domenica 25 maggio 2008

Aureliano in Palmira


Aureliano in Palmira rappresenta una sorta di mito nel catalogo rossiniano.
Mito perché fu l’unica opera che Rossini scrisse per un castrato.
Mito perché è l’unica, salvo invenzioni pesaresi, la cui partitura non sia stata trovata e non si sappia dove si trovi.
Mito perché si racconta che Rossini, stanco delle libertà di Velluti nell’esecuzione avrebbe cominciato a scrivere in extenso le fioriture.

Allora:
E’ vero che fu l’unico titolo con un ruolo per castrato, ma non il solo rossiniano cantato da Velluti, che vestì a Londra i panni dell’altro Arsace, quello di Semiramide. Circostanza questa che smentisce i deliri baroccari circa l’applicazione ai lavori belcantistici dei controtenori, interessatamente dimentichi che i cosiddetti “musici” potevano essere donne o evirati e che gli uni erano a perfetta vicenda degli altri.
E’ vero che lo spartito originale non si è mai trovato, mi domando però, se sia stato cercato, magari tenendo conto che Velluti era un tale mito che Rossini potesse e addirittura avergli donato lo spartito dell’opera. Opera che circolò in Italia sino agli anni trenta dell’800 soprattutto per Velluti e per Carolina Bassi Manna. Anch’essa destinataria di doni dei compositori. Meyerbeer nel suo caso.
E’ vero che la coloratura scritta di Aureliano è un poco più abbondante di quella del Ciro e forse del Tancredi, ma è falso che dopo Aureliano si sarebbe eseguito Rossini così come è scritto. A parte l’annoso problema delle variazioni nei da capo, superato dallo stesso Rossini, autore delle variazioni per il da capo della cabaletta di Romeo Monteccchi, smentiscono l’assunto le cospicue variazioni che Rossini approntò per i propri spartiti (si badi variazioni e non aggiusti, che sono altro) e soprattutto gli inserimenti, pari ad una riscrittura, di cui, ad esempio, fu destinatario il conte Almaviva ad opera del suo stesso creatore Manuel García.
Ciò non di meno Aureliano rimane del catalogo rossiniano un’opera poco rappresentata.
Aureliano, meglio Arsace, non ha trovato, come Tancredi, un’interprete paradigmatica come è stata fu per il guerriero siciliano ai nostri giorni Marilyn Horne. Inutile nascondersi se una cantante della levatura e della popolarità della Horne avesse eseguito la parte di Velluti, l’opera sarebbe stabilmente nei repertori ad onta del problema (pseudo problemi poi, se ragionassimo con l’ottica del tempo di Rossini) dell’edizione critica.
L’opera, rappresentata alla Scala nel dicembre 1813, presenta il solito consueto schieramento delle opere italiane fuori di Napoli ossia un soprano cosiddetto assoluto (che nel caso della Regina Zenobia è molto assoluto, anche questo fa parte dei miti della storia della vocalità per un mi bem toccato all’aria del primo atto, uno dei pochissimi sovracuti espressamente scritti da Rossini) un tenore baritonale e, appunto, il musico.
L’opera al pari delle precedenti e come le future presenta arie, duetti ed il tradizionale grande concertato che chiude il primo atto, mentre il secondo atto chiude con un ridotto pezzo d’assieme, mancando sia l’inventiva del finale ferrarese di Tancredi sia la grande aria acrobatica riservata ad uno dei protagonisti. Non sono in grado, però, di documentare qualche auto od eteroimpresto attuato o da Velluti a da altri interpreti del ruolo di Arsace, la già citata Carolina Bassi Manna ed anche Marietta Marcolini, altro Arsace in più occasioni.
La prova che il prodotto sia di qualità e in nulla inferiore ad altri rossiniiani proviene dall’autore stesso. Rossini era il più conscio giudice di sé stesso e dei propri lavori, espungeva o rifaceva ciò che non riteneva di livello e conservava quello che rispondeva al proprio gusto musicale vocale e drammaturgico. In quest’ottica il passaggio dal Maometto all’Assedio, anche considerata la fase intermedia della versione veneziana è paradigmatico.
Ascoltando l’opera si possono riscontrare una cospicua serie di spunti melodici o numeri(e non abbiamo la pretesa di essere esaustivi nella elencazione) che poi transiteranno in altri lavori rossiniani.
L’opera apre con il coro “sposa del grande Osiride” che diventerà lo spunto musicale per la cavatina “ Ecco ridente in cielo” del Barbiere
Nel successivo duettino “ Se tu m’ami o mia Regina” compaioni evidentessimi preannunci del duetto Ottone Adelaide e Rossini , poi si diletta a richiamare le ornamentazioni della seconda aria di Astrifiammante di cui Lorenza Correa, prima Zenobia, era stata esecutrice sempre nel 1813 alla Scala .
La sezione centrale del duetto fra gli antagonisti Aureliano ed Arsace diventerà, per il debutto napoletano di Rossini la sezione centrale del duetto fra le due rivali Elisabetta e Matilde, il famoso “Non bastan quelle lagrime”.
Quando poi Zenobia si reca al campo di Aureliano è preceduta da coro che aprirà di li a pochi mesi il finale primo di Elisabetta ed i prigionieri vengono introdotti dal coro che aveva introdotto Tancredi moribondo nel finale alternativo di Ferrara.
E nel finale primo i personaggi attaccano nelal ezioen centrale un tema che Rossini aveva utilizzato a Milano per il finale primo della Pietra allorchè i personaggi del capolavoro comico intonano “Di paragon la pietra”.
Il duetto del secondo atto fra Zenobia ed il prigioniero Arsace è introdotto dalla turbinosa e molto beethoveniana melodia che accompagna Norfolk nel secondo atto di Elisabetta, mentre la successiva stretta quando il duetto diviene terzetto per l’arrivo di Aureliano, passerà nel Turco in Italia.
Oltre al tradizionale schieramento vocale che nasceva dalla normale disponibilità nei teatri, oltre ag cospicue anticipazioni dei lavori successivi nell’Aureliano ci sono tutti i topos del melodramma tradizionale italiano a partire dai duetti d’amore fra soprano e contralto i cui timbri assolutamente astratti (ed asessuati e non si facciano ironie sulle operazioni chirurgiche subite dal Velluti) dove gli amanti, infelici come ancredi ed Amenaide piuttosto che Bianca e Falliero, esprimono i loro melanconici ed infelici amori , soprattutto negli andanti.

Anzi la presenza di Velluti e la sua conclamata capacità nel canto elegaco indussero Rossini ed il librettista a ben tre duetti fra gli innamorati.
Anche le due arie di Arsace “Chi sa dirmi” e “ Perché mai le luci aprimmo” rispondono alla capacità del musico di eseguire le melodie malinconiche e sognanti che, a giudizio di Stendhal, grande fautore del primo Rossini, erano la vera grandezza del maestro, prima che, complice Isabella Colbran, prediligesse il canto fiorito.
Anche questa opinione deve essere presa con le debite proporzioni perché è certo che la scrittura del maestro rappresentava per Velluti il canovaccio su cui lavorare per manifestare la propria arte.
Un dato, però, va segnalato il Rondò di Arsace “ No non posso” che altri non è che la sezione conclusiva dell’allegro di Elisabetta, ovvero di Rosina, non sarebbe coevo alla prima rappresentazione, opera di Pietro Romani. Pare strano che una scena complessa come quella di Arsace fuggitivo ( assolutamente identica come topos a quelal di Tancredi ramingo sui monti al finale secondo dell’omonima opera) non prevedesse una sezione in tempo veloce e fiorito sin dalla prima rappresentazione. Un altro mistero o un altro piccolo enigma per un’opera che ne porta con sé parecchi.
Dicevamo pochissime le rappresentazioni di Aureliano nei tempi moderni.
Quella del 1980 al Politeama Genovese, auspice l’opera Giocosa, presentava in primo cast Luciana Serra, allora da un paio d’anni soprano leggero in assoluta auge e restauratrice di quella tipologia vocale. Tipologia vocale che possiamo dirlo oggi dopo quasi trent’anni si è presa rivincite e soddisfazioni alcune delle quali poco giustificate sotto il profilo storico. La vocalità brillante della Serra fece faville. Si potrà censurare il timbro , la propensione ad inserire ornamenti che non sono tipicamente rossiniani, anche qui con il dubbio di che cosa sia tipicamente rossiniano nei prii lavori di Rossini, ma l’esecuzione dei passi elegiaci, segnatamente dei duetti con Arsace (Helga Müller dalla voce non certo “ a fuoco”) era cospicua e stupisce che nessun teatro abbia pensato alla Serra per altri ruoli di soprano assoluto rossiniano, limitandola alle prime donne buffe. Una sola attenuante, la concorrenza di altri soprani . Il secondo cast schierava invece nel ruolo di Arsace Martine Dupuy, giovanissima e reduce da uno dei più importanti successi il Romeo Montecchi a Martina Franca. La Dupuy non ripetè più in scena Arsace, eseguì invece in concerto le arie, che già nel 1980 mettevano in risalto eleganza, morbidezza di emissione e negli abbellimenti trilli di ogni genere ed estensione notevolissima, in buona sostanza la più attendibile ricostruzione e riproposizione della vocalità sempre aulica e sempre morbida delle prime donne rossiniane. Isabella Colbran, Marietta Alboni e Giulia Grisi, in primis.
Per contro l’ascoltatore percepirà anche la media, molto inferiore all’attuale delle orchestre di allora e soprattutto che la svolta americana della grande vocalità maschile applicata a Rossini era ancora di là da venire.

Gli ascolti

Atto I

Se tu m'ami, o mia Regina - Helga Müller-Molinari & Luciana Serra
Torna oh Prence - Paolo Barbacini & Martine Dupuy
Là pugnai: la sorte arrise - Luciana Serra
Chi sa dirmi, o mia speranza - Martine Dupuy
Va', m'abbandona, e serba - Martine Dupuy & Maria Luisa Cioni-Leoni

Atto II

Perché mai le luci aprimmo - Martine Dupuy
Mille sospiri e lagrime - Maria Luisa Cioni-Leoni, Martine Dupuy & Paolo Barbacini

3 commenti:

germont ha detto...

salve a tutti, sono un lettore assiduo della "rivista", anche se da poco tempo, e vorrei sottoporre alcune questioni alla "redazione". Scorrendo le pagine del blog, ho potuto imparare molte cose di una passione, il melodramma, che pratico in modo del tutto amatoriale, lasciandomi guidare dal mio sentire, dal gusto personale. In particolare, ho potuto apprendere, grazie ai vostri preziosi ascolti, molte informazioni circa le di verse interpretazioni, la vocalità e le caratteristiche dei molti siprani che hanno fatto la storia del melodramma. Tuttavia, mi sento di rimarcare come "il corriere della Grisi" non si sia ancora compiutamente espresso circa il personaggio di Maria Callas, la sua vocalità, il suo modo di affrontare i personaggi che metteva in scena.
Mi sembra opportuno che, come è stato fatto per altri importanti soprani del secolo scorso, non si possa non procedere a una critica su questa cantante, visto la sua importanza (al di là, naturalmente, delle questioni "divistiche" e mediatiche).
Un ulteriore quesito riguarda gli "accenti verdiani", termine utilizzato nell'articolo sui soprani drammatici in verdi (sabato 20 ottobre 2007) da Donzelli e del quale avrei bisogno di comprendere meglio la natura (peraltro, l'articolo di Donzelli è davvero illuminante).
grazie per la disponibilità, un saluto, germont

Giulia Grisi ha detto...

Ciao Germont.
Parlare della Callas e non dire cose già dette e banali.....è dura,, anche perchè han detto tutto, dal vero al falso, dal proprio all'improprio.
.....ne parleremo tra noi e vedremo se avremo modo di non essere quantomeno ripetitivi.
Quanto agli accenti verdiani, DD riguarderà al più presto e si chiarirà .....ma in quel post specifico che tu citi...

a presto

germont ha detto...

ti ringrazio, e chiedo scusa per essere così maldestro nell'utilizzo del blog. come vedo oggi, ci hai già pensato a mettere una parola definitiva, con la quale non posso che essere d'accordo. merci beaucoup.