giovedì 23 ottobre 2008

"Ah non credea mirarti sì presto estinto, o fiore" - La nuova Sonnambula, edizione Decca.

Dopo più di un anno dalle sessioni di registrazione, è “finalmente” disponibile (almeno per il mercato europeo) la nuova edizione della Sonnambula di Bellini targata DECCA. Vi era molta attesa per l’uscita del disco, sia per i nomi coinvolti nell’operazione, sia per la strategia commerciale della casa discografica, che ha preparato l’evento con la pubblicazione di due separati recital dei due protagonisti – Juan Diego Florez e Cecilia Bartoli – ammiccanti ciascuno ad interpreti mitici dell’opera di Bellini: Maria Malibran e Giovanni Battista Rubini. Altro interesse dell’incisione è dovuto all’impiego di compagine orchestrale “ridotta” che utilizza “strumenti antichi” (oltre a tutte le altre caratteristiche esecutive che si rifanno, più o meno, a quella specie di araba fenice che sarebbe il modo antiquo). Prima di passare all’analisi dei singoli numeri dell’opera (condotta con partitura alla mano), giova, però, premettere alcune considerazioni relative al cast vocale, alle modalità esecutive, alla direzione d’orchestra nonché alle scelte editoriali.

Partirei proprio da quest’ultimo aspetto: l’elegante cofanetto Oiseau-Lyre (il dipartimento della DECCA specializzato in musica antica…), dichiara fin dal retro della copertina di seguire la nuova edizione critica dell’opera a cura di Alessandro Roccatagliati e Luca Zoppelli e risalente al 2004 (circa la storia di codesta edizione si rinvia ad altro intervento che si occupava del medesimo argomento, all’indomani dell’uscita della Sonnambula per la coppia Dessay/Meli che pure dichiarava l’utilizzo della medesima fonte). In realtà, leggendo le note che accompagnano il cd si scopre che nonostante venga seguita la lezione dell’autografo secondo le chiavi originali, in tre casi soltanto, si è proceduto a degli abbassamenti di tonalità. I tre brani sono: la Cavatina di Elvino “Prendi, l’anel ti dono” e successiva “Ah vorrei trovar parola”; il duetto Elvino/Amina “Son geloso del Zefiro errante” e successiva stretta; l’aria e cabaletta di Elvino “Tutto è sciolto” e “Ah perché non posso odiarti”. Ossia i tre brani che risultano abbassati nella tradizionale partitura Ricordi. Come a dire che i punti salienti che differenzierebbero l’autografo dalle successive edizioni a stampa – e cioè le tonalità originali (oltre naturalmente alcuni, pochi, dettagli relativi alla strumentazione) – seguono la secolare e consueta tradizione esecutiva dell’opera! Poco rilievo quindi, assume l’utilizzo dell’edizione critica, se proprio i brani che subirono i maggiori rimaneggiamenti, subiscono i soliti e tradizionali trasporti tonali. Poco male e nessuno scandalo: la parte di Elvino è di altezza tale che forse la voce di Rubini solamente era in grado di affrontarla secondo la redazione originaria. Tuttavia fa sorridere il fatto che, mentre si fa pompa di eseguire la Sonnambula “così come scritta”, nella realtà si deve scendere a quei compromessi a cui una saggia tradizione era giunta già a metà ‘800 (e che i veri direttori/filologi, come Bonynge, continuarono senza farsi troppi problemi, ben sapendo la necessità e la legittimità di tali “aggiustamenti” in funzione dei cantanti impiegati e delle supreme esigenze di riuscita artistica). Oltre alla questione relativa alle chiavi e alle tonalità, altra attesa per l’uscita discografica era dovuta al dichiarato utilizzo di una fantomatica “versione Malibran” dell’opera, tanto che codesta Sonnambula veniva indicata sul sito della Bartoli come ultimo tassello dell’omaggio della diva alla divina, nell’ambito dei festeggiamenti per il bicentenario della nascita. Ora in realtà non esiste nessuna “versione Malibran” edita o inedita: semplicemente vi sono alcune cadenze predisposte per la grande cantante a partire dal suo debutto nel ruolo, a Napoli nel 1833. Tutto qui: e infatti la stessa produzione ha dovuto correggere il tiro, dando atto dell’inesistenza di una tale versione in un trafiletto tra le note d’accompagnamento (peraltro accomunando in modo bislacco la vocalità della Pasta a quella della Malibran, confondendo la prima interprete dell’opera e lasciando intendere che Bellini l’avesse in realtà scritta per mezzo soprano, nonostante le spurie e apocrife aggiunte di acuti e sovracuti). Ma questo è solo marketing, specchietto per le allodole. Più importanti questioni riguardano le scelte esecutive e musicali. Si apprende, infatti, che l’orchestra suona secondo un diapason pari a 430 Hz, ossia – per i non addetti ai lavori – di quasi 1/3 di tono sotto rispetto al consueto (cioè 440 Hz). La circostanza fa dire agli estensori del libretto che, proprio per questo si tratterebbe di “incisione storica”. Il diapason abbassato è conseguenza, ovviamente, della scelta di utilizzare orchestra con strumenti d’epoca (o meglio, copie degli stessi) ed è pallino fisso di tutti i cosiddetti specialisti del modo antiquo. L’assunto per cui il La del 1831 fosse più basso di quello attuale è certamente appurato, tuttavia è tuttora controverso (e comunque aperta alla discussione e alla contestazione) il relativo quantum. In realtà, nel secolo XIX l’intonazione variava da città a città, da teatro a teatro. In alto e in basso. Si sa, ad esempio che a Parigi nel 1859 il parlamento votò una legge per riportare il La a 435 Hz (segno che prima era più alto), a Dresda nel 1820 era a 420 Hz, ma appena 10 anni dopo era salito a 435 Hz, alla Scala arrivò oltre i 450 Hz. Non parliamo poi dei secoli precedenti, dove vigeva anarchia assoluta: alcuni diapason riconducibili a Haendel erano accordati a 422 Hz, ma ve ne sono alcuni di 40 anni successivi a 408 Hz, mentre l’organo su cui suonava Bach a Lipsia o a Weimar era calibrato a 480 Hz. L’argomento appare dunque molto aperto. Ma non è il luogo per approfondire la questione (e forse poco importa). Resta il fatto che, a causa dell’abbassamento di diapason, i trasporti di tradizione (già più bassi rispetto all’autografo) appaiono un po' più bassi (si consideri che un Sol diesis o La bemolle ha convenzionalmente frequenza pari a 416 Hz, non molto distante dal diapason scelto): con l’effetto di perdita di brillantezza in molti brani. Quella che dunque dovrebbe essere secondo gli intenti, una Sonnambula autentica, appare falsificata. Ci si può chiedere, stante l’abbassamento di diapason (e la relativa comodità) non sarebbe stato più interessante seguire anche per i brani “incriminati” la partitura autografa? Non credo fosse un grosso problema per l’interprete – che nel registro acuto ha o aveva le sue armi più vincenti – arrivare, con la tranquillità che dà lo studio di registrazione, ad un Do diesis o a un Re o anche a un Re diesis. Nello specifico gli abbassamenti:

1) la Cavatina di Elvino passa dal Si bemolle maggiore originale, ad un La bemolle maggiore solo nominale, poichè in realtà, causa diapason abbassato si percepisce un Re bemolle maggiore molto crescente;
2) il duetto Elvino/Amina, scritto in un limpido Sol maggiore è trasposto un tono sotto, in Fa, che pare un Si bemolle maggiore scordato;
3) l’aria e cabaletta di Elvino che nell’autografo sono rispettivamente in Si minore e in un solare Re maggiore, diventano, in ossequio ai tradizionali abbassamenti della partitura Ricordi, La minore e Si bemolle maggiore, che “grazie” al diapason suonano come un Re minore e un Mi bemolle maggiore entrambi molto crescenti.

Questo è quanto si sente. Non siamo alla “versione da baritenore” approntata da Pidò per Meli, ma comunque risulta la più bassa dell’intera storia discografica dell’opera (con eccezione di quella della VIRGIN), da Valletti a Bros.
Veniamo ora all’orchestra e alla direzione, per poi concentrarsi sul cast.

L’Orchestra La Scintilla è diretta da Alessandro De Marchi. Fin dalle prime note dell’introduzione è chiaro l’orizzonte estetico e interpretativo. De Marchi si segnala per una generale pesantezza di tocco: ritmi marzialmente scanditi, avarizia di colori, contrasti sottolineati. La mancanza più grave è, però, l’assenza di quell’abbandono lirico, di quella morbidezza, di quella delicatezza necessari a disegnare l’ambientazione larmoyante dell’opera. Gli archi, ad esempio (spesso sovrastati dall’ingombro di fiati troppo sottolineati) invece di “dipingere un acquerello” dalle tonalità sfumate e sognanti (che è il mondo di Sonnambula, volenti o nolenti) scarabocchiano un pasticcio dai colori sgargianti e mal accostati. Suonano duri, secchi, freddi. Così pure i fiati che mancano di ogni morbidezza (e talvolta “spernacchiano”). I tempi generalmente affrettati, diventano slentati e trascinati ad uso e consumo delle cantilene sussurrate dalla protagonista. Anche la cabaletta di Elvino è penalizzata dai tempi letargici e pesanti staccati da De Marchi, che non accelera neppure nella stretta. Insomma, il direttore conferma la pessima impressione già suscitata in Rossini: greve, grossolano, privo di lirismo e incapace di far “cantare” l’orchestra (virtù – e fatica – necessaria a ben rendere il melodramma italiano tra Bellini e Donizetti). Ma è ovviamente sui cantanti che si sofferma l’attenzione. Il Rodolfo di Ildebrando D’Arcangelo, che dipinge un Conte abbastanza nobile e contenuto, scevro da orribili e facili forzature (come purtroppo è uso invalso) è reso con voce ben impostata, pulita, calda, forse il migliore del cast. Juan Diego Florez, come Elvino, è irriconoscibile! Appare stanco e in difficoltà, soprattutto nel registro acuto. La voce non gira, l’emissione non è facile. Certo le note ci sono (quasi tutte), ma manca quella leggerezza a cui, nei suoi personaggi più azzeccati (ed Elvino era uno di essi), ci aveva abituati: un Elvino magari privo di abbandoni romantici o venature malinconiche, ma limpido e svettante. Questo sì! E questo qui manca! Gran parte della colpa è da attribuire alla lettura imposta dal direttore, dalla sua secchezza ed aridità, dall’abbassamento ulteriore grazie alle scelte di diapason (che porta a tonalità che all’orecchio suonano “atipiche”, sporche) e dalla scelta di eliminare le puntature al termine dei brani solistici. In nome di una malintesa filologia. L’esibizione vocale infatti (e l’acuto è un’esibizione vocale) è elemento intrinseco – pur se non scritto – dell’opera italiana del primo Ottocento. Non è mera esposizione muscolare, ma è esempio di virtuosismo. Molto meglio chiudere la cabaletta dell’atto II con un acuto svettante e luminoso – che appaghi l’orecchio del pubblico e che è legittimato da decenni di tradizione (fin dalla prima) – piuttosto che variare in stile rossiniano il da capo (con esiti di dubbio gusto). Ma anche Florez si è dovuto adattare. Cecilia Bartoli è Amina. Cecilia Bartoli ormai non canta più l’opera: fa crossover. Canta sì, ma come lo potrebbe fare Madonna. Conferma dell’assunto è il circo Barnum che ha portato in giro per mezzo mondo (a suo modo spettacolo geniale, ma che con l’opera non ha più nulla a che fare). La Bartoli qui appare (per dirla con Tarantino) sé stessa all’apice del proprio masochismo! Fa tutto quello che dalla Bartoli ti aspetteresti: una serie di sospiri, rantoli, sussurri, grida, sgomenti, soffi, tra cui si percepisce, talvolta, una linea di canto appena accennata, soffusa, sottovoce (nei momenti lirici). Oppure un gorgoglio di agilità a suon di colpi di gola che (dopo averne constatata la velocità e la rapidità d’esecuzione – cosa in sé notevole, ma inutile) oltre ad affogare la linea musicale, appaiono fuori stile (tutt’altra cosa quelle agilità, ugualmente funamboliche, ma rese con astrattezza languida e vellutata dalla Sutherland). Giusto/sbagliato, corretto/scorretto…non importa: è la Bartoli. Certo non è Bellini. E non è sicuramente La Sonnambula. Si tralasci poi la considerazione per cui ci si chiede come questo profluvio di effetti possa essere percepito in una vera e propria recita teatrale. Qui il microfono è a pochi cm dalla bocca e si sente tutto, ma si capisce anche che non si può cantare così davanti ad un pubblico vero. Cos’è questa Sonnambula allora? Un esperimento di rielaborazione discografica costruito in laboratorio grazie alla sensibilità dei moderni strumenti d’incisione? O vuole essere un “disco storico” che segni le prossime generazioni nell’interpretazione del titolo? Cos’è dunque? Beh, come tradisce la stessa copertina (che ammicca alle pose di sexy popstar – con tanto di fotoritocchi e set patinato), si può dire che questa Sonnambula altro non è che l’ultimo album della Bartoli (così come si citerebbe l’ultimo album di Sting), ossia un puro oggetto di consumo pronto a scalare la top ten magari, campione d’incassi forse, da inserire in qualche tournè (salvo amplificazioni e mixer audio), da vendere nei megastore. Ma siamo al prodotto puramente discografico, senza più velleità artistiche: il passo successivo è la campionatura di voci e orchestra ed il confezionamento di prodotti virtuali ed artificiali, magari assemblati sul pc di casa. Corretti, puliti. Ma mortalmente gelidi. Ma sarebbe discorso lungo. Concludo con una sintetica analisi dei numeri:

N° 1: INTRODUZIONE – La direzione appare fin da subito rozza e grossolana, scandita con l’accetta: pare ignorare a bella posta i segni espressivi di p e pp. Va bene che si tratta di “festa di paese”, ma non per questo deve essere tutto sguaiato e triviale! La Cavatina di Lisa è sospirosa e piena d’aria (non si stenta a immaginare a chi si ispiri Gemma Bertagnolli, che interpreta il ruolo) e il da capo viene fiorito come se fosse Haendel.

N° 2: RECITATIVO E CAVATINA – De Marchi stacca un tempo assolutamente letargico (la partitura, invece, indica “cantabile assai sostenuto”), che tuttavia non suggerisce nulla di poetico: lo stacco degli archi che accompagna il “Compagne, tenere amiche” di Amina, che in altre incisioni appare come un raggio di sole e di serena felicità, qui passa inosservato tanto è malamente suonato. La Bartoli canta la sua “nenia” (scombinata così dall’orchestra) non risparmiandosi in sospiri, affanni, colpetti di gola. In tutto ciò non lega nemmeno due note: è tutto staccato e spezzato. La melodia lunga lunga belliniana va a farsi benedire, affogata nel lento annaspare della protagonista che termina l’aria senza alcuna cadenza (eppure ci sarebbe una bella corona a suggerirla – ma nessuna corona verrà rispettata nell’intera esecuzione!). Segue cabaletta in un profluvio di sospiri e sussurri, rallentamenti incomprensibili, rantoli e parlati, pause e respiri presi a casaccio. Il da capo è così variato da sembrare una riscrittura!

N° 3: RECITATIVO E DUETTO – attacca il clarinetto, vistosamente calante e poi entra Elvino: corretto, ma come sforzato. Gli acuti ci sono, ma non sono facili. Un Florez decisamente fuori forma in una parte che prima dominava con sicurezza ben maggiore. Nella stretta manca del necessario abbandono. I Do acuti (abbassati, causa diapason) ci sono, ma sono come estrapolati dal contesto, isolati, soli. Il da capo è variato ancora in modo creativo.

N° 4: RECITATIVO E CAVATINA – la Cavatina di Rodolfo è staccata ad un tempo forsennato, rovinando così una delle più straordinarie melodie scritte da Bellini. Il fraseggio è monotono (ma D’Arcangelo è scusato dalla dozzinalità dell’accompagnamento, davvero volgare). Cabaletta a ritmo di galop, ma, curiosamente, senza nessuna variazione nelle ripresa.

N° 5: RECITATIVO E CORO – totalmente assente il clima notturno e l’aura di mistero che anche il più misconosciuto concertatore “di provincia” riuscirebbe a rendere. Oltretutto De Marchi imprime un ritmo troppo veloce e un’aria da sagra paesana (con tanto di sottolineato ZUM-PA-PA).

N° 6: RECITATIVO E DUETTO – la Bartoli sospira, si affanna, rantola, parla e non lega un suono! Florez comincia a farsi riconoscere: tenta di dare un senso alla frase, all’arcata melodica, ma l’orchestra e la partner “remano contro”. Nella discesa al Do nella cadenza prima della stretta, Amina pasticcia alquanto (mentre Elvino finalmente sale al suo Do con facilità).

N° 7: SCENA E FINALE I – si apre con gli accordi stridenti e sforzati degli archi d’epoca, che stonicchiano subito. E siamo al “capolavoro”: entra la Bartoli simulando la voce di una persona che parla nel sonno, sbadigliando e cantando con bocca semi-chiusa e mandibola fissa. Pronuncia male le consonanti a bella posta e canta sovente nel naso (per realismo immagino: avrà fatto alcune ricerche sul fenomeno del sonnambulismo – filologia d'accatto!). Per fortuna la “sceneggiata” termina presto, con l’inizio del duetto. Entra il coro mentre gli archi sembra intonino l’Inverno dalle Quattro Stagioni di Vivaldi. Poi il quintetto in cui la Bartoli ancora mostra completa assenza di legato. Nella stretta conclusiva, infine, i tecnici DECCA mettono in evidenza la voce della loro diva di punta (nonostante dovrebbe essere Elvino a “tirare”) col risultato di avere i piani sonori totalmente sballati. Passiamo all’atto II.

N° 8: CORO D’INTRODUZIONE – la consueta grossolanità di De Marchi compromette il clima pastorale dell’apertura d’atto.

N° 9: SCENA ED ARIA – seguendo la lezione dell’autografo viene ripristinato il preludio per le due trombe prima dell’ingresso di Amina (brano molto suggestivo che qui si ha l’occasione di ascoltare per la prima volta – giacchè l’altra incisione che vanta di seguire l’edizione critica, lo omette – ma meriterebbe un suono più rotondo e morbido). “Tutto è sciolto” manca del languore e della malinconia che la musica di Bellini suggerirebbe. L’abbassamento tonale è marcato (e aggravato dal diapason), l’accompagnamento grossolano. La cabaletta “Ah perchè non posso odiarti” viene staccata a tempo lentissimo perdendo di mordente e trascinandosi verso i parchi acuti (nessuna puntatura è concessa alla fine). Nessuna cadenza viene interpolata, tutto è come scritto in partitura (Gavazzeni scrisse che “l'assoluta fedeltà al testo è un'idea gretta che va contro i valori estetici della musica e va contro la storia”).

N° 10: SCENA ED ARIA – ancora Lisa interpola variazioni haendeliane.

N° 11: QUARTETTO – ben eseguito dai cantanti, ma l’accompagnamento è da banda.

N° 12: SCENA ED ARIA FINALE – siamo alla parodia! Per fortuna non viene replicato “l’effetto” del sonnambulismo all’atto I, tuttavia il recitativo è sempre piagnucoloso e sospirato, senza l’ombra di legato. L’aria è grottesca. “Ah non credea mirarti” staccato a tempo lentissimo, letargico, soporifero. Come si poteva immaginare qui la Bartoli dà libero sfogo alla sua “arte”: sospiri, lamenti, rantoli, affanni. Ricorda più un crooner degli anni’50 alla Tony Bennett, che una cantante d’opera che pratichi il canto professionale. La linea vocale (o quel che ne rimane) è di continuo spezzata dal pianto e dai sospiri – si fatica a percepire l’arcata melodica belliniana! “Io più non reggo”, canta Elvino...e non solo lui! La voce (priva di impostazione e immascheramento) è malferma, indugia in continui rallentamenti e pause non scritte, pasticcia col solfeggio e non lega una nota che è una! Una scena del sonnambulismo ridotta a mera canzonetta pop, manca solo il videoclip. Siamo alla fine: “Ah non giunge uman pensiero” è un delirio di colorature di gola, velocissime e serrate che gorgogliando annegano ogni spunto musicale. De Marchi scandisce l’introduzione con veemenza da corteo (e il risultato è di un’imbarazzante somiglianza con l’incipit di “Bandiera Rossa”). Gridolini, borbottii, sospiri e poi da capo, con variazioni alla Rossini. Sulla puntatura finale (l’unica concessa da De Marchi) cala il sipario su una delle peggiori incisioni di Sonnambula che offra il mercato. Ultima annotazione: la qualità audio è ben inferiore ai consueti standard DECCA. Le voci dei solisti sono costantemente in evidenza e tendono a stridere nella gamma alta (che va spesso in saturazione). Il volume d'incisione è troppo alto e il mixaggio è dozzinale. Si percepiscono chiaramente i rattoppi delle varie sessioni di registrazione. Un disco rivolto ad un pubblico dai gusti...particolari.

Gli ascolti

Bellini - La sonnambula


Atto I
Son geloso del zefiro errante - Luigi Alva & Margherita Rinaldi - Nino Sanzogno (1972)

Atto II
Oh, se una volta sola...Ah! non credea mirarti...Ah! non giunge - Frederica Von Stade - Nicola Rescigno (1986)

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Vi adoro.

Semolino ha detto...

Mi spiace ma su D'arcangelo non sono d'accordo. Non canta bene con voce impostata. D'Arcangelo è duro da faringite cronica. Certo che se lo si paragona alla stragrande maggioranza dei bassi che hanno inquinato l'orbe vocale negli ultimi sessant'anni, quelli coll'emissione a vomito o a rutto, D'Arcangelo potrebbe sembrare anche un buon cantante. Ma in realtà non lo è. Per ascoltare l'aria "vi ravviso o luoghi ameni" da un basso con la voce perfettamente impostata bisogna risalire a Pol Plançon.
Il declino nell'ambito dei bassi è incominciato fin da Ezio Pinza. Pinza ascoltato isolatamente sembra stupendo. Ma c'è un audio in cui si può ascoltare un brano di Aida con Gigli, Rethberg e Pinza. La Rethberg e Gigli colla loro emissione perfettamente impostata fungono da cartina di tornasole e fanno apparire subito Pinza per quello che è, cioè una voce impostata troppo in basso, troppo pecioso, in realtà ingolato. Lo si sente subito che Pinza è vocalmente su di un altro pianeta rispetto al soprano e al tenore, i quali, colla loro impostazione della voce, richiamo subito l'emissione che fù di bassi come Plançon, Journet e Vanni-Marcoux e che oggi non esiste più.

Giulia Grisi ha detto...

PIacere di averLa qui sig. Semolino. Finalmente!

L'incisione di Plançon cui lei allude è strordinaria, per l'emissione purissima e, soprattutto, per la dolcezza e l'incolmabile malinconia che trasmette. I tempi passati erano felici ma distanti: che nostalgia vi è nel canto di Plançon!

Gino ha detto...

Ma per Dio! Ingolato Pinza?
Io soltanto vi propongo l'ascolto del Requiem di Verdi (1939): nel "Hostias" si sente una voce perfettamente inmascherata che supera anche Gigli nella emissione de la mezzavoce, leggera ma timbrata.
Può una impostata in basso sfumare il suono come lo fa Pinza nel "Piango" di Fiesco nel duettone con Boccanegra?

Saluti.

poliziano ha detto...

Non sono d'accordo con i vostri commenti sulla voce di Ildebrando d'Arcangelo. Ha spesso un colore ed un emissione, specialmente nel suo ultimo CD sulla arie di Hendel, che mi fanno pensare al grandissimo HANS HOTTER.
L'estensione poi è eccezionale, dal re grave al la bemolle acuto e il tutto ben tenuto e centrato al punto d'impatto...
Grandissima voce.
Poliziano