martedì 22 settembre 2009

Orfeo di Monteverdi alla Scala


Abbiamo assistito alla seconda rappresentazione dell’Orfeo monteverdiano alla Scala, produzione affidata al duo Alessandrini - Wilson. Nel ricaricare le pile in attesa della seconda kermesse di “lirica antiquaria” di questo settembre musicale milanese, l’Agrippina di Haendel organizzata da MiTo, potrei pigramente rimandarvi alla recensione pubblicata su Il Giornale di lunedì 21 settembre, sottoscrivendola come condivisibile. Ma poiché questa è di fatto l’anomalia di un pieno consenso di stampa tributato dalle più grandi testate giornalistiche italiane, diremo anche noi la nostra nel merito.

Abbiamo assistito ad una serata graziosa e garbata, di bella suggestione scenica e musicale, di buon successo, ove nulla però è stato davvero convincente sul piano filologico, né pienamente rievocativo e magico, insomma tutto formalmente in ordine ma poco coinvolgente, tenuto conto che anche un musicista arcaico come Monteverdi può coinvolgere molto il pubblico.
La sala del Piermarini è uno spazio di dimensioni abnormi per questo genere di titoli, nati per sale o piccoli teatri di corte, e finisce per deformare i rapporti sonori originari. Come pure la vastità dello spazio scenico, gigantesco rispetto alla misura ed al clima dell’azione.
Il maestro Alessandrini ha diretto con bella velocità, senza rallentare troppo i tempi, ma non è stato troppo vario nell’alternare le velocità dei vari pezzi o nel ricercare suggestioni e colori. Una maggior varietà, soprattutto ritmica, nella prima parte avrebbe contribuito a coinvolgere maggiormente il pubblico, laddove la favola pastorale ha faticato a decollare perché gli interpreti non hanno cantato con la dovuta perizia di fraseggio né con belle qualità timbriche. Nella poetica di Monteverdi è centrale il ruolo dell’accento conferito tramite il canto: la chiarezza della dizione si unisce alla ricerca di colori ed intenzioni che devono “imitare” i sentimenti umani, creando l’emozione nello spettatore. La ricercatezza del testo letterario, poi, denso di elementi di retorica cortese, richiede il riconoscimento e la piena restituzione degli stessi, sia sul piano vocale che scenico. Nel mancato raggiungimento di questo obbiettivo sta il limite della produzione.

Ai cantanti manca una piena varietà di accento, sia per mende vocali che di dizione.
L’Orfeo di Georg Nigl ha una voce non sempre ben timbrata, morchiosa e nasale nelle salite verso l’alto; la dizione, per lui in particolare, è risultata poco chiara e scandita, tanto che spesso abbiamo fatto ricorso all’aiuto del lettore luminoso. Da qui il limite espressivo e l’effetto raggiunto solo a metà nei grandi monologhi del protagonista, tra le pagine più straordinarie e suggestive di Monteverdi ( valga per tutti la scena con Caronte, dove no ha nemmeno cantato molto correttamente… ). Preoccupati più che dal canto dall’obbedienza ai dictat della moderna filologia vocale antica, in particolare gli attacchi fissi delle note tenute, anche gli altri interpreti, dimentichi che anche per i cantanti dell’epoca si era soliti parlare di “voce bella” . Qualunque effetto ricercato nel canto melismatico dalla Messaggera e dalla Speranza di Sara Mingardo è scomparso causa un’emissione troppo gutturale ed ingolfata, come pure dicasi per il Caronte di De Donato, dalla voce dura e ruvida. Meglio l’Euridice e la Musica della Invernizzi, pur con qualche fissità eccessiva.
Quanto alle deità infernali, che nel costume e nelle movenze (anzi, non movenze) richiamavano la tradizione ritrattistica coeva a Monteverdi e più ancora il recente “Il mestiere dell’armi” di E. Olmi, li abbiamo sentiti poco anch’essi, soprattutto la signora Milanesi.
Insomma, un bilancio generale di voci di bassa sonorità e scarso fascino timbrico: se vogliamo essere pietosi possiamo imputare la circostanza alla posizione della voce; se, viceversa vogliamo omettere gratuite giustificazioni, possiamo dire che le voci di limitato sostegno e proiezione non possono sentirsi in un teatro di tale vastità. La prova la fornisce, al contrario, la voce di una dei pastori (Leonardo Cortellazzi), non certo grande, ma perfettamente sonora, udibile e di dizione chiarissima. Poi i baroccari di stretta osservanza potranno inorridire per il nostro aperto desiderio che si canti con tecnica ispirata a Garcia e non alle loro teorie, ma i casi sono due: o rappresentiamo questi titoli in ambienti adatti a voci piccole e prive di espansione, oppure in ambienti quali la Scala facciamo in modo che pratichino quella tecnica di canto, che non impedisce di piegare la voce alla ricerca di certe antiquarie suggestioni vocali.

All’allestimento è mancata la cifra esatta ed unitaria dell’insieme, non rispettando alcune convezioni irrinunciabili del teatro monteverdiano e dell’epoca. Esso è parso gradevole, come detto, sicuramente non nuovo, ricco di autocontaminazioni ( che sono di fatto la cifra di ogni spettacolo di Wilson ), citazioni ( consce?) di altro, a cominciare dal suddetto film di Olmi, ingenuità e tocchi naiv variamente assortiti, il tutto miscelato con gusto e mestiere. Dichiarata dal regista, la citazione di un Tiziano raffigurante Venere ed un suonatore di organo, apertamente ripresa nella bella prospettiva centrale del viale di cipressi. Meno bella la resa “plasticona” degli stessi, come pure degli animali addomesticati da Orfeo, che rinvia piuttosto a certe rese molto descrittive e realiste della natura dei pittori tardogotici, private però della loro magica atmosfera medioevale. Il verde sgargiante del prato è apparso a metà tra un immaginario giardino privato rinascimentale ed un campo da golf ( Pizzi a Bologna nel recente Vampiro è incappato nella stessa ambiguità di resa…..), in contrasto con il clima rarefatto e metafisico dei personaggi in scena, immobili o semoventi. Per tutta la sera siamo stati sospesi tra la rappresentazione cortese ( impossibile in quella vastità ) ed una metafisica alla Magritte, tra l’altro ben lontana dalla natura sensuale del preindicato Tiziano, la cui citazione diventa davvero pretestuosa perché ridotta alla prospettiva alberata.
Quanto ai setti murari della seconda parte, questi non sono né una novità né costituiscono un elemento peculiare a questa produzione, ma sono solo un artificio scenico comodo e funzionale, atto ad alludere ad un simbolico ingresso nell’Ade e a diventare palco per ospitare gli Dei. Dei che, tra l’altro, non trovano mai, nella gestualità come nei costumi, una differenziazione precisa da Orfeo e dagli altri umani e che, invece, è requisito Monteverdiano esplicito, perché presente chiaramente già nella vocalità. La diversa natura dei personaggi non può essere annullata sulla scena, perché la retorica del testo prende forma contemporaneamente in musica come in scena, nei gesti come nei costumi, per da vita al “recitar cantando”. Bob Wilson, invece, è stato preso dalla conservazione dalla propria personale maniera scenica, fatta di immobilismi e/o brevi gesti lenti, che hanno finito per giocare a suo sfavore, perché fini a se stessi e slegati dalle esigenze retoriche del tardorinascimento monteverdiano.
Il prodotto finale può anche funzionare, ma è privo di memoria storica e culturale, frutto di una sensibilità non italiana e di una scolarizzazione non classica,dunque estraneo alla nostra tradizione.

2 commenti:

scattare ha detto...

Visto quest'Orfeo. Sembra tutto un pò sott'acqua per i miei gusti, ma fatto bene con serietà e immaginazione. E', comunque, guardabile. Il problema "acustico" però rovina aspettative musicali e personalmente toglie una buona parte del godimento dello spettacolo. Si fa fatica capire le parole dei cantanti, cosidetti "specializzati", e si arriva alla fine dell'opera con la netta sensazione che sono tutti vocalmente stanchi per lo sforzo grande. L'unico cantante che spuntava fuori, al di sopra gli altri interpreti negli spazi scaligeri era, appunto, il tenore Cortellazzi che sembra abbia cercato approfondire un equilibrio tecnico/vocale all'interno dello stile "barocco/monteverdiano" (recitar cantando) riuscendo egregiamente.

Semolino ha detto...

Cara Giulia Grisi, se non ho interpretato male quello che hai scritto tu inviti i cantanti a seguire la tecnica del Garcia anche quando si canta Monteverdi. Il fatto è che non c'è nessuna tecnica del Garcia. Il Garcia nel suo trattato non fa altro che riassumere, ampliare e spiegare in maniera un poco più "scientifica" quello che poi si ritrova scritto in tutti gli altri trattati più antichi risalendo al Mancini e al Tosi, sino agli scritti di Rameau sul Mercure de France, arrivando fino a Caccini e Monteverdi stesso. L'imposto della voce in maschera risale alla tragedia greca ed è sempre perdurato durante tutti i secoli in cui è stato necessario farsi udire in maniera chiara e netta, e a tutte le intensità di voce (dal sussurro al declamato veemente), nei grandi spazi : anfiteatri, teatri, chiese, piazze e luoghi publici. Come avrebbe potuto un Papa o un cardinale predicare con eloquenza e retorica in uno spazio come quello di San Pietro senza una voce immascherata? e soprattutto, come avrebbero potuto farlo senza diventare afoni con il passar del tempo? Come avrebbe potuto tenersi una conferenza universitaria in un anfiteatro nell'ottocento? O un discorso publico? Certo oggi è facile poichè usano il maledetissimo MICROFONO. Infatti uno dei tanti motivi che hanno contribuito al decadimento del canto, non il solo ma senz'altro quello che vi ha contribuito di più, alla scomparsa della cultura e l'uso corrente della voce impostata (immascherata) è stata proprio la nascita e la diffusione del microfono. Basta ascoltare, per rendersene conto, i primi film sonori, in cui gli attori, non avendo ancora una dipendenza dal microfono, recitano con voce impostata, così come hanno la voce in maschera i cantanti di musica leggera al tempo in cui il microfono non si era ancora diffuso e definitivamente imposto. Il vero declino del canto incomincia lentamente ed inesorabilmente, poi dilangando sempre di più, proprio nel secondo dopo guerra, che se non sbaglio coincide col regno assoluto del microfono, e colla progressiva scomparsa di coloro che erano nati ed erano stati educati in un epoca che non aveva ancora la cultura del microfono. Vero è che il microfono non era comunque utilizzato all'opera, ma comunque è venuta a mancare, dall'immaginario collettivo, la voce impostata e con essa il gusto e l'orecchio educato a gradire e riconoscere questo tipo di emissione : alta e sul fiato. Negli anni 1960 per sentire una voce impostata bisognava andare all'opera, nel Rinascimento bastava andare ad ascoltare un discorso publico o una predica in chiesa. La voce impostata fino alla divulgazione del microfono faceva parte del quotidiano di chiunque.Se non vado errato Monteverdi, per audizionare i cantanti,li portava proprio in quello che era uno degli spazi più ampi dell'epoca cioè in San Pietro. Quello di un Rinascimento e e di un Barocco in cui i cantanti avevano una voce NON o poco impostata è una impostura baroccara.
Per verificare il decadimento del canto basterebbe fare una rassegna di registrazioni che vanno dal 1900 a oggi per accorgersi che il progressivo ingolamento è incominciato a diffondersi proprio fra i cantanti del secondo dopo guerra, non tutti solo alcuni, ma quello che fù una eccezione pian piano diventò quello che oggi è una regola.