lunedì 10 agosto 2009

Zelmira, versione Parigi 1826

Allestire opere come Zelmira fu da subito ardua impresa e tale rimase sino alle moderne riprese della Rossini renaissance. A maggior ragione lo è in tempi come quelli correnti, carenti di fuoriclasse, ma mentre si può invocare la clemenza del pubblico in fatto di tenori, attese le mostruose scritture dei due protagonisti, meno lecito è il farlo in punto di primedonne o di bassi, almeno stando a quel che Rossini in questo titolo esige.
In questa produzione di Zelmira il ROF è riuscito miracolosamente nel contrario, andando oltre le aspettative con le voci acute maschili e deludendo nel resto, nella scelta della protagonista soprattutto.

Gregory Kunde, Antenore,si è ritagliato una seconda carriera da baritenore, fatto che gli fa grandissimo onore, perché ne prova l’alta perizia tecnica che ha fatto grande tenore belliniano. L’ampiezza del mezzo vocale, conquista degli ultimi anni, oltre ad un buon virtuosismo di forza, gli consentono, ad onta dell’età, di dar senso agli antagonisti di Nozzari. Kunde ha cantato come un vecchio leone, esperto e intelligente, gestendo virtù e limiti con sapienza…antica. Spartito alla mano si è scontato pochissimo di quanto previsto, eseguendo anche bellissime variazioni nella cabaletta della sortita. Qui la voce, come capita ai cantanti di lungo corso, ha impiegato tempo a carburare ed i brutti suoni sono stati tanti, in alto soprattutto, ma il tenore ha eseguito tutto a meno della cadenza dell’aria .
Nella seconda scena solista, “Mentre qual fiera ingorda”, terribile per i salti e la coloratura, si è riacconciato, con mestiere, alcuni battute delle frasi iniziali e di quelle bassissime, al la sotto il rigo, “..le leggi infrange ognor..”, come pure le code della successiva cabaletta, ma non ha mai rinunciato a cantare di forza e ad accentare. Nel terribile “Figli miei di Lesbo” che introduce il grandioso è stato davvero impressionante. L’età del tenore si sente laddove mostra il “buco” in zona di passaggio alto, più raramente in quello basso: ha stonato ad esempio, negli attacchi sul fa del quintetto del I atto, “La sorpresa o stupore”, ed in qualche momento del quintetto del II atto, ma il canto come il personaggio nel complesso hanno girato sino alla fine, con pertinenza d’accento, recitativi compresi.

J.D. Florez ha domato la scrittura di Ilo oltre le aspettative, e non è poco data l’altezza ed il virtuosismo che connotano la parte. Il tenore peruviano, definito dai commentatori radiofonici il più grande tenore rossiniano vivente è al di sotto delle esigenze della parte. E prima che vocalmente come interprete. Basta sentire come esegue i recitativo di Ilo all’inizio del secondo atto privo del tono dolente e disperato che compete ad Ilo, prodromo degli eroi belliniani, Gualtiero in primis Personaggio questo che viene largamente anticipato nel terzetto “il figlio mio” atto primo, dove Florez manca di ampiezza nel recitativo e dove nel cantabile non può che aprire i suoni per simulare la tragicità di cui la voce nondispone. Quanto all’aspetto vocale Florez oggi canta sempre con evidente nasalità in zona acuta, aprendo il suono sul passaggio e sui primissimi acuti e vibrando più sopra. Quanto agli acuti estremi (do e re di cui è costellata la parte) sono raggiunti di preferenza sulla vocale “I” ed a condizione di rallentare il tempo prima di sparare la nota acuta. Fra l’altro sparare gli acuti estremi, ossia sostituire i passi vocalizzati con acuti (come accade nell’esecuzione della semplificata cadenza del’aria o nel duetto con Polidoro alla frase “splende sereno”), spianare le figure acrobatiche nei da capo, che richiederebbe un aumento e non la riduzione della coloratura ( note ribattute del da capo del duetto con Zelmira), semplificare le cadenze (recitativo di sortita sulla parola “amato”, quella alla chiusa dell’andantino della sortita) mancare di mordente nelle agilità è la negazione del canto e dello stile rossiniani.
Intendiamoci bene: il rappezzo ,il raggiusto sono giusti e leciti e lo insegna proprio in questa Zelmira l’autore medesimo, ma lo spirito dell’autore ossia quello del personaggio non possono essere modificati e traditi. Qui Ilo non era un eroe di ispirazione classica, ma un fanciullo. Ed il problema non è vocale è interpretativo.
Queste osservazioni non vogliono essere una dorata pillola per una recensione di gran lunga migliore verso Kunde, che verso Florez. Ma il personaggio di Antenore, scritto per un cantante (Andrea Nozzari) che era prima di tutto un cantante e, subordinatamente, un interprete non ha le sfaccettature che Ilo, prodromo degli eroi romantici offre e richiede.

Marianna Pizzolato, habitué del Festival, possiede la più bella fra le voci in scena. Difetta nel suo utilizzo. In primis per motivi tecnici, particolarmente sul primo passaggio, che non è eseguito correttamente e che si ripercuote su entrambe le zone estreme della voce; se correttamente eseguito ne trarrebbe giovamento anche la vocalizzazione, che risulterebbe più precisa e meno fosforescente. Ha cantato bene il terzetto del primo atto ( la migliore di certo), un po’ meno il duetto con Zelmira, ove ha tubato vistosamente frasi come “ …qual pensier funesto..”. Quanto all’aria, ha potuto disimpegnarsi nell’aria ma è stata in debito d’ossigeno nella cabaletta, strillacchiando qua e là.

Quanto alla protagonista, Kate Aldrich, non se ne comprende il motivo della scelta. E’priva delle qualità vocali, tecniche ed interpretative che la parte richiede. Le è stato sufficiente il breve recitativo di ingresso con Emma “non fuggirmi” per esemplificare il campionario delle proprie carenze a partire da centri veristi e dalla voce “indietro” dal fa4 e per giunta in una scrittura centrale e comoda. Le carenze si fanno più evidenti con il crescere delle difficoltà della parte come accade nell’agilità di forza del duetto con Ilo “ Che mai pensare” o la modestia del legato sia nella sezione del duetto che, ancor più,nel famoso”perché mi guardi e piangi” eseguito meccanicamente e senza languore e la struggente poesia che il passo richiede. Velo pietoso ( e per entrambe le cantanti ) riguardo i passi acrobatici delle code. Al terzetto con Ilo e Polidoro sotto la spinta tragica del momento la voce diviene una vocina vetrose che grida malamente “oh qual calunnia, che pena è questa”.
Arrivati al finale abbiamo avuto la riproposizione di quello che Rossini pensò a Parigi per la divina Giuditta Pasta nel 1826. Abbiamo quindi un’immagine precisa e plausibile di quella che era la vocalità e la capacità interpretativa della cantante prima che diventasse l’interprete di Donizetti e Bellini. Rossini non solo regalò a Giuditta Pasta una splendida preghiera, ma inserì una sezione della cabaletta di Ermione e passi della scena del carcere della Gazza. Tutto questo deve indurre a riflettere sulla genialità e sulla poetica di Rossini. Quanto alla prima è evidente perché la scena ha una forza tragica ben superiore a quanto il maestro avesse pensato per la non più fresca Colbran e perché i pezzi “recuperati” sono quanto di più adatto possa esserci alla situazione drammaturgica. Ermione, trasferita in Zelmira, forse ne guadagna dall’innesto.
Non solo questa scelta smentisce la storiella che certe parti della Colbran nacquero e morirono con la loro prima interprete, per essere più plausibile che quei titoli richiedevano capacità vocali ed interpretative riservate a pochi, donde la sparizione. Quella d’inserire Gazza Ladra esemplifica il concetto di arte ideale per Rossini, che ripropone la stessa musica per la stessa situazione: una donna carcerata per una ingiusta accusa .
Tutto questo richiederebbe una grande cantante e la “scelta” del Festival signora Aldrich, mezzosoprano alquanto scalcagnato, che la “nouvelle vague” di imporre un mezzo nei ruoli Colbran esige dopo decenni di soprani lirico leggeri (Gasdia, Devia, Peretiatko) per giunta inflitta in un tempo in cui si disponeva di mezzi acuti saldi e sicuri.
Nel dettaglio: a prescindere dallo scadente e per nulla ispirato accompagnamento abbiamo sentito una preghiera piatta e senza pathos con svarioni nei rari passi di coloratura come la quattro quartine di “barbaro” o il grido sul la acuto coronato di “ah” o sul trillo e sulle terzine di “ a mali miei”; arrivato l’impresto da Ermione o si dispone della raffinata capacità simulatoria di una Cuberli o dell’ipotetico vigore di una Verrett, una Horne, una Bumbry e una Dupuy o si grida miseramente. Abbiamo volutamente omesso Maria Callas e la Sutherland post 1975, perché ci vogliono convincere che non siamo mai esistite.

Nessuno dei due bassi mi ha impressionato. Il loro canto ha mostrato, alla radio, evidente durezze in acuto, debolezza nel canto di agilità ( penso alla coloratura del terzetto di Polidoro con le due donne o ai trilli prescritti nel terzetto finale e non eseguiti da Esposito ). Niente di particolarmente scandaloso o fuor di media, ma non un buon canto perché entrambi hanno la voce troppo bassa di posizione, con tutto ciò che ne deriva.

Il maestro Abbado ci è parso avere acquistato un po’ più di vigore rispetto all’Ermione dell’anno passato, migliorando certe meccanicità di cui gli scrivemmo allora. Ma da qui ad una grande direzione di un Rossini tragico, però, molto ne cala.
Durante il primo atto ha staccato qualche tempo comodo, come la cabaletta della sortita di Ilo, opportunamente accellerata nel conducimento tra prima e seconda strofa, ma gli è mancata ora la capacità di dar respiro al canto, come alla cabaletta della sortita di Antenore, ricadendo un po’ anche lui nella marcetta ( vedi ingresso di Ilo che è, invece, “marziale”); ora la capacità di stimolare gli interpreti, come nel caso della piatta Aldrich della preghiera finale o del duetto con Emma; ora la poesia degli accompagnamenti, come al duetto Zelmira Emma; ora la vis tragica, come al terzetto Ilo Polidoro Zelmira. Il terrore delle moderne bacchette di essere troppo romantiche in Rossini ormai li porta a negare ciò che, invece, romantico è. Abbado non decampa da questa regola, e così ha finito per stravolgere l’impressionante terzetto, ove non solo l’orchestra ma anche la vocalità sono già completa realizzazione del poi, ossia di ciò che per anni abbiamo creduto essere solo di Donizetti, Bellini e Verdi e che, invece, il grande Gioachino aveva già inventato e messo in scena prima di loro. Lo aveva ben capito Thomas Schippers, nel 1969, con la sua filologia pratica e l’intuito dell’artista geniale. Oggi, dopo tanti studi, invece, pare lo dobbiamo dimenticare per forza. Idem dicasi per il finale primo, che è già l’ ”Atro evento, prodigio funesto” della Semiramide, che Zedda con tanta tensione drammatica ha sempre diretto. Ad onta di un solo anno e mezzo di differenza cronologica, Abbado ha diretto questo momento straordinario in modo terribilmente meccanico e per nulla tragico, quasi fosse altro e diverso compositore, e non se ne comprende la ragione ( tralasciamo poi che nessun interpoli più nei concertati uno straccio di volata o spari una acuto come il cielo comanda, aggiunte che non erano le spacconate della Horne e dei suoi seguaci, ma un modo elettrizzante di descrivere la tensione del momento ). Una direzione a mezza via, direi, che non ha dato giusta resa a tutte le diverse componenti dell’opera, ma solo a alcune.
Un’edizione a luci ed ombre, dunque, nel complesso più efficace dell’Ermine dell’anno passato.

Quanto ai singolari criteri filologici che hanno ispirato questa Zelmira versione Parigi ’26 avremo modo prestissimo di riparlarne diffusamente in sede ad hoc.

7 commenti:

germont ha detto...

"Abbiamo volutamente omesso Maria Callas e la Sutherland post 1975, perché ci vogliono convincere che non siamo mai esistite."
cosa intendete esattamente con questa frase?

Antonio Tamburini ha detto...

Che non è da prendere neppure in considerazione l'ipotesi di una Zelmira della Callas o della Sutherland post '75, perché queste cantanti non sono mai esistite. Del resto, se fossero realmente esistite (e ciò non è), come potrebbero una Aldrich o una Ganassi essere convocate a Pesaro per cantare le parti di Isabella Colbran?

;-)

Anonimo ha detto...

Ieri sera a Pesaro c'ero anch'io, e posso confermare che il migliore di tutti è stato Kunde nel ruolo di Antenore. Vocalmente non perfetto (la sua è la parte più difficile, praticamente impossibile da eseguire senza alcuni aggiustamenti), ma impressionante la potenza della voce, oltre all'accento da vero cattivo e ad un portamento sulla scena di grande effetto. Di Florez ho apprezzato la solita perfezione della linea di canto e la facilità degli acuti; tuttavia, sono rimasto non poco deluso dalla piattezza dell'interpretazione, oltre che dalla stessa sua voce che dal vivo speravo essere migliore che nel disco.
Infine, mi permetta una domanda: quale sarebbe il terzetto Ilo Polidoro Zelmira?

Antonio Tamburini ha detto...

Salve Cesconegre e grazie del commento. Posso chiederle come è andato il finale del secondo atto? Anche alla recita del 12 la linea di canto era tutt'altro che perfetta e gli acuti (segnatamente quelli del finale II, che da edizione critica sono dei mi bemolle!) decisamente spinti, per inciso...

Il terzetto in cui Zelmira canta "O qual calunnia, che pena è questa" è ovviamente quello contenuto nel finale primo (Z.-Ilo-Leucippo).

Anonimo ha detto...

Il finale del secondo atto? Guardi, era la prima volta che lo ascoltavo nella versione Parigina del 1826, e posso dire di averlo di molto preferito alla versione napoletana. In particolare, penso sia stata una scelta azzeccata aver evitato di far cantare alla povera Aldrich tutta la cabaletta finale, che nella versione adottata viene invece eseguita insieme a Polidoro e ad Ilo. Ho trovato Florez in ottima forma, e se non sbaglio l'ho sentito sparare anche un veloce mi bemolle. Inoltre, nella citata cabaletta finale, ha eseguito notevoli volate e cadenze: sicuramente molto meglio di quanto avrebbe mai fatto la collega Aldrich. Non mi chieda poi se la scrittura originale sia stata rispettata in ogni nota: non ho studiato lo spartito!

Antonio Tamburini ha detto...

Il problema è che la Aldrich prima del finaletto deve cuccarsi la scena aggiunta per Giuditta Pasta, ossia la preghiera Da te spero o ciel clemente e una bella fetta della gran scena di Ermione. A conti fatti forse le sarebbe convenuto cantare il rondò, magari con qualche taglio nelle agilità e nei da capo... Sta di fatto che al termine delle recite del 9 e del 12 (cui ho assistito in teatro) la signora era stravolta dalla fatica. E anche ieri mi par di capire che le cose siano andate allo stesso modo.

Da edizione critica Ilo avrebbe nel finaletto II ben 6 (diconsi sei) mi bemolle (Florez ne ha eseguiti 2 la prima sera e 1 la seconda) e una caterva di agilità, davvero impressionanti, soprattutto per la lunghezza dei fiati richiesti (ma del resto Rubini era celebre anche per questa caratteristica). Non conosco a memoria la partitura, anche se l'ho sfogliata proprio in Pesaro, ma dall'ascolto ho avuto l'impressione che qualche taglietto, qua e là, ci fosse... non che ci sia nulla di male, l'edizione critica non è un totem ma un ventaglio di possibilità esecutive.
E comunque delle vicende testuali di questa Zelmira scriveremo ancora prossimamente...

Anonimo ha detto...

Sì, mi spiace dirlo, ma sicuramente ieri sera la Aldrich è stata la peggiore. Quindi, sì, forse le sarebbe convenuta di più la versione napoletana, ad evitare l'aggiunta della Pasta... però per il resto trovo la versione parigina teatralmente molto più efficace, ed inoltre, vista la presenza di Florez, mi è parso giusto affidare a lui il funambolico rondò di chiusura.