domenica 30 agosto 2009

Spigolature da melomani, questioni da filologi

L’edizione critica di Zelmira, curata da Helen Greenwald e Kathleen Kuzmick Hansell (Fondazione Rossini 2005), illustra chiaramente i connotati di quella che fu la cosiddetta “versione di Parigi”, rappresentata nel 1826 al Théâtre des Italiens, protagonisti G. Pasta, G.B. Rubini, M. Bordogni e A. Schiassetti. Versione riproposta quest'anno al Rossini Opera Festival.
Presi da una certa curiosità, in compagnia del buon amico Tamburini, abbiamo consultato l'edizione critica, dalla quale abbiamo dedotto quanto segue.
Per punti:

1) A Parigi venne tagliata la scena seconda del primo atto, ossia il dialogo fra Emma e Zelmira dopo l’Introduzione. Si passava così dall'uscita di scena di Antenore e Leucippo alla cavatina di Polidoro. A Pesaro, quest'anno, la scena Emma-Zelmira è stata eseguita, come da edizione napoletana.

2) Altre consistenti modifiche interessarono l'Aria di Antenore ("Mentre qual fiera ingorda"). Nel Recitativo dopo il duetto Zelmira-Ilo, furono tagliate le battute 65-70 (vedi autografo dell'opera, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi) e venne effettuato un ulteriore taglio alle battute 75-81. "Mentre qual fiera ingorda" (cantabile dell'aria) venne tagliato, mentre si eseguì regolarmente il Coro dei Sacerdoti "Di luce sfavillante". Al Coro seguì, al posto della cabaletta "Ah dopo tanti palpiti", un recitativo sul quale le responsabili dell'edizione critica annotano: “Nessuna delle fonti musicali conosciute mette in musica questo testo" (Commento critico, p.170). Impossibile quindi eseguire la scena così come proposta a Parigi, a meno di non comporre di sana pianta un recitativo da inserire in luogo di quello perduto.

3) Verso la fine del secondo atto venne modificato il Recitativo dopo il Quintetto, nella sezione che presenta Zelmira e Polidoro in carcere. Dopo le parole di Zelmira “che le mie preci accolse”, fu aggiunto il distico “e propizio al figlial tenero amore/In vita serba il caro genitore”, dal quale si passava direttamente alla grande

4) Aria di Zelmira, costituita da una Preghiera composta per l'occasione e da una parte di musica riciclata da Ermione. Sia il tempo di mezzo ("Stridon le ferree porte") sia la cabaletta "Dell'innocenza, o Dèi" provengono dalla Gran scena della protagonista in Ermione. Osservano le curatrici dell'edizione critica: “lo stesso Rossini apportò molti cambiamenti e indicò vari tagli direttamente nel manoscritto autografo di Ermione”, che si trova alla Bibliothèque del Musée de l’Opéra di Parigi (Ms.Rés. 649). Il manoscritto della Preghiera si trova invece nei Fonds Michotte a Bruxelles. L’unica fonte conosciuta della partitura completa dell’aria di Zelmira versione Parigi 1826 (preghiera e cabaletta) è conservata a Napoli, nella Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella [2.8.40 (17)]. L’edizione critica segue la lezione della partitura di Ermione per quanto riguarda il tempo di mezzo, giacché la partitura di Napoli presenta in questa sezione alcuni tagli, relativi a battute di raccordo fra enunciato e ripresa della cabaletta.
Sia la preghiera (Andantino) sia la cabaletta (Più mosso) sono in partitura nella tonalità di mi maggiore; il mi maggiore è, per inciso, anche la tonalità di "Se a me nemiche o stelle" da Ermione. Ed è nel tempo di mezzo che, nella recente esecuzione di Pesaro, è stato operato un rappezzo (pratica corrente e diffusissima nel XIX secolo) in modo che il mi maggiore della preghiera si trasformasse, nella cabaletta, in un più "comodo" re maggiore (e quindi i si naturali acuti di Zelmira che concludono la scena diventassero dei la). Il rappezzo viene messo in opera nel momento in cui Antenore e Leucippo cantano "Giunto è il fatal momento". Nella partitura c'è una modulazione (battute 77-82) per cui il tema del crescendo orchestrale passa dall'iniziale do maggiore, attraverso una progressione cromatica, alla tonalità di mi maggiore. A Pesaro la modulazione era identica, ma veniva risolta sulla tonalità di re maggiore. Al proposito si possono ascoltare gli esempi musicali seguenti:

Zelmira - Numero 10bis: Aria Zelmira - Battute 70-90 - Edizione critica

Zelmira - Numero 10bis: Aria Zelmira - Battute 70-90 - Realizzazione pesarese

Per completezza riportiamo in appendice il passo dell'esecuzione pesarese e, a confronto, lo stesso brano musicale (identico nella progressione tonale, limitatamente al passo in questione) così come si ascolta nell'Ermione. (A onor del vero, già al momento dell'ascolto radiofonico avevamo avuto il sospetto di un cambiamento di tonalità per la cabaletta, ma abbiamo voluto attendere il rientro dalle vacanze per compiere una verifica al pianoforte.)

Un altro problema relativo ai pertichini dell'aria è costituito dalla presenza di Antenore. Nel libretto stampato per le rappresentazioni di Parigi, Antenore usciva di scena dopo il Quintetto "Nei lacci miei cadesti" per non rientrarvi più. Nell’edizione critica, invece, Antenore è in scena e canta nel tempo di mezzo e nella cabaletta di Zelmira: in ciò viene seguita la partitura di San Pietro a Majella. In linea generale, comunque, l’edizione critica segue il manoscritto di Ermione per i punti su cui le fonti divergono (vedi Commento critico, p. 172), ribadendo che “potrebbe (...) non trattarsi della stessa forma del passo come eseguito a Parigi”.
A Parigi, quindi, Antenore non partecipava alla scena finale. Probabilmente si trattò di un cambiamento deciso durante le prove. “Fu in questa forma che la scena venne eseguita a Parigi e così è presente nel libretto parigino del 1826. Questa edizione ha ritenuto di ricomporre le contraddizione tra le fonti” (volume I dell'edizione critica, p. XLI), assegnando ad Antenore, nel Recitativo dopo l’aria di Zelmira (vedi oltre), una frase ("Ma qual fragor?") che il libretto parigino attribuiva a Leucippo. Dopo questa frase Antenore esce definitivamente di scena e le restanti battute del libretto napoletano (nonché il tentativo di assassinare in extremis Polidoro) passano integralmente a Leucippo.

5) Altri cambiamenti effettuati nel Recitativo dopo l’aria di Zelmira: le battute 1-7 sostituirono le battute 105-136 della prima versione e il passo proseguì con le battute 137-168 dell’edizione napoletana. In un secondo momento, vennero inserite al posto di alcune delle vecchie battute (169-172) 5 battute nuove per Ilo (n. 40-44 del nuovo recitativo). Le ultime sei battute del recitativo sono uguali nelle due versioni. Nell’autografo c’è un taglio delle battute 34-37 (che corrispondono alle n. 163-66 dell’edizione napoletana) e che contengono una citazione musicale del duettino Emma-Zelmira. Scrivono le curatrici dell'edizione critica: “La modifica [non] è certamente attribuibile allo stesso Rossini”. Il cambiamento può essere legato al fatto che, nel libretto parigino del 1826, il figlio non entrava in scena nel finale dell'opera e Zelmira cantava “O piacer! Sposo, ti stringo/Un’altra volta al mio tenero seno” (nell’edizione di Napoli gli stessi versi recitavano "O piacer! figlio! ti stringo/un'altra volta al mio materno seno"). “Da ciò sembra potersi dedurre che nel 1826 Rossini avesse modificato la musica di questo passo e in effetti le battute corrispondenti sono state depennate nell’autografo, ma non è presente alcun passo sostitutivo”. Di fatto, quest'anno a Pesaro, abbiamo udito il passo così come compare nell'edizione di Napoli.

6) Veniamo al Finale II, vale a dire la grande Aria finale di Zelmira dell'edizione napoletana riscritta per terzetto con coro. Ancora Greenwald e Kuzmick Hansell: “I cambiamenti furono apportati da Rossini direttamente nel manoscritto autografo originale, dal quale è possibile ricostruirli per intero. Questa è l’unica fonte conosciuta che conservi il Finale secondo come realizzato per Parigi [N. 11a]” (Commento critico, p. 181). “Che il compositore tenesse ben presenti gli interpreti a disposizione si evince dal fatto che, assegnando un passo particolarmente fiorito a Ilo (N. 11, battuta 85a), ha indicato sul manoscritto non il nome del personaggio, ma quello del tenore Rubini” (volume I, p. XLI – il passo in questione si trova a p. 640 del manoscritto). Le battute riscritte per Rubini presentano passi di grande impegno virtuosistico e ben 6 mi bemolle sovracuti. Per esemplificare la complessità del brano, ne abbiamo realizzato una versione digitale. Va tenuto presente che il passo viene ritornellato: le prime undici battute (28a-38a della partitura) si ripetono nelle battute 72a-82a, mentre le successive sei (n.85a-90a) sono riprese dalla numero 94a alla 99a. Le ultime otto (100a-107a) sono la cosiddetta "coda": le riportiamo per completezza.

Zelmira - Numero 11bis: Finale II - Battute di Ilo


E’ evidente, dunque, che i filologi non erano materialmente in grado di ricostruire al 100% la versione parigina del 1826, e che anche per quanto concerne il finale rimangono, oggi come spessissimo nell’800, piccole incongruenze legate al meccanismo di innesto di sezioni musicali appartenenti ad altre opere, nella fattispecie Ermione.
Lo spettatore profano, però, non può fare a meno di domandarsi perché sulla locandina pesarese di questa Zelmira comparisse la dicitura “versione di Parigi” quando non si è eseguita esattamente la VERSIONE di Parigi ma soltanto il suo FINALE, ossia la sola porzione ancora effettivamente eseguibile perché ricostruita con la garanzia delle fonti documentarie.
Peccato veniale, direte voi, perché al pubblico è piaciuto aver udito un’aria in più cantata da Antenore.
Peccato filologico mortale, però, per chi è solito confrontarsi con questi problemi, in quanto questa supposta versione di Parigi è in realtà quella di Vienna cui è stato appiccicato il finale di Parigi del 1826! In fondo, sarebbe bastato limitarsi all’indicazione di cartellone FINALE DI PARIGI (come fece la signora Horne in tutte o quasi le rappresentazioni di Tancredi con il finale tragico, appartenente alla versione ferrarese) per salvaguardare la correttezza del rapporto con l’edizione critica, che, mi pare, dovrebbe essere uno dei criteri ispiratori di un allestimento da festival.
Uno ma non il solo. Credo siamo tutti d’accordo sul fatto che se si decide di eseguire una rielaborazione d’autore pensata per determinati cantanti, in questo caso la Pasta e Rubini, delle cui caratteristiche vocali molto sappiamo, le scelte di cast dovrebbero essere tali da garantire una resa vocale compatibile con quelle da loro possedute e per le quali hanno posto nella storia del canto. L’idea drammaturgica di Rossini è chiara, evidentissima ed il confronto con quanto scritto in prima battuta per questo finale di Zelmira indicava la via da seguire, ossia quale cantate protagonista femminile ricercare sul mercato. La musica non vive in se stessa, perché è documento cartaceo: la musica esiste solo per forza di un “medium” che è l’esecutore, peculiarità che distingue questa forma d’arte dalle altre. Una “versione Pasta” presuppone che si disponga di un soprano in grado di cantare quello che cantava la Pasta e di rendere quel tipo di canto che fece di lei la cantante preferita da Bellini: forza e varietà di accento, vis tragica, coloratura etc... Per la Pasta furono concepite la Beatrice di Tenda, la Sonnambula e la Norma belliniane, l’Ugo Conte di Parigi e l’Anna Bolena donizettiana, la Niobe di Pacini…etc…Tutte opere che la protagonista della recente produzione di Zelmira non canta. Né può pensare di cantare, se non come seconda donna, ove prevista.
Scelta inadatta, che ha scontentato i buon udenti, inutile alla resa proprio di quel finale parigino che si è deciso di farci ascoltare, finale di straordinaria inventiva musicale e forza tragica. Altro sgambetto alla filolologia, a nostro avviso, perché la scelta dei componenti di un cast deve essere pertinente a quanto si intende far rivivere in scena, ossia il pensiero musicale e drammaturgico dell’autore. Potremmo anche arrivare a dire lo stesso per quanto attiene la scelta di Flórez, essendo quanto scritto da Rossini un “ad personam” molto forte, come lui stesso pare ancora indicarci quando scrive “Rubini” invece di “Ilo”. Sappiamo bene, però che queste tessiture di altezza eccezionale, con sovracuti scritti a manciate, erano amministrate da voci che usavano non solo la voce di petto, ma anche quella di testa, i cosiddetti falsettoni, modalità esecutiva che possiamo ritenere estinta da lungo tempo, a meno di anomalie assolute come Chris Merritt. Questo fatto giustifica parte delle mende esecutive del tenore in acuto, e rende secondaria la questione della restituzione di Ilo - Rubini da parte di un tenore che con la vocalità di Rubini ha poco che fare.
Balza agli occhi con tutta evidenza, però, come il festival abbia usato due principi del tutto opposti nel procedere all’esecuzione del finale in questione, uno per la signora Aldrich ed uno per il signor Flórez.
Per la prima è stato predisposto l’abbassamento di un tono, dalla tonalità da mi maggiore a quella di re maggiore, della cabaletta dell'aria finale, scena tra l’altro di tessitura assai idonea ad una voce di mezzo acuto. Tessitura che una Bumbry, una Verrett, una Dupuy, una Horne in piena carriera avrebbero amministrato con comodo, conferendole il vigore tragico che le spetta. Ma queste erano mezzosoprani, non mezzi soprani...
Il terzetto finale, invece, che contempla per Flórez l’esecuzione delle pazzesche agilità sulle note mi bemolle-re naturale sovracuto, non ha subito alcun abbassamento, per giunta con un tenore capace del re naturale ( che non è poco! ) e che avrebbe potuto eseguire abbassata la figura ornamentale, anziché rabberciare alla bell’e meglio la scrittura del passo, tra l’altro ripetuto due volte.
Dunque nell’arco di cinque minuti il principio ispiratore dell’esecuzione cambia, in due sensi opposti. Si sceglie l’esecuzione di un finale che come tale non può essere eseguito da due degli esecutori principali e si procede all’abbassamento di tonalità per la cantante più deficitaria del cast, ma non per chi canta qualcosa di pressoché ineseguibile facendogli un rappezzino allo spartito piuttosto che un doveroso e assai più rossiniano abbassamento ad una tessitura abbordabile.
E di queste scelte il melomane curioso non capisce la logica ispiratrice, che di certo non è unica, né unitaria, a meno di non assumere l’adagio: cantante che vai, filologia che trovi!

GG e AT


Gli ascolti

Rossini

Ermione


Atto II - Il tuo dolor ci affretta...Se a me nemiche, o stelle - Nelly Miricioiu (con Bruce Ford - 1995)

Zelmira

Atto II - Stridon le ferree porte...Dell'innocenza, o Dèi - Kate Aldrich (con Kunde, Palazzi & Esposito - 2009)

4 commenti:

daland ha detto...

Complimenti per l’accurata ricerca!

Dall’ultimo passo del post si dovrebbe dedurre – a stretto rigor di logica – che i responsabili del ROF, in combutta con Roberto Abbado, abbiano voluto fare un gran favore alla Aldrich e contemporaneamente giocare uno scherzo da prete a Flórez.

Ma allora i cantanti, non hanno proprio “voce” in capitolo?

Antonio Tamburini ha detto...

grazie Daland.
più che di uno scherzo da prete ai danni di Florez (pensi davvero che a Pesaro vogliano o possano mettere in difficoltà quello che è ormai il solo artista di punta del Festival?) credo si sia trattato di un grave errore strategico, o per meglio dire l'ultimo di una serie. perché il vero e fondamentale errore è stato quello di scritturare un soprano corto per un ruolo Colbran e per giunta aggiungere alla parte anche una scena scritta per la Pasta! del resto l'abbassamento di un tono della cabaletta non ha impedito alla Aldrich di esibire suoni malfermi, quindi forse il favore, se tale è stato, non è stato poi così grande...

daland ha detto...

La mia battuta sottintendeva una personale convinzione: non posso immaginare che decisioni interpretative importanti vengano prese all’insaputa, o senza il consenso, o peggio contro la volontà dell’interprete! Il quale non è un androide, programmato una volta per tutte per dare lo stesso risultato in ogni occasione. È un essere umano, con i suoi mutevoli bioritmi. Non mi stupirei quindi se decisioni interpretative importanti vengano prese, se non proprio “in tempo reale”, quanto meno immediatamente a ridosso di un ciclo di rappresentazioni, o prima di una singola recita, o magari addirittura nell’intervallo fra i due atti! Proprio per tener conto delle condizioni dell’interprete in quel dato frangente.

Nel caso specifico della parte di Ilo e del finale di Zelmira: se si accetta – col conforto dei riscontri storici sulla prassi seguita e praticata dal compositore stesso – che le partiture di Rossini (a differenza di quelle di Wagner, tanto per dire…) siano manipolabili – entro limiti ragionevoli – in funzione e a beneficio delle qualità dell’interprete del momento, allora si dovrebbe concludere che la soluzione A (abbassare la tonalità del terzetto di un semitono conservando la scrittura originale di Ilo) e la soluzione B (tener ferma la tonalità e smussare gli svolazzi di Ilo sul MIb sovracuto) abbiano uguale diritto di cittadinanza. Sarà poi la sensibilità di ciascuno di noi a stabilire se il risultato artistico della soluzione adottata (la B nel caso nostro) sia stato soddisfacente, o se non fosse preferibile la A.

Aggiungerei che – trattandosi di produzioni che hanno la pretesa di presentarsi come “critiche” – lo sforzo che tutto il “team” di produzione (da Cagli giù giù fino ad Abbado e infine a Flórez) dovrebbe fare approcciando queste situazioni, sarebbe di porsi la seguente domanda (dopo aver consultato “la storia”): “Fosse vivo oggi, il caro Rossini come rimaneggerebbe la parte di Ilo sapendo che – al ROF 2009 – sarà interpretata non da David, e neanche da Rubini, ma da un certo Flórez?” Ecco: siamo sicuri che al ROF 2009 non abbiano seguìto proprio questo approccio?

Quanto alla questione Aldrich-Pasta, mentre concordo sulla “millanteria” di indicare “Versione di Parigi” in luogo del più onesto “Finale di Parigi”, trovo che il ROF abbia scelto – forse in mancanza di serie alternative, perché è facile dire che là fuori ci sono dozzine di cantanti meglio della Aldrich – una soluzione di compromesso: consentire al pubblico di ascoltare comunque musica sublime… da una voce che sublime non è. A me (ho assistito alla “seconda”) è parso un compromesso a saldo positivo. Ma questa è una mia personalissima impressione.

Antonio Tamburini ha detto...

Io la vedo così: se non hai un tenore con dei mi bemolle quanto meno sicuri (magari in falsettone), evita di fare il finale di Parigi. Se proprio non puoi farne a meno, abbassalo di mezzo tono.

Il problema dei rappezzi è che, oggi come oggi, ben pochi fra i cantanti sanno trovarne di sensati, e direi quasi nessuno fra i direttori. Salvo Bonynge, ovviamente, che il ROF avrebbe potuto consultare all'occasione. Magari anche senza affidargli la direzione di Zelmira, sebbene io ritenga che non avrebbe certo fatto peggio di R. Abbado. Anzi.

La soluzione "musica divina, interpreti assai meno divini" è di casa a Pesaro da quando esiste il festival. Potrei obiettare che sia la preghiera sia la cabaletta da Ermione non sono certo brani inediti, e che l'ensemble finale è rimaneggiato nella forma ma assai poco nella sostanza. Però è vero che il finale parigino è di grande effetto, molto più dell'aria scritta per Napoli, ed è stato bello ascoltarlo sia pure in forma "ridotta". Resta il fatto che un festival dedicato a Rossini, e che si appoggia a una Fondazione il cui scopo è provvedere all'edizione critica degli opera omnia del Pesarese, non può presentare come edizione di Parigi un ibrido che di parigino ha solo il finale e che per giunta è interpretato da cantanti (la Aldrich in particolare) che non possiedono caratteristiche analoghe a quelle degli interpreti per cui Rossini rimaneggiò l'opera. Altrimenti diciamo chiaramente che il rigore scientifico della ricostruzione critica serve solo da alibi per un'operazione di natura commerciale. Non c'è nulla di male in tutto questo, salvo l'ipocrisia.