martedì 6 gennaio 2009

Joyce DiDonato canta Haendel: molto Furore... per poco

È di recente uscita il primo recital in studio di Joyce DiDonato, basato su pagine del repertorio haendeliano, vuoi operistiche vuoi oratoriali. Nell’autunno del 2007, scrivendo di un’Alcina milanese da altri salutata come l’avvento di una nuova stella Barocca, avemmo occasione di esprimere dubbi sulla tenuta e vocale e interpretativa di quella lettura. Dubbi che oggi si presentano corroborati e rafforzati dall’ascolto di questo cd, il cui titolo, “Furore”, si riferisce non solo alla mente sconvolta di eroi ed eroine del melodramma settecentesco, ma anche all’entusiasmo che castrati e primedonne suscitavano nel pubblico dell’epoca, fenomeno che il disco dovrebbe propiziare nei riguardi della cantante americana. Ora, se del primo “furore” il disco fornisce esempi doviziosi e perfino sovrabbondanti, l’epifania del secondo è ostacolata da un canto che per intrinseca qualità e rigore di aderenza stilistica si colloca su posizioni di marcata, sia pure involontaria, retroguardia. E questo malgrado – o forse dovremmo dire: complici? – un’orchestra e un direttore di lungo corso baroccaro (Christophe Rousset alla guida dei suoi Talens Lyriques).

I quattordici brani scelti si caratterizzano tutti per una scrittura marcatamente centrale, che insiste sulla fascia mi3-fa4, con rare escursioni al di sotto del pentagramma e il la4 come nota estrema: insomma, pane per un mezzosoprano acuto o per un soprano centrale. La scrittura è quanto mai varia: a pezzi di bravura ampiamente fioriti (che la prassi impone di variare copiosamente nei da capo e in coincidenza con i punti coronati) si alternano melodie ampie e cantabili, senza che venga mai meno la necessità di una voce morbida e rotonda, perfettamente astratta, capace di restituire il carattere sovrumano e talora disumano degli eroi descritti dalla musica, e sufficientemente flessibile per risolvere agevolmente le mille insidie della scrittura haendeliana.
Non intendiamo tediare il lettore con un’analisi minuziosa di tutti i brani. Ci limiteremo quindi a segnalare, di traccia in traccia, gli elementi a nostro parere più significativi.

Il disco si apre con la grande aria di furore di Serse, “Crude furie degl’orridi abissi”. Appropriato il tempo rapido staccato da Rousset, assai meno il suono aspro e secco degli archi. Fin dalla prima frase, costruita sull’arpeggio re3-sol3-si3-re4, la voce della DiDonato appare divisa in due zone: dal sol3, pur senza vantare un timbro stellare o una speciale morbidezza, risuona più o meno a dovere, sotto il sol3 compaiono suoni vuoti, che la cantante gonfia per aumentarne lo spessore, finendo solo per renderli ulteriormente grotteschi. Già questa disuguaglianza di emissione compromette la tenuta del legato e l’effetto del brano. Sappiamo bene che la collera di Serse, protagonista di un’opera nominalmente seria ma di fatto di mezzo carattere e a tratti comica senz’altro, non può certo essere quella di un dio o di un eroe di altri melodrammi haendeliani, ma un minimo di nobiltà e di aplomb andrebbe comunque mantenuto anche in questa circostanza. Del resto siffatta disomogeneità vocale emerge in maniera analoga in tutti i brani del disco, quindi non può essere considerata una scelta stilistica relativa al singolo brano. L’esecuzione delle sestine su “veleno” è appiattita su quelli che sono i dogmi baroccari in materia di agilità: dei suoni tutti in bocca, piccoli e opachi, non sempre intonati, modello Cecilia Bartoli, per intenderci. Le difficoltà ad amalgamare i diversi registri vocali si ripresentano nel salto d’ottava mi3-mi4 “degl’orridi abissi”, mentre su “d’atro veleno”, attacco scoperto sul re4, assistiamo a un tentativo di messa di voce che si risolve in un attacco fisso della nota, che poi viene lasciata vibrare. Con analogo espediente viene risolto, poco dopo, l’attacco sul sol4. Nel frattempo (all’attacco “Crude furie degl’orridi abissi”, passaggio re4-sol4) possiamo renderci conto di come la voce della DiDonato presenti una terza zona, che inizia grossomodo dal mi4 e arriva fino agli estremi acuti (nel disco in questione la nota più alta è un si4): una fascia molto più sonora delle due prese in considerazione finora, ma in cui i suoni sembrano più forzati e quasi gridati che naturalmente squillanti. Con quale beneficio per il rispetto della poetica barocca è facile immaginare. Ignorata l’indicazione di Adagio sulle ultime battute della prima sezione, che avrebbe presupposto l’esecuzione di una cadenza, si passa alla seconda parte, conclusa da una cadenza sulla zona mi4-si4 che rafforza l’impressione di un registro acuto schiettamente sopranile e assai poco amalgamato con il resto della voce. Il da capo dovrebbe proporre variazioni a sottolineare e intensificare il virtuosismo della scrittura, ma nel caso specifico assistiamo soprattutto a generosi trasporti all’acuto, all’interpolazione di qualche trillo sulle note tenute e a una semplificazione delle agilità alla prima comparsa delle parole “d’atro veleno”, in cui i mordenti scritti sono sostituiti da passaggi in terzine. Anche la cadenza finale insiste sull’acuto, riproponendo di fatto la conclusione della seconda parte. Improprio, in tutto questo, parlare di interpretazione: il fraseggio è assai monotono, la voce monocroma e stabile sul mezzoforte (con incursioni nel piano, che sono poi suoni indietro, esclusivamente nella sezione mediana) e l’agitazione espressiva troppo esasperata per essere davvero convincente.

Le successive arie di Medea del Teseo vedono la cantante americana un po’ meno in affanno, complice la tessitura più marcatamente centrale e le poche variazioni e interpolazioni all’acuto. La nenia “Dolce riposo”, agevolata da un tempo molto più spedito rispetto al Largo indicato in partitura, è risolta in modo corretto, benché la quartina che parte dal sib3 sul secondo “dolce riposo” appaia alquanto saponata. Bello il legato sulla frase “ed innocente pace! Ben felice è quel sen che vi possiede”. Dopo il salto d’ottava mib3-mib4 su “che vi possiede”, appare un suono duro sulla transizione mib4-fa4, indice di un secondo passaggio non perfettamente risolto. Il recitativo “Ira sdegni e furore” rivela una foga di imitazione naturalistica che fa a pugni con le esigenze del canto: le scalette discendenti su “furore” sono cempennate e aspirate come da peggior prassi finto-antica, e l’attacco sul mi4 “desti nell’alma mia” dà luogo a suoni assai prossimi al grido. Comprendiamo l’esigenza di esprimere il furore della maga insultata, ma pur sempre di principessa, per quanto negromante, si tratta. Identici suoni forzati e duri su “amante sprezzata”, poco dopo. Assai sbiancati i due fa4 su “incanti”, ancora una volta spia di difficoltà nella zona del secondo passaggio. Nella successiva aria “O stringerò nel sen”, malgrado la cantante si profonda in trilli non scritti e alla lunga noiosetti per la loro prevedibilità, compaiono suoni stonati su “o la rival cadrà” in zona si3-la3 e assai difficoltoso risulta l’attacco scoperto sul fa4 dell’ultimo “o la rival cadrà coll’ira mia”. Assai poco bella anche la sezione centrale, con nuovi suoni duri e sgraziati su “la gelosia” (fa4-mi4). Il da capo propone, ancora una volta, incursioni all’acuto, con volenterosi piani e pianissimi più vicini all’uggiolato che al canto lirico. Arriviamo così all’ultima aria del Teseo, “Morirò ma vendicata”, in cui la voce deve dialogare con l’oboe solista. L’attacco sul re4 “Morirò” è una nota fissa e sbiancata, il che stabilisce immediatamente una disparità insanabile con lo strumento concertante, che tiene molto meglio l’intonazione. Il resto è il solito tripudio di coloratura con la quinta innestata, che per giunta ogni tanto (quartina fa3-fa4-mib4-fa4) subisce percettibili battute di arresto, come se il motore fosse ingolfato. Un piccolo strillo anche il lab4 scritto su “ma vendicata”. Nel da capo il passaggio “lacerata trucidata”, che insiste in zona sib3-fa4, viene risolto staccato e con un accento assai più appropriato in un’opera buffa (magari in un Barbiere, opera assai familiare alla DiDonato) che in una settecentesca scena di furia. E a questo proposito il pensiero non può che volare a un altro soprano accorciato riciclatosi nel Barocco, Anna Caterina Antonacci, nella sua capitale interpretazione dell’ultimo monologo della Medea di Cherubini, pochi mesi fa in Torino. Il da capo si segnala principalmente per la tendenza dell’oboe a variare più della voce, e soprattutto con maggiore sobrietà e aderenza espressiva.

L’aria di Sesto dal Giulio Cesare, “L’angue offeso mai riposa”, è contraddistinta da un tono maggiormente raccolto e sorvegliato rispetto agli estrosi exploit che la precedono. Anche qui, però, con eccezioni, come l’attacco scoperto sul sol4, che si presenta per la prima volta alle parole “se il veleno pria non spande” e che ogni volta che si ripete dà luogo a suoni aggressivi e duri, assai poco adeguati a descrivere l’ambigua e sospesa calma del personaggio, sempre irrisolto, almeno sino alla scena finale, nell’esecuzione dei suoi propositi di vendetta. Non particolarmente felici né fluide, ancora una volta, le quartine di semicrome che iniziano su “pria non spande”, che portano la voce a scendere dalla prediletta zona centrale all’assai meno risolto registro grave. Difficoltoso, nella seconda sezione, il salto d’ottava fa4-fa3 “se non svelle”, e piuttosto becero e indegno di un patrizio romano, per quanto imberbe, l’accento alla cadenza sulle parole “l’empio cor”, in cui compaiono suoni aperti francamente evitabili, anche se perfettamente “in stile” rispetto a quanto sentiamo ormai da anni nei dischi dei cosiddetti specialisti di questo repertorio.

L’aria di Admeto circondato dalle Furie spiazza per la disomogeneità fra la resa del recitativo e quella del successivo cantabile “Chiudetevi, miei lumi”. Il recitativo si caratterizza per i suoni marcatamente e grottescamente aperti nel registro medio-grave, da “e che da me volete” e poi su “un affanno penoso” e “senza turbar la quiete”, spingendosi fino nel registro medio con il passaggio “tornate omai tornate”. Ancora una volta la decisione di descrivere in maniera naturalistica lo sconvolgimento del personaggio trasfigura la pagina in una sorta di parodia involontaria. L’aria è affrontata con una maggiore compostezza di accento, pur con occasionali slittamenti di intonazione sui do4 di “morir mio” e “eterni Numi”, da attaccare a partire dal mib3, e gravi artificiosamente pompati, segnatamente sulle parole “toglietemi alle pene” in zona do3-re3-mib3. A ogni modo l’assolo di Admeto sembra convenire alla voce della DiDonato più dell’aria di furore di Alceste, “Gelosia spietata Aletto”, in cui gli ampi salti della scrittura accentuano in modo drammatico la disparità e la disomogeneità dei registri vocali e inducono la cantante a spingere e forzare, sortendo suoni brutti e assai poco regali. Difetti che si ripresentano, accentuati dalle aquiline varianti all’acuto, nel da capo.

La prima sezione della celebre aria di Giunone dalla Semele, “Hence, Iris hence away”, è eseguita cercando una maggiore omogeneità e compattezza vocale rispetto ai brani precedenti. Il che non può che giovare al carattere della pagina, che rispecchia l’alterigia e il sussiego della dama di rango celeste, ferita in quella fedeltà coniugale di cui dovrebbe essere lei stessa la patrona. Purtroppo già nella sezione centrale fanno la loro comparsa suoni opachi e inutilmente gonfiati, segnatamente in fascia mib3-sib2, alle parole “There Somnus I’ll compel” etc. Una zona profonda rispetto a quella in cui gravitano i brani proposti in questo recital, ma non una zona impervia per un mezzosoprano, quale la DiDonato almeno nominalmente è, che dovrebbe scendere senza troppe difficoltà al sol grave. Nella medesima zona si presentano, in cadenza, suoni aperti e ostentatamente plebei, che preludiano alle variazioni del da capo, con cui, tanto per cambiare, la voce sale all’acuto con diffusi stridori (su tutti il quarto “Iris hence away”) e propone ornamentazioni sghembe che vanno a turbare la simmetria di quelle proposte dall’autore.

Le osservazioni riguardanti la scena di furore di Alceste si possono riproporre tali e quali per il brano da Imeneo, “Sorge nell’alma mia”, classica aria di tempesta che prevede scale ascendenti e discendenti e arpeggi lungo quasi due ottave, dal do3 al la4. I suoni aperti e beceri non si contano.

Meno scoperte le difficoltà di un’aria come “Scherza infida in grembo al drudo” da Ariodante. La scrittura prevalentemente centrale e l’assenza di colorature vorticose fanno sì che l’interprete debba non solo eseguire con voce dolce e morbida la dolcissima cantilena, comprensiva di infidi salti d’ottava, ma anche opportunamente variare e accentare la melodia, onde evitare di renderla fatalmente noiosa. Il che per inciso con i baroccari capita regolarmente, per non dire sempre. Superfluo inoltre ricordare la necessità di onorare i punti coronati previsti. L’esecuzione della DiDonato è genericamente corretta, malgrado qualche suono stimbrato (vedi ad esempio l’ultimo “a morte in braccio”), ma scolastica e piatta, e non basta qualche accento inutilmente veemente nella sezione centrale a risollevare le sorti di una lettura del resto non agevolata dall’orchestra, dai colori pastello assai poco adatti a rendere l’atmosfera fosca e disperata della notte in cui si consuma l’inganno di Polinesso.

Altro brano elettrizzante è l’aria della maga Melissa dall’Amadigi di Gaula, “Desterò dall’empia Dite”, in cui la voce deve gareggiare con ben due strumenti solisti, la tromba e l’oboe, a loro volta impegnati in un esercizio di reciproca emulazione. Non sappiamo se per scelta della cantante o del direttore, ma l’aria è eseguita come scritta almeno per quanto riguarda la parte dello strumentale, e per la voce con variazioni (staccati sul la naturale) assai poco consone e al personaggio e allo stile dell’epoca. Forse la DiDonato progetta di inserire questa aria nella scena della lezione per qualche futura Rosina, nel quale caso l’interpretazione risulterebbe perfettamente centrata e le variazioni più che plausibili. Se così non fosse dovremmo ancora una volta sottolineare come le agilità soffiate e gli accenti aggressivi non siano il modo migliore di onorare questo compositore in generale e questa pagina in particolare.

Abbiamo tenuto per ultimi i brani dall’Hercules. La parte di Dejanira è l’unica di Haendel, fra quelle comprese nel disco e assieme a quella di Ariodante, che la DiDonato abbia affrontato in teatro, per giunta più di una volta. Logico quindi aspettarsi una maggiore sicurezza e anche un maggiore approfondimento interpretativo, nell’approccio a queste pagine. Logico ma forse non del tutto corretto. Lo prova il fatto che proprio in questi brani il dettato haendeliano viene al massimo grado stravolto, e crediamo sia lecito supporre, del tutto deliberatamente. Il recitativo che precede “There in myrtle shades reclin’d” è affrontato senza eccessi, anche se purtroppo con manifesta insufficienza del registro grave, evidente sin dal do3 di “night”. L’aria è cantata con un bel legato, soprattutto sulla frase puntata in zona la3-do4 “bliss and love”, che purtroppo si spezza al momento del passaggio dal re3 al sol4 sulle parole “eternity of bliss”. Tutto sommato, però, e malgrado non abbondino le sfumature, il brano è risolto in maniera convincente, a testimonianza del fatto che intenzioni di canto caute e sorvegliate aiutano a limitare l’impatto delle imperfezioni vocali, se non a rimuoverle del tutto. Le cose vanno meno bene nel successivo “Cease ruler of the day”, in cui il carattere apparentemente agevole della melodia per gradi congiunti spinge la cantante a osare piani e pianissimi in odor di falsettino, a sbiancare le note tenute (do4 coronato alla cadenza finale e il successivo sib3 su “falsehood”), evidenziando inoltre la scarsa tenuta del registro centrale al sol3 ribattuto di “endless night”. Rose e fiori, comunque, rispetto alla grande aria del terzo atto, “Where shall I fly”, in cui fin dall’attacco la DiDonato scambia il declamato haendeliano per una versione musicale ma non troppo del declamato in prosa. E anche in questo la signora è in abbondante, se non ottima, compagnia. Troppi sono gli sconfinamenti nel parlato, quando non nel grido puro, per indicarli uno per uno: ci limiteremo a segnalare i più notevoli, da “Oh cruel Nessus”, al “Let me be mad” risolto su un mi4 che sembra tradurre in linguaggio più o meno sonoro la pazzia, o meglio l’invasamento umano, all’attacco “See! See! They come” e al “black Tisiphone”, davvero terrificante. E tacciamo dei sospiretti, dei suoni fissi e sbiancati nelle sezioni indicate “Lento”, della coloratura aspirata (nonché semplificata: vedi ad esempio l’omesso trillo sul re3 di “skyes” alla prima ripresa del Concitato) e dei gravi gonfiati all’inverosimile, nonché dall’accento plebeo, più adatto a una Santuzza preda del rimorso che a una regina, per quanto ossessionata dalle Furie. Da opera buffa, ancora una volta, il parlato puro all’ultima ripresa di “See, see, see, see the dreadful sisters rise”. Lo spettro dell’Antonacci fa ancora una volta pesantemente capolino. Assai sguaiata e del tutto fuori stile la conclusione, con suoni aperti e sbracati sul fa3 alle parole “no rest the guilty find”.
È accettabile una Dejanira cantata, o meglio, urlata così, per giunta con una voce che non possiede un decimo dell’ampiezza e della potenza di interpreti del passato, indicate dai supposti specialisti come esempi di malcanto e nulla aderenza stilistica? A nostro parere assolutamente no, ma visti i peana che accolsero l’Alcina del Conservatorio, forse ci inganniamo.

E tanto per fare una volta di più la figura dei biechi passatisti, chiudiamo questo intervento proponendo una rassegna di interpreti haendeliane. Nessuna di loro è o è stata “specialista” in senso stretto di musica settecentesca, e con l’eccezione di una sola, nessuna è universalmente considerata un modello di canto haendeliano. Ciononostante riteniamo ci sia maggiore ricchezza vocale, più spiccata fantasia e acume interpretativo, in una parola, più canto e forse anche più Furore in queste polverose esecuzioni che non nel levigato cd della DiDonato. Che, per inciso, rimane una delle cantanti che più ci interessano in questo gramo presente, ma che con questo disco ci sembra compiere più di un passo indietro.


Gli ascolti

G. F. Haendel


Giulio Cesare in Egitto


Atto II - L'angue offeso mai riposa - Martine Dupuy (1988)


Ariodante

Atto II - Scherza infida - Tatiana Troyanos (1985)


Serse

Atto I - Ombra mai fu - Ebe Stignani (1948)

Atto III - Crude furie degl'orridi abissi - Frederica Von Stade (1997)


Semele

Atto II - Hence, Iris hence away - Marilyn Horne (1980)


Hercules

Atto III - Where shall I fly - Fedora Barbieri (1958)


6 commenti:

Semolino ha detto...

Avendo ascoltato il CD in questione ed avendo già sentito dal vivo la DiDonato in questo repertorio posso affermare di essere perfettamente d'accordo con quanto è stato quì scritto.(Tamburini ti amo!!!)
Ci tengo ad aggiungere che : gli attacchi a suono fisso, la disuguaglianza dei registri, le agilità aspirate o come diceva il Mancini "sgallinacciate", così come il suono ghermito e sbraccato che sconfina nello sguaiato-parlato, non sono solo difetti della DiDonato in particolare ma sono innanzi tutto considerati, dai baroccari, come lo stile di canto e di interpretazione ortodossi per il repertorio barocco, ma niente di tutto questo si ritrova nei trattati, anzi tutt'altro. Dove questi baroccari abbiano fatto le loro così dette "ricerche musicologiche" non riesco proprio a capirlo. Molto spesso i cantanti ingaggiati dai baroccari possiedono già questi difetti, che per loro sono pregi, ma in altri casi, quando il cantante non li presenta, loro richiedono esplicitamente al cantante una tale condotta vocale, ad esempio una cantante che si è fatta in pochissimo tempo sfasciare l'organizzazione vocale e rovinare la voce dai baroccari è stata la Von Otter,contenta lei............Una che invece si è salvata in tempo è stata la Massis anche se ne porta i postumi.

Anonimo ha detto...

Ma SIIII! Come no? Solo i cantanti gia morti o oltre 60 erano bravi (forse alcuni nuovi, ma SE E SOLO SE sono sconosciutissimi e/o senza personalita).

Tutti i nuovi giovanni sono invece cattivi - bla bla bla!

L'atteggiamento tipico della gente insicura, conservatrice, insomma della gente che invecchia male.


Buon lavoro!

Giulia Grisi ha detto...

Ma no cara Dolcevita.
Solo un'altra constatazione del fatto che oggi si canta peggio, nostro malgrado.
Invecchiamo benissimo noialtri, credici: guarda quanti anni abbiamo messo assieme!
Eppoi mica andiamo a teatro per invecchiare, come alla casa di riposo!!!!!!!
Piuttosto, ascolta...gli ascolti: non fanno male alle orecchie, anzi.....

Antonio Tamburini ha detto...

Dolcevita ma... il disco l'hai sentito, almeno? Che personalità può mai esprimere un canto così fuori di sesto?

Anonimo ha detto...

Ascoltai Miss DiDonato nell'Alcina milanese del 2007 e, francamente, la trovai strepitosa....uno strepitoso SOPRANO.
Il problema sta tutto qui, secondo me: la voce è spezzata in tre tronconi visto che la poverina tenta di sostenere una tessitura che non le appartiene...con il risultato che ora il registro acuto suona più aspro e dal vibrato abbastanza fastidioso...un vero peccato, a mio parere.
Taccio rispetto al gusto interpretativo che potrebbe forse essere adatto al contesto teatrale piuttosto che immortalato su disco.
Questa prova discografica deludente non va tuttavia a cancellare lo splendido ricordo che conservo di ciò che sentii dal vivo.

Semolino ha detto...

Uno strepitoso soprano cortissimo che spinge come una disperata e ghermisce i suoni. Un soprano cortissimo che se imparasse a cantare con più garbo magari potrebbe essere una buona professionista cantando ruoli più adatti alle sue capacità vocali e interpretative, tipo la dama di compagnia di Lady Macbeth, la Curra della Forza del Destino, Alisa della Lucia o Ines del Trovatore. Ma il suo ruolo ideale sarebbe la Contessa d'Aremberg nel Don Carlo.