua riforma – quando ormai gli evirati cantori, altro non erano che residui di un’era perduta, travolta dalla trionfante epoca dei lumi) che bene può essere dedicata ai nostri odierni falsettisti:
Aborro in su la scena
un canoro elefante
che si strascina a pena
su le adipose piante,
e manda per gran foce
di bocca un fil di voce


JAROUSSKY – The story of a castrato: Carestini

1. Tu che d’ardir m’accendiSiface di Nicola Antonio Porpora
2. Ciel nemico, avverse stelleI fratelli riconosciuti di Giovanni Maria Capelli
3. Qui ti sfido, o mostro infameArianna in Creta di George Frideric Handel
4. E vivo ancora? …Scherza, infidaAriodante di George Frideric Handel
5. Sta nell’Ircana Alcina di George Frideric Handel
6. Chi scopre al mio pensiero …Mi lusinga il dolce affettoAlcina di George Frideric Handel
7. Se mi dai morteFarnace di Leonardo Leo
8. Se mai sentiLa clemenza di Tito di Johann Adolf Hasse
9. Vo disperato a morteLa clemenza di Tito di Johann Adolf Hasse
10. Sperai vicino il lidoDemofoonte di Christoph Willibald von Gluck
11. Ecco all’aure superne …Mio bel nume, ah! Dove sei?Orfeo di Carl Heinrich Graun
12. In mirar la mia sventuraOrfeo di Carl Heinrich Graun
Les Concert d’Astrée – Emmanuelle Haim









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lunedì 25 febbraio 2008

Lucia di Lammermoor a Bologna: Brava la claque!

Il Comunale di Bologna dimostra per l'ennesima volta di... non saper prendere le misure. Questa Lucia donizettiana nasceva come riallestimento di uno spettacolo del Maggio fiorentino (regia di Graham Vick), ma al penultimo momento il Teatro ha ripiegato su una nuova produzione, affidata a Walter Le Moli. Il tutto perché la scenografia fiorentina non entrava nello stretto recinto del Comunale di Ferrara, che ospiterà due recite bolognesi "in trasferta". Il caso (?) vuole che il cast vocale abbia presentato analoghi casi d'inadeguatezza strutturale.
Partiamo, in assoluto dispregio delle regole cavalleresche, dalle voci maschili, segnatamente da quelle gravi. Una certa spavalderia negli acuti (che risultano a tratti schiacciati) e la tendenza a cantare con il mento aderente al petto, a far forza sulla gola (col brillante risultato di caricare eccessivamente i passaggi dal mezzoforte in su e rendere sistematicamente fibrosi i piani e pianissimi): ecco le caratteristiche peculiari del giovane Giorgio Caoduro, cui forse gioverebbe trovare modelli diversi da quello di Ettore Bastianini (e non gli farebbe neppure male imparare il testo del libretto, dato che non è accettabile dimenticarsi il testo di Lucia, manco fosse un'opera di rara esecuzione).
La voce di Caoduro, Gergio per amici e detrattori (ugualmente da lui ricercati), è di colore chiaro e di qualità. Il colore chiaro e tenorile è tipico delle voci di baritono le quali spesso per non sembrare tenori bitumano le note del passaggio istigati da maestri e pubblico, che lanciano deliranti consigli tipo "fa' gli acuti da baritono", come se un fa o un sol acuto potesse avere colore sensibilmente diverso a seconda della corda. L'oscurare artificiosamente i centri e l'esecuzione del passaggio su note che sarebbero quelle del tenore e non del baritono porta anche per cantanti spontaneamente estesi a quelle difficoltà palesate dal signor Caoduro. Difficoltà cui si potrebbe facilmente rimediare. Per essere completo, i modelli per un baritono per quanto concerne emissione e legato sono a 78 giri e si chiamano soprattutto Carlo Galeffi e Giuseppe de Luca.
Ma il baritono è risultato sicuramente più a proprio agio del basso, che poi basso non è, trattandosi di Nicola Ulivieri, mozartiano di lungo corso da sempre a disagio nel Belcanto (ricordiamo un terrificante Alidoro a Pesaro, degno compare di un precedente don Profondo e in tempi più recenti di un discutibile Turco in Italia triestino). Oltre a mancare dell'ampiezza necessaria a conferire rilievo al personaggio del mellifluo Bidebent, la voce di Ulivieri suona quanto mai usurata e spesso e volentieri ballonzolante.
Francesco Meli spalanca comme d'habitude le fauci e dà fiato alle trombe, dimostrando sicuramente un'apprezzabile volontà di arrivare vivo e possibilmente in voce alla fine della serata. Ma non è Edgardo, non può esserlo, con quei suoni gonfiati allo spasimo (stile rana che imita il bue), gli acuti aperti, raggiunti a prezzo di singhiozzi e appoggiature che fanno impallidire quelli praticati dalla Gruberova ultimo modello, l'assoluta assenza di nuances e colori (stante che a ogni tentativo di smorzatura la voce sbianca e va indietro). Insomma, un cattivo compare Turiddu. Anche qui il problema, con buona pace degli esagitati estimatori di questo potenziale tanto notevole quanto brado, è tecnico. Guardando il signor Meli che canta, non si vede nessuno dei movimenti che rappresentano quello che in gergo si chiama "il sostegno", si vede solo lo sforzo che richiede la tessitura tipica del romanticismo e che ha il suo punto centrale nella delicata zona del passaggio. Tenori assolutamente corti come Tito Schipa o Carlo Bergonzi (sulla cui verdianità l'attuale Edgardo ha espresso le sue perplessità in interviste non recentissime) hanno mantenuto il ruolo a lungo nel proprio repertorio. Non per fare i papà Germont della situazione, ma un simile canto a gola strozzata può durare solo finché natura regge e sostiene. Insomma Un di quando le veneri....... Insomma il sostegno, l'appoggio, la proiezione sono caratteristiche peculiari del rappresentante, e non del rappresentato, come abbiamo potuto facilmente verificare ieri sera in teatro.
Last but not least, Désirée Rancatore, salutata come "usignolo" dalla temeraria claque arrivata dal paese, ha piuttosto del cardellino o cocorita che dir si voglia, afona in prima ottava, vuota al centro, mentre in acuto segue la regola "apri, spingi e fischia" (applicazione del cignesco principio "apri spingi e stringi", che in Verdi e Verismo dà risultati disatrosi per la durata della carriera) che la porta a emettere suoni fissi, sbiancati, non di rado anche stonati. Il tutto frutto della temeraria e precaria tecnica di respirazione e sostegno, che impedisce un legato corretto e sfumature almeno nella zona medio alta della voce. E per un soprano che posa a diva liberty, quelle due variazioni in croce sarebbero sufficiente motivo di vergogna, se ancora certi fenomeni potessero provare siffatti nobili sensi. L'usignolo del Monte Pellegrino infatti non ha le qualità tecniche indispensabili per collocarsi neppure lontanamente sulla scia della Pons e della Galvany.
A rimestare la minestra (rectius: la brodaglia) Antonello Allemandi, che bada solo a ottenere dall'orchestra (tutt'altro che impeccabile: vedasi a titolo d'esempio gli ottoni preludianti l'aria del tenore) un suono quanto più possibile cupo e fragoroso, lasciando il palco (i solisti e, massime, il coro) ad arrangiarsi nel marasma generale. Il cospicuo numero di tagli (in primis i da capo di quasi tutte le cabalette) è stato da molti salutato con sollievo. E anche fra il pubblico c'è stato chi ha apprezzato.
Analogo atteggiamento alla "laissez passer" ci è parso di ravvisare nello spettacolo di Le Moli, praticamente una forma di concerto con brutti abiti contemporanei che sanno d'improvvisato e raccogliticcio (la festa di fidanzamento era un compromesso fra un accampamento di sfollati, un funerale di terza classe e la riunione di un clan mafioso per lo sposalizio della figlia del padrino), due cubi fluorescenti e luci inderogabilmente funeree. Improprio parlare di direzione di attori (due perle su tutte: Lucia ed Edgardo che cantano in duetto a cinque metri di distanza l'una dell'altro e la suddetta Lucia che entra in scena, alla pazzia, trascinando scompostamente il cadavere di Arturo, molto simile a un animale da squartare). Ma certo, forse siamo stati noi a non capire che “Enrico e Lucia sono entrambi mossi da una follia opposta l’una all’altra. Per questo il loro destino è distruggersi a vicenda. Il conflitto familiare è una metafora che può essere amplificata fino a rimandarci al rapporto tra l’individuo e lo stato. Enrico è lo Stato, Lucia l’individuo. La situazione tra loro è un conflitto che non conosce possibilità di dialogo e perciò può terminare solo con la morte", mentre la scena della pazzia è "un invito alla società a riflettere sulle reazioni alle quali può spingersi un individuo se costretto. Se si esce perciò dalla prospettiva del conflitto familiare e si amplifica l’orizzonte alla società intera, questa situazione appare assai più grave, più drammatica e più vicina alle nostre paure e ai nostri incubi". Meno male che Le Moli ci ha spiegato tutto questo tramite l'ufficio stampa del Teatro! Noi seguitiamo a sognare una Lucia con la fontana, il parco, i tartan kilts e i dissestati possedimenti dei Ravenswood. Almeno non assisteremmo all'ingresso di una Lucia che meriterebbe come accompagnamento Lili Marleen o il più autarchico Camerata Richard, benvenuto.
Alla fine per i responsabili della parte visiva sono arrivati fischi, ma solo per loro: evidentemente il pubblico di Bologna vede meglio di quanto non ascolti.

Lucia di Lammermoor
Dramma tragico in due parti e tre atti
Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti

Enrico Ashton - Giorgio Caoduro
Miss Lucia - Désirée Rancatore
Edgardo di Ravenswood - Francesco Meli
Raimondo Bidebent - Nicola Ulivieri
Arturo Buklaw - Ivan Magrì
Normanno - Francesco Denaro
Alisa - Elena Borin

Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
direttore - Antonello Allemandi
regia - Walter Le Moli

Teatro Comunale di Bologna
23 febbraio 2008

PS - Lo sventagliato mi bemolle in chiusura di duetto per certo è passato da Edgardo a Lucia, ma del signor Meli non udimmo nè il do (che sarebbe di Lucia) nè il mi bem, di competenza del protagonista maschile. Forse eravamo troppo distratti dalle sue spalancate fauci.

by DD e AT
scelta immagini: GG

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venerdì 22 febbraio 2008

Edgardo di Ravenswood, l'arte romantica della morte.

Se fosse stato un tenore del giorno d’oggi, Louis Gilbert Duprez, interprete della prima rappresentazione della Lucia di Lammermoor a Napoli nel 1835, si sarebbe accontentato dei generici consensi riscossi originariamente cantando il repertorio del tenore di grazia rossiniano.

Generico consenso come quello che gli venne tributato a Milano, in occasione proprio delle rappresentazioni dell’Otello, trionfatrice la Pasta. Duprez, infatti, allora ancora tenorino di grazia, per nulla bello d’aspetto ma assai elegante, pare avesse il solo merito di esibire piedi straordinariamente piccoli, che nobilmente sapevano calzare delle scarpette di seta bianche, capaci di attrarre l’attenzione delle signore. Sarebbe dunque andato avanti così, ad esibire una voce di timbro non certo particolare, a snocciolare buone agilità e ad esibire acuti emessi “di grazia”, ossia in falsettone, come era prassi sino al finire degli anni ’20.
Ma Duprez non pensava come i tenori di oggi e perciò passò alla storia, a dispetto della sua originaria….mediocrità. Non lo decise consciamente, per forza: finì per farlo, travolto dal turbine della competizione con l’indiscusso re del canto del suo tempo, sia di quello epico che di quello malinconico, re per timbro oltre che per ampiezza e capacità acrobatiche: Giovan Battista Rubini. Fare concorrenza a chi ha molti più numeri, si sa, può portare a percorrere strade difficili e talora anche pericolose: il prode francese dal piccolo corpo rachitico e dal timbro non bello, seguì la via dell’accento, del guizzo eroico, secondo un modo nuovo, personalissimo e, alla fine, rivoluzionario per la storia del canto. A furia di cercare proiezione e squillo, e in barba alle convenzioni stilistiche, approdò per primo all’emissione della gamma acuta a voce piena: dal 1831 nel Guglielmo Tell il tenore cominciò a cantare la sua parte integralmente di petto, do compresi. E soprattutto! Un nuovo slancio, una nuova forza di accento eroico e tragico entrarono da quel momento nella vocalità del tenore di grazia, conferendogli prerogative drammaturgiche diverse, in parte appannaggio del precedente tenore di forza. Tecnica e modi interpretativi che gli derivarono proprio da Domenico Donzelli. Le fonti dell’epoca, soprattutto Panofka, deplorarono l’invenzione di Duprez, di fronte alla quale Rossini avrebbe colpevolmente taciuto ( all’opposto del più tardo racconto di Monaldi, secondo cui Rossini gli avrebbe solo profetizzato una breve durata di carriera ), perché portatrice di nuovi equilibri sonori tra le voci, e tra le voci ed la buca ( al contrario di quanto oggi alcuni opportunisticamente affermano ). Non possiamo confondere la concezione dell’epoca con la nostra concezione della “forza”, che siamo ormai soliti scambiare per suoni spessi, sparati e mai portati, figli di prassi stilistiche successive. Era la forza della voce piena appunto, mai mista, ma comunque modulata e controllata, dove l’emissione pura superava ogni eventuale limite timbrico. Così doveva cantare il tenore di cui s’innamorò Donizetti, che per lui aveva già scritto, prima del mirabolante do di petto, la Parisina e la Rosmonda d'Inghilterra, mentre a Lucia seguirono Les Martyrs, La Favorite e Dom Sébastien. Duprez era celeberrimo, in Italia ed in Francia, espressione di una maniera diversa, nuova rispetto a Rubini, di cantare Juive e Les Huguenots.
Anche Duprez aveva cantato il Pirata, immediatamente prima del Tell, e con grande successo. Proprio le nenie composte da Bellini per Gualtiero divennero il modello indiscusso del lamento dell’eroe dolente e sconfitto interpretato dalle voci maschili, e non più femminili. Già con Gennaro di Borgia Donizetti aveva testato, su un personaggio più limitato dal punto di vista drammaturgico, il suo prototipo di scena di morte maschile. Con la Lucia obbligò l’eroe innamorato e perdente sia al canto dell’amoroso del I atto che alle scene eroiche del concertato e della cosiddetta “scena della torre”, che al lamento di morte. Ossia tutti i “topos” drammaturgici del tenore romantico.
La scena della morte di Edgardo, anche nelle sue testimonianze sonore, và inquadrata tenendo presente questi dati: la capacità del primo esecutore e di chi venne dopo di cantare sia “di forza” che “di grazia”. Nonostante innovazioni vocali del suo primo interprete, Edgardo fu appannaggio da subito sia di Rubini, che fu proprio il primo interprete della prima parigina della Luciè di Lammermoor, che di Donzelli. La scrittura di Edgardo, infatti, meno acuto di un Gualtiero, di un Elvino come dei contraltini rossiniani, risultava accessibile anche ai tenori “di forza”, attratti dal lato eroico del personaggio. La storia interpretativa di Edgardo, di fatto, annovera sino ai giorni nostri tenori prevalentemente contraltini ma pure tenori dotati di ampiezza vocale e/o di squillo, soliti anche al tardo Verdi: mentre i primi pativano il peso della scena della torre ( da cui la prassi del taglio, normalmente praticato anche nell’800 ) e della maledizione, i secondi potevano soffrire la scomoda tessitura del finale e, soprattutto, sul piano dello stile, oltre che dell’emissione. La morte di Edgardo, infatti, come già quella di Gennaro, è notoriamente ricca di ascendenze. Riecheggia ancora con evidenza quella di Romeo Montecchi, ad esempio: la giovanile ambiguità di uno degli ultimi en travestì postrossiniani, non ancora molto lontani nel tempo, traspare nel modo sconsolato, solitario, ma sempre astratto di concepire la morte; il lamento solitario, intimo e privo di eroismo come di qualunque cenno epico o guerriero, non può non ricordare quanto Rossini aveva voluto per Tancredi, che, una volta spogliato dai panni del guerriero e dell’amante, moriva con gli accenti del ragazzo. Per questo la morte di Edgardo, nonostante le prerogative arcinote del suo primo esecutore, appartiene al mondo del belcanto, quello astratto, dall’emissione pura, dalla dolce e progressiva salita verso l’acuto ( che non può essere ghermito, spinto o strozzato, e nemmeno “virilmente” emesso ), del timbro giovanile e fresco. Essa costituì, di fatto, un prototipo vero e proprio di scena di morte per l’opera italiana, tanto che Verdi, durante la stesura del Macbeth, scrisse a Varesi, primo interprete, sul modo in cui avrebbe voluto vedere morire il suo re usurpatore, un modo nuovo, diverso, che nulla avesse in comune proprio con la morte di Edgardo o Gennaro (…ma che tanto ricorda la scena di Assur in Semiramide…..). Sapevano morire bene i tenori della generazione successiva a Duprez, i cu repertori ancora si fondavano su Rossini, Donizetti, Bellini, Pacini: iol più celebre, Napoleone Moriani, il tenore della bella morte”. Quelli che praticarono Verdi, di lì a pochissimo, sapevano principalmente ben maledire, invece, come Fraschini o Tamberlick.

Alcuni brevi commenti agli ascolti.

Il vecchio Marconi, in un ascolto un po’ fortunoso, canta la scena finale a metà tra il tenore di forza e quello di grazia. Oscilla liberamente in un mix di accenti variegato, con una cadenza singolare, e per noi assai inusuale, in chiusa al “Fra poco a me”. Quanto al “Tu che a Dio”, la dinamica è anch’essa inusuale per noi, straordinariamente varia quanto antica per il nostro gusto.
Le scelte dinamiche di Bonci restano più simili alle nostre, elegantissima e sfumata la linea di canto; a metà strada Anselmi.

Purissimo il timbro di Mc Cormack: il suo Edgardo è astratto, ultraterreno quasi trasfigurato. Per sentire una simile qualità timbrica occorre scomodare Gigli.

Gigli sta con Schipa e Pertile: è la leggenda del canto del ‘900
A Gigli basterebbe già il timbro, naturalmente ambiguo, malinconico e purissimo. La sua bella morte è poi arricchita anche dal fraseggio: peccato non avergli fatto incidere anche la morte di Romeo Montecchi ….

Pertile è il solo tenore veramente di forza che non soffra per nulla sul piano dello stile nel Tu che a Dio. L’emissione è stupenda come il gioco dinamico dei rallentando , da quello su “ali”, quindi “teco ascenda”, “innamorata”.Come anche l’accentare sulla parola, con voce scura, “cruda guerra”, dolorosissima davvero. Ci si chiede se queste straordinarie intenzioni musicali fossero quelle di Toscanini, perché in questi nostri anni di toscaninismo deteriore……alcuni dovrebbero forse rimediare certe loro convinzioni direttoriali…..

Forse a Tucker manca la purezza del canto di Gigli e Pertile, ma resta facilissimo ed espressivo. Il canto è dolente , ma più di forza che di grazia.

Una parola speciale per Alain Vanzo. Voce più corposa e di maggiore qualità timbrica di Kraus, era il solo capace di esibire una perizia stilistica in grado di stargli a fianco. Il “Tu che a Dio” è cantato con grande intensità, così come più facile nell’accento è il recitativo “Tombe degli avi miei”

Della coppia dei grandi rossiniani, mentre Merritt delude soprattutto per problemi di intonazione, Blake stupisce e desta un certo rimpianto. Pur non avendo mai praticato il ruolo, canta l’aria benissimo: il prodigio del fiato gli consente di creare una grande linea di canto, con smorzature facilissime. Manca il timbro evidentemente, che forse lo penalizza nel “Tu che a Dio”, ma la facilità del canto e la ricerca di intenzioni espressive rendono valido il suo finale di Edgardo.

Shalva Mukeria è molto astratto, assai struggente. Il timbro è veramente giovanile, le salite verso l’alto sempre con voce avanti e timbrata. Tutta la scena è cantata in modo emozionante, il finale poi con vera disperazione, ma sempre in modo composto e bella emissione.
Non conosco un tenore di oggi che sappia cantare questa scena come lui. Il fatto che a questo tenore sia concesso soltanto un secondo cast nella periferica Jesi è la prova della sordità e dell’incompetenza della maggior parte dei direttori artistici italiani

Donizetti - Lucia di Lammermoor

- Tombe degli avi miei...Fra poco a me ricovero
1908 - Francesco Marconi
1910 - John McCormack
1913 - Giuseppe Anselmi
1913 - Alessandro Bonci
1916 - Giovanni Martinelli
1926 - Beniamino Gigli
1937 - Frederick Jagel
1949 - Ferruccio Tagliavini
1954 - Giuseppe Di Stefano
1961 - Richard Tucker
1964 - Alfredo Kraus
1965 - Jaime Aragall
1967 - Luciano Pavarotti
1967 - Gianni Raimondi
1970 - Alain Vanzo
1975 - Carlo Bergonzi
1982 - Rockwell Blake
1992 - Chris Merritt
2007 - Shalva Mukeria

- Tu che a Dio spiegasti l'ali
1908 - Francesco Marconi
1910 - John McCormack
1913 - Giuseppe Anselmi
1913 - Alessandro Bonci
1913 - Tito Schipa
1917 - Giovanni Martinelli
1923 - Aureliano Pertile
1926 - Beniamino Gigli
1931 - Hipolito Lazaro
1937 - Frederick Jagel
1942 - Jan Peerce
1949 - Ferruccio Tagliavini
1954 - Giuseppe Di Stefano
1961 - Richard Tucker
1964 - Alfredo Kraus
1965 - Jaime Aragall
1967 - Luciano Pavarotti
1967 - Gianni Raimondi
1970 - Alain Vanzo
1975 - Carlo Bergonzi
1982 - Rockwell Blake
1992 - Chris Merritt
2007 - Shalva Mukeria

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mercoledì 20 febbraio 2008

La fantasia al potere in Scala - 1

Questa sera va in scena alla Scala Wozzeck di Alban Berg.
Stamane il massimo quotidiano milanese, tradizionalmente vicino al Teatro, plaudiva per il ritorno, dopo una immotivata assenza di dieci anni, del capolavoro.
L’estensore dell’articolo un po’ più oculatamente avrebbe dovuto consultare, prima di dar la stura ai propri entusiasmi, le cronologie del teatro e riflettere.
Riflettere su assenze, ingiustificate, che superano il mezzo secolo per capolavori del teatro italiani quali Iris ed Isabeau di Mascagni per tacere di Francesca da Rimini. E che sono immotivate non solo per la indiscussa qualità dei lavori, ma per l’obbligo che un teatro italiano, a maggior ragione se ritenuto “il” teatro italiano per eccellenza, ha di offrire una completa panoramica della produzione da Monteverdi a Dallapiccola o Malipiero.
Riflettere poi sul fatto che nel proporre le composizioni operistiche degli ultimi cento anni il teatro milanese non brilli per fantasia ed originalità. tante sono le riproposizioni in questi ultimi anni di Adriana e Fedora a scapito di tutti indistinto gli altri titoli e come, per contro il cartellone milanese abbondi di titoli pucciniani.
Riflettere che la limitata fantasia non riguarda solo il post Verdi, ma in generale tutto il melodramma italiano. L’assenza di un titolo assoluto quanto a valori storici ed estetici come Semiramide è un peccato mortale che le dirigenze artistiche scaligere con eguale stolidità si tramandano da ben 45 anni. E anche Norma ormai fa compagnia al capolavoro rossiniano.
Riflettere che l’attuale, assai più delle passate, dirigenza artistica non ripropoponga da anni un melodramma inedito. E il melodramma va, tanto per rinfrescare la memoria a chi deputato e pagato per averla aggiornata e fresca da Monteverdi a Dalla Piccola, come detto sopra. Se il titolo è “inedito” possiamo star certi che lo è solo per il teatro milanese, perché in altri vuoi italiani vuoi stranieri ha già avuto copiose ed interessanti riproposte. Non mi si venga a parlare di Stuarda o Borgia, che sono, ormai, opere consuete, se non proprio di repertorio.
La lista degli assenti è lunghissima, penso ad un lavoro pre handeliano che non sia la scontata trilogia di Monteverdi (in arrivo, infatti nella sala del Piermarini) ad un grand-operà, ad un melodramma francese, che non sia la più scontata ovvietà fatta di Manon, Werther, Faust, Carmen e Sansone.
Riflettere che anche fuori del repertorio italiano fantasia e cultura latitano. Esemplare il fatto che Richard Strauss, quantitativamente ben presente nelle ultime stagioni, sia qualitativamente limitato a Salome, Elektra, Ariadne e Rosenkavalier. Scusate, ma una Arabella, una Dafne o una donna silenziosa? E le conclusioni non mutano se si considera anche l’inflazionatissimo Mozart, ancor di più inflazionato per la costante proposizione della cosiddetta trilogia di Da Ponte. I nostri organizzatori hanno meno fantasia di quelli che operano in un qualsiasi teatro tedesco dedito istituzionalmente alla routine.
Riflettere che varietà e fantasia postulano, presuppongono e richiedono cultura, gusto e sensibilità per la ricerca autonoma di titoli inediti, che escludono acquistare idee e produzioni da teatri sempre stranieri, sposare idee e pensieri altrui, che possono anche essere ottimi, ma che per solo fatto di essere altrui mancano della freschezze, dell’inventività e dell’originalità di chi scopre e riscopre.
Per tornare al Wozzeck, ormai in scena freschezza, originalità e cultura erano sovrabbondanti quando nel lontano 1943 al Reale dell’Opera di Roma Tullio Serafin propose la prima italiana di Wozzeck, erano ancora ben presenti quando nel 1952 l’opera di Berg approdò alla Scala e il grande Mitropoulos faticò non poco a portarla a termine. Oggi mi spiace non le vedo proprio.
Le vedrei se mi venissero riproposti Iris o gli Orazi e Curiazi di Cimarosa.
Riflettere che per gestire un teatro tante, molte doti ci vogliono, ma prima di tutto fantasia e cultura. Oggi rarissime.
In omaggio a quelle uno stralcio del Wozzeck diretto da Böhm con la fantasiosa Eleanor Steber.

Alban Berg - Wozzeck: Wiegenlied - Eleanor Steber

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domenica 17 febbraio 2008

Notte terribile... Ferruccio Furlanetto nella Semiramide


Cari amici, questa sera il basso Ferruccio Furlanetto, ormai votato alla causa del repertorio russo (e viceversa), terrà un concerto al Teatro alla Scala. In programma pagine di Rachmaninov e Musorgskij. "Il rito dei bis, come sempre, è aperto all’imprevisto", ammicca il sito del Teatro... Forse il maestro Furlanetto concederà anche al pubblico scaligero di ammirare almeno un frammento del Mefistofele da poco cantato a Palermo al fianco di Giuseppe Filianoti e Dimitra Theodossiou?
O forse, anche in vista del prossimo 7 dicembre, il monologo di Filippo II?
In ogni caso, Il Corriere della Grisi vuole rendere omaggio a questo "basso poderoso per mezzi vocali, di presenza scenica imponente, di squisita dizione" (sempre parole dell'ufficio stampa della Scala) proponendone un'esecuzione d'annata: l'Assur torinese al fianco di Katia Ricciarelli, anno Domini 1981. Nei ventisette anni che ci separano da questo ascolto la voce di Furlanetto non sembra mutata significativamente... un recordman, a suo modo!
Buon (?) ascolto.

G. Rossini - Semiramide - Assur, i cenni miei... Se la vita ancor t'è cara... Quella ricordati... La forza primiera - Katia Ricciarelli & Ferruccio Furlanetto

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sabato 16 febbraio 2008

Grandi concerti di canto: Samuel Ramey agli Arcimboldi (2003)


In attesa di inaugurarne un'altra ancora più gustosa, apriamo oggi una nuova rubrica, dedicata ai grandi concerti di canto.
Una pratica, quella del recital, che un teatro come la Scala sta ultimamente riscoprendo, giudicandolo verosimilmente un'ottima vetrina per i giovani (e meno giovani) talenti della lirica.
Uno dei concertisti più impressionanti degli ultimi anni è senza dubbio Samuel Ramey, che possiamo definire il vero erede e continuatore delle serate-tour de force di Marilyn Horne. In comune i due artisti avevano la frequentazione di un vasto repertorio (dall'opera sei-settecentesca al Belcanto, dalla musica da camera agli autori americani) e il vezzo d'inserire, in sede di bis, buona parte dei propri cavalli di battaglia, dimostrando come la zampata del vero artista si palesi nel fuori programma. E questo anche a sessant'anni suonati, quando la freschezza vocale è ormai un ricordo o quasi e la fatica si fa sentire segnatamente nei passi spianati. Ma in fondo il grande concertista, e il grande artista lirico tout court, si riconosce proprio per la capacità di rimanere grande anche nel declino. Da segnalare inoltre che la voce di Ramey si confrontava, nel caso specifico, con la sala degli Arcimboldi, tanto più grande e tanto più acusticamente ingrata rispetto a quella del Piermarini. E si confrontava altresì con il ricordo di passate, incandescenti performance milanesi, quali il Viaggio a Reims, l'Attila e i diavoli di Gounod, Boito, Berlioz e Offenbach.
Non sapremmo oggi trovare un epigono di questo modo di cantare, dato che le giovani promesse della corda di basso o sussurrano (anche maluccio) Mozart e Cimarosa o si confrontano con un repertorio più pesante (il Rossini serio, Verdi) e così facendo si usurano in pochi anni. A mancare non sono certo le voci (anche la voce di Ramey sembrava una vocetta, a chi avesse sentito cantanti massicci, seppur poco o punto rifiniti, quali Ghiaurov e Raimondi) ma piuttosto la tecnica, il gusto, la voglia di stupire con l'arte del canto e non con quella dell'esofago.
Buon ascolto.

Samuel Ramey basso
Warren Jones pianoforte

prima parte
H. Purcell - Da The Tempest: Arise, ye subterranean winds, Z 631
G. F. Haendel - Da Semele: Leave me, loathsome light; Da Rinaldo: Sibilar gli angui d'Aletto
H. Wolf - Michelangelo Lieder: Wohl denk' ich oft; Alles endet, was entstehet; Fühlt meine Seele
W. A. Mozart - Mentre ti lascio o figlia, K 513

seconda parte
M. Ravel - Don Quichotte à Dulcinée: Chanson romanesque; Chanson épique; Chanson à boire
P. Bowles - They cannot stop Death; Blue Mountain Ballads: Heavenly grass; Lonesome man; Cabin; Sugar in the cane
Ch. Ives - Charlie Rutlage; In the alley; Slow march; The circus band

bis
W. A. Mozart - Da Le Nozze di Figaro: Non più andrai
G. Verdi - Da Attila: Uldino!... Mentre gonfiarsi l'anima... Oltre quel limite
A. Boito - Da Mefistofele: Ecco il mondo
G. Gershwin - Embraceable you

Milano, Teatro degli Arcimboldi
13 febbraio 2003

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giovedì 14 febbraio 2008

San Valentino, festa degli innamorati.

Tutti noi siamo stati trafitti almeno una volta nella vita dal dardo di Cupido!

I membri di questo Corriere desiderano rinnovare in questa ricorrenza la vostra memoria presente o passata di una travolgente passione......melomane.




Scelti per voi da:

Domenico Donzelli
Il duetto degli Ugonotti meglio noto come duettone è il modello del duetto d'amore romantico dove l'amore è frammisto a guerre, lotte e tragedie incombenti. In questo caso, la sanguinosa strage degli Ugonotti del 24 agosto 1572. Naturalmente l'amore deve anche essere contrastato, come si conviene ad una donna già sposata divisa oltre che dal legame nuziale anche dal credo religioso. E l'ardore e il superamento delle convenzioni spetta proprio alla protagonista femminile che rinnega la religione cattolica per abbracciare quella riformata ed affrontare la morte nell'amore, perché, non si sa bene per quale motivo, nei più triti drammoni romantici, amore e morte sono un inscindibile binomio. L'esecuzione del duetto è una di quelle che, con i frammenti di Lauri Volpi e il duetto di Slezak, fanno la storia dell'interpretazione.
Giacomo Meyerbeer - Les Huguenots
Atto IV - Ô ciel! Où courez-vous? - Margarethe Teschemacher & Marcel Wittrisch

Giulia Grisi
Vincenzo Bellini - I Capuleti e i Montecchi (liberamente molto, molto, molto variato dal M.o Alberto Zedda)
Atto I - Scena II - Sì, fuggire...Ah, crudel...Vieni, ah, vieni! - Martine Dupuy & Lella Cuberli



Antonio Tamburini
Più che un duetto d'amore, un autentico litigio amoroso con relativa riconciliazione. Il tutto in un luogo che, almeno in teoria, poco avrebbe che spartire con l'eros profano, anzi pagano, che segna questa pagina pucciniana. Tosca entra come un turbine, trovando nelle immagini sacre un'ottima esca per la gelosia e la civetteria e ricordandosi solo con molta fatica della Madonna. Cavaradossi, dal canto suo, è diviso fra due passioni, quella amorosa e quella politica: Tosca è gelosa della marchesa Attavanti, ma farebbe meglio a preoccuparsi del di lei fratello, che difatti causerà la rovina dei due amanti (per tacere di quella di Scarpia). In orchestra risuona la luce e la calma del mezzogiorno romano, la promessa di una notte deliziosa che non arriverà mai e tutta l'intensità di una relazione che, senza che gli interessati lo sappiano, volge al termine. Difficile trovare una Tosca più melodrammaticamente accesa e al tempo stesso più elegante di Claudia Muzio, altrimenti nota come "la divina Claudia", concitata e quasi fanatica nel ricorso alla "sprezzatura", ma sempre musicalissima, negli eterei pianissimi così come nelle impennate drammatiche. E stiamo parlando di una cantante che aveva già alle spalle una carriera ultraventennale. Accanto a lei l'allora "normale" Borgioli, che oggi umilia e ridicolizza gli strombazzati Alvarez, Villazón e Kaufmann.
Giacomo Puccini - Tosca
Atto I - Mario! ... Non la sospiri la nostra casetta... Qual occhio al mondo... Mia gelosa! - Claudia Muzio & Dino Borgioli

Gilbert-Louis Duprez
Io scelgo invece il duetto finale di Aida, nelle superbe interpretazioni di Bergonzi e di Leontyne Price. Lo scelgo innanzitutto perché è una delle più straordinarie pagine scritte da Verdi e poi perché bene esemplifica la concezione intimista dell’opera: c'è tutto Verdi, il destino, il potere, l'individuo e l'amore. Ma il tocco geniale è costituito dall’intervento di Amneris (uno dei personaggi più complessi e interessanti dell’intero catalogo verdiano), anche lei vittima, anche lei sconfitta, anche lei innamorata del suo Radames. Un doppio duetto quindi: da una parte Aida e Radames nell’ultimo abbraccio prima della morte, dall’altra Amneris e il sogno del suo amore infelice, della cui morte si ritiene responsabile (più che una principessa "figlia dei Faraoni" un'adolescente respinta, un pò cocciuta e incosciente, che per rabbia combina un guaio più grande di lei). Un amore che va oltre la morte per gli uni (che confidano, in modo anche un po’ stereotipato e stucchevole, di essere felici ed uniti almeno in cielo) e dell’altra che esprime con amara disperazione la sincerità e l’innocenza del suo sentimento (che supera le costrizioni di un potere di cui lei stessa è vittima). Ed è un sentimento umano, molto più umano dell'astratta moralità dei protagonisti. E ora meglio lasciare la parola, o meglio la voce, ai due migliori interpreti (almeno secondo me) del ruolo.
Giuseppe Verdi – Aida
Atto IV – La fatal pietra sovra me si chiuse...O terra addioCarlo Bergonzi & Leontyne Price

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domenica 10 febbraio 2008

Lo spettro dell'interpretazione

E’ sempre più frequente, nel leggere recensioni o commenti, su quotidiani, stampa specializzata o forum tematici (ma anche ascoltando accidentalmente brani di conversazioni altrui nei foyer dei teatri, durante gli intervalli o al termine della rappresentazione) imbattersi in una parola, una frase, che è divenuta un feticcio: l’interpretazione. In essa è racchiuso uno specifico approccio allo spettacolo musicale, una vera e propria ideologia, una precisa tendenza critica ed estetica oggi tornata inaspettatamente di moda, quasi rinata dalle retoriche esteriorità “veriste” (dove essa affonda le proprie radici storiche e culturali), dopo che la renaissance di un certo tipo di belcanto, sembrava aver finalmente mutato gusto a interpreti e spettatori dell’opera lirica. Tuttavia mentre nei primi decenni del secolo XX, tale atteggiamento esecutivo era motivato da un preciso stile e gusto, da un certo sentire comune, da una determinata idealità estetica, da specifiche suggestioni culturali e storiche (e quindi – seppure ai nostri orecchi possa sembrare a volte insopportabilmente caricato, retorico e rozzo – frutto di una volontà e di una scelta consapevole e portatore di una sua propria validità e dignità artistica), oggi è invece il risultato maldestro di carenze tecniche, decadenze precoci, omologazione dei repertori. Ma di questi aspetti darò conto in seguito.
In cosa si incarna questo spettro dell’interpretazione? Esso è in realtà, oggi, un calderone in cui si mescola una pozione indigesta, composta da ogni nequizia possibile, buona solo a trasformare il belcanto (inteso in senso lato, letterale, astorico) in brutto canto, a negarne, cioè, ogni valore di piacevolezza estetica, di correttezza formale, di eleganza. Una accozzaglia di ingredienti disparati (provenienti dalle dispense più diverse e lontane tra loro nel tempo e nel gusto) che unisce il verismo più cafone alla retorica d’annunziana, le deliranti sceneggiate alla Sarah Bernhardt alle caccole “di tradizione”, un preteso declamato di ascendenza più o meno germanica (che è in realtà più simile ad un più semplice e orrido parlato) al bercio più volgare, il tutto accompagnato, naturalmente, da eccessi scenici di ogni specie (e in ciò ci sarebbero da chiamare in causa anche i tanti registi che si occupano di opera non avendone la preparazione, perché non in possesso delle necessarie e basilari cognizioni musicali per affrontarla ovvero perchè non sono in grado di individuare nel teatro musicale un linguaggio differente e per certi versi opposto, a quello della prosa). E’ in nome di questa interpretazione (o meglio di questa interpretazione dell’interpretazione – scusate il bisticcio..) che viene giustificata ogni mancanza tecnica, ogni approssimazione di linguaggio, ogni inutile esteriorizzazione di ciò che l’esecutore insipiente non riesce ad esprimere (come dovrebbe) con la sola musica. E’, in ultima istanza, il considerare la musica come parte secondaria, come mero accessorio dell’opera, ritenendo di pari o addirittura di maggiore pregnanza, la resa esclusivamente drammaturgica (cioè tradotta in linguaggio essenzialmente attoriale o registico) del testo o del personaggio. E’ evidente la scorrettezza intellettuale di tale assunto che tende a relativizzare i confini tra teatro di prosa e teatro musicale, e che si risolve nella ricerca dell’effetto drammatico e della caratterizzazione realistica ad ogni costo, in un genere che è, al contrario, caratterizzato da una totale astrattezza e artificiosità di costruzione (banalmente: i personaggi cantano, invece di parlare e di questo si dovrebbe pur tener conto). Questa accentuazione degli aspetti drammatici (rectius drammaturgici) oltre che scorretta nei presupposti generali, lo è, però, ancora di più nei risultati concreti. Infatti, dato atto della necessità di far prevalere la costruzione formale e musicale sugli aspetti di verosimiglianza teatrale in qualsiasi genere del repertorio operistico (da Monteverdi a Henze), in alcuni di esso, più che in altri, la ricerca del dramma, porta ad effetti devastanti sul piano estetico, ed al completo fraintendimento del genere. Ricercare, ad esempio, il dramma, la crudezza, il realismo nell’opera settecentesca e belcantista (includendo anche Donizetti e Bellini) porta a risultati inaccettabili. Quel repertorio, infatti, che trova le sue radici prime nell’astrattezza barocca (e che poi sfocerà nelle idealità del romanticismo, che resterà comunque un'astrazione), si risolve essenzialmente nella vocalità, nella meraviglia o nella bellezza formale e ideale. Ed è evidente fin dalla struttura: i numeri chiusi, le arie con da capo, le variazioni e le cadenze lasciate al gusto e alle capacità del cantante, gli stessi ruoli affidati a castrati o a mezzosoprani e contralti en travesti (che più di ogni altra cosa testimonia l’antirealismo del’opera barocca, di quella neoclassica e del belcanto), la costruzione musicale e strumentale, il colore orchestrale (che non tende a esteriorizare effetti ed affetti, ma a trasfigurarli in suono, razionalizzandoli e traducendoli in chiave evocativa). Negare questo significa commettere una grave scorrettezza e falsificazione. Proprio in questo repertorio sono più evidenti i danni recati da questo atteggiamento: si pensi alle poche opere barocche che venivano rappresentate fino agli anni ‘50/60 dove, in nome del realismo (e in base a certe suggestioni veristiche e a stolidi modelli teutonici), le tessiture dei castrati erano abbassate di un’ottava secca, nella falsissima convinzione che esse così si adattassero perfettamente alla tessitura baritonale (o bassa), ignorando poi i gravi problemi che la voce poco agile di quelle chiavi, malissimo si concilia con le necessità della coloratura (ma all’epoca questa veniva espunta, perché ritenuta non “realistica”). Ecco quindi gli orribili Giulio Cesare in Egitto con bassi e baritoni dalle voci stentoree e inchiodate, prive di agilità e simili (nelle rare cadenze eseguite) a pentole di fagioli borbottanti (altro che meraviglia astratta della pura vocalità!); oppure i vari Orfeo ed Euridice con protagonisti maschili perché sembrava improbabile la figura del cantore innamorato affidato a voce femminile (quanti pregiudizi e quanta ignoranza, come se Orfeo fosse una specie di testosteronico Siegfried). E proprio oggi, quando maggiore dovrebbe essere l'attenzione allo stile (avendo a disposizione, tra l'altro, i più vasti e completi strumenti critici, innegabile traguardo e conquista degli studi filologici), quando non ci sono più le "scuse e giustificazioni" dettate dal gusto dell'epoca (motivo per cui tanto più gravi e incomprensibili appaiono tali "manomissioni"), queste fantasiose e grottesche trasposizioni sono tornate alla ribalta (si pensi al recentissimo Orfeo di Bologna, totalmente stravolto dagli Alagna) e sempre più spesso, parallelamente alla diffusione di questa rinata tendenza a valorizzare l’interpretazione “attoriale”, le opere vengono tagliate o riscritte o riassemblate per “esigenze registiche” (in un recente Don Giovanni salisburghese non è Leporello a cantare “notte e giorno faticar”, ma il seduttore, travestito da servo…con tanti saluti al libretto e agli equilibri della musica di Mozart, ma con il solito applauso dei soliti pubblici lobotomizzati e dei soliti critici in mala fede, sordi alla musica, ma in visibilio per il “grande effetto teatrale”), ulteriore conferma di come la parte musicale sia concepita come meramente accessoria alle personalissime perversioni teatrali del regista.
Questo atteggiamento però, non nasce per caso, come un improvviso ritorno a prassi esecutive sostanzialmente veriste (anche se abilmente camuffate e ricollegate a pretestuose e più nobili ascendenze nord-europee) ed ha una cospicua schiera di fiancheggiatori, sostenitori e propagandisti. Costoro, nel bruciore intransigente dei loro pregiudizi, denigrano – a prescindere – tutta la tradizione della scuola vocale italiana (ossia la vocalità belcantista), ed in nome di una confusa e imprecisata “esterofilia” musicale, la giudicano in toto, marginale e provinciale, e comunque sopravvalutata rispetto alla sua reale importanza storica. Essi vedono nel “declamato”, quando non nel “parlato”, il mezzo attraverso il quale “valorizzare” la drammaticità teatrale di un testo (che, a loro modo di vedere, è sempre stata mortificata dall’emissione calda e arrotondata, rifinita e dipinta, del belcanto italiano) richiamandosi alla stessa prassi esecutiva alla quale intendevano rifarsi i nostri veristi nella ricerca della realtà vera: il teatro musicale wagneriano (seppur con marchiane incomprensioni) e l’espressionismo tedesco. Dagli stessi presupposti, derivava una vera e propria scuola vocale (per lo più teutonica o anglosassone) fondata sulla parola declamata e sul suo significato, più che sul suono e la musica. E ciò è quantomeno discutibile nell’opera lirica (volenti o nolenti, infatti, sempre di musica si tratta), ed è sempre stato il principale motivo di critica di chi sostiene che la vocalità all’italiana sia la più corretta per affrontare l’opera (poiché la più idonea a restituire la musicalità del testo e le sfumature espressive, senza forzare e andare al di là della oggettiva artificiosità del genere). Ovviamente i fieri denigratori della “provincia” belcantista si guardano bene dal riflettere sulle assonanze evidenti tra la loro fonte di ispirazione e il canto verista (con tutti i suoi plateali orpelli ed effetti, del tutto legittimi se circoscritti al gusto dell'epoca in cui sono nati, ma irrimediabilmente "fuori luogo", se riproposti oggi) della stessa Italietta da cui rifuggono. E neppure si accorgono di come somigli moltissimo la loro ricerca e valorizzazione dell’interpretazione del personaggio (più che la sua esecuzione squisitamente musicale) a quelle licenze che in modo graduale si sono fatte strada nella storia della vocalità e che hanno introdotto in essa lo scarso rispetto dei segni d’espressione vergati dall’autore, la plateale esposizione dei mezzi vocali (attraverso acuti pettoruti e sbattuti in assordanti gare di decibel, incuranti di ogni gusto ed equilibrio), lo sconfinamento nel parlato più triviale (anche questo sdoganato nelle loro elucubrazioni), nell’urlo, nel bercio (come se la musica da sola non bastasse ad esprimere rabbia, o derisione, o dolore etc..). E questo, a voler essere onesti, non è neppure ascrivibile al verismo in quanto tale (all'epoca, infatti, si cantava così per scelta, per gusto forse discutibile, non per mancanza di preparazione), ma allo scadimento tecnico e stilistico. Al contrario essi sono convinti di perseguire una sorta di rinnovamento dell’opera (che secondo loro dovrebbe quasi prescindere dalle note scritte) al fine di trasformarla in un qualcosa di differente da ciò che è – cioè una costruzione artificiale ed astratta basata sulla forma – a favore di una ricercata e sbandierata caratterizzazione drammaturgica, prossima alla prosa. E tale è il fraintendimento e il pregiudizio, che vengono riproposti da costoro, a modello e ad esempio, prodotti tra i più disparati ed improbabili pur di allontanarsi dalla aborrita "provincia" italiana: e si legittimano scelte esecutive slave, teutoniche, anglosassoni che spesso suonano come ostrogote a chi nel canto ricerca (come sarebbe logico e corretto) soprattutto musica. Per loro meglio è certo Verdi tedesco (e pure anglosassone) stravolto e wagnerizzato senza alcuno scrupolo, reso brutale e volgare, stentoreo e retorico (guarda che caso...si potrebbero usare le stesse parole per il Verdi del peggior Del Monaco, quando non tenuto a bada dall'autorità direttoriale), fatto di Lady Macbeth con elmetto da valchiria (dagli acuti inchiodati e fissi, e le voci stridenti come unghie sulla lavagna) o di tenori concitati e retorici (con voce che si strangola ad ogni salita in zona acuta, o che si rompe in suoni rochi e singhiozzanti, tutti “anima e cuore”) o di bassi e baritoni mugghianti privi di ogni idea di misura e finezza; ma anche certo Puccini (sciocchi noi ad esaltarne gli aspetti lirici e mediterranei, sbagliatissimo...vuoi mettere farne l’epigono di Korngold, Krenek o persino Kurt Weill); per non parlare di Mozart che, pare, la scuola vocale italiana avrebbe rovinato (è infatti noto che il buon Wolfgang scrivesse i ruoli della Contessa o di Donn’Anna immaginandosi la “delicatezza” di una Silja o di una Meier, o il “bel colore” dei sopranini filologici). E nella loro vuota esterofilia (vuota perchè aderire a certi modelli solo per "scelte ideologiche" è un atteggiamento intellettualmente mortificante), mentre si scandalizzano del Wagner italiano (che ha invero, una bella tradizione esecutiva, purtroppo poco documentata in disco) e dei cantanti di scuola italiana (bestemmia) che lo affrontano (finalmente con morbidezza e colore, senza strillare…pardon declamare), accettano di buon grado le traduzioni tedesche o inglesi di Verdi e Puccini, forse che il "declamato" ha maggiore pregnanza in una lingua straniera? A margine verrebbe poi da contestare (oltre l’irrisolta questione verista) come non molto limpido, anzi piuttosto confuso, sia proprio l’utilizzo e l’abuso del termine “declamazione”. Il canto declamato, infatti, è – come dice la parola stessa – una tecnica di canto ben precisa, ed è cosa ben diversa dal generico “parlare” intonato, lasciandosi andare a berci e affettazione retorica. Oltre a ciò andrebbe considerato che non vi è un'unica tipologia di declamazione, valida per tutti i ruoli e tutti i generi, ma che, a seconda dell’epoca storica, essa si attaglia in modo differente: cosa diversa è infatti il recitativo declamato della tragedia neoclassica (da Gluck a Spontini e Cherubini, con varie peculiarità e differenze, s’intende), da quello di certi ruoli straussiani, e così pure è diverso il declamato del Boris (e in generale quello di matrice slava) da quello di marca verista o contemporanea. Altro discorso andrebbe poi fatto su Wagner, spesso preso a campione dei “declamatori”, ma che in realtà, con partiture alla mano e senza pregiudizi, andrebbe cantanto e risolto nella vocalità dalla prima nota di Die Feen, all’ultimo accordo di Parsifal (si confonde spesso, infatti, ed in modo quantomeno colpevole, il wort-ton-drama e l’importanza della parola cantata – e sottolineo cantata – con la pretesa supremazia del testo: argomento usato come comoda scusa per evitare e svicolarsi dalle insidiose richieste tecniche e vocali della scrittura wagneriana – non è un caso, tra l’altro, che Wagner indichi tra i suoi modelli proprio Vincenzo Bellini). La cosa più curiosa, poi, è che costoro non solo ritengono la vocalità italiana inadeguata al repertorio tedesco, slavo, francese (cosa contestabilissima e su cui ci sarebbe molto da discutere), ma arrivano a sostenere che lo sia anche nel melodramma o nell’opera seria settecentesca o in Mozart! E ci sarebbe da sorridere a questi assunti, se solo non si dovesse piangere nell’ascoltare i frequentissimi esempi pratici di tali pregiudizi, nei teatri e nei dischi! I risultati di questa ricerca di drammaticità a tutti i costi, di questa invasione di un malcompreso concetto di “declamato” sino a Rossini e Donizetti e Verdi (ma anche in Mozart, Gluck, Haendel), sono oggi assai visibili. E le ragioni sottese, che vengono ovviamente sottaciute, sono, al pari degli effetti, palesi ed evidenti. Il sospetto, che è poi certezza, è che il ricorso a questi stratagemmi interpretativi (che tali sono), non sia imputabile ad un mutato cambiamento estetico connaturato all’evoluzione storica (nella fattispecie poi, si dovrebbe parlare più correttamente di involuzione), bensì ad esigenze più prosaiche, pratiche, quasi banali. Si tratta di deficienze tecniche: mancanze, approssimazioni e incomprensioni. Repertori allargati, ruoli affrontati senza adeguata preparazione, mancanza di tempo e studio, imposizioni di agenzie e case discografiche. A ciò va naturalmente aggiunta la crescita di un’ignoranza generalizzata, proporzionale a certa presunzione e a oramai inevitabile decadenza. In sostanza in scena si urla e si parla, si piroetta e si corre, perchè non si sa cantare. E i pubblici applaudono scambiando per pregio il difetto, prendendo per interpretazione una comoda scappatoia. Ed è sempre stato così: le gigionate, le caccole, i tic, i falsetti, le smorfie, le mossette, gli sternuti, gli urletti, le risatazze, i rantolii dei vari Corena, Gobbi et similia, servivano a distrarre il pubblico (che allora almeno era in grado di fischiare) dalle mediocri prestazioni vocali (esempio orribile è il Sagrestano di Corena della Tosca diretta da Karajan – entrambe le edizioni). Ed è così pure oggi. Gli esempi sono molteplici. La Lucia della Dessay (che aveva un tempo voce e tecnica impeccabile) è uno spettacolo indecente di smorfie invasate, seni lordi di sangue che fuoriescono da vesti strappate, lavacri e abluzioni (la diva si sciacqua i capelli in una specie di abbeveratoio, mentre l’orchestra accenna la melodia di “verranno a te sull’aure”, rovinando irrimediabilmente l’effetto evocativo di questo rimando tematico – nella psiche sconvolta di Lucia – all’unico suo momento di felicità vera, con gli scrosci dell’acqua), urla belluine (in Donizetti, in Lucia…non Fedora o Santuzza...) prima della cabaletta finale. L’immancabile bercio della maggior parte dei baritoni in circolazione, in corrispondenza delle frasi “e tu ripeti il giuro” (Simon Boccanegra) e “la pace dei sepolcri” (Don Carlos). La continuità della linea di canto orribilmente spezzata dall’artificioso rantolio della voce di Alvarez nell’affrontare “quando le sere al placido” nella Luisa Miller di Parma. I fiati inesistenti e i respiri presi a casaccio della Netrebko nella Traviata salisburghese (in cui lei, tra l’altro, è la migliore, perché su Rizzi e Villazon si dovrebbe infierire..), o la sua Elvira nei Puritani al Met. Per non parlare della Gheorgiu, la cui bellezza è inversamente proporzionale alla bravura, di cui ho ascoltato una Traviata e un Boccanegra che sembravano riscritti da Mascagni. E così via fino agli esiti grotteschi della Theodossiu nell’ultima Lucrezia Borgia bergamasca, dove nel finale si aggirava come una tarantolata per la scena sbattendo i pugni sulle porte e urlando come un’isterica (annovero quella esibizione nei primi posti della mia personalissima classifica degli orrori, appena dopo un “esultate” di Del Monaco eseguito senza mai prendere fiato, senza pause, tutto fffffff…davvero “impressionante”). Ed è solo per restare ai divi dell’odierno star system operistico. Tutto questo, eppure – che a raccontarlo svela toni sapidi e grotteschi – è costantemente giustificato dal feticcio dell’interpretazione. A qualche (rarissima) critica sottovoce, in merito a certi squilibri vocali, si risponde che le carenze vengono “riscattate dalla splendida/sofferta/intensa/magistrale/sentita interpretazione”. E chi critica un pò di più e con maggiore cognizione di causa viene zittito, come un facinoroso o un attaccabrighe. Lo si accusa di essere un vuoto formalista che si attacca alle “notine” (vera ossessione dei “declamatofili” odierni), alle forcelle, al trillo, alla terzina, e ignora “il personaggio”. Con la differenza che le note, i trilli e le forcelle, sono scritti e andrebbero eseguiti, poichè proprio nei segni d’espressione l’autore ha voluto indicare la vera linea interpretativa, senza bisogno di esteriorizzare sentimenti e sensazioni già contenuti nella scrittura (ma ovviamente tradotti in note). E non è un formalismo stolido ricercare tali segni in ogni esecuzione, ma piuttosto è l’unica strada per rendere la precisa dimensione voluta dall’autore. La correttezza tecnica è presupposto essenziale ad una qualsiasi esecuzione, non è un capriccio nostalgico, perché solo se l’interprete rispetta i segni (da cui non è pensabile prescindere) può comunicare quella che nel belcanto è la “poetica della meraviglia” (ma il discorso non vale solo per il belcanto propriamente detto, è estendibile ad ogni genere poiché identico ne è il presupposto: la traduzione – e la razionalizzazione – in chiave musicale di un’idea, non la verosimiglianza). Certo che è difficile, certo che è più comoda la via di fuga del bercio o della sceneggiata strappa applausi. Certo che l’acuto stentoreo e fragoroso può impressionare certuni. Certo che l’approccio attoriale può conquistare qualche sprovveduto digiuno di conoscenze musicali. Certo. Ma non si dimentichi che l’opera è prima di tutto musica e canto e vocalità. La resa drammatica del testo è conseguenza dei presupposti musicali, cioè, attraverso il gusto e lo stile (e seguendo le importantissime indicazioni espressive dell'autore, che non sono - come ironizza taluno - fissazioni pedanti di nostalgici) l'interprete esprime il mondo di idee e di affetti che il compositore ha voluto rappresentare, senza bisogno di mutuare da altri linguaggi elementi e formule espressive. E che si tratti dell’opera barocca, della tragédie lyrique, dell’opera neoclassica, del romanticismo, del verismo, dell’espressionismo etc… non viene mai meno – non può mai venir meno – il carattere antirealistico della stessa e la conseguente necessità di circoscriverla entro i confini che le sono proprio, ossia la musica, le sue costruzioni formali (per quanto rigide o libere esse siano), la correttezza espressiva e l’adeguatezza tecnica.

In chiusura, due interpretazioni di diverso "peso" della stessa scena:


G. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Beverly Sills (via beverlysills1)


G. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Natalie Dessay (via DessayBestSinger)

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giovedì 7 febbraio 2008

Jonas Kaufmann: Romantic Arias


Tra le cose che ho riportato in Italia da un viaggio di diletto in Francia e Germania mi è capitato anche un cd, di prossima uscita in Italia e che certo interesserà anche voi. Confesso che la sua avvenenza è notevole: ti guarda dalla copertina con i suoi begli occhioni scuri, e, poi, quella foto del librettino, un po’ stile JDF, con le mani in tasca e i basettoni….insomma…proprio belloccio!
Kaufmann fa di tutto per sedurre, perché anche la sua voce, che lui cerca di far oltremodo “maschia”, tradisce le sue naturali attitudini. E’ anche questa una qualità indispensabile per la carriera, soprattutto al giorno d’oggi, dove le scene sono popolate da una miriade di tenorili vocine e vociuzze, capaci di acuti zanzareschi e di virtuose acrobazie simili al ronzio di un insetto……insomma, quanto di più asessuato si possa ormai tollerare. Anche la Decca fa leva sul lato sexy per creare il look della sua nuova star.
Il programma è completo, tocca i più grandi ruoli dell’opera romantica italiana, francese e tedesca e vorrebbe avallare la candidatura del bel tenore tedesco al cosiddetto repertorio nei grandi teatri di tutto il mondo.
La voce, abbastanza ampia in teatro, come abbiamo avuto modo di sentire nella recente e sfortunata Traviata scaligera, si può apprezzare in ogni dettaglio grazie alla ripresa ravvicinatissima. Più che tenorile, il timbro, artificiosamente oscurato, è baritonale. Decisamente baritonale. Potrei dire che ricorda un po’ quei tenori alla Vinay senescente, se non fosse che…. Vinay suona chiaro di fronte a Kaufmann. Il suono è spesso, forzatamente greve nel centro, inadatto a qualsiasi salita verso l’alto, dove gli acuti suonano ghermiti, spinti, frutto di contrazioni di gola. Il timbro, nonostante l’evidente dilettantismo tecnico, resta omogeneo, a prova della bella dote naturale, ma quando arrivano i tentativi di smorzare i suoni, o gli attacchi di frasi scomode…….apriti o Cielo! Siamo di fronte ad un dilettante che imita, come al solito nei difetti, Franco Corelli, o un professionista del dilettantismo che imita Josè Cura? Fatto sta, che nemmeno gli artifici che la sala d’incisione modernamente mette a disposizione emendano il terribile canto del simpatico ragazzone tedesco che assai spesso…..davvero latra! Non so nemmeno quanto tempo Kaufmann possa pensare di durare senza trovarsi anche lui, come è d’abitudine oggi, alla porta del fonoiatra in preda a polipi, ispessimenti delle corde, edemi o….lische di pesce !!! Le gesta di Cura, o di Villazon and friends non lo spaventano?.....
Ascoltato l’intero programma discografico le caratteristiche del signor Kaufmann confermano impietosamente l’ascolto teatrale.
E potremmo anche fare basta, perché le caratteristiche compaiono costanti in ogni brano.
Tanto per fare qualche esempio. Lionello di Marta, che tenori sino agli anni ’60 ci hanno tramandato dolce e sognante, canterà anche nella lingua originale, ma la romanza è staccata ad un tempo velocissimo, la ripresa (che i grandi del passato offrivano a mezza voce) è un falsettaccio sgradevole e chioccio.
I tentativi, secondo tradizione e spartito, di addolcire sia l’ ”Oh dolci baci” che il “disciogliea dai veli” dell’addio alla vita di Cavaradossi suonano afoni e”indietro”. In questo anche il Rodolfo della “gelida manina” il degno compare di Cavaradossi, come tecnica e gusto.
L’Alfredo di Traviata a parte un rauco do acuto alla ripresa della cabaletta (nota, che in Scala, se non ricordo male, non eseguiva nel luglio scorso) procede nell’aria a balzi, senza legato, perché la tessitura, che investe la zona del passaggio superiore, costa sforzi immani al dilettante.
Poi arriviamo al repertorio francese: Faust. Il signor Kaufmann fra l’urlo a piena voce e il falsetto del do acuto della “presence” opta per la seconda versione. Ottima scelta, molto francese, tipica dei tenori baritonali. Ma quei tenori baritonali -Jadlowker per tutti- avevano nella prima sezione dell’aria il tono sognante dell’innamorato. Kaufmann è sgraziato e pesante sin dal recitativo.
Il resto di conseguenza come le urla di don José nella frase, paradigmatica, di “libero schiavo amor mi fe”, dove i tenori del passato (penso alla registrazione di Rosveange) montavano in cattedra o i suoni duri ed ingolati di des Grieux nel “fuyez” della ripresa dell’aria del terzo atto del capolavoro di Massenet. Nessun sognante adolescente, ma una sorta di Canio, alle presa con problemi di fedeltà coniugale.
La summa dell’insipienza tecnica e vocale di Kaufmann appare in tutto il proprio splendore al “Parmi veder le lagrime”. L’aria è scabrosa perché insiste sul passaggio. Eppure tenori corti come Schipa l’eseguivano con fluidità e dinamica magistrale e lo stesso ha fatto in disco Carlo Bergonzi, tenore baritonale per eccellenza. La salita al la acuto del “lo chiede il pianto della” che Verdi prescrive dolce è un raglio. Tralasciamo le forcelle omesse “che vorria” e “coll’anima” in zona scomodissima, e glissiamo sulle difficoltà che “le sfere agli angeli” ogni volta che compaiono, puntuali propongono.
Buon ascolto per chi volesse investire il proprio denaro acquistando questo cd....un vero bond argentino!

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