venerdì 19 giugno 2009

Aida in Scala, terza puntata: le Aide "di regime" (1931-1948)

Dopo l’annus mirabilis 1929, caratterizzato dalla compresenza di Giannina ed “Elisabetta” (così gli annali della Scala appellano la signora Rethberg), la schiava etiope tornò nella sala del Piermarini all’inizio del 1931, con un cast davvero prestigioso: Ebe Stignani come Amneris, Francesco Merli e Giuseppe Taccani nei panni di Radames e Carlo Galeffi quale Amonasro. Il ruolo del titolo fu affidato in alternanza a due cantanti che rappresentavano, declinandolo diversamente per sensibilità e capacità individuali, il medesimo cliché, quello della diva verista. Parliamo di Bianca Scacciati e Iva Pacetti. Entrambe toscane, interpreti di riferimento nel repertorio pesante (un titolo per tutti: Turandot, che la Scacciati tenne a battesimo al Covent Garden e che la Pacetti cantò fino alla vigilia del ritiro) in quanto dotate di voci torrenziali o comunque assai potenti e di una spiccata propensione a piegare il dettato musicale alle esigenze dell’espressione, la quale doveva essere in primo luogo caratterizzata da un’altissima temperatura drammatica. Sarebbe quindi lecito aspettarsi un canto, che fosse la negazione assoluta del dettato verdiano e insomma il travisamento più completo di un personaggio dolente e intimo come Aida. Ascoltando la grande scena del primo atto ci si accorge che le cose non stanno proprio così.

La Scacciati sfoggia in primo luogo una voce di straordinaria qualità, in particolare nella fascia do4-fa4, sulla quale si gioca buona parte dell’invocazione “Numi pietà”. Il che aiuta a riequilibrare almeno in parte le intemperanze della prima sezione, in cui in effetti i suoni di petto abbondano, in parte giustificati dal testo, con immagini di cupa drammaticità che la grande diva verista non poteva che rendere in modo consono ai dettami dello stile prediletto. A ogni modo la progressione “ond’io lo vegga…un re! Mio padre! Di catene avvinto” è cantata (pur con un mezzo strillo sul sol4 finale) e non solo grandiosamente accentata, così come magnifica è la doppia scala ascendente-discendente “L’insana parola o Numi sperdete”, eseguita d’un fiato. Il sibem4 tenuto di “Ah sventurata”, un’autentica bomba sonora, testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, l’eccezionale natura vocale della Scacciati. La fraseggiatrice latita nel successivo “e l’amor mio? Dunque scordar poss’io”, per riscattarsi negli accenti più tesi alle parole “I sacri nomi di padre, d’amante”, a onta di qualche suono aperto (il mib3 di “la mente è perduta”), mentre una vera prodezza è il passaggio del sib3 di “morir” al mib4 di “Numi pietà”. La melodia spianata esalta la dolcezza del timbro della Scacciati, anche se la cantante trascura le forcelle previste dall’autore (ad esempio su “tremendo amor” e su “Soffrir, ah pietà”), sostituendole per lo più con note perentoriamente accentate, che però non sono altrettanto efficaci nel rendere lo sfinimento e la disperazione della dolente principessa, e abusa un poco dei portamenti (specie nel primo “Numi pietà”). Insomma la cantante-attrice è presente all’appello e sfoggia uno strumento di prima qualità, ma l’attrice vocale non è allo stesso livello.
I limiti del canone verista applicato ad Aida emergono con forza ancora maggiore nel caso di Iva Pacetti. La voce, almeno all’ascoltatore del fortunoso broadcast dalle Terme di Caracalla, suona più magra (specie all’ottava bassa) e meno attraente a livello timbrico rispetto alla Scacciati. La propensione a confondere il declamato di Aida con le richieste di un “parlando” più adatto a Gioconda o meglio ancora a Nedda emerge soprattutto nella prima sezione di “Ritorna vincitor”. Le variazioni a livello dinamico sono sapienti, vedi ad esempio l’improvviso pianissimo alle parole “Sventurata! Che dissi”, ma gli acuti sono strillati e la sezione “I sacri nomi di padre, d’amante” vede la cantante sfoggiare un accento piuttosto generico. Meglio “Numi pietà”, in cui i portamenti sono più controllati rispetto alla Scacciati e le forcelle tenute in maggiore considerazione. Peccato per alcune riprese di fiato arbitrarie (ad esempio quella fra do4 e sib3 al momento del penultimo “del mio soffrir”). Al di là del gusto, datato e discutibile fin che si vuole, riteniamo che l’ascolto della Pacetti dimostri che anche in ambito verista i cantanti (se non altro quelli di un certo livello) possono declamare e accentare, senza per questo ignorare per principio le richieste della partitura.

Dopo le recite del 1933, dirette da De Sabata e affidate in esclusiva alla Scacciati (al suo fianco il Radames di Pertile e l’Amonasro di Benvenuto Franci), Aida fu nuovamente allestita in Scala nel 1935, sotto la direzione di Gino Marinuzzi. Questa produzione, cui parteciparono fra gli altri Gianna Pederzini, Giacomo Lauri Volpi, Francesco Merli ed Ettore Nava, fu caratterizzata dallo “scontro” di due delle maggiori cantanti italiane dell’epoca, regine del repertorio drammatico: Gina Cigna e Maria Caniglia. La sfida appare molto interessante anche per l’ascoltatore moderno, perché di entrambe esistono registrazioni dal vivo complete o quasi: per la Cigna, la tournée della Scala a Berlino del 1937 (con Gigli, la Stignani, Nava e Pasero diretti da De Sabata: quando si dice un cast all star!), purtroppo monca del quarto atto; per la Caniglia, un broadcast londinese del 1939, sotto la bacchetta di Thomas Beecham, ancora con Gigli e la Stignani e con Armando Borgioli nei panni di Amonasro. La presenza degli stessi compagni di viaggio per queste due Aide, se da un lato testimonia la validità e quasi universalità dei medesimi (in particolare della Stignani, che iniziò la carriera con Amenris e quale altera prole dei Faraoni toccò i maggiori teatri e attraversò i decenni, fino agli anni Cinquanta), dall’altro permette di comparare le protagoniste in contesti analoghi, se non identici. E va subito detto che tanto la Cigna quanto la Caniglia soccombono di fronte alla signora Stignani, autentica dominatrice della scena, almeno sotto il profilo vocale. L’emissione morbida e insolentemente sul fiato del mezzosoprano evidenzia, per contrasto, le carenze e i limiti delle due illustri rivali, a cominciare dalla cesura fra i registri vocali.

È per ridurre lo scarto fra il registro medio e i poderosi acuti che, nella sezione del duetto che comincia “Amore, amore”, la Caniglia abbonda nelle note di petto, quindi alleggerisce e schiarisce la voce allo scopo di salire più facilmente al la4 di un “un tuo sorriso”, nota che però sfiora appena con effetto di staccato, poco consono alla circostanza drammatica. La salita al la4 di “un tuo sorriso mi schiude il ciel” è realizzata a prezzo di qualche durezza e realizzando in maniera piuttosto sommaria le indicazioni di crescendo e diminuendo previste dall’autore. La Caniglia si prende una rivincita in “che mai dicesti? Misera!”, in cui può sfoggiare un poderoso sib4, ma il successivo salto d’ottava dal fa4 al fa3 (su “Misera!”) evidenzia lo scarto fra la possente nota acuta e l’altra, assai meno a fuoco. La scala discendente “Avversi sempre mi furono i Numi” è chiusa con un discutibile effetto di parlato, utile a mascherare il famoso “scalino” della voce. Il medesimo effetto, sia pure attutito, si registra su “Vive! Ah grazie o Numi”, che dal la4 (sempre impressionante) scende al fa centrale. La tronca rivendicazione dell’amore e del rango principesco evoca più Santuzza che Aida, e questo malgrado un’altra bordata impressionante sul lab4. La sezione successiva, “Pietà ti prenda del mio dolor”, per la quale Verdi indica “piano cantabile”, ispira alla Caniglia una maggiore morigeratezza e vede il soprano realizzare al meglio le forcelle scritte su “E’ vero io l’amo”(malgrado un do4 un po’ troppo aperto) e “felice, tu sei possente” (anche se il fa 4 e i suoni successivi non hanno la morbidezza che sarebbe opportuna, e per la quale occorrerebbe una diversa emissione). Molto bene anche il mi4 di “immenso amor”, attaccato piano, rinforzato e poi smorzato. A dimostrazione che il soprano drammatico non diventa tale perché dotato di voce torrenziale e magari del tutto ignaro di tecnica del canto. L’invocazione “Pietà” che conclude la sezione è prossima più a una declamazione intonata che al canto, con il risultato di fare di Aida una sorta di madre spirituale di Tosca. Sia chiaro, una Tosca di gran stirpe. La chiusa “Numi pietà” permette alla Caniglia di sfoggiare la bellezza del timbro e pianissimi suggestivi, sebbene realizzati con abbondanza di portamenti.

Se tutto sommato la Caniglia tratteggia un’Aida a metà strada fra la principessa oltraggiata e la vittima oppressa dalla potente rivale, la Cigna opta per un’immagine meno sfaccettata. Il ricorso insistente al registro di petto (persino nell’invocazione “Numi pietà”) conferisce al canto in prima ottava una vigoria aspra e vagamente androgina e non sembra ostacolare la cantante – dotata di un mezzo in natura eccezionale, giova ricordarlo! – nella salita agli acuti, semplicemente magmatici nonostante alcune comprensibili durezze. L’interprete opta per un costante mezzoforte che ignora quasi tutte le sfumature dinamiche previste dal compositore. Il che è ancora una volta funzionale alla creazione di un’Aida più forte e meno smarrita del consueto. Peccato che la zona centro-acuta, di norma sontuosa, suoni a più riprese vuota, quando non stridula (si ascolti ad esempio “Mia rivale? Ebben sia pure!” o “Ah pietà! Che più mi resta?”), il che finisce per indebolire il ritratto di un’Aida guerriera, che la Cigna riteneva la più adatta a lanciare “in battaglia” contro l’imperturbabile signora Ebe.

Nell’incontro con Radames al terzo atto la Cigna abbraccia con evidenza persino maggiore i canoni del verismo: vanno in questa direzione il fraseggio imperiosamente scandito (il “marcato” previsto dall’autore sulla frase “D’Amneris sposo” è esteso ed accentuato lungo tutto l’attacco del duetto) e il piano insinuante di “d’uno spergiuro non ti macchiar”, che prepara e rende ancora più spettacolare l’esplosione di “prode t’amai, non t’amerei spergiuro”, in cui l’indicazione “declamato” è rispettata con aggressività persino eccessiva. Tanta drammaticità e qualche strillo anche nella successiva progressione “E come speri sottrarti” (coronata dalla bordata terrificante del sol4 su “dei Sacerdoti all’ira”), che completa il ritratto di un’Aida che cerca di virare con fin troppa insistenza l’idillio amoroso in aperta lite. Insomma Gioconda cede il passo a Carmen, altro personaggio chiave del gusto e della poetica verista, e difatti subito attacca il cantabile della seduzione, che qui si fa quasi speculare a quello del finale secondo dell’opera di Bizet. E a questo punto la Cigna, da vera diva, si trasforma e sfoggia una voce suadente e appassionata, se non morbida, per dare voce all’estasi erotica (sia pure strumentale) di Aida. E questo tanto nel “parlante” sul re3 di “Fuggiam gli ardori inospiti”, in pianissimo, quanto nella più propizia fascia re4-sol4 di “E in estasi beate”, in cui la cantante realizza buona parte delle indicazioni dinamiche di cui la pagina abbonda. Meno riuscito il tentativo di legare sol4 e fa4 alle parole “la terra scorderem” prima dell’intervento di Radames. In chiusa del cantabile la salita al sib4 di “ivi nel tempio istesso” vede in difficoltà la Cigna, che emette un suono fisso, mentre la progressione finale (“fuggiam, fuggiam”), che ancora una volta porta la voce sul sib4, è realizzata, sia pure non in un solo fiato, con apprezzabile cura nel rispettare l’indicazione “dolce” e addirittura smorzando l’acuto. Per convincere definitivamente il recalcitrante innamorato questa Aida ricorre ancora una volta all’effetto drammatico più scoperto, con una realizzazione potentissima del lab4 di “Allor piombi la scure” e soprattutto del successivo sol4 di “mio”. Nella successiva cabaletta il tentativo di cantare piano in fascia centro acuta dà luogo a suoni chiocci e produce suoni duri e diffuse fissità in acuto (lab4 di “a noi talamo” e successivo sib4, con difficoltà nel legare quest’ultimo suono al la4 immediatamente seguente, idem dicasi per il sib4 e la4 coronati in chiusa). Non è da escludere che la stanchezza, causata dagli exploit precedenti, giochi un ruolo non di secondo piano nella resa non proprio brillante della sezione conclusiva del duetto.

Del tutto diverso è l’approccio di Maria Caniglia a questa stessa pagina. Fin dall’attacco è evidente il tono ben più sobrio e controllato adottato dalla cantante allo scopo di rendere la nobiltà, sia pure piagata, della principessa in esilio. La Caniglia accenta con proprietà ma senza eccessi, lontanissima quindi dalle intemperanze della Cigna, anche nei momenti a più alto tasso tragico (gli stessi in cui la collega indulge agli effetti più plateali). L’attacco “Fuggiam gli ardori inospiti” non ha il mordente della Cigna, ma il legato è molto più curato e la voce infinitamente più morbida. E questo malgrado qualche suono fisso, come il sol4 di “la terra scorderem”, il sib4 di “ivi nel tempio istesso” (ma quest’ultimo acuto è risolto molto meglio rispetto a quanto realizzato dalla Cigna) e il sib4 finale (anche calante). La Caniglia non cerca insomma lo scontro diretto con il partner, ma sceglie una linea di canto elegiaca ma non per questo inerte, e nel complesso l’operazione può dirsi riuscita, soprattutto nel cantabile. L’ascolto della Caniglia, da alcuni stigmatizzata come mera strillona, potrebbe indurre, se non a una rivalutazione, a una più ponderata riflessione sui meriti e i limiti di questa cantante. Il successivo passaggio “Allor piombi la scure” si caratterizza certo per la potenza dell’esecuzione, ma non è un gratuito sbraitare. Semmai i problemi emergono nella cabaletta, con evitabili grida diffuse, anche se la voce è davvero sontuosa e fulgida, perfetta per la febbre erotica di questa pagina.

Se ci siamo dilungati sullo “scontro diretto” Cigna/Caniglia (tralasciando ulteriori considerazioni sugli altri ascolti proposti… ma è bene che i lettori, che vorranno scaricare i brani proposti in appendice, possano trovare qualche sorpresa nell’ascolto!), è perché le signore si disputarono, di fatto, il dominio assoluto del ruolo nel teatro milanese nel corso degli anni Trenta e Quaranta. Nel 1937 fu di nuovo Gina Cigna a impersonare Aida alla Scala, al fianco di Ebe Stignani, Francesco Merli, Ettore Nava e Tancredi Pasero e sotto la direzione di De Sabata (il cast, fatta eccezione per il tenore, è il medesimo della tournée berlinese di poco successiva). La stessa compagnia, con Beniamino Gigli al posto di Merli, ripropose il titolo nel 1938. Il 1941 vide il ritorno a Milano della schiava etiope della Caniglia: con lei Gianna Pederzini, ancora Gigli, Pasero e Nava e la bacchetta di Franco Ghione.

Nel gennaio del 1945 approdò in Scala un’Aida “di guerra”, affidata alla solida direzione di Gino Marinuzzi: a un grandioso cast maschile (Merli, Pasero e Carlo Tagliabue) si aggiungevano due Amneris di grossa cilindrata come Cloe Elmo ed Elena Nicolai e, nel ruolo di Aida, Carla Castellani e Germana Di Giulio. Della Di Giulio, soprano drammatico la cui carriera si svolse prevalentemente in provincia o, al massimo, nei secondi e magari terzi cast dei grandi teatri, esiste una registrazione integrale di Aida, effettuata dal vivo in Nuova Zelanda nel 1949. L’ascolto della romanza del terzo atto mette in luce quelle che erano, e non potevano non essere, le caratteristiche di un’onesta professionista del canto a metà del secolo scorso. La fraseggiatrice non è fantasiosa e l’interprete manca di finezza (le indicazioni dinamiche e gli abbellimenti sono risolti in maniera scolastica), ma la voce è sana e solida in tutti i registri: quello grave è pieno e non artificiosamente pompato, i centri sono robusti (vedi la frase “Del Nilo i cupi vortici”, in cui il canto non ha fatica a imporsi sull’orchestra in tumulto) e gli acuti, pur se occasionalmente un po’ “tirati” (soprattutto il do!), sfoggiano un volume di tutto rispetto. Il limite più grave, a livello tecnico, è costituito dai fiati, troppo corti per reggere le impressionanti arcate previste dalla pagina. Ascoltando di seguito e nella stessa pagina la celebrata (soprattutto oltreoceano) Herva Nelli, che alla Scala fece la sua comparsa nel 1948, in terzo cast dietro la Caniglia (ancora una volta!) ed Elisabetta Barbato (già protagonista di una ripresa nel 1946) sotto la bacchetta di Ettore Panizza, si può apprezzare forse ancora meglio la solidità del mestiere di Germana Di Giulio. La Nelli, dal timbro grigio e dall’accento generico e querulo, e soprattutto con la voce piena d’aria (principalmente nel registro grave), sembra navigare a vista nello spartito, con quale pregiudizio dell’effetto complessivo della pagina è facile verificare. Un’interpretazione dimessa, per non dire lagnosa, e con il pesante limite di un registro acuto quanto meno improbabile.

Segnaliamo da ultimo che l’edizione del 1948 vede alternarsi tre Amneris di gran voce: Ebe Stignani (ebbene sì), Fedora Barbieri ed Elena Nicolai. La Barbieri, già principessa egizia alla Scala nel 1946, vi sarebbe ritornata nel 1950, per un’edizione anch’essa giustamente mitica, e della quale vi racconteremo nella prossima puntata: l’edizione del “duello” Tebaldi/Callas.



Gli ascolti

Verdi - Aida


Atto I

Ritorna vincitor - Bianca Scacciati (1930), Gina Cigna (1937), Iva Pacetti (1939)

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Ebe Stignani & Gina Cigna (1937), Ebe Stignani & Maria Caniglia (1939)

Atto III

Qui Radames verrà...O cieli azzurri - Maria Caniglia (1939), Herva Nelli (1949), Germana di Giulio (1949)

Cielo! mio padre! - Gina Cigna & Ettore Nava (1937)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida - Gina Cigna & Beniamino Gigli (1937), Maria Caniglia & Beniamino Gigli (1939)

Atto IV

La fatal pietra - Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939)


0 commenti: