domenica 6 aprile 2008

Ciro in Babilonia: un nuovo passo verso un Rossini "barocchizzato"

Come anticipato, ecco la recensione del Ciro rossiniano proposto qualche mese fa a Parigi. Intendiamo dedicare, nei prossimi mesi, un certo spazio alle opere giovanili del Pesarese, alla loro genesi e fortuna (che poi, salvo rare eccezioni, è piuttosto sfortuna) esecutiva.

Il giorno 12 di gennaio dell’anno 2008, nella bella Parigi, alle ore 20.00, veniva presentato al pubblico che affollava la sala del Théatre des Champs-Elysèes, una versione concertante del Ciro in Babilonia, o sia La Caduta di Baldassarre, dramma con cori in due atti di Francesco Aventi, musica di Gioachino Rossini.
Tale titolo, oggi assai poco frequentato e che ebbe la sua prima esecuzione a Ferrara il 14 marzo del 1812, non è certo quello che si dice un capolavoro: quinta opera del pesarese e seconda incursione nel repertorio serio (dopo il felicissimo esordio del Demetrio e Polibio, risalente al 1806, ma che – per una serie di fortunose circostanze – ebbe il suo battesimo scenico soltanto qualche mese dopo il Ciro) non riesce, pur con una musica spesso di straordinaria qualità e bellezza (come ben rilevato da Donzelli nel suo intervento) e che già rivela - nonostante la giovane età dell'autore - un'eccezionale maturità e conoscenza del mestiere del comporre, a riscattare del tutto la mediocrità di un farraginoso libretto che cerca, maldestramente, di coniugare ad una poco riuscita ambientazione storica, una assai convenzionale vicenda sentimentale. L'opera, pur non ripetendo quel miracolo di freschezza e originalità compositiva che è il già citato Demetrio e Polibio (titolo che meriterebbe ben più attenzioni di quelle finora dedicategli: lo stesso Stendhal ne rimase entusiasta e gli dedicò grandi elogi nella sua Vie de Rossini), è però un importante punto fermo nel percorso artistico dell'autore (rimando sempre all'intervento di Donzelli che ben ne spiega i motivi). Nel realizzare la partitura, Rossini (secondo una pratica invalsa che lo accompagnerà per tutta la sua carriera), ricorre a brani tratti da lavori precedenti (e che ritroveremo ancora in opere successive). In particolare: la Sinfonia è ripresa dall’Inganno felice (poi nuovamente riutilizzata per Mosè in Egitto); il duettino tra Ciro e Amira dell’atto II viene dal Demetrio e Polibio (e lo ritroveremo, prima nel Signor Bruschino e poi in Elisabetta, Regina d’Inghilterra); un altro duetto, sempre dalla stessa opera, viene rielaborato e diventa parte della grande aria di Ciro nell’atto II; il coro della scena del banchetto è quello che apre l’atto II dell’Equivoco stravagante (e che troverà definitiva collocazione nel finale I del Tancredi); il terzetto dell’atto II tra Ciro, Amira e Baldassarre è l’adattamento del quartetto tra Clarice, il Conte Asdrubale, Macrobio e Giocondo della Pietra del paragone (finirà poi in parte nella Scala di seta e, infine, in Elisabetta, Regina d’Inghilterra, nel terzetto dell’atto II tra Elisabetta, Matilde e Leicester). Lo stesso brano più notevole e bello dell’opera, la splendida aria di Amira, con violino obbligato, “Deh, per me non v’affligete” è in parte preso dall’Inganno felice (la cabaletta) e verrà poi affidato ad Amaltea nel Mosè in Egitto, dove acquisterà una maggiore notorietà.
Opera forse non del tutto riuscita, di passaggio, il Ciro in Babilonia, e di transizione verso la piena maturità compositiva (da lì a pochi anni comporrà infatti, Tancredi e L'Italiana in Algeri), ma che pure presenta diversi e notevoli pregi musicali (Stendhal la definirà “opera piena di grazia”), anche se soffocati in un impianto debole ed in scolastici ed annacquati recitativi secchi (vero motivo, probabilmente, dell'oblio dalle scene, oltre naturalmente, alla difficoltà di reperire un cast adeguato). Tra gli aspetti più interessanti, oltre ai pregi esclusivamente musicali e vocali, invece, è il ricorso al topos dell’apparizione del segno divino (poi più efficacemente utilizzato nel Mosè in Egitto – e ovviamente nella sua rivisitazione francese – e nella Semiramide) e lo sforzo dell’autore nel realizzare un dramma spettacolare e dalle vaste proporzioni sceniche (già rivolto al futuro).
Fatte le necessarie premesse storiche, i motivi di una riproposizione del titolo, oltre all’interesse per un’indagine doverosa e approfondita dell’intero catalogo rossiniano, stanno tutti nell’esecuzione musicale e segnatamente in quella vocale (che, come di consueto, presenta una scrittura impegnativa e complessa che richiede provetti belcantisti, tecnicamente impeccabili e dalla voce smagliante). Motivi questi che – tornando all’attualità della serata parigina del 12 gennaio – sono stati ampiamente disattesi.
L’aspetto più preoccupante della vicenda, tuttavia, non sta tanto nello scadente livello della recita (troppo, infatti, siamo avvezzi ad esecuzioni rossiniane disastrose o semplicemente deficitarie, con mediocri o pessimi interpreti e con scarsissimo rispetto per le esigenze musicali e stilistiche della musica del pesarese: basta scorrere la recente cronologia del ROF per avere contezza di tale sconsolante realtà), bensì nel fatto che essa rappresenta (o almeno è un ulteriore passo verso tale risultato) la legittimazione della tanto paventata barocchizzazione di Rossini. Dopo Mozart e Beethoven, infatti, i dogmi dell’ideologia baroccara e i suoi intransigenti profeti, stanno travolgendo anche il nostro povero Gioachino, con tutto il loro seguito di conseguenze antimusicali e antiestetiche (le solite note e che non starò qui a riproporre) e che sono la vera negazione del belcanto rettamente inteso. Superfluo affermare che se la barocchizzazione forzata di Mozart è cosa altamente censurabile, quella di Rossini è crimine che meriterebbe di essere severamente punito. Ma, nella nostra epoca di omologata decadenza musicale, invece di comminare pene esemplari a certi capricci, si elargiscono altisonanti (e immeritati) premi e riconoscimenti.
Alcuni tentativi verso questo trattamento pseudo filologico della musica del pesarese, si erano già avuti qualche anno fa (penso all’infelice Inganno felice diretto da Minkowski), ma la svolta decisiva in tal senso, è più recente e ha un autore preciso, con nome e cognome: Renè Jacobs. Si deve a costui, infatti, il primo e ignominioso Tancredi baroccaro, allestito a Roma con tutti gli strombazzanti peana che la macchina della propaganda jacobsiana è riuscita ad assoldare. Un episodio isolato? Così si pensava, si sperava e si sottovalutava: e invece... Invece non ci si è accorti della pericolosità di quell’insignificante episodio, di quella falla nell’argine. Per usare una metafora cara al Beccaria non si è sufficientemente considerato “l’insetto impercettibile che gli rode e apre una tanto più sicura quanto più occulta strada al fiume inondatore”, e ora quella diga sta per crollare, inondandoci di esecuzioni rossiniane filologicamente corrette e on period instrument (e non importa se si tratta dei soliti strumenti finto antichi – che tra l’altro ne ricalcano altri di almeno due secoli precedenti all’epoca in cui Rossini scriveva – nella patetica convinzione di riproporre modalità esecutive non più riproducibili), con buona pace di tutti quanti, con i plausi dei pubblici lobotomizzati, i favori dei critici più chic e impegnati, l’attenzione della stampa più o meno specializzata e la universale diffusione attraverso un mercato discografico ormai asservito a tale ideologia.
Colpevole di quest’ultimo attentato alla musica di Rossini è il famigerato Jean-Claude Malgoire. Nome temuto da chiunque ami la musica, è direttore d’orchestra di strettissima fede e osservanza baroccara, di cui è esponente tra i più intransigenti. Un vero talebano, un estremista arrogante e presuntuoso, in grado di rendere noiosa e sgradevole qualsiasi musica gli capiti di sfiorare. Lui e il suo terribile braccio armato, La Grand Ecurie et la Chambre du Roy, ci hanno, negli anni, deliziati coi suoni più secchi e stridenti possibili, con le stonature più varie, con l’assenza totale di un minimo di vibrato e con il conseguente piattume di archi costantemente strappati e maltrattati da quei sedicenti musicisti, con tempi velocissimi, assurdi, con voci minuscole, anonime e sbiancate, con cembali onnipresenti ed inespressivi, dal meccanico strimpellio. Insomma il peggio che il barocchismo più estremista ci ha imposto con la gioiosa ottusità di chi compie una qualche sacra missione. Nello scorrere l’elenco delle incisioni di questo pericoloso estremista, ci si imbatte in alcuni dei peggiori prodotti dell’intera storia della discografia d’opera (la peggior trilogia Mozart/Da Ponte mai incisa, ad esempio, ma anche un Giulio Cesare in Egitto con l'inascoltabile Bowman nel ruolo del condottiero, e poi un Montezuma di Vivaldi di rara noia, un orribile Orfeo ed Euridice, un'indigeribile serie di tragédie-lyrique etc...). A questo elenco degli orrori si deve ora aggiungere questo nuovo tassello: Ciro in Babilonia. Ma come viene trattato l’incolpevole Ciro da Malgoire? Innanzitutto vengono applicati ed estremizzati tutti i dogmi dell’ideologia baroccara per ciò che riguarda i tempi, i timbri, il fraseggio e il suono in genere. Ecco quindi una sinfonia dall’incedere nervoso, con archi stonati e senza il minimo accenno di vibrato (e non si capisce perchè, dato che Rossini scrive nel 1812 – più o meno quando Beethoven ultimava la versione definitiva di Fidelio – non all’epoca di Monteverdi!), che procedono a strappi, stridenti sino al fischio, stimbrati e sporchi, dal suono decisamente brutto, i contrasti, come al solito, vengono esasperati (coi pppp evanescenti e poveri, quasi inudibili e i ffff sbracati). Ancora peggio i fiati, che appaiono del tutto fuori controllo, con intonazione assai approssimativa e senza alcuna sfumatura, spernacchiano costantemente e spesso sono fuori tempo (gli attacchi sbavati non si contano). In generale il suono è povero, le dinamiche ridotte, i crescendo inesistenti, probabilmente dipende anche dai pochi orchestrali impiegati (e pensare che Rossini intendeva scrivere un vasto e spettacolare dramma storico e non un’operina da camera per qualche salotto rococò). Mi piacerebbe proprio sapere cosa autorizzi Malgoire a far suonare così Rossini, quali ricerche avrebbe fatto, quali prassi esecutive...bah, misteri baroccari! Il risultato è comunque indegno! I cantanti, con la loro esibizione pessima, non sono altro che la prosecuzione sul piano vocale di questa mortificante e sfasciata orchestrina. Naturalmente il tutto risponde al preciso disegno interpretativo di Malgoire, che pare sia convinto di avere a che fare con la Dafne di Marco da Gagliano piuttosto che un melodramma ottocentesco. Ma veniamo al dettaglio. Il ruolo di Ciro, scritto per contralto en travesti (come tanti protagonisti rossiniani), e pensato per Marietta Marcolini (che sarà poi la prima Isabella dell’Italiana in Algeri) è affidato alle cure di Nora Gubisch, mediocre mezzosoprano tedesco, dall’accento terribile e dai bassi non certo impeccabili e che tendono ad ingolarsi, il canto di agilità poi, fondamentale in un ruolo come questo, tende ad incepparsi o ad annacquarsi. L'interpretazione è approssimativa e la tecnica alquanto problematica. Sicuramente, se ad accompagnarla non fossero gli strumenti stonati di Malgoire, farebbe figura un poco migliore, ma comunque questo Ciro (e penso Rossini in genere) non è nelle sue corde. La parte di Amira è assegnata al soprano spagnolo Elena de la Merced, stellina del canto baroccaro (balzata da un mediocre comprimariato con orchestre normali – fu Amore nel bell’Orfeo ed Euridice diretto da Maag con una superba Podles – a protagonista di pari mediocrità, giacchè la natura non si cambia, della nuova moda filologica), dalla voce esile, debole ed evanescente, affronta il ruolo in modo decisamente insoddisfacente. Si prenda ad esempio la celebre “Deh, per me non v’affliggete”: prescindendo dal terribile e dilettantesco accompagnamento (veramente un incubo) e dal solo di violino (che stride come le unghie su di una lavagna, privo di ogni abbandono lirico e di calore, colore e sfumature, come se stesse suonando un’anonima contraddanza ad allietare il salotto di qualche signorotto gallese del XVII secolo, e pensare che fu scritto per Paganini, primo direttore dell’opera!), è, proprio il timbro della Merced che non va: troppo fragile e svenevole, troppi portamenti, assenza completa di dimensione tragica o eroica che quella musica richiede (insomma una specie di belcanto bonsai, ridotto ai minimi termini, da una voce leziosa e sostanzialmente anonima). Inoltre la tecnica è alquanto deficitaria: le agilità sono pessime, legnose, aspirate e pasticciate, gli acuti poi, sono, come al solito, fissi e stridenti (quando non strillati). Una vera sofferenza ascoltare una tale gara di stonature: violino solista, soprano e orchestra, ognuno con un accordatura diversa (almeno così pare ascoltando). Un’esibizione da dilettanti allo sbaraglio, indegna persino di un sagra di paese. Baldassare è ruolo da baritenore, Rossini lo scrisse per Eliodoro Bianchi (che interpreterà poi Aureliano in Palmira ed Eduardo e Cristina, la cui parte comprende la musica della micidiale “Balena in man del figlio” presa da Ermione, questo per dare un’idea delle capacità del suddetto), ricordato come uno dei maggiori cantanti dell’epoca. Qui è rimpiazzato da Cyril Auvity, altra giovane stellina baroccara, che a dispetto delle esigenze del ruolo, ha voce debole e contraltina (tanto da definirsi propriamente haute-contre, e che diamine c’entrerà un haute-contre con Rossini, Malgoire dovrebbe proprio spiegarcelo!). Ovviamente è un disastro: in perenne falsetto quando sale, e udibile solo con ausilii tecnologici acustici, quando scende, centro povero e inconsistente, agilità pessima, tutta aspirata e pasticciata, nessuna morbidezza, nessuna brunitura nel timbro, nessun accento tragico, nessuna forza (e diavolo, è il tiranno, il cattivo della vicenda narrata). Stenderei un velo pietoso sull’accento ostrogoto che rende incomprensibili i recitativi (ma è vizio comune a tutto il cast). Nel ruolo di seconda primadonna troviamo Sophie Daneman, interprete del ruolo di Argene. E’ noto che Rossini, uomo assai pragmatico, disponendo, per la prima esecuzione, di un pessimo mezzosoprano, scrisse la sua aria “Chi disprezza gli infelici”, su di una sola nota, il SI bemolle centrale, poichè quella era l’unica nota che la Anna Savinelli (questo il nome della prima Argene), era in grado di emettere decentemente. Se un Rossini redivivo avesse dovuto curare il presente allestimento, con un cast del genere e avendo a che fare con la Daneman, avrebbe dovuto sostituire quell’unica nota che si ripete identica in tutta l’aria, con un unico e ripetuto segno di pausa, poichè nemmeno quel SI bemolle centrale essa è in grado di cantare dignitosamente! E non credo di dover aggiungere altro! I comprimari (Zambri, Arbace e Daniele, cui viene, peraltro, tagliata l’aria dell’atto II), infine, sono tutti egualmente censurabili.
Esibizione dunque, che nel complesso non raggiunge la decenza, con un’orchestra e un direttore semplicemente inaccettabili, e una compagnia di canto largamente inadeguata (con punte verso il basso nel tenore e nel soprano). Eppure gli spettatori hanno mostrato di apprezzare questa “cosa”. E questo è un problema: il condizionamento del gusto! Uno dei più pericolosi effetti dell’ideologia baroccara è quella di proporsi come l’unica possibile, relegando il passato esecutivo (fatto di voci ben più gloriose e congeniali al belcanto) ad una aborrita tradizione non filologica, da cancellare e da dimenticare. E, purtroppo, una sempre più grande fetta di pubblico, ormai inizia a crederci!

4 commenti:

Futuristics ha detto...

NICE Blog :)

Antonio Tamburini ha detto...

Thanx, glad you enjoy it :)

mozart2006 ha detto...

Malgoire ci rompe i timpani ormai da trent´anni...a quando un Trovatore inciso con questi criteri?Temo che accadrá presto e naturalmente la critica lo porterá alle stelle.
Saluti da Stoccarda

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Eh già: di Mozart se ne sono ormai appropriati (a proposito: l'anno prossimo a Parigi doppio appuntamento con 2 Nozze di Figaro baroccare, la temibile Haim e poi Minkowski), di Beethoven pure, di Rossini stanno andando all'assalto..il prossimo bersaglio è il melodramma (già Gardiner ci aveva provato con un Requiem on period instruments): Bellini e Donizetti prima (ma già ci sono alcuni titoli su strumenti originali: Lucia e Imelda...) e poi sarà la volta di Verdi. Tempi veloci e assenza di vibrato (immaginati l'assolo di violoncello del IV atto del Don Carlos tutto fisso e stridulo...). Fosse per quei baroccari eliminerebbero il vibrato anche a Bruckner... Dimenticavo: anche Wagner è stato oggetto di attenzioni filologiche, c'è infatti, un "bel" Fliegende Hollander con authentic instruments...... E la critica continua ad applaudire e chiama noi reazionari passatisti.....