lunedì 30 giugno 2008

Demetrio e Polibio: un esordio rinviato

Prosegue il viaggio tra le opere meno conosciute – rectius più sottovalutate – di Gioachino Rossini: quelle, cioè, che ancora non hanno beneficiato (o che ne hanno beneficiato solo in parte ed inadeguatamente) di una vera “riscoperta” o di una rilettura critica fondata su di un’analisi attendibile delle fonti, e che soprattutto non hanno avuto la ventura di imbattersi in un qualche interprete di levatura storica che – invaghitosi del titolo – non lo abbia poi “amorevolmente” diffuso e divulgato (come è accaduto, parzialmente, per la Horne con Tancredi). Ecco che dopo il sorprendente Ciro in Babilonia e lo splendido Aureliano in Palmira (che nulla ha da invidiare ai suoi più celebri e celebrati fratelli maggiori) è ora il turno di un gioiello della prima giovinezza: Demetrio e Polibio.
Demetrio e Polibio, dramma serio per musica in due atti di Vincenzina Viganò Mombelli, ebbe il suo debutto a Roma, al Teatro Valle, il 18 maggio del 1812, cogliendo un ragguardevole successo. Tuttavia l’opera – la prima del catalogo del pesarese – venne composta molto prima e precisamente nel lontano 1806 da un Rossini ancora quattordicenne. All’epoca frequentava il Liceo Musicale di Bologna per affinare le già compiute conoscenze musicali e tecniche – apprese dalle proficue lezioni del canonico Malerbi e di padre Tesei, nonché dall’analisi approfondita delle opere di Mozart e Haydn – ed era divenuto intimo (proprio in virtù delle sue straordinarie capacità) della famiglia Mombelli: famiglia, questa, di musicisti e cantanti, pure imparentata, per via muliebre, al celebre coreografo Salvatore Viganò (per cui Beethoven scrisse la partitura delle Creature di Prometeo). Le vicende relative alla composizione dell’opera – raccontate dallo stesso Rossini in modo assai gustoso e condito di quell’ironia (e auto-ironia) che non lo abbandonerà mai nel corso della vita – sono avvolte dalla leggenda e dall’aneddotica, alla quale si rimanda, anche per godere di una piacevole e divertita lettura. Basti dire che l’autore, stimolato dall’artistica amicizia (oltre che da interessi più venali e/o sentimentali...) decise di scrivere una vera e propria “opera familiare”. E fin dalla scelta del libretto (per la verità assai modesto), frutto delle velleità letterarie della Signora Viganò Mombelli. La scrittura musicale venne quindi, esattamente calibrata sulle caratteristiche vocali della famiglia Mombelli: il “capofamiglia” Domenico – compositore anch’esso e tenore assai apprezzato (dal 1783 al 1803 in competizione, al San Carlo di Napoli, con Giovanni David, dove fu protagonista in lavori di Sacchini, Sarti, Piccinni, Paisiello, Guglielmi e Cimarosa) – assunse il ruolo di Demetrio (che, visto l’interprete, va equiparato ai grandi ruoli-david del Rossini napoletano: quindi grande estensione, facilità nell’estremo acuto, e agilità travolgente). Le due figlie – assai elogiate da Stendhal che vi ritrovava il garbo, la dolcezza e la tecnica del tempo passato – Ester e Anna (rispettivamente soprano e contralto) vestirono i panni di Lisinga e Siveno. La prima delle due, poi, continuò con Rossini la sua fortunata carriera, e cantò ancora Cenerentola, Gazza Ladra, La Donna del Lago, Otello, Il Viaggio a Reims. Ma ce ne fu anche per il maggiordomo di casa Mombelli, Lodovico Olivieri, che impegnò la sua voce di basso nel ruolo di Polibio. La famiglia/compagnia di canto però – pur sicuramente lusingata sia dal genio, già allora evidente, del giovane, sia dalla composizione di un’intera opera ad essa dedicata – aspettò che la fama premiasse le indubbie capacità dell’autore (ancora una “promessa” priva di conferme, allora), e garantisse così i committenti dal “salto nel buio” che avrebbe potuto comportare la rappresentazione di un’opera sì di un genio, ma sempre di uno sconosciuto. Ecco il motivo per cui il lavoro vide la luce solo sei anni dopo la sua creazione. Il risultato però – pur nella bizzarria, squisitamente rossiniana direi, della vicenda – è straordinario. L’opera, infatti è di una maturità e compiutezza inusuali per un ragazzino di 14 anni. Essa rivela ad ogni pagina una freschezza compositiva, una musicalità ed una complessità assolutamente straordinari, imparagonabili con qualsiasi altro esordiente (ma non solo) contemporaneo. Quando l’opera venne rappresentata suscitò tali entusiasmi e tanti elogi, dal ritenere difficilmente credibile il fatto che essa non fosse opera di un musicista già compiuto e navigato. Stendhal, quando ascoltò il Demetrio e Polibio a Como nel 1813, l’anno dopo la sua prima rappresentazione, rimase rapito per la soavità, la grazia e la purezza delle melodie, e per la sapienza della composizione, tanto da scrivere – riferendosi al quartetto “Donami omai Siveno” – che “quand’anche Rossini non avesse scritto altro che questo solo quartetto, Mozart e Cimarosa riconoscerebbero in lui un loro pari”. Testimone di questa compiutezza e maturità è poi il fatto che lo stesso Rossini (che fu – è bene ribadirlo – il migliore e più severo giudice delle proprie composizioni) riutilizzò diversi brani del Demetrio e Polibio in opere successive. E precisamente: il duetto tra Polibio e Siveno che apre l’opera, ispirerà l’aria di Ciro “T’abbraccio ti stringo” nell’atto II del Ciro in Babilonia; il duettino tra Lisinga e Siveno dell’atto I, “Questo cor ti giura amore”, uno dei brani più notevoli dell’opera, che si segnale per la bellezza e la dolcezza melodica, oltre che per la sapiente costruzione dell’intreccio musicale sia nelle voci che nell’accompagnamento, verrà prima utilizzato (anche se in modo semplificato e banalizzato) nel Ciro in Babilonia, poi nella Pietra del Paragone dove fornirà lo spunto musicale per il coro che apre l’atto II, e infine troverà la migliore collocazione nel Signor Bruschino, dove diverrà il più celebre “Quant’è dolce a un’alma amante” tra Florville e Sofia; l’aria di Siveno nell’atto I diventerà il brindisi alternativo di Pippo nella Gazza Ladra, brano che Rossini scrisse appositamente per la Pisaroni in una successiva revisione dell’opera per il San Carlo di Napoli nel 1819 (e che può essere ascoltato nell’interpretazione della Horne, nel suo cd di arie alternative rossiniane).
Vista da vicino l’opera mostra, innanzitutto, la perfetta padronanza, da parte dell’autore, di ogni sfumatura del linguaggio musicale: sono evidenti le suggestioni e i rimandi a Mozart e ad Haydn (la Sinfonia iniziale, che coniuga trasparenze, ricchezza timbrica e velata malinconia, ne è esempio evidente e ben potrebbe recare la firma dei due suddetti), ma non nell’accezione di meri richiami (o peggio, imitazioni), che ben sarebbero potuti essere giustificabili e scontati in un ragazzino ancora inesperto che proprio da quei Grandi trova o ritrova la sua ispirazione, bensì come volontà di superamento di quei modelli, come ricerca di un nuovo linguaggio musicale che parta sicuramente dalla scuola viennese o napoletana, ma che, comprendendola, la superi, utilizzandone al meglio le conquiste, senza mai correre il rischio di sembrare imitarla in modo pedissequo. Ecco, il Demetrio e Polibio colpisce per l’autonomia della scrittura, per l’originalità, per la sapiente costruzione, per la ricchezza e la complessità dell’orchestrazione (assolutamente inusuale per la media dei compositori italiani dell’epoca e che farà guadagnare a Rossini il soprannome di tedeschino), per la bellezza e la raffinatezza delle melodie, per l’equilibrio formale. Insomma un’opera che non si limita a preludere ad un grande futuro (come l’Oberto per Verdi o Bianca e Fernando per Bellini o Le Villi per Puccini), ma che già di per sé assume un valore proprio ed un ruolo importante e fondamentale: c’è già tutto il Rossini maturo. In particolare i brani che più colpiscono l'ascoltatore (e lo stupiscono - poichè frutto della penna di un ragazzino) sono: la già citata Sinfonia; quel “Pien di contento il seno” che Rossini rielaborò per la Pisaroni 15 anni dopo; l'aria virtuosistica di Lisinga dell'atto II “Superbo, ah! Tu vedrai” con quei suoi richiami mozartiani nelle particolarissime e impervie agilità (che ricordano da vicino certe superbe arie da concerto o il “Marten aller Arten” scritto da Mozart per Madame Cavalieri); il Finale I con la sua ricchezza di obbligati strumentali e la perfetta costruzione vocale; la difficile aria di Demetrio dell'atto II “Lungi dal figlio amato” (che ancora rimanda al Mozart delle arie di Don Ottavio o di Ferrando); e poi naturalmente il celebre quartetto “Donami omai, Siveno” che tanto incantò i contemporanei e che fece scrivere a Stendhal che quelle melodie “erano i primi fiori della fantasia di Rossini: e possedevano tutta la freschezza del mattino della vita”. Ma in realtà ogni numero, ogni brano rivela un'incredibile bellezza. Spiace ancora di più, quindi, dover constatare il totale oblio calato su quest’opera, tanto che neppure i luoghi deputati alla riscoperta e alla diffusione del catalogo del nostro massimo compositore, hanno finora reso onore al Demetrio e Polibio: né il ROF, infatti, lo ha mai rappresentato (sorte analoga all’Aureliano in Palmira, al Ciro in Babilonia, al Sigismondo, all’Eduardo e Cristina), né la Fondazione Rossini ha ancora approntato l’edizione critica. La lacuna è parzialmente colmata dall’unica edizione discografica attualmente disponibile, che risale a 16 anni fa e che deriva dalla registrazione di alcune recite durante il Festival della Valle D’Itria a Martina Franca. L’incisione, in verità, è ben fatta, ben cantata e (abbastanza) ben suonata, tuttavia è indubbio che l’opera – come tutte quelle di Rossini, anche le più misconosciute, scritte appositamente per le ugole dei più grandi cantanti dell’epoca – avrebbe meritato ben di più (penso alle voci della grande stagione della Rossini-renaissance negli anni ’80) soprattutto in relazione all'estrema qualità di quella musica (laddove opere di valore incommensurabilmente minore hanno trovato una maggiore diffusione grazie all'eccezionalità dell'interprete). Qui il cast presenta Dalmacio Gonzales nel complesso ruolo di Demetrio, Giorgio Surjan in quello di Polibio, Christine Weidinger come Lisinga e una giovane Sara Mingardo nel ruolo di Siveno. Alla bacchetta il volenteroso Massimiliano Carraro, che conduce la non certo impeccabile Orchestra Sinfonica di Graz. Il risultato, come dicevo, è complessivamente assai buono, fatte salve alcune evidenti difficoltà in acuto di un Gonzales affaticato e l’orchestra non troppo raffinata (che la direzione appesantisce eccessivamente in taluni accompagnamenti). Ma non ci si può troppo lamentare: questo è quello che offre il mercato e non credo che, almeno a breve, saranno fornite alternative (in una realtà in cui bastano le dita di una mano per computare le edizioni ufficiali di Semiramide, pare del tutto improbabile che al Demetrio e Polibio si voglia concedere più di una incisione). Tuttavia non è nemmeno il caso di disperare: la nostra è epoca di “riscoperte” (vere o presunte), di “capolavori” ritrovati, mancati, dimenticati (ma a volte, più semplicemente, maltrattati), di mode effimere o durature, di ampia “generosità” critica (che dispensa a profusione titoli di genialità ed eccezionalità, forse per annacquare le differenze e livellare tutto ad uniforme melassa, dove - si sa - la mediocrità, artistica ed esecutiva, “sguazza” meglio). In questo confuso panorama, dove pare sia divenuto difficilissimo distinguere “il grano dal loglio”, forse potrà accadere che - anche per errore - a qualche istituzione teatrale o a qualche casa discografica meritevole (penso ad Opera Rara che ci sta “infliggendo” Pacini a volontà - il maestro delle cabalette - e temo il giorno in cui a qualcuno verrà il capriccio di spacciarci il Ponchielli minore per straordinario, oppure si picchi di riesumare I Goti) venga in mente quello straordinario Demetrio e Polibio che tanto incantò Stendhal e che segna la nascita artistica del nostro più insigne compositore.

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venerdì 27 giugno 2008

Nabucco all'Arena di Verona : Viva Nabucco!

Ripresa della nuova produzione dello scorso anno affidata a Denis Krief anche questo Nabucco, come la Tosca dell'altra sera, trova la sua ragion d’essere nei due nomi protagonisti, il grande Leo Nucci, Maria Guleghina e nel direttore d’orchestra, Daniel Oren, anch’egli dalla lunga frequentazione con Nabucco e con l’Arena.

Ne dovrebbe sortire uno spettacolo di grande effetto, invece, salvo il coro, qualche sprazzo dell’orchestra e alcuni momenti del mattatore Leo Nucci, la serata è stat priva di grandi momenti.
Innanzitutto vale spendere due parole sulla regia di Denis Krief, ennesimo genio-innovatore-rivoluzionario del teatro di regia, che, alle prese con un’opera che da Arena decisamente sarebbe, ovviamente rinuncia a qualsiasi seppur minimo tentativo di essere tradizionale per cercare un vuoto modernismo, che oggi pare ancor più l’apoteosi del visto e dello stravisto, del banale e dell’inutile.
Un’enorme struttuta metallica bianca campeggia sul palcoscenico con dei libri al suo interno, a rappresentare una biblioteca, simbolo della cultura degli ebrei, al cui lato si trovano una serie di cilindri tagliati a metà, che dovrebbero in qualche modo rappresentare i babilonesi…o queste almeno erano le intenzioni del regista. I costumi sono rigorosamente verde militare, marrone o neri, unica eccezione il bianco di Fenena, ed è la solita riproposizione di cappotti, vestaglie, palandrane, kimoni visti in svariati spettacoli che possono andare dall’Orfeo di Monteverdi alla Lucia di Lammermoor al Cavaliere della rosa. I babilonesi marciano alla maniera dei cosacchi e al terzo atto Abigaille e il coro femminile di sue seguaci sono vestite in maniera punk, con una grossa parrucca leonina alla Tina Turner che fa sembrare la Guleghina una Loredana Bertè dell’opera. In aggiunta qualche luce rossa al neon, la cui simbologia non sappiamo decifrare.
Di regia vera e propria non ve n’è affatto, nessun lavoro sugli interpreti, molto tradizionali nello stare in scena, nel bene e nel male, nessun idea originale, a meno che l’idea originale non fosse quella di far cantare il Va’ pensiero (benissimo eseguito dal coro e da Oren e bissato come di tradizione) nella struttura metallica-biblioteca.
Ci chiediamo francamente il senso di una simile non-regia, che non è innovativa e non è originale. I cosiddetti geni delle regie moderne di regie vere e proprie ne fanno sempre meno, limitandosi invece piuttosto a inserire paccottiglia quinci e quivi senza un minimo di logica pretendendo di spacciarla per arte. In realtà, almeno nell’opinione di chi scrive, non vi è molta differenza fra una regia come questa e il vecchio “Si entra da destra, si esce da sinistra, il coro entra dal centro”. Solo una, la seconda è culturalmente molto più onesta, sebbene non giustifichi.... un lauto cachet!
A capeggiare il cast, più in forma che nel recente Macbeth scaligero, Leo Nucci, che arriva spavaldo a cavallo, facendo capire fin da subito che la grinta non gli sarebbe mancata neanche per questa serata areniana. Il canto è ancora buono, la voce molto sonora, i rilievi del tempo si sentono nell’intonazione, non sempre precisa, e nei frequenti portamenti che miniano l’intonazione più di una volta. Il suo Nabucco non brilla per finezze, si esprime, anzi, quasi sempre sul forte o sul mezzo-forte. Il recente esempio della rozzezza di Lucic-Rigoletto induce a non essere troppo severi con il vero leone dell’Arena, ultimo baluardo insieme a Bruson, di un professionismo della corda baritonale che si sta vieppiù perdendo.
Insieme a Nucci trionfatrice della serata è stata Maria Guleghina, che ha, a dire il vero, solo il merito di avere una voce importante (in un mondo in cui famose, ma non certo brave, Lady Macbeth hanno il volume di Mimì), più grossa che grande e tecnicamente decisamente non irreprensibile. L’aggressività con la quale decide di caratterizzare Abigaille la spinge a cantare quasi sempre forte e fortissimo, spingendo e spesso gridando. I tentativi di cantare piano, come in Anch’io dischiuso un giorno, o nel finale, sono rovinati a causa delle mende tecniche, che fan sì che la voce si spezzi in più di un punto e che non emetta dei veri e propri pianissimi, quanto, invece, dei suoni falsettati e ingolati. L’intonazione poi, non è mai pulita, gli acuti sono spesso calanti e lo sono anche alcuni suoni centrali (nella sezione centrale del duetto con Nabucco marcatamente). E vale la pena notare che il notevole volume dei primi due atti al terzo è sensibilmente ridotto, causa, forse, la fatica di un canto tanto forzato. Fa storcere il naso pensare che una cantante con grossi problemi di dinamica e senza alcuna fantasia interpretativa sarà la nuova Adriana Lecouvreur del Metropolitan di New York….....sic!
Roberto Scandiuzzi come Zaccaria mostra più evidentemente i segni del tempo. La voce suona alle volte ingolata, nella zona medio-acuta e nel grave estremo si producono suoni malfermi, mentre alcuni acuti, come quello che conclude la profezia, sono fibrosi e duri. Né si puo’ dire, con queste premesse, che il personaggio e l’altera sacralità del sacerdote ebraico, siano venuti fuori in qualche modo. La coppia di innamorati Fenena-Ismaele era composta da Rossana Rinaldi e Valter Borin. La prima non riesce a brillare nel breve ruolo di Fenena, in scena piuttosto come la Maddalena del Rigoletto, e con più di un problema nella linea vocale, che inficiano la riuscita dell’arioso Oh dischiuso è il firmamento, coronato da un acuto strozzato e fisso. Valter Borin, invece, proprio negli acuti di Ismaele spera e affronta ogni nota dal fa diesis al la come si trattasse del do della Pira, con una voce però da lirico-leggero, una esagerata veemenza, senz perciò convincere più di tanto. Completava il cast il buon sacerdote di Belo di Carlo Striuli e la coppia Anna-Abdallo.
Molto bello il suono dell’orchestra, guidata dalla mano esperta di Daniel Oren, un po’ generico e con la tendenza ai tempi rapidi, che ha trovato i suoi momenti migliori nei brani più concitati dell’opera, perdendo però la sacralità di momenti come la profezia di Zaccaria, letteralmente tirata via, forse anche per favorire l’inteprete, alquanto in difficoltà. Come già detto, molto bene il coro che si guadagna le ovazioni del Va’ pensiero, bissato come di consueto.
Una nota di merito al solito entusista clacqueur dell’Arena, che ha dispensato superlativi assoluti agli interpreti di Tosca e di questo Nabucco, concludendo le rappresentazioni con due sentimentali Viva Puccini ! e Viva Verdi!. Un piccolo protagonista dell’Arena.


Gli ascolti

Verdi - Nabucco

Parte I
Prode guerrier - Olivia Stapp, Gordon Greer & Susan Quittmeyer
Tremin gl'insani - Matteo Manuguerra, Adelaida Negri & Rouel Beukers

Parte III
Donna, chi sei? - Renato Bruson & Christine Deutekom
Del futuro nel buio discerno - Bonaldo Giaiotti

Parte IV
Dio di Giuda...Cadran, cadranno i perfidi - Paolo Silveri
Su me...morente...esanime - Caterina Mancini


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martedì 24 giugno 2008

Serie B a chi ?!? - prima puntata

La recente pubblicazione delle prossime stagioni d'opera ha riportato l'attenzione sulla sempre maggiore difficoltà dei teatri di garantire una messa in scena dignitosa dei singoli titoli di un cartellone, causa sempre più frequente l'inadeguatezza dei cantanti, per mende tecniche o per incompatibilità col ruolo chiamato a sostenere. Valga l'esempio della leggera Patrizia Ciofi alle prese con due ruoli da soprano drammatico come Alaide ne La straniera e di Parisina, scelte inopportune sul nascere che compromettono la riproposta di un titolo e l'interesse culturale che di base pur vi sarebbe.


Ma il problema dell'organizzare un cast valido non riguarda più solo opere di rara riproposizione come la Parisina d'Este o Ermione, al contrario sempre più spesso la difficoltà risiede anche nel raggruppare gli interpreti per un'Aida (si pensi al cast che ha aperto La Scala nel 2006/2007), Ballo in maschera, Tosca, opere di repertorio fino a qualche decennio fa proposte ovunque con una certa frequenza, allestite indifferentemente alla Scala o ad Adria.

Dando un'occhiata ai cartelloni delle stagioni del passato, infatti, senza tema di essere passatisti, si nota appunto che la riproposizione di determinati titoli non era quasi mai una difficoltà, Aida, Tosca, Un ballo in maschera La forza del destino, erano veramente titoli "di repertorio", riproposti con frequenza, senza difficoltà nel trovare gli artisti giusti. E questo non solo alla Scala o a Napoli, ma in quasi tutti i teatri d'Italia, la cui provincia non era meno attiva dei grandi centri. Moltissime provincie proponevano una stagione d'opera non meno impegnativa nella scelta dei titoli (Adria, Como, Piacenza, L'Aquila...) e ciò ovviamente comportava anche l'esigenza di riunire le compagini vocali, esigenza cui si rimediava senza eccessiva difficoltà.

Un'esempio di questa facilità nel formare cast validi e più che validi, possiamo farcelo dando un'occhiata per esempio alla stagione di Parma 1948/49 in cui si ascoltavano Maria Pedrini nell'inaugurale Nabucco, il solido professionismo di Anita Corridoni in Aida, la giovanissima Virginia Zeani in Traviata e la giovane Renata Tebaldi in Andrea Chénier...per limitarci a 4 titoli e a 4 primedonne. Oppure guardando il cast che inaugurò il Comunale di Adria nel 1935 nel Mefistofele di Boito, con Tancredi Pasero, Rosetta Pampanini (Margherita), Sara Scuderi (Elena), Giulietta Simionato (all'inizio della propria carriera, come Marta) e la direzione di Tullio Serafin.

Va da sè che non vi erano sempre i divi, i grandi nomi a disposizione, ciononostante non costituiva un problema allestire un titolo "pesante" e di tradizione come quelli sopra citati o una stagione composta di 10-11 opere. E Questo merito va ricercato anche e soprattutto in generazioni di cantanti di grande professionalità, che con la loro sicurezza tecnica e vocale erano valide alternative ai grandi divi, formando una "seconda linea" detentrice di stilemi tecnici ed artistici di tradizione, che permettevano loro di brillare in titoli per niente facili non meno dei Divi, andando perciò a costituire una solida garanzia per i teatri e per la diffusione dell'Opera stessa.

Proponiamo dunque una piccola disamina di alcune primedonne appartenenti a questa "seconda linea" (termine decisamente riduttivo però), grandi professioniste, spesso dai mezzi sontuosi, che si sono trovate a fare i conti, nell'arco della loro carriera, con colleghe delle quali non avevano magari la straordinaria dote vocale (Caniglia, Tebaldi), la rifinitezza tecnica e stilistica (Arangi-Lombardi) o la carica interpretativa e vocale rivoluzionaria (Callas), che da loro sono state forse oscurate per quanto riguarda la fama mondiale e discografica, ma che hanno sostenuto una carriera più che dignitosa (spesso grandi carriere vere e proprio) in virtù della loro arte, o, se si vuole, del loro "mestiere". E il loro ascolto si propone interessante una volta di più oggi, perchè all'ascoltatore che con questi nomi non ha dimestichezza spesso si propongono grandi cantanti alle prese con esecuzioni che se nei loro anni potevano essere tacciate di essere normale amministrazione, all'ascoltatore moderno possono apparire vere e proprie esecuzioni memorabili.

E' il caso di Sara Scuderi (1906-1987), soprano catanese attiva dalla metà degli anni 20 fino alla fine degli anni 40 e primi anni 50. Voce di soprano lirico-spinto, ebbe in repertorio titoli come Trovatore, Manon Lescaut, Tosca, Andrea Chénier, Mefistofele, Otello, cantò come molte sue colleghe titoli del Novecento, vale la pena ricordare che fu protagonista del Cavaliere della Rosa proposto dalla Eiar nel 1939, in cui spiccava anche il nome di Magda Olivero quale Sofia. Fu la prima, tra l'altro, a riportare in teatro Anna Bolena, a Barcellona nel 1947 in occasione del centenario del teatro, con Giulietta Simionato e Cesare Siepi. Ma fu nel repertorio cosiddetto verista (includendovi Tosca) che ebbe il suo campo d'elezione, come Tosca, Maddalena di Coigny e Santuzza calcò numerosissimi palcoscenici d'Italia dal Nord al Sud, guadagnandosi celebrità anche all'estero specialmente in Olanda. L'ascolto dei suoi dischi è oggi molto interessante. In un periodo in cui non vengono sottratti a sfoghi di stampo verista opere belcantiste come Lucrezia Borgia e Roberto Devereux (oggi veri e propri terreni d'elezione dell'urlo senza ritegno) è interessante ascoltare una celebre interprete verista alle prese con Santuzza...non essere per nulla verista.In compagnia del Turiddu di Aldo Ferracuti (che potrebbe dare qualche lezione a più d'un tenore odierno), abbiamo una Santuzza composta, dall'accento accorato, sofferente, che si esprime secondo la più corretta grammatica vocale. Lo stesso dicasi per l'aria di Maddalena di Coigny, dove l'interprete non è dimentica di interpretare una ragazza cresciuta nella buona società prima della rivoluzione. Il fraseggio non si segnalerà per inventiva, ma l'esecuzione è sopra la media, e si apprezzano soprattutto l'ottimo legato, l'abile uso del mezzoforte, in una dinamica generalmente molto varia usata sempre a fini drammatici e la solidità tecnica che consente di reggere con facilità la tessitura di questi brani.

L'ascolto di Pia Tassinari è istruttivo. Nell'esecuzione il modello Claudia Muzio è evidente. La Tassinari non è un esempio di tecnica; certe note centrali suonano un po' aperte, era però il gusto imperante del tempo dettato anche dall'esigenza di trovare in quelle zone, spesso chiamate in causa, sonorità .
E' ovvio che questa scelta porta all'accorciamento della gamma acuta. E, quindi, le parti Falcon dell'ultima parte della carriera sono una logica conseguenza. Però la voce è dolce e femminile ed il gusto, relativamente a quello imperante, sorvegliato. Il confronto-scontro Tassinari-Favero nella Manon di Massenet, stando a quello che scrive Lauri-Volpi, è il confronto-scontro fra due modi di intenedere il medesimo personaggio.
Credo anche che, con riferimento alla Tassinari, ma più in generale a tutte le cantanti, ai loro tempi, non accompagnate dalla fama di stars si debba considerare che ogni epoca abbia avuto i suoi stilemi interpretativi e i conseguenti guai tecnico-vocali. L'apertura dei centri, il ricorso ora più ora meno ai suoni cosiddetti di petto (soprattutto nelle situazioni più drammatiche) accorciava la gamma acuta, riduceva, nella zona medio-alta della voce, la capacità di cantare piano e pianissimo. Però i suoni falsettati di ispirazione ed imitazione Caballé, che oggi esibiscono molti soprani, portano ad altre ugualmente disastrose conseguenze ossia volume inesistente, sostegno sul fiato periclitante (è, infatti facile cantare piano senza alcun sostegno) e, anche qui, gamma acuta malferma e gridata. Tralasciamo, poi, il caso di un collasso vocale, che, nostro malgrado, abbiamo visto derivato dall'avere imitato congiuntamente i vezzi di una Favero e di una Caballè.


Negli stessi anni si trovanano in attività anche due altri soprani lirico-spinti, molto attive sia in provincia che nei grandi teatri, Carla Castellani (1906/2005) e Adriana Guerrini (1907/1970), interpreti soprattutto nel repertorio verdiano e pucciniano. Carla Castellani, voce importante, anche se non estremamente pregiata, il suo repertorio fu quello del soprano lirico-spinto con titoli come Trovatore, Manon Lescaut, Tosca fino a vere e proprie parti da soprano drammatico come Leonora ne La forza del destino (che cantò anche con Gigli e Pasero), Aida e Amelia del Ballo in Maschera, della quale è stata solida e ricercata interprete negli anni di guerra in molti teatri d'Italia. Cantante di gusto se non sorvegliatissimo quantomeno discreto, possedeva una solida linea vocale, nonostante qualche grave aperto e alcuni acuti vibrati, che anche in brani impervi come l'aria di Amelia, non le impedivano di cantare anche piano (si veda la frase Miserere d'un povero cor e il seguente si bemolle, attaccato scoperto, piano). Solo il fraseggio in alcuni punti, all'orecchio moderno, può sembrare alquanto "vecchio stile" e datato (seppure nell'ambito di una linea musicale e interpretativa che mai si lasciava andare al cattivo gusto), mentre non le venivano risparmiate critiche per l'aspetto scenico, accusata di essere quantomeno placida.


Di voce bellissima fu Adriana Guerrini, in carriera anche lei negli anni a cavallo della II guerra mondiale, anche lei dal repertorio vasto e improntato principalmente a titoli da soprano lirico-spinto e drammatico come Tosca, Manon Lescaut, La traviata, Aida, La forza del destino, Cavalleria rusticana, presente anche in riproposte dell'Ernani, della Battaglia di Legnano e dei Masnadieri, attiva in Italia ma anche a Lisbona, Parigi, Zurigo, Ginevra, Vienna, Barcellona. Ad Adriana Guerrini poteva essere rimproverato di non essere una interprete raffinata e moderna e di non avere una tecnica molto rifinita. Un amico che la vide in una Traviata al Castello Sforzesco di Milano questo rilievo muoveva verso una voce che era però grandissima oltre che di qualità, capace di espandersi in teatro come all'aperto con facilità, esibendo un centro suontuoso e acuti solidi, anche se tendenzialmente spinti alla maniera verista.

Particolare attenzione meritano poi due nomi di quegli anni come Gabriella Gatti e Maria Pedrini. Di loro scrive anche Giacomo Lauri-Volpi nel suo Voci parallele descrivendole, seppure negli anni di attività all'ombra della fama di Maria Caniglia, la Voce d'oro per eccellenza di quegli anni, come grandissime cantanti, alla Caniglia superiori soprattutto nel gusto, più sorvegliato e moderno oltre che più versatili per quanto riguarda il repertorio.

E l'orecchio moderno queste qualità ritrova intatte nell'ascolto di queste voci. Gabriella Gatti, attiva dall'inizio degli anni 30 fino alla metà degli anni 50, era dotata di una autentica voce di soprano lirico-spinto, guidata da una grande tecnica e, come detto, da un gusto e uno stile estremamente raffinato. Fu lei la prima moderna Semiramide, al Maggio Musicale Fiorentino nel 1940 e fu interprete rinomata anche di Norma, Otello, Tannhauser, nei titoli di Mozart e persino nella riproposta di autori come Monteverdi, Carissimi, Vivaldi, una autentica rarità considerando gli anni e un grande motivo di interesse per l'ascoltatore moderno che può sentire, per una volta, le melodie del periodo Barocco eseguite da una voce vera, bella, tecnicamente ortodossa, raffinata nella semplicità dell'accento, appropriato indistintamente sia nel lamento di Arianna che nella preghiera della wagneriana Elisabetta. E una nota merita anche la sua Contessa d'Almaviva, incisa sul finire della carriera, non esente da qualche difetto che 20 anni di attività possono far perdonare, ma elegantissima, raffinata, per di più cantata con un tempo largo di ben rara esecuzione, che porterebbe a mal partito più d'una delle Contesse attuali (e anche del passato recente, d'area anglo-tedesca soprattutto).

Il destino artistico di Maria Pedrini fu legato fin dal principio ai grandi nomi. Pronipote infatti per parte di madre di Adelina Patti fu, nei primi anni di carriera, spesso il doppio di Claudia Muzio, della quale fu salutata come autentica erede. E forse dall'apprendistato con Claudia Muzio la Pedrini apprese alcuni degli elementi già citati come il gusto e lo stile decisamente raffinati e moderni e la grande musicalità, doti distintive del suo talento artistico. La voce era di natura molto sontuosa, ampia e questo unito ad una grande consapevolezza tecnica dei propri mezzi. Dal confronto con la coeva Maria Caniglia è interessante notare come oggi, diversamente da allora, la Pedrini risulti più interessante, perchè più attenta allo spartito, come dimostra una attentissima esecuzione di D'amor sull'ali rosee, in cui la Pedrini è fedele interprete dello spartito nelle indicazioni di dinamica e rispettando persino i trilli scritti da Verdi.
Di grande interese è, poi, l'ascolto del finale dell'atto II di Poliuto, registrato alla Eiar nel 1939, protagonista Aureliano Pertile con accanto proprio Maria Pedrini nel ruolo di Paolina. La voce sontuosa di Maria Pedrini dona a Paolina una statura drammatica alla quale non siamo abituati, e si sposa benissimo con quella di Aureliano Pertile, non più freschissimo ma capace ancora di un'ampiezza vocale e di fraseggio esemplari, ed entrambi molto attenti allo stile donizettiano e all'espressione. Merita una nota anche la direzione d'orchestra, di Emilio Venturini, maestro di non primissimo piano per quegli anni (i suoi colleghi celebri, ricordiamo, si chiamavano Victor de Sabata, Gino Marinuzzi, Vittorio Gui, Tullio Serafin...), ma decisamente degno di lode. Soprattutto alla luce dei sempre più grandi recenti problemi delle bacchette. Venturini fa cantare l'orchestra insieme a Pertile e alla Pedrini, li segue, respira con loro, sa aiutarli mettendone in risalto tutti i pregi, ha una dinamica molto varia, sempre attento alla situazione drammatica...insomma un grande professionismo, tipico di chi dirige l'opera amando il canto, portando la buca a brillare assieme al canto senza mai cercare di sopraffarlo in una gara di divismo inutile. Una piccola lezione per il nostro presente.

Gli ascolti

Pia Tassinari (1903-1995)

Arrigo Boito
Mefistofele - Atto III - L'altra notte in fondo al mare

Francesco Cilea

L'Arlesiana - Atto III - Esser madre è un inferno

Sara Scuderi (1906-1987)

Umberto Giordano
Andrea Chénier - Atto III - La mamma morta

Pietro Mascagni
Cavalleria rusticana - Tu qui Santuzza? (con Aldo Ferracuti)

Carla Castellani (1906-2005)

Giuseppe Verdi
Un ballo in maschera - Atto II - Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa

Adriana Guerrini (1907-1970)

Giacomo Puccini
Manon Lescaut - Atto IV - Sola, perduta, abbandonata...Fra le tue braccia (con Beniamino Gigli)

Gabriella Gatti (1908-2003)

Giacomo Carissimi - Piangete aure

Wolfgang Amadeus Mozart
Le nozze di Figaro - Atto III - E Susanna non vien...Dove sono i bei momenti

Richard Wagner
Tannhauser - Atto III - Preghiera

Carl Maria von Weber
Oberon - Atto III - Piangi, mio cuor

Maria Pedrini (1910-1981)

Vincenzo Bellini
Norma - Atto II - Me chiami, o Norma?...Mira, o Norma...Sì, fino all'ore estreme (con Ebe Stignani)

Gaetano Donizetti

Lucrezia Borgia - Prologo - Com'è bello, quale incanto

Poliuto - Atto II - Lasciami in pace morire omai (con Aureliano Pertile, Giuseppe Manacchini, dir. Emilio Venturini)

Giuseppe Verdi
Il trovatore - Atto IV - D'amor sull'ali rosee

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domenica 22 giugno 2008

Rigoletto in televisione da Dresda

Il Rigoletto, trasmesso ier sera dal canale Arté dal Teatro di Dresda ed atteso dalla folla degli ammiratori di Flórez, quale ulteriore epifania dell’arte sempre in ascesa del divino Diego, è assolutamente imperdibile. Non per Flórez, ma per comprendere quale sinistro vento spiri da un grande teatro straniero che proponga una nuova edizione di un titolo italiano, con la presunzione che nuova produzione sia produzione grande e storica. E non solo per la compagnia di canto.

L’aspetto deleterio e più censurabile è proprio la arte visiva affidata ai signori Lehnhoff, Bauer e Walter. La corte è nera, la casetta di Rigoletto evoca luoghi di cura per malati mentali, la tavernaccia di Sparafucile un equivoco piano bar, tutti indossano capotti da Brecht, Gilda al terzo atto richiama Notorius fra nebbie da Fronte del porto, il Duca, al primo atto, imita maldestramente John Travolta, Rigoletto, nel corso del breve preludio, si trucca come Canio ( e allora tanto valeva interpolare, anche alla luce del gusto del title role “Vesti la giubba”) E per proseguire nell’autentica antologia di brutture mettiamoci le maschere zoomorfe alla festa, occhi cerchiati da eroinomani per spiegare che la corte è laida e, naturalmente Ceprano con maschera munita di protuberanze cheratinose, Giovanna con aria da Kapo, Gilda, dapprima bamboleggiante ed ingenua (con sospetto di ritardo mentale) e, dopo la conoscenza con il Duca, trasformata in ninfomane, tanto ninfomane da sognare l’ultimo amplesso con il Duca, nel corso del quartetto, sino a diventare una sorta di apparizione nel finale.
Il tutto a provare che fra romanticismo italiano e attuale cultura tedesca i rapporti sono improntati alla assoluta incomunicabilità. E siccome Brecht e l’espressionismo sono di un secolo successivi al nostro romanticismo, è semplice attribuire lo svarione.
Quanto all’esecuzione musicale certo l’attacco del preludio ci fa sentire la qualità del suono della Staatskapelle di Dresda, poi i semplici accompagnamenti al canto ispirano suoni e sonorità da organetto. Per giunta con alcuni tempi lentissimi alle riprese o tagli riaperti come “padre non più parole”, che, impietosi, esibiscono le difficoltà della compagnia di canto prescelta.
Quanto al protagonista, il signor Zeljco Lucic, siamo al solito erede della tradizione becera dei Gobbi e Bastianini, senza i loro mezzi in natura privilegiati, e i loro strascicamenti, portamenti, mezze voci abortite, acuti strozzati. E’ tempo perso armarsi di spartito e segnare i luoghi dove i difetti enunciati per sommi capi, compaiono. Possiamo solo sperare che i responsabili della programmazione dei nostri teatri, sempre molto sensibili ai venti germanici, non ci offrano in Verdi siffatto paradigma di malcanto e cattivo gusto.
Tale il padre, tale la figlia, Diana Damrau, che si vorrebbe accreditare quale erede della Gruberova e che, in primo luogo, scentra completamente la definizione del personaggio che non è un’oca e neppure una ninfomane. Si potrebbe anche passare sopra alla definizione sfalsata del personaggio se cantasse professionalmente. Purtroppo il sostegno e la proiezione del suono sono precari, staccati e picchettati imprecisi (esecuzione parziale nel senso che Verdi ne scrive quattro e ne sentiamo due o tre), la dinamica limitata (nei piani e pianissimi il suono va indietro) e l’unico sovracuto interpolato, ovvero il mi bemolle al duo della Vendetta, è uno strillo. E si che parliamo di una cantante che nel canto strumentale in zona acuta e sovracuta si dice abbia la propria parte migliore.
Quanto al sovracuto stridulo e teso il Duca è pari all’amata, con un suono bianchiccio, piccolo e stimbrato, che Flórez interpola alla fine della cabaletta Possente amor mi chiama. Il che non è affatto un problema. Il problema è ben altro, ossia l’inadeguatezza naturale dei tenori di mezzo carattere come gli Alva, i Benelli, i Giménez al canto verdiano. Non si tratta di note, che a Flórez non mancherebbero, ma della mancanza di cavata e ampiezza, accompagnati da un vibrato insistente e pronunciato, che impediscono la dinamica essenziale al canto d’amore del Duca, alla soddisfazione di un rapporto soddisfacente fra palcoscenico ed orchestra. Flórez risulta piatto, affaticato ed in debito di ossigeno nelle frasi lunghe richieste all’amoroso verdiano, sia sinceramente innamorato come Riccardo ed Ernani o perverso come il Duca. Amoroso verdiano che, scusate la ripetizione, non è il protagonista di un lavoro di mezzo carattere di Cimarosa e Paisiello o di un opéra comique di Adam o Boieldieu. Anche la sua “maniera” scenica è poco pertinente.
I due fratelli che lavorano al piano bar, salvo poi agire come tutti gli Sparafucile e Maddalena (Georg Zeppenfeld e Christa Mayer), che abitano la stamberga lungo il Mincio, sono un falso basso ed un falso mezzo soprano, oltre che i falsi ospiti, indispensabili al compimento della maledizione di Monterone.

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Tosca all'Arena di Verona: One woman show

La Tosca rappresentata ieri sera all'Arena di Verona aveva, sulla carta, almeno due motivi d'interesse: la presenza nel cast di "nomi" quali Daniela Dessì, ricondotta al Novecento dopo la zoppicante parentesi belliniana, e Marcelo Alvarez e la ripresa della regia di Hugo de Ana, peraltro già immortalata da un dvd areniano con Fiorenza Cedolins e il suddetto Alvarez. Stupisce quindi aver dovuto vedere la platea e le gradinate veronesi così sguarnite di pubblico, specie ora che, passato il maltempo, il tepore delle notti invita ai divertimenti all'aria aperta. Ma così è.
Inutile girarci intorno: ieri sera la performance della signora Dessì è stata l'unica ragione per seguire sino alla fine lo spettacolo areniano. Spettacolo che il pubblico ha del resto applaudito, alla fine, piuttosto alla svelta, e non certo per l'ora antelucana (a mezzanotte e trenta Floria si era buttata di sotto, o meglio, come vedremo, era stata assunta in cielo) ma per un senso di generale precarietà e scarso impatto della rappresentazione.

Giuliano Carella ha concertato senza eccessiva fantasia, qualche sbavatura (come da tradizione areniana) ma sempre con grande rispetto degli interpreti e delle loro esigenze, dovendosi armare di santa pazienza soprattutto con Alvarez, che particolarmente nell'assolo del terzo atto ha un po', come usa dirsi, fatto di testa propria in fatto di scansione musicale, con il direttore che aveva il suo da fare nell'accompagnare le intemperanze ritmiche e d'intonazione del tenore argentino. La voce baciata da Madre Natura non ha in Arena grande rilevanza, appurato che l'acustica permette alla voci di raggiungere gli spalti solo se queste ultime sono emesse e gestite come arte insegna e prescrive. Il che non è il caso di Alvarez, che scambia la vociferazione per generosità espressiva e risulta grosso, ma poco o punto sonoro, tanto che il Vittoria! Vittoria!, tenuto allo spasimo, dà luogo a una serie di suoni di ridotto volume e assai imprecisi dal punto di vista dell'intonazione. Nessun applauso a scena aperta per lui in un punto che, soprattutto in Arena, non usa lasciare indifferente il pubblico. La sortita è affrontata con piglio canzonettistico, il canto brilla generalmente per assenza di colori e sfumature che non siano i suoni malfermi e sbiancati propinati ad esempio in O dolci mani, che insistendo sul passaggio mette in impietoso rilievo le carenze tecniche di Marcelo. Per sottolineare quelle sceniche basta invece il duetto finale, durante il quale Alvarez barcolla come in preda al mal di mare. Pavarotti, altro conclamato sacco di patate, aveva se non altro la decenza di spostarsi il meno possibile.

Con siffatto sfascio la prova di Daniela Dessì, per quanto imperfetta, non può che contrastare fatalmente. La voce, più leggera per peso e consistenza rispetto a quella del tenore, arriva con facilità incomparabilmente maggiore, anche e anzi direi soprattutto quando la signora ha da cantare fuori scena, rectius sul retro dell'ingrombrante scenografia. Sonorissimi risultano i mi bemolle dei Mario! iniziali. Se la fascia acuta stride non poco e scende spesso a patti con l'intonazione (il do della lama, sebbene puntiforme, è comunque corretto), i centri hanno una solidità che sfida l'impatto del tempo e la naturale usura, risultando basilari per un Vissi d'arte che la Dessì, senza essere la grande fraseggiatrice che peraltro mai è stata, porta a casa con onestà e professionismo, un accorto dosaggio dei fiati e un apprezzabile impiego di pianissimi e mezzevoci. Bene fa il pubblico a chiederle il bis, prontamente concesso. Abbiamo invece qualche dubbio sull'opportunità di invocare la ripetizione di E lucevan le stelle, se non altro perché Alvarez ne approfitta per dar vita a un ignobile siparietto di arte varia: dapprima invoca un bicchier d'acqua, strabuzzando e roteando gli occhi rivolto al retropalco, e poi intercetta una bottiglietta che gli viene lanciata da un professore d'orchestra. Segue bis, puntualmente a squarciagola. Malinconico notare come, della generosità di altri tempi e ben altri interpreti, il simpatico Marcelo trattenga solo l'aspetto più becero: non perché siamo all'interno di un circo dovrebbe essere permesso a un artista lirico di fare il pagliaccio.
Per tornare alla prova della Dessì, se strappa la sufficienza per la performance strettamente vocale (vista anche la miseria del contesto), l'attrice è gravemente deficitaria. Pacifiche le origini popolane di Floria, ma la diva della Roma papalina dovrebbe star in scena con un minimo di allure e non sembrare la Rosetta di Rugantino in maschera per il Carnevale. Particolarmente fuori luogo il finale del secondo atto, in cui l'assassina del Capo della Polizia vaticana abbandona Palazzo Farnese ancheggiando come una soubrettina da poco entrata nelle grazie del capocomico.

Su Alberto Mastromarino, anche lui tutt'altro che un prodigio di finezza, possiamo dire solo che ne benediciamo la scarsa proiezione, che gli impedisce di rovinare fatalmente il finale primo. La voce, di per sé tutt'altro che piccola, giunge a tratti (una frase su cinque, in media): quanto basta a non volerne sentire di più. Quanto al secondo atto, abbiamo trovato semplicemente avvilente il suo "ringhio di conversazione". Il tanto vituperato Gobbi è, al paragone, un emulo di Battistini. Inudibili i comprimari, con l'eccezione di Nicolò Ceriani (Sciarrone), vocalmente più a fuoco del suo principale.

De Ana crea uno spazio astratto dominato da una gigantesca statua di San Michele Arcangelo, ridotta a puzzle. La chiesa sembra un magazzino invaso da vescovi, Scarpia cena su alcuni catafalchi (ricordo della Lucrezia Borgia scaligera) e alla fine Floria entra nella testa dell'Angelo per riemergerne subito dopo alla sommità, con notevole effetto plastico. Per il resto la scena è dominata da cannoni che sparano sovente (non solo all'annuncio della fuga di Angelotti) e ammennicoli religiosi di varia foggia e gusto, ivi compresa una croce a cui viene appoggiato Mario al momento della fucilazione. Misteriosa permane la presenza ai primi due atti di carabinieri che al terzo si mutano in ussari. Trovarobato di altissima classe, insomma, ma forse la disponibilità di uno scenario "naturale" come l'Arena meriterebbe maggiore sobrietà e più contenuti autoimprestiti. Posto che una regia, nel vero senso della parola, non c'è, come dimostra il confuso deambulare dei cantanti lungo lo stretto corridoio che funge da scena.

Antonio Tamburini (in collaborazione con Adolphe Nourrit)

Puccini - Tosca

Atto I
Recondita armonia - Renato Cioni
Mario! Mario! Mario! - Raina Kabaivanska & José Carreras
Tre sbirri, una carrozza - George London

Atto II
Ed or fra noi parliam da buoni amici...Vittoria! Vittoria! - Raina Kabaivanska, José Carreras & Renato Bruson
Vissi d'arte - Antonietta Stella

Atto III
E lucevan le stelle - Jaime Aragall

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giovedì 19 giugno 2008

Duchi di Mantova "belli e fatali"

E’ il prototipo del seduttore, senza scrupoli e, soprattutto, senza sentimenti, se non falsi, simulati e strumentali al proprio scopo. Seduttore per il gusto della seduzione, per placare la fame predatoria.
Nonostante l’unico momento di vero sentimento, rappresentato dalla sezione centrale dell’aria del secondo atto, queste sono le note caratteristiche del Duca di Mantova, che lo staccano da tutti gli amorosi verdiani. Gli altri amano e soffrono e, magari, muoiono per amore, lui per esercizio. Tanto è che trova anche una (scema?) che muore per lui.
E l’esercizio predatorio si spiega sempre ed ovunque nei confronti delle dame della sua corte, ovviamente coniugate, nei confronti di una ragazzetta agganciata in chiesa ( talvolta l'agnosticismo giova se non all’anima all’integrità fisica) e di una autentica e conosciuta donnaccia, che "lavora" per le vie e in una osteria, quanto meno di dubbia fama.
Nonostante la connotazione inequivocabile di eroe negativo le possibilità di esecuzione sono varie. Come, infatti, varia è la tradizione interpretativa del Duca di Mantova.
Infatti al primo esecutore Raffaele Mirate, che era un tenore centralizzante, aduso a ruoli cosiddetti drammatici e con una certa propensione al repertorio rossiniano, subito si affiancò il tenore di grazia rappresentato da Mario de Candia.
E il doppio canale è proseguito. Si pensi ai coevi Alessandro Bonci ed Enrico Caruso, paradigmatici delle due scuole di interpretazione, sino al nostro recente passato Alfredo Kraus contrapposto a Luciano Pavarotti.
Questo perché la scrittura del Duca, pur insistendo ostinatamente sul passaggio superiore non prevede ( salvo puntature fuori ordinanza) acuti estremi. Certo è che certe frasi del duetto d’amore in particolare "Ah due che s’amano son tutto un mondo", "sua voce è il palpito", sino al "Ah dunque amiamoci" dove le continue indicazione di ppp, di crescendo e stringendo e le forcelle incrementano le difficoltà, piuttosto che l’intera sezione centrale dell’aria del secondo atto, e l’intera scrittura della parte del tenore nel quartetto insistono nella zona mi3 sol3.
E se l’esecuzione deve essere completa ci sono pure alcuni passi di agilità alla stretta della cabaletta del secondo atto, oltre all’esigenza della ballata e della canzone di un canto sillabico facile ed alla presenza di cadenze originali al duetto con Gilda tutt’altro che elementari.
Non per nulla tenori poco ferrati tecnicamente come Giuseppe di Stefano, in una poco felice ripresa scaligera del 1954 o il recente Alagna scaligero dimostrano che il Duca o sa passare di registro o si strozza ed il suo canto non è ne seducente né predatorio, ma arrancato e faticoso.
Perché che si aderisca all’idea di una seduzione aggressiva e spavalda, incosciente e padana (nessun personaggio di Verdi è più padano del Duca) sia che si segua l’idea di un seduttore quasi perverso e laido il Duca deve saper cantare, legare e smorzare. Chi infatti deve piacere e conquistare lo fa solo con il canto a fior di labbro, sfumato e raffinato anche alle prese con una "da sbarco".
A questa raffinatezza esasperata, quasi femminea, in un personaggio che di femmineo ed efebico nulla ha risponde Giacomo Lauri Volpi. Sebbene ultracinquantenne e non troppo in regola con l’intonazione rende l’idea di quello che doveva essere il duca di tradizione ottocentesca dei grandi tenori. Interpretazione del Duca cui si attenevano, come dimostrano i reperti discografici tenori come Schipa, McCormack , Bonci ed Anselmi. Sorprende più di tutti Lauri Volpi perché, pur avendo debuttato come tenore di grazia si trasformò presto in tenore drammatico, sia pure lontano da stilemi vocali e gusto verista. Alla stessa idea di Duca si attiene in lingua russa, la cui marcata colorazione vocale in alfa, da un particolare misto di languore ed affettazione Kozlosky. Inutile dire che rispetta i segni di espressione e più ancora riesce ad essere al tempo stesso amoroso nel recitativo e nella sezione centrale della grande aria del secondo atto, conclusa con una cadenza spettacolare, che se non sbaglio porta la voce al re bem.
Dotati tutti di voce bellissima, gradevole, insomma, superdotati in natura Aragall, Bjoerling, Pavarotti indulgono un poco più al compiacimento del loro eccezionale strumento rispetto gli altri Duchi che proponiamo.
Basta raffrontare il recitativo di Bjoerling e quello di Kozlovsky ed il risultato non cambierebbe nel raffronto Pavarotti Schipa. E’ quella del cesello dell’eleganza la strada obbligatoria delle voci meno dotate in natura con l’irrinunciabile presupposto di una tecnica scaltrita e di una fantasia quanto meno varia.



Gli ascolti

Verdi - Rigoletto


Atto I
Questa o quella - Jaime Aragall
E' il sol dell'anima - Giacomo Lauri-Volpi & Lina Pagliughi

Atto II
Ella mi fu rapita...Parmi veder le lagrime - Jussi Bjoerling, Ivan Kozlovsky

Atto III
La donna è mobile - Luciano Pavarotti
Un dì se ben rammentomi...Bella figlia dell'amore - Gianni Raimondi, Leyla Gencer, Cornell MacNeil & Carmen Burello

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martedì 17 giugno 2008

Grandi concerti di canto: Shirley Verrett alla Scala (1980)

Quando si presentò alla Scala il 5 febbraio 1980 Shirley Verrett poteva anche avere qualche motivo di preoccupazione.
Amatissima dal pubblico scaligero sin dalla sua prima apparizione nel don Carlos del 1970, aveva riscosso successi trionfali in Stuarda, Sansone e Dalila e soprattutto Macbeth, ma era stata duramente riprovata sia in Ballo in maschera (una di quella serate nate male e proseguite peggio) e soprattutto in un concerto era stata maltrattata dopo un’esecuzione della cavatina di Rosina da parte di un gruppo di loggionisti. Poi i loggionisti nello stesso concerto la portarono in trionfo dopo l’esecuzione dell’aria del quarto atto di Forza del destino e oggi quelli stessi ed altri farebbero salti, nonostante l’età non più verde, per quella Rosina!!!!
Credo che la precedente disavventura avesse dettato alla Verrett il programma.

Programma che evita qualsiasi bis operistico popolare (che, invece, la cantante proporrà nel concerto del 1982). Il concerto però apre con tre arie di Pergolesi, di cui una “Confusa smarrita” cult di Teresa Berganza in esecuzione Parisotti e letterale, e che la Verrett riporta all’aria di opera seria con interventi sul testo forse non tutti pertinenti stilisticamente (odore di Rossini, tanto), ma con un mordente ed uno slancio veramente trascinanti. Un’esecuzione così potrà non piacere ed essere tacciata di scarso rispetto della filologia da parte baroccara, però, perché la Verrett coglie perfettamente lo spirito barocco dei passi, quell’arte della meraviglia senza la quale gli eroi d’ambo i sessi del melodramma non sono tali.
Che poi la Verrett cambi assolutamente registro alle prese con le pagine degli spirituals è scontato come è scontato che ne sia un’esecutrice molto elegante. Se è consentita la battuta, un po’ bianca di carnagione. Senza affettazioni, ma anche senza il sapore di canto religioso popolare, che emerge dall’esecuzione di Grace Bumbry, l’altra grandissima voce ambigua del deep south americano. Differenza vocale in primo luogo perché il tempo ha dimostrato l’inossidabilità, la saldezza dei mezzi vocali della Bumbry, nonostante l’andare e venire, anche lei, dal repertorio del mezzo a quello del soprano affrontato senza risparmio.
Eleganza e misura, priva però di affettazione ed espressione sincera e spontanea connotano le esecuzioni sia di Schubert, che di Poulenc. Anche questo deve essere sottolineato. Come la Bumbry e Leontyne Price si riallaccia all’idea che è poi quella della tradizione tedesca pre bellica ( e pre Schwarzkopf e Fischer-Dieskau) che anche per il Lied occorra voce, sonorità ed ampiezza e che la parola non sia superiore alla musica.


Shirley Verrett, mezzosoprano
Warren George Wilson, pianoforte


Teatro alla Scala, Milano
5 febbraio 1980


Pergolesi: Catone in Utica - Confusa, smarrita
Pergolesi: Il Flaminio - D'amor l'arcano ascoso
Pergolesi: Serbi l'intatta fede

Schubert: Gretchen am Spinnrade
Schubert: Seligkeit
Schubert: Ganymed
Schubert: An die Musik
Schubert: In der Ferne

Diamond: David mourns for Absalom
Barber: Crucifixion
Guion: I talked to God last night

Poulenc: A sa guitare
Poulenc: Adeline à la promenade
Poulenc: C'est ainsi que tu es (con bis)
Poulenc: Vous n'écrivez plus?
Poulenc: Sanglots
Poulenc: Air vif
Poulenc: Les papillons

Massenet: Hérodiade - Il est doux, il est bon

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domenica 15 giugno 2008

Buon compleanno, dottor Celletti

Fosse vivo, in questi giorni Rodolfo Celletti compirebbe 91 anni. Vista l’opinione che taluni frequentatori hanno del nostro rapporto con Rodolfo Celletti è un dovere ricordarlo.
Ho già avuto occasione di scriverlo: Rodolfo Celletti non è stato un unicum nella storia della critica musicale e vocale in particolare. I suoi insigni predecessori si chiamano Paolo Scudo, Gino Monaldi ed Eugenio Gara, ma, più in generale, basta leggere le pagine dei quotidiani degli anni ’20 e ’30 (l’epoca di formazione di Celletti) per leggere, in sede di recensione degli spettacoli operistici, critiche dedicate, per la loro maggior parte, all’esecuzione vocale. E d’altra parte non poteva essere diversamente, trattandosi di una rappresentazione operistica.
Piacesse o meno Celletti era chiarissimo nell’esprimere la propria opinione. Metafore, mezzi termini, detti e non detti erano assolutamente estranei al suo vocabolario ed al suo modo di scrivere.
Gli elogi e le stroncature erano, però, sempre motivati. Motivati dal generalissimo principio che il canto richieda cognizioni di base, come qualsivoglia attività professionale e solo chi ne disponga possa essere prima un professionista ed, in alcuni casi un artista. Nella mente e nello scritto di Rodolfo Celletti artisti non professionisti solidi non potevano esistere. E se esistevano non duravano in carriera.
Il principio, ci sembra assolutamente inoppugnabile. I successori e detrattori di Celletti non sono stati in grado di proporre principi ermeneutici ugualmente validi, sempre e comunque.
Riportiamo, riferito a Rodolfo Celletti, il parere ben più illustre del nostro di Alberto Zedda e soprattutto abbiamo ritenuto giusto e più coerente omaggio lasciar parlare Celletti stesso in due brevissimi stralci della trasmissione “Albo d’oro della lirica”, trasmissione che occupava la domenica sera radiofonica, dalle 20 alle 21, e che dovrebbe essere di esempio a chi, oggi, fa disinformazione e denigrazione dalla stessa sede pubblica.

Ricordo di Rodolfo Celletti

Ogni scritto di Rodolfo Celletti era un avvenimento da non perdere: steso in ottimo italiano, lucido e personalissimo, ornato con aggettivazione colta e fantasiosa, percorso da un‘ironia intelligente e simpaticamente malefica... Il soggetto riguardava quasi sempre il canto, trattato con lo stesso ispirato fervore impiegato da Agostino per esaltare le virtù della grazia divina.

Celletti descriveva e teorizzava qualità e artifici vocali sconosciuti ai melomani che frequentavano allora i loggioni dell‘universo mondo: trilli d‘ogni sorta, di forza, di gorgia, toscani, semplici e rinforzati; messe di voce brevi o interminabili, di sola andata in crescendo o con ritorno al sussurro; canto passeggiato o sprezzato, di garbo o concitato; gruppetti, mordenti, puntature, roulades, salti abissali, passaggi d‘agilità mozzafiato, nobili fraseggi sul fiato, legati morbidi e conturbanti, pianissimi e mezze voci seducenti come
carezze notturne...

Molti pensavano che Celletti descrivesse un paradiso perduto, utopico e nutrito dello stesso struggente rimpianto con cui il poeta dipinge l‘Eden dei progenitori. Stupiva che parlasse di canto con lo stesso convinto entusiamo impiegato dai Trovatori per propagandare l‘amor cortese. Certo, chiosavamo noi giovani, la passione di Don Chisciotte per Dulcinea estasiava e commoveva, però...

Poiché molti degli artisti che amavamo e che accendevano grandi emozioni cantando Verdi, Donizetti, Puccini, Wagner, non erano in grado di produrre i coloriti vocali da lui magnificati, il giudizio di Celletti a loro riguardo era duro e sprezzante, accusati di appartenere alla scuola del muggito, alla cultura rozza e primitiva dei picchiatori del ring. Questo un poco ci indignava, perchè ci sembrava che anche in assenza delle prodezze auspicate, essi arrivassero a cogliere degnamente la sostanza delle partiture interpretate, ma si finiva sempre col perdonargli affettuosamente la temerarietà delle sentenze, come affettuosamente si tolleravano dall‘amico sacerdote le accorate raccomandazioni alla sobrietà e alla castità.....

Tutto ciò accadeva quando la nostra cultura operistica era quasi esclusivamente incentrata sul repertorio tardo-romantico-verista, laddove eccessi iperbolici, passioni furibonde, odi insanabili erano sospinti al diapason dell‘intensità emotiva, al confine della follia, e il canto di forza, il grido primordiale, il gesto enfatico, la sottolineatura retorica, l‘acuto ginnico-erotico apparivano lessico appropriato per rendere e comunicare i sentimenti incandescenti evocati dalla musica. Quando, ubriachi e stanchi di pseudo romanticismo viscerale, abbiamo cominciato a guardare oltre il repertorio di fine ottocento e primo novecento riscoprendo i tesori musicali di Monteverdi, Cavalli, Bach, Haendel, Vivaldi, Mozart, Rossini, Cherubini, Spontini, Bellini, Donizetti, abbiamo finalmente compreso l‘importanza immensa della lezione cellettiana.

Per acquisire la nuova esperienza, hanno aiutato l‘impeto tragico, classicamente composto e stilisticamente corretto, di Maria Callas; le regie colte e provocatorie di Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Luca Ronconi; le letture musicali geniali e iconoclaste di Claudio Abbado; e l‘inedito e massiccio travaso di un nuovo pubblico cultore della musica pura, sinfonica e concertistica, dalle ovattate sale da concerto ai tumultuosi luoghi della lirica, fino ad allora frequentati esclusivamente dai passionali amici dell'opera. Ha contribuito, ancora, la
comparsa delle edizioni critiche di opere liriche, che hanno imposto a pubblico e interpreti una nuova prospettiva musicologica attenta ai valori della filologia e favorito la messa a punto di comportamenti interpretativi in linea con la cifra estetica delle opere riproposte. Ma è stata la tenacia di Rodolfo Celletti e dei suoi seguaci a vincere definitivamente la partita. Le opere preromantiche o protoromantiche, dove il canto regna sovrano sovra ogni altra componente dello spettacolo, cantate seguendo i canoni del realismo verista (modello applicato anche quando di tanto in tanto venivano riproposte in tempi passati), suonavano deboli e lontane, estranee al gusto e alla cultura dell‘ascoltatore, incapaci di trasmettere emozioni profonde. Solo quando si cominciò a recuperare la civiltà vocale di estrazione barocca e si fu in grado di ricreare l‘alato virtuosismo dei divi del Belcanto, si poté apprezzarle e coglierne appieno il messaggio.

Fu chiaro, d‘improvviso, che gli artifici necessari per piegare la voce alle nuove esigenze espressive erano quegli stessi descritti con tanta passione e competenza da Celletti, troppe volte accolti con sufficienza o sogguardati come manifestazioni di fanatismo snobistico. Senza la sua lezione, oggi finalmente diventata cultura corrente, non ci sarebbe stata la Rossini renaissance, né le opere di Mozart risuonerebbero con tanta frequenza e favore, né circolerebbero melodrammi barocchi e neoclassici, e neppure si potrebbero ascoltare con profitto i lavori del primo Verdi, del Bellini e Donizetti drammatico, dei tanti interessanti epigoni e precursori del rossinismo. Non sono stati i musicologi a rendere possibile questa rivoluzione del gusto: sono stati i maestri e gli artisti che hanno compreso che gli insegnamenti di Rodolfo Celletti non erano nozioni settoriali e personalistiche, bensì il codice per accedere a un linguaggio capace di interpretare il nuovo corso: chi ha saputo metterli in pratica vive l‘attualità e anticipa il futuro.


Alberto Zedda

GG & DD

Albo d'oro della Lirica - Rodolfo Celletti & Giorgio Gualerzi - Mattia Battistini
Albo d'oro della Lirica - Rodolfo Celletti & Giorgio Gualerzi - Enrico Giraldoni & Rosina Storchio

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Stagioni prossime venture: Festival Verdi 2008


E' stato da poco presentato il cartellone del prossimo Festival Verdi, che si terrà fra Parma, Busseto e Reggio Emilia nel mese di ottobre 2008.
Questi gli appuntamenti operistici:

Giovanna d’Arco

Carlo VII - Evan Bowers
Giacomo - Renato Bruson
Giovanna - Svetla Vassileva
Delil - Luigi Petroni
Talbot - Maurizio Lo Piccolo

Direttore - Bruno Bartoletti
Regia - Gabriele Lavia

Rigoletto

Il duca di Mantova - Francesco Demuro
Rigoletto - Leo Nucci/George Gagnidze
Gilda - Desirée Rancatore/Nino Machaidze
Sparafucile - Marco Spotti
Maddalena - Stefanie Irányi

Direttore - Massimo Zanetti
Regia - Stefano Vizioli (dallo spettacolo di Pierluigi Samaritani)

Il Corsaro

Corrado - Bruno Ribeiro/Salvatore Cordella
Medora - Irina Lungu
Seid - Luca Salsi
Gulnara - Silvia Dalla Benetta

Direttore - Carlo Montanaro
Regia - Lamberto Puggelli

Nabucco

Nabucco - Anthony Michaels-Moore
Ismaele - Mickael Spadacini
Zaccaria - Carlo Colombara
Abigaille - Dimitra Theodossiou
Fenena - Daniela Innamorati

Direttore - Michele Mariotti
Regia - Daniele Abbado

Posti di fronte a un cartellone del genere ci assale la domanda che certo avrà turbato per lungo tempo il sonno degli organizzatori del Festival: quali caratteristiche deve possedere la voce verdiana? Domanda non peregrina, in un'epoca in cui regna una così grande confusione circa peso specifico caratteristiche delle voci e accento degli interpreti, massime se si considera che parecchi dei convocati esordiscono di fatto nel repertorio del Cigno di Busseto (anzi, alcuni esordiscono tout court) e provengono da ambiti affatto diversi, nel campo della lirica e non solo. Quali dunque i modelli, per un canto che voglia essere rispettoso di quanto previsto dalla scrittura verdiana? Riteniamo che alcuni ascolti possano favorire una riflessione in merito.

G. Verdi
Aida - Atto IV - Già i sacerdoti adunansi - Ebe Stignani & Beniamino Gigli
Giovanna d'Arco - Atto I - Dunque, o cruda, e gloria e trono - Carlo Bergonzi & Renata Tebaldi
Un ballo in maschera - Atto I - Che v'agita così? - Anita Cerquetti, Ebe Stignani & Gianni Poggi
Otello - Atto II - Era la notte - Victor Maurel

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venerdì 13 giugno 2008

In Sehnsucht plauditorem.

Agiografia ed arte sono sempre state fra loro pessime compagne. L’agiografia nella accezione di valutazione acritica o è compra o è cieca ed ignorante, tanto da non consentire di vedere ed udire con un minimo di discernimento.
Se la perfezione è esistita in un esecutore di opera o di musica lo è riferita ad un autore o ad una estetica musicale. Kirsten Flagstad era assoluta nei ruoli wagnerani, Marilyn Horne in quelli di Rossini. La prima, una volta divenuta la Flagstad non cantò altro repertorio, l’altra nei suoi approcci a Verdi e all’opera francese è stata o censurata o ritenuta una qualsiasi.
E ciò basterebbe quale replica all’intervento di Sehnsucht, che abbiamo, come sempre anche con chi non condivide la nostra opinione e, magari difetta un poco in buona educazione e maniere, nel nostro blog pubblicato


E lo pubblichiamo in uno con l’esecuzione dell’aria della campanelle di Lakmé , dove una allora ingiustamente sconosciuta Mariella Devia monta in cattedra versando nel repertorio che le era e le sarebbe ancora congeniale, ossia quello della chanteuse a roulades.
Amare, stimare, considerare un cantante, assumerne la levatura storica va bene ed è legittimo, ma non può essere acritico ed astorico. Altrimenti scade nel fanatismo e si incorre in scivoloni scrivendo “Ella le riconosce la facilità assoluta degli insidiosi la bem della aria Aah forse lui, riproposta nella versione integrale, ma le attribuisce un Amami Alfredo slentato e parla di toni elegiaci in Alfredo, Alfredo”.
Questa è una frase da fans. Un conto caro Sehnsucht è elogiare l’esecuzione strettamente vocale di un passo non agevole, facile, perché supportata da grande cognizione tecnica, e l’altro è cantare correttamente e con quadratura tecnica, mancando, però, completamente il personaggio e la situazione drammatica. In Traviata, nonostante i tentativi di far credere il contrario, di elegia non ne abbiamo né poca e ne punto.
Ancora sempre, spostato dall’idea che non possano esistere esigenze vocali specifiche per un autore o ad un ruolo, ma convinto che si può e si deve cantare tutto, Sehnsucht scrive : “ Vede Ella non ha apprezzato neppure Stuarda neppure Bolena e mi meraviglio che addebiti alla Signora Devia proprio carenze vocali , mentre definisce la sua tecnica saldissima ed esemplare”.
Un aspetto è la tecnica, altro sono volume, ampiezza ed accento che , precipue in zona medio-grave Bolena, Borgia e Stuarda richiedono. Le rammento che allorchè Joan Sutherland incise ed interpretò Borgia e Stuarda le vennero rimproverate tutte queste carenze. E si trattava di una voce quanto meno di soprano cosiddetto lirico spinto per usare una terminologia oggettiva.
Quanto poi ad alcune affermazioni tipo la “voce sublime” non sarò certo io ad insegnarle che le voci sublimi sono altre e lo sono per dote naturale di velluto, smalto e colore. Specifiche alquanto estranee alla signora Devia, soprattutto nella zona centrale, che ha sempre presentato scarse attrattive naturali (per forza, è un cosiddetto soprano leggero) ed il cui miglioramento è avvenuto solo negli anni ’90. Anche qui, caro Sehnsucht, la storia del canto è ricca di voci con limiti naturali. Leggere non tanto Stendhal a proposito della Pasta, ma e soprattutto Monaldi riferito ad Erminia Frezzolini. E già che di Monaldi si parla legga pure quanto scrive su Adelina Patti. Non serve Vico per parlare di corsi e ricorsi storici!
Non solo, ma atteso l’invito ad ascoltare il “dite alla giovine” o il “ se una pudica vergine” come miracoli vocali non posso esimirmi dal rilevare come nell’esecuzione del 9 giugno u.s. eravamo ben lontani dalla adamantina purezza della Lucia non già quella del 1992, ma anche la recente del 2006 e dall’invitarla ad ascoltare due soprani leggeri quali Beverly Sills e Frieda Hempel nello stesso passo e fare, se obiettività consente, il dovuto confronto.
Ancora quanto all’eleganza scenica della signora Devia sono ben felice di accordarglielo, a condizione che Violetta Valery sia una signora della buona borghesia, che presenta in società figliole o nipoti. La mantenuta di alto bordo richiede ben altro, a partire dal modi di porgere la mano o di guardare un uomo.
Un ulteriore chiosa, che è opportuno spiegare, credo, ho parlato di “parabelcantismo “ e non di belcanto. Il belcanto, come estetica musicale e non solo come scrittura vocale e musicale, finisce con Semiramide. Non è una mia opinione e neppure, come ben so qualcuno sarebbe già pronto a dire di Rodolfo Celletti, ma di Scudo, Panofka e, soprattutto di Rossini.
Bellini e Donizetti, come certo Verdi sino ai Vespri, l’opera francese, ereditano alcuni mezzi espressivi, ma non richiedono l’accento scandito, la vocalizzazione di forza e l’esibizione virtuosistica con fini espressivi ( gli accenti nascosti della coloratura ) tipiche di Rossini. Mariella Devia ha sempre brillato, come tutti i soprani leggeri, nelle agilità di grazia, nei suoni flautati, indispensabili per emettere re nat e mi bem, nell’accento elegiaco. Siccome bisogna dimostrare, le accludo il rondò della Donna del Lago della signora Devia in parallelo con quello di una voce certo meno estesa nei sovracuti ( che in Rossini non servono, specie se emessi flautati), ma dall’accento scandito e dal vero virtuosismo di forza, pur con un volume limitato. Si tratta di Lella Cuberli.
Esattamente come ritengo opportuno proporre il confronto con Luciana Serra nell’aria di Zerlina del Fra’ Diavolo di Auber per toccare l’argomento dei ruoli comici, che nella resa interpretativa della Devia hanno destato più d’una perplessità.
Come pure la grandezza di Violetta non dipende dall’avere eseguito ab integro la parte. In questo senso mi permetto di ricordarLe che due Violette, assolutamente storiche, come la Callas e l’Olivero, eseguirono sempre Violetta coi tagli di tradizione. E per andare ad altro repertorio, per il quale oggi si esige l’integralità, Maria Callas e lei sola è Armida, nonostante i tagli. Copiosi ed alcuni incomprensibili.
E qui mi fermo, precisando solo che i posti venduti per l’ingresso in loggione la sera del 9 erano circa 120 in luogo dei disponibili 140, che in platea c’erano poltrone libere e i palchi presentavano qualche “forno”, per utilizzare un’espressione gergale del loggione. Almeno questo è quello che ho visto io, nella mia posizione di spettatore che ha acquistato il proprio biglietto di loggione, dopo la canonica coda.
Mi spiace e lo dico chiaramente questa risposta per la stima nei confronti di Mariella Devia. Senza la sua tecnica e la sua disciplina non si canta alla sua età. E questo è già un merito, come lo fu per Mirella Freni
Il teatro ha bisogno di molte Mariella Devia, in ogni registro della voce femminile, ossia di professioniste solidissime sotto il profilo tecnico, di cantanti, che, quando incontrano il personaggio, che coincide con al propria vocalità e la propria sensibilità, come per la Devia con Elvira dei Puritani, lucrano successi trionfali, non quelli della scorsa sera in Scala, perché la perplessità non era rara per il teatro in ogni suo ordine di posti. Il teatro e la storia dell’opera, invece, non hanno bisogno di interpreti che da un decennio sono protese a far credere che Imogene, Lucrezia e Bolena abbiamo la voce, il tonnellaggio e l’accento di Olympia o di Margherita di Navarra. Perché in questi e consimili ruoli, Mariella Devia sarebbe cantante ed interpreti di levatura storica. Ed in fondo di chanteuse a roulades di questa levatura la storia ne annovera una decina. E se vuole, caro Sehnsucht, gliele elenco anche. La prossima volta.



Gli ascolti

Auber - Fra Diavolo
Atto II - Non temete Milord...Or son sola - Mariella Devia, Luciana Serra

Bellini - I Capuleti e i Montecchi
Atto II
- Ah, non poss'io partire - Renata Scotto, Mariella Devia

Delibes - Lakmé
Atto II
- Où va la jeune indou - Mariella Devia

Rossini - La donna del lago
Atto II
- Tanti affetti in tal momento - Lella Cuberli, Mariella Devia

Rossini - La pastorella delle Alpi - Joan Sutherland, Mariella Devia

Verdi - La traviata
Atto II
- Dite alla giovine - Beverly Sills, Mariella Devia




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mercoledì 11 giugno 2008

Meyerbeer e la sua Fidès, la voce protagonista.


Frutto di 6 anni di lavoro intenso Le prophète fu opera per lungo tempo al centro dell'attenzione del mondo musicale. La prima rappresentazione all'Opéra di Parigi nell'aprile del 1849 e quella di poco successiva a Londra (in italiano), con Pauline Viardot come Fidès e nel ruolo di Jean di Leyda Gustave Roger a Parigi e a Londra il celebre Mario, furono enormi successi che guadagnarono a Meyerbeer ammirazione ed onore, in Italia quella di Giuseppe Verdi per esempio, che terrà sempre in grande considerazione questo lavoro, mentre le rappresentazioni in Germania scatenarono reazioni opposte, ossia lo sdegno di Schumann e Wagner, che di lì a poco pubblicò il libello Il giudaismo in musica in cui inveiva contro Meyerbeer.

L'opera rimase stabilmente in repertorio fino ad almeno gli anni 20, meno riproposta forse de Les Huguenots, ma ugualmente adatta ad essere veicolo per riunire una grande compagnia di canto, un grande direttore d'orchestra, insomma per creare un grande allestimento, nella migliore tradizione del Grand-Opéra francese.
Fra le prime parti, la vera protagonista dell'opera possiamo dire sia Fidès, la madre del profeta del titolo, Jean de Leyda. Si tratta di una figura dalle molte sfaccettature, madre benevola, figura patetica nei primi atti, negli ultimi due invece imponente e maestosa. Non è difficile vedere in Fidès i tratti che possono aver ispirato a Verdi l'Azucena del Trovatore, che Verdi appunto voleva come vera protagonista della sua opera, come lo è Fidès nel Prophète. A lei Meyerbeer affida molti momenti pregevoli nella partitura, dal primo duetto con Berthe all'arioso Ah, mon fils, dall'invettiva del finale IV a tutto il V atto composto da una grande scena di bravura per Fidès, un duetto madre-figlio, un terzetto con Berthe e il finale all'unisono con Jean de Leyda. Parte dalle grandi richieste e possibilità, da grandi primedonne, cui è richiesto non solo di reggere la lunghezza dell'opera, ma soprattutto di affrontare una tessitura non agevole (due ottave e mezza, dal la grave toccato con frequenza a si naturali e do) e di dover affrontare l'ampio orchestrale meyerbeeriano. Una parte insomma solo per grandissime cantanti, come era appunto Pauline Viardot, la prima interprete, e come altre grandi detentrici del ruolo quali Adelaide Borghi-Mamo, Marie Delna, Marianne Brandt, Ernestine Schumann-Heink, Louise Homer, Margarethe Matzenauer, Marilyn Horne e che sarebbe stata perfetta anche per altri grandissime cantanti come Ebe Stignani, Fiorenza Cossotto, Grace Bumbry.

La grande scena di Fidès, O prêtres de Baal, che segue il classico schema recitativo - aria - cabaletta, scritta e pensata per le doti virtuosistiche di Pauline Viardot, richiede alla primadonna tutte le sue doti interpretative e canore, spaziando con facilità dal grave estremo all'acuto e viceversa, con ovvie richieste di dinamica, una notevole quantità di agilità, volatine ecc, ossia l'arsenale della grande scena virtuosistica della Primadonna. Vale la pena notare che, forse conscio di avere a sua disposizione una primadonna non comune, Meyerbeer stesso inserisce numerose varianti all'interno della scena, che lui stesso marca come facilitations pour les personnes pour lesquelles les vocalises ci-après seraient trop difficiles.

La prima testimonianza discografica della scena in questione è lasciata da Louise Homer, che fu interprete del ruolo anche al Metropolitan di New York accanto a Caruso e alla Muzio, e che era solita inserire spesso nei propri concerti la grande scena di Fidès. Nonostante qualche acuto fisso abbiamo una prova pregevolissima, in cui si apprezza soprattutto il registro grave ben timbrato e si nota una notevole facilità in zona acuta, come testimonia l'esecuzione della cabaletta. Un limite della Homer probabilmente è il confronto con le illustri colleghe come Ernestine Schumann-Heink della quale non aveva il gusto e la rifinitezza tecnica e di stile, nella Homer un po' troppo tendente al romantico.

Grandissima Fidès invece è stata soprattutto Ernestine Schumann-Heink, come testimonia l'ascolto, in cui la voce risulta bella, morbida, i gravi perfettamente timbrati e saldati al resto della voce senza soluzione di continuità, la Schumann-Heink è esimia vocalista e lo dimastronano i suoi trilli perfetti e il legato d'alta scuola, vale la pena notare anche l'espressione dolce e nobile e la grandissima attenzione ai segni d'espressione, puntualmente rispettati, come nel recitativo in cui il tono irato ed inciviso lascia subito il posto a piani di dolcezza veramente materna che si ritrovano intatti nell'aria, dove ogni singolo accento o indicazione dinamica di Meyerbeer sono rispettati alla perfezione. Gli unici difetti che potremmo trovare sono la fissità in qualche passo del registro acuto e il mezzo di incisione difficoltoso, ma dall'ascolto è facile riconoscere in Ernestine Schumann-Heink un sicuro modello per Marilyn Horne.

Di un decennio successive l' incisione ad opera di Jacqueline Royer, voce che si percepisce ampia, dalla zona medio-bassa sicura, ancorchè un po' generica, che esegue tra l'altro solo la sezione centrale, O toi qui m'abandonne.

Interessantissimo è l'ascolto di Sabine Kalter, esimia wagneriana e celebre Brangaene accanto a Kirsten Flagstad, qui alle prese con Meyerbeer e il Belcanto. La voce non bellissima ma decisamente solida, si piega senza difficoltà a sfumature e al virtuosismo della cabaletta, nonostante qualche semplificazione, mostrando acuti sicurissimi e lucenti e registri molto omogenei. Decisamente una wagneriana poco declamante e molto adusa alle regole del Bel Canto.


Del 1929 è poi la testimonianza di Sigrid Onégin, insieme alla Schumann-Heink e alla Horne, la più grande Fidès preservata dal disco (col vantaggio, rispetto alla Horne, di una voce di grande qualità timbrica e singolare ampiezza), ed una eccezionale cantante nella storia dell'Opera. In lei possiamo ravvisare una sorta di Ebe Stignani ante litteram tanta è la maestria della tecnica di canto unita a mezzi eccezionali. Nella Onegin la voce è sempre morbida e timbrata, il suono omogeneo e facile in tutti i registri, sia negli estremi acuti che nelle discese al grave, tutta la tessitura è dominata con facilità irrisoria. Ne abbiamo prova nell'aria dove le discese al la grave delle prime frasi sono omogenee al resto della voce, stesso dicasi per la facilità con cui la Onegin sale ai do nella cabaletta, privi di alcuna fissità ravvisabile in altre colleghe del periodo, anzi lucenti e morbidi, come tutta la zona acuta. Una prova storica che ci mostra una grandissima belcantista.

Nella seconda metà del 900, persa l'occasione di sentire la Fidès di Ebe Stignani, è Marilyn Horne a riportare in auge il titolo meyerbeeriano, cui ha sempre dedicato grande attenzione, avendo inciso le arie negli anni 60 per la Decca, presentato l'opera intera alla RAI nel 1970, avendola incisa per la CBs nel 1976 e avendola riportata al Metropolitan dopo quasi 50 anni con una nuova produzione nel 1977 e nel 1979. Alle prese col ruolo di Fidès, che richiede una voce che la Natura non le aveva fornito, soprattutto per ampiezza, la Horne agisce con la consueta maestria ed intelligenza, riuscendo ad "inventarsi" ogni suono per costruire una Fidès che senza esitazione si può definire storica. Allo stesso modo che nelle cantanti antiche anche nella Horne l'emissione è sempre morbida, i suoni costantemente omogenei, sfrutta poi il proprio timbro chiaro a fini espressivi lasciandosi a momenti di grande dolcezza nell'aria, preceduta da un recitativo scandito e maestoso come richiesto (Frappe, frappe, toi qui punis tous les enfants ingrats). Nella cabaletta il virtuosismo è come al solito impeccabile, eccetto qualche acuto stridulo, come i due do delle volatine, perfetto però nell'alternanza fra registro acuto e grave. Una prova monumentale alla cui riuscita partecipa anche Henry Lewis, egregio direttore e grandissimo accompagnatore, che fa cantare l'orchestra insieme alla Horne, senza esserle mai di difficoltà.

Dopo Marilyn Horne a cimentarsi con Fidès sono altre due primedonne, nel 1998 alla Wiener Staatsoper, dove viene eseguita una edizione critica dello spartito con l'aggiunta di alcuni passi originali che nulla aggiungono di sostanziale, perlomeno alla grande scena di Fidès, che rispondono al nome di Agnes Baltsa e Violeta Urmana, la prima diva DG ormai sul proprio Sunset Boulevard e la seconda promettente stella della lirica (all'epoca) ancora in vesti mezzosopranili prima di tentare il volo come soprano.
Agnes Baltsa fin dal recitativo ci catapulta nel più bieco verismo, la madre ora maestosa ora dolce lascia il passo ad una orrenda megera che sbraca i suoni in basso alla ricerca di una consistenza di suono che sostanzialmente non c'è mai stata. Nell'Andantino la voce si spezza, impossibilitata a mantenersi omogenea, l'emissione è quasi sempre di petto, l'accento forzato, i suoni in zona medio alta quasi sempre aciduli, più che cantabile l'aria diventa decisamente un passo declamato in cui ogni nota ha una voce diversa e che viene conclusa da una cadenza sbracata in basso e gridata in alto. Tagli copiosi intervengono nella cabaletta a salvare la cantante e gli ascoltatori estirpando la maggior parte delle agilità e dei vocalizzi, comprese le volatine al do, lasciando quelle che rimangono ad un'esecuzione imprecisa accompagnata dalle consuete grida aquiline.
Secondo cast di questa Fidès dicevamo era la giovane Violeta Urmana, ancora nella fase mezzo-sopranile della carriera in cui la voce era sostanzialmente fresca (non depauperata come nelle recenti esibizioni) senza comunque essere di materiale pregiato o capace di chissà quale ampiezza. Alle prese con la grande scena di Fidès alcuni difetti che poi sono andati degenerando invece che essere risolti, si sentono già tutti, come i gravi poco timbrati accompagnano una zona medio acuta fibrosa, mentre si rileva che gli acuti risultano più facili anche se a volte gridacchiati. Un peccato che i problemi tecnici non siano mai stati risolti a danno non solo della cantante ma anche del pubblico.

Appare chiaro infine che una scrittura simile non permette che si bari con essa, lasciando solo alle grandi cantanti la possibilità di servirsene come mezzo per far sfoggio della propria maestria tecnica e artistica.

Gli ascolti

Meyerbeer - Le prophète

Acte V


Scène, Cavatine et Air de Fidès

O prêtres de Baal...O toi qui m'abandonne...Comme un éclair

1903 - Louise Homer
1907 - Ernestine Schumann-Heink
1915 - Jacqueline Royer
1921 - Sabine Kalter
1929 - Sigrid Onegin
1970 - Marilyn Horne
1998 - Agnes Baltsa
1998 - Violeta Urmana

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