martedì 11 agosto 2009

La Scala di Seta

Credo che non esistano riflessioni, riferite agli spettacoli d’opera più costanti, monotone e noiose delle nostre. Non sarà un grande pregio, ma almeno i nostri affezionati detrattori non potranno negare che siamo sinceri e dotati, almeno, di autocritica. Per certo, poi, siamo assolutamente privi di qualsivoglia inclinazione a condividere gli entusiasmi per le moderne tendenze, precipuamente vocali, del melodramma.
E quindi dobbiamo offrire ai nostri lettori ed ai nostri detrattori le solite osservazioni, le solite motivazioni di supporto.

Abbiamo ascoltato (Giulia Grisi e Domenico Donzelli alla radio, Antonio Tamburini in teatro, tanto per non farci mancare nulla...) tre voci maschili che ignorano la morfologia e la grammatica del canto e che per questo motivo non dovrebbero calcare il palcoscenico. E questo anche se il pubblico presente in sala, sia pure limitatamente alle due voci gravi, il buffo caricato Paolo Bordogna e quello nobile Carlo Lepore, abbia applaudito, riservando invece al tenore due buu neppure troppo convinti agli applausi conclusivi. Per certo, copiosi per tutti gli interpreti.
Bordogna esibisce una voce bianca e stimbrata e l’insipienza vocale è tale che il cantante non sia (vedasi aria della seconda parte dell’atto unico) in grado di eseguire correttamente i sillabati. Per essere chiari sembra il solito tenore che non sapendo eseguire il passaggio di registro, ha preclusa la fascia acuta e si rifugia pertanto nel repertorio del buffo.
Siamo cresciuti nella più severa critica verso buffi come Luise, de Taranto, e soprattutto Montarsolo e Corena, causa il loro gusto, ma almeno alle prese con gli scilinguagnoli rossiniani erano precisi ed espressivi.
Quanto al signor Carlo Lepore non possiamo che meravigliarci e stupirci per la voce indietro, ingolata e cavernosa, che si lancia e scempia l’aria “Alle voci della gloria” (in parte Elisabetta ed in parte Aureliano/Barbiere). Circa la legittimità dell’inserimento la qualità del cantante, da sola ed a prescindere da considerazioni filologiche e musicologiche, è tale da sconsigliarlo nella maniera più assoluta. Osserviamo en passant che analogo inserimento della medesima aria era stato effettuato tre anni fa nell'Adelaide di Borgogna. Ma almeno in quel caso non c'era frattura stilistica rispetto al resto dello spettacolo, o almeno se c'era, non era imputabile alle caratteristiche della musica aggiunta.
Peggio ancora José Manuel Zapata, che nell’assolo della prima parte è stato capace di tutto fuorchè cantare ed intonare. E, poi, tanto per ripetere filastrocche abusate, siamo cresciuti nella censura degli Alva, Benelli, Casellato, de Sica, E. Giménez, tacciati di anti rossinianità. Almeno erano professionisti e son durati in carriera almeno per tre- quattro lustri, senza esibire suoni sempre e costantemente spoggiati.
La degna partner di tali signori era Anna Malavasi, già proposta, con esito vittorioso, in televisione, luogo virtuale ove la signora ha proclamato la propria vocazione: rinnovare l’opera. Per parte nostra, e senza voler essere parziali e cattivi consiglieri, suggeriamo all’astro nascent, di rinnovare il proprio metodo di canto, ammesso e non concesso che l’esausta voce esibita (genuina e riuscita imitazione della Barbieri oltre i settanta) consenta il rinnovamento. Peraltro nell'elementare arietta solistica la scelta di alleggerire la voce, onde trovare un minimo di flessibilità, porta la cantante a un passo dall'afonia.
Diverso, in parte, il giudizio per Olga Peretyako, più in parte come Giulia che non come Desdemona, assoluto ed autentico azzardo. Come assoluto e autentico azzardo sarebbe stato l'annunciata (dalla cantante medesima sul suo sito Internet) Amenaide. Sempre ovviamente in Pesaro. A suo tempo abbiamo rilevato come la voce della Peretyatko fosse da soubrette (categoria vocale ignota a Rossini), aggiungiamo oggi che, pur in parte ,la voce difetta di sostegno e che la posizione del suono sia “bassa”, tanto che la cantante arriva alla fine della propria aria in debito di ossigeno. Inoltre la fascia medio-alta suona piuttosto aspra e gli acuti estremi, interpolati, sono duri e piccoli rispetto al corpus vocale, non certo sontuoso. Indice, anche questo, di tecnica tutt’altro che salda e sicura.
Insomma il solito spettacolo del giorno d’oggi, almeno sotto il profilo vocale.
Non vorremmo infierire sulla veneranda canizie di Claudio Scimone, ma i fuori tempo (concertato finale della prima parte, in cui è stato il maestro al cembalo a "rimettere in carreggiata" i cantanti, o almeno a provarci) e le "scivolate" degli strumenti (in organico per giunta assai ridotto) non si contavano. Quel che è peggio è che dell'atmosfera della farsa c'era solo una generica vivacità (quasi mai brillante nel senso più vero e pieno del termine), i cui effetti soporiferi si sono avvertiti soprattutto nella seconda metà della serata.
Lo spettacolo di Damiano Michieletto ha riscosso ampi consensi. Non amiamo vedere il teatro comico, neppure se farsesco, trattato a guisa di sitcom pomeridiana. La regia ha l'indubbio merito di valorizzare le doti fisiche della componente femminile del cast, scontando però un eccesso di frenesia e gag numerose ma non sempre ispirate e talvolta moleste, soprattutto per i cantanti, che dovrebbero in primo luogo poter cantare in pace. A titolo d'esempio segnaliamo che durante "Alle voci della gloria" (o "dell'amore", come da testo filologicamente mutato) Blansac deve lavarsi i piedi nel bidet che troneggia sullo sfondo del loft di Giulia. Azione che ci ha ricordato analoga situazione scenica nella "Juive" interpretata da Neil Shicoff.
Dimenticavano che anche nell’abito dimesso o ridotto della farsa Rossini è splendido e perfetto, vuoi nel languore protoromantico delle pagine riservate agli innamorati, per il ritmo, indiavolato, degli ensamble. Il solo GRANDE della serata. Ma questo basta?

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