sabato 5 settembre 2009

Ero e Leandro di Giovanni Bottesini - Crema, Teatro San Domenico

L’800 musicale italiano è terreno, ancora oggi, per lunghi tratti inesplorato: in particolare il periodo che si circoscrive nella seconda metà del secolo, schiacciato tra l’ingombrante figura di Verdi e la recente diffusione della “musica dell’avvenire”. In realtà accanto al “cigno di Busseto” (già assurto agli onori di rappresentante dell’opera italiana nel mondo, riverito e corteggiato dai teatri di tutta Europa – e non solo – e pure onorato, alla fine, con un seggio nel Senato del Regno) si sviluppava un sottobosco piuttosto affollato e fitto di compositori e musicisti che riempivano – nei cartelloni dei maggiori teatri dell’epoca – gli spazi lasciati liberi dai “grandi”. Spesso, poi, per un curioso gioco della sorte e per i misteriosi casi che reggono i destini del mondo, tali lavori minori, destinati, quasi tutti, a non superare il trascorrere della stagione in cui essi venivano rappresentati e a ricadere, nel volgere di qualche lustro, in un oblio senza ritorno e scampo (salvo brevi cenni su manuali di storia della musica o su saggi critici), riscuotevano successi maggiori rispetto a titoli che oggi sono presenza irrinunciabile in qualsiasi teatro che si rispetti.

Autori come Carlo Soliva (invero leggermente precedente: oggi pressocché una sorta di Carneade, ma allora stimatissimo persino da Beethoven), Enrico Petrella, Filippo Marchetti, Giuseppe Apolloni, Stefano Gobatti, lo stesso Amilcare Ponchielli (salvo la celeberrima Gioconda il resto della sua produzione è stato del tutto dimenticato), occupavano le cronache delle stagioni italiche e non solo, mietendo trionfi e furori di pubblici osannanti e meglio disposti a trascorrere una serata di rassicurante (ancorchè scarsamente originale) routine, piuttosto che abbandonare le (poche) certezze musicali nello sforzo di comprendere qualcosa di “diverso”. Tra le tante caduche stelle del suddetto firmamento, Giovanni Bottesini. Nato a Crema nel 1821 e morto a Parma nel 1889, è ricordato principalmente per l’essere stato un vero virtuoso del contrabbasso (strumento che sino ad allora non aveva certo ottenuto onori solistici), tanto da scrivere un manuale su cui ancora oggi si cimentano gli studenti di conservatorio e da meritare l’appellativo di “Paganini del contrabbasso”. In realtà la sua carriera musicale può essere così sintetizzata: grande virtuoso, buon direttore d’orchestra, mediocre compositore. Bottesini, infatti, oltre che esibire le sue doti da solista, passò alla storia per aver diretto la prima di Aida al Cairo (nonché per aver scritto la diteggiatura del solo di contrabbasso nel IV atto dell’Otello verdiano). In relazione con le maggiori personalità artistiche musicali della sua epoca (da Boito a Giulio Ricordi, di cui sopravvive un interessante carteggio), fu amico personale di Verdi, tanto che proprio l’appoggio del celebrato Maestro gli valse la prestigiosa nomina di direttore del Conservatorio di Parma. Infine, pur non arrivando ad eguagliare il livello raggiunto come virtuoso e concertatore, Bottesini fu autore piuttosto prolifico: naturalmente molti brani per contrabbasso (concerti con orchestra, parafrasi da concerto di opere famose – Sonnambula, Lucia di Lammermoor, Puritani…. – duetti col pianoforte, sonate), diversa musica da camera, sinfonie e poemi sinfonici di suggestioni orientali (si ricordano Notti Arabe e Alba sul Bosforo), una Messa da Requiem, un oratorio (L’Orto degli Ulivi), e poi ouvertures, liriche da camera oltre alla predisposizione dei recitativi per L’Oca del Cairo di Mozart. Ovviamente l’opera – nell’Italia di quello scorcio di secolo – non poteva mancare nel catalogo di ogni compositore che si rispettasse, e Bottesini non fa eccezione: Cristoforo Colombo, L’Assedio di Firenze, Il Diavolo della notte, Marion Delorme, Vinciguerra il bandito, Alì Babà, Ero e Leandro, La regina del Nepal. Tutti titoli che nulla dicono al pubblico di oggi, ma che allora, ad onta di un subitaneo oblio, riscossero lusinghieri successi. Tra di esse spicca Ero e Leandro, tragedia lirica in 3 atti su libretto di Tobia Gorrio alias Arrigo Boito, che lo cedette al Bottesini dopo aver iniziato ad intonarlo da sé medesimo (abbandonando prematuramente il progetto, lasciando solo qualche schizzo, un duetto completo e riutilizzando parte del testo per il duetto di Mefistofele tra Faust e Margherita “Lontano lontano lontano”) e che venne riutilizzato, sul finire del secolo, da Luigi Mancinelli. La struttura del testo e la pretenziosa retorica dei versi (ingarbugliati costrutti di non immediata comprensione, parodie di metri classici, gusto per l’erudizione più erudita, veri e propri divertissement linguistici che, spesso, sfiorano un involontario grottesco, pseudo traduzioni di liriche greche) ricorda quel guazzabuglio di inestricabile nonsense (teatrale, soprattutto) che è il suo stesso Nerone (e che già riecheggiava nel sabba classico del precedente Mefistofele). Difficile, dunque, sostenere lo sforzo di musicare un siffatto libretto, che poco o nulla concede ai consueti poemi per musica che i vituperati mestieranti dell’epoca appena precedente (i disprezzati Solera, Piave, Cammarano, Ghislanzoni etc…) sapevano armeggiare molto meglio e con maggior efficacia (nonché musicalità) dell’intellettuale ansioso di sfoggiare cultura, nozioni e perizia tecnica (identiche rimostranze possono essere levate all’assolutamente inverosimile – e francamente orribile – libretto di Gioconda: è curioso notare come Boito solo in presenza di un compositore in grado di imporre le proprie esigenze e temperare i bollori artistici dello scrittore, riuscì a produrre due capolavori come Otello e Falstaff, che neppure sembrano scritti dalla stessa penna). L’opera che ne sortisce – vuoi per le deficienze di struttura, vuoi per l’ispirazione vacillante di Bottesini – non è certo un capolavoro: evidente, ma non troppo, l’ispirazione verdiana nei cantabili e nei concertati (e non poteva essere altrimenti) e abbastanza rifinita l’orchestrazione (anche se talvolta appaiono effetti o effettacci bandistici nella scrittura degli ottoni, specie nel preludio), l’opera, pur rimanendo riconducibile ad una struttura a numeri chiusi, si sforza di superarli, tendendo a non interrompere il flusso musicale, alternando, senza soluzione di continuità, recitativi, cantabili, arie, cori, brani strumentali. L’organico vocale è essenziale: Ero (soprano), Leandro (tenore), Ariofarne (basso). Cospicua, invece la presenza del coro, vero e proprio personaggio, soprattutto nei primi due atti. La complessa struttura metrica diabolicamente predisposta da Boito, costringe il compositore a piegare la propria vena ad una disposizione cervellotica e disomogenea dei brani, separando nettamente l’ultimo atto (costituito, in pratica da un unico e lungo duetto tra soprano e tenore, modellato su suggestioni tristaniane, per ciò che concerne il testo). Bottesini, si diceva, alterna nei brani solistici recitativi – risolti in un declamato che pare ispirarsi alle tendenze della “nuova musica” – e aperture melodiche (non sempre di limpida ispirazione), oltre a fare largo uso, nel corso dell’opera, di “temi conduttori” che compaiono già nell’iniziale preludio (forse il brano più brutto del lavoro). Vertice della partitura è l’atto II (oltre a parte del lungo duetto finale), che dopo i ballabili presenta una compatta scena d’insieme col coro e i solisti in cui emerge l’ispirazione più autentica dell’autore. Segue il poetico ultimo atto, anche se presenta momenti di stanchezza compositiva. L’atto I è, invece, il meno interessante dell’opera: musicalmente goffo, drammaticamente insulso e con l’ingombrante presenza di un lungo e inutile episodio solistico tenorile (indicato da Boito come Anacreontica) di ben scarso valore: molto meglio la pur prolissa aria di Ero e, soprattutto la bella aria del basso (che riprende il tema più suggestivo dell’opera, già esposto nel preludio). Ero e Leandro ebbe la sua prima a Torino, l’11 gennaio 1879, ottenendo un successo tale da consentirgli ben 23 rappresentazioni: il cast vocale comprendeva il basso Gaetano Roveri, il soprano Abigaille Bruschi-Chiatti (la prima Elisabetta del Don Carlo italiano del 1884) e il tenore Enrico Barbacini. Tuttavia, già l’anno successivo, in occasione di una ripresa al San Carlo di Napoli, l’opera fu un deciso fiasco e ben presto finì nel dimenticatoio. Non un capolavoro, dunque, ma titolo da conoscere – insieme a tanti altri coevi – per comprendere quale era la vera musica di consumo all’epoca in cui Verdi primeggiava, così da poter meglio cogliere dove effettivamente risiede la grandezza di quest’ultimo rispetto ai suoi colleghi compositori. Conoscenza che oggi è possibile avere in occasione della prima ripresa in tempi moderni dell’opera, allestita il 4 di settembre (con replica il 6) nella città natale del compositore, presso il Teatro San Domenico, che finalmente omaggia Bottesini, non lasciando solo a Parma l’onore di celebrarlo attraverso un importante concorso di levatura internazionale dedicato al contrabbasso. Va innanzitutto lodato – aldilà dei risultati artistici complessivi, comunque assai dignitosi – lo sforzo dell’organizzazione che, con grande impegno e con mezzi verosimilmente scarsi, è riuscita nell’impresa di predisporre un testo attendibile della partitura, eseguirla in forma semiscenica (a causa della particolare struttura del teatro: una chiesa sconsacrata, in realtà, che mostra ancora l’abside romanico, gli affreschi e la struttura architettonica e che, dunque, non permette l’uso di quinte e scenografie), coinvolgere artisti conosciuti anche in ambito nazionale, e attrarre l’attenzione degli addetti ai lavori (e che potrebbe, in ultima analisi, portare a farne un appuntamento periodico, magari riesumando gli altri titoli del catalogo di Bottesini: si legge nel programma di sala l’ipotesi di allestire in futuro la sua ultima opera La regina del Nepal). Prima di dare resoconto delle singole esibizioni mi preme, però, fare una considerazione: orchestra, coro e solisti hanno dovuto scontrarsi, già in partenza, con una difficoltà aggiuntiva che rendeva ancora più complicata l’esecuzione dell’opera: l’acustica della sala, infatti, e proprio per le ragioni della sua struttura, non permette un ascolto ottimale e comporta gravi squilibri nell’omogeneità degli insiemi, negli impasti timbrici di solisti e strumenti, nella corretta propagazione della voce, oltre alla presenza di un percepibile riverbero che inaridisce armonici e volumi. La precisa Orchestra Filarmonica del Piemonte è diretta con mano sicura da Aldo Salvagno, che mostra di credere molto nel valore musicale dell’opera di Bottesini, cercando di nascondere gli effetti peggiori e gli squilibri della partitura, per enfatizzarne i momenti maggiormente ispirati (tuttavia vengono operati diversi tagli, soprattutto nei duetti dei protagonisti, forse a causa di talune difficoltà degli interpreti e, soprattutto, vengono espunti del tutto i ballabili dell’atto II – ridotto, a causa dell’omissione, ad un torso – probabilmente per la struttura stessa del palcoscenico che non consente l’impiego di un pur minimo corpo di ballo). Da lodare l’ottima prova del Coro Claudio Monteverdi diretto da Bruno Gini e che è il vero protagonista dell’opera: duttile, preciso, musicalissimo. Da applaudire senza riserve. Più problematico il cast vocale, dominato però dall’Ariofarne di Roberto Scandiuzzi: il basso trevigiano ha imposto sul palco la sua esperienza, il suo accento nobile e l’ottima presenza scenica. La linea vocale è ancora salda e il timbro è caldo e corposo, buono il legato, ma talvolta fa capolino quella fastidiosa oscillazione che sovente si ascolta nelle sue esibizioni (anche passate), soprattutto nelle zone più acute della tessitura (ma il ruolo non è particolarmente impervio e, a parte pochi acuti, resta per lo più in zona centrale, dove Scandiuzzi può fraseggiare meglio e con più agio). Una buona prova, comunque. Qualche problema in più l’Ero di Veronique Mercier: giovane soprano svizzero dal repertorio un po' incerto (e direi azzardato) che va da Musetta a Gilda, da Rosina alla Contessa passando per Leoncavallo e Mascagni. Un’interprete, dunque, ancora in cerca di identità, con una tecnica da affinare e con qualche problema nel reggere il registro acuto. Voce abbastanza leggera che non si attaglia perfettamente al ruolo, scritto per una cantante dalla tenuta più salda e di maggior corpo. Assai deludente il Leandro di Gian Luca Pasolini: già improponibile Percy di Anna Bolena, qui è facilitato da una scrittura non particolarmente acuta o impegnativa, tuttavia la linea di canto appare sporca nei centri e sforzata in acuto, di fatto cantando di gola per tutto il tempo (per poi lambire gli acuti in un biancastro falsetto), si aggiunga poi una perenne lotta con la corretta intonazione (in cui il tenore è sempre rimasto sconfitto) e l’assenza, nel fraseggio, di accenni d’eleganza, di abbandono e di passione (almeno nei duetti con Ero). Prova dunque insufficiente che ha costituito la più grossa tara della produzione. La messa in scena sconta l’impianto privo di quinte che l’ex chiesa fornisce: senza alcuna identificazione temporale (i costumi sono astratti: tuniche e manti e camicione per il coro, e i solisti, tranne Ariofarne in marsina ottocentesca), la scena era costituita da un tavolo apparecchiato, una scalinata retrostante e un piano inclinato per l’ultimo atto, oltre ad alcuni oggetti con funzione simbolica. Mancava, però, del tutto l’aspetto classicheggiante e pagano (sostituito da un accennato ordine borghese). Nel complesso, tuttavia, questa riesumazione di Ero e Leandro è stata operazione culturalmente molto valida, musicalmente più che dignitosa (fatto salvo il tenore), ma di certo non ci ha restituito alcun capolavoro (raramente se ne trovano in operazioni analoghe), anche se Bottesini e la sua opera meritano comunque lo sforzo organizzativo.

4 commenti:

pol ha detto...

Sui controtenori e su Jaroussky in particolare sono assolutamente d'accordo con la "cricca" della Grisi - anche se vi odio , perché mi avete stroncato Kaufmann..:-)) - in effetti non capiro' mai il sucesso di questo bimbetto, perché di voce da bimbetto trattasi, del resto Jaroussky stesso ha rivendicato con orgoglio in un intervista - non so piu' se su ARTE o Mezzo - il carattere infantile della sua voce : ma allora che canti i ruoli per voce bianca - ma io continuero' a preferire un bambino vero - delle opere di Menotto o Britten, e lasci perdere i ruoli maschili eroici delle opere di Händel e smetta di massacrare i recitativi delle cantate italiane, con un italiano che non sarebbe perdonato a un allievo di conservatorio, una vocetta afona in basso e strangolata in alto. Forse una sua qualità - perché una qualche qualità ce la deve pur avere.. - è quella di essere una specie di macchinetta musicale infallbile ? Boh.
Per quanto riguarda Schubert e il Lied tedesco in generale invece sono meno d'accordo : nessuno ha mai detto che tutti i seicento e passa Lieder di Schubert sono dei capolavori -a cominciare da Fischer-Dieskau, che li conosce bene, direi- certe canzoni dei Beatles sono molto piu' belle di certi lieder di Schubert: ma mi sembra difficile accostare le pur fascinose melodie di Tosti a , per esempio, la "Schöne Müllerin" o al "Winterreise"... e nessuno ha mai detto che è la nobiltà dei testi che fa la grandezza dei capolavori di Schubert : a parte quasi tutti quelli su testi di Goethe o Rückert, i due grandi cicli che ho citato hanno dei testi - di Wilhelm Müller - decisamente mediocri, ed è proprio il genio musicale di Schubert che li rende dei capolavori. Cosi come non è completamente vero che queste opere erano scritte per cantanti dilettanti o per compiacere i salotti : le opere piu importanti - dall "Erlkönog" fino al "Winterreise" sono state scritte per Michael Vogl, che anche se "in pensione" all' epoca del suo incontro con Schubert, aveva alle spalle una bella carriera alla Opera di Vienna, dove aveva cantato tra l'altro Pizzaro nel Fidelio .
Per la melodia francese il discorso è un po' diverso magari ne riparleremo un altra volta.
Per quanto riguarda la questione omosessualità/ omofobia non vedo il rapporto con il post...
Invece mi interesa il discorso su Rimbaud e Verlaine : anche qui sono c'accordo con Duprez : sono due poeti che non hanno quasi niente in comune : innanzitutto appartenenti a diverse genrazioni, se Verlaine resterà sempre legato alle forme metriche tradizionali, Rimbaud, come Lautreamont per esempio, inventa nuove forme, mescola la poesia con la prosa,a volte riduce i poemi ad una breve folgorante frase, e anche le sue preoccupazioni epresssive e i suoi messaggi sono lontanissimi da quelli di Verlaine, che rimane comunque un grande poeta, ci mancherebbe.
In ogni caso grazie per questa discussione interessantissima, ce ne fusse :-)
bye
pol

Antonio Tamburini ha detto...

Ciao pol e grazie per il commento. Magari la discussione può proseguire nel post dedicato al disco di Jaroussky, che ne dici? Giusto per non togliere spazio a chi vorrà eventualmente commentare l'opera di Bottesini. Anzi, se potessi inserire il tuo commento anche nell'altro post, te ne saremmo grati.

AT

mozart2006 ha detto...

Il post su Bottesini è molto interessante. Vorrei proporre, quando ne avrete il tempo, di ricordare anche Antonio Carlos Gomes, altro notevole autore dell´epoca, su cui anch´io ho svolto ricerche.
Saluti

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Vero! Molti, a dire il vero, sono gli autori interessanti in quel periodo: a patto di non scadere in campanilismi e facili entusiasmi da riscoperta. Mi spiego: queste riesumazioni hanno senso e hanno funzione culturale, laddove esse vengano intese per quel che sono in realtà. Senza lasciarsi andare ad annunci di capolavori ritrovati (come spesso invece accade). Nel caso specifico ho riscontrato - nonostante il merito degli organizzatori - un eccesso di campanilismo da parte loro, che nuoce sempre, anche alle più lodevoli iniziative...

Tra le molte riscoperte, secondo me, andrebbero - prima di tutto - riesumati quei Goti di Gobatti che tanto clamore suscitarono all'epoca...