mercoledì 2 settembre 2009

Philippe Jaroussky: Opium - Mélodies françaises

Iniziamo con questa puntata un ciclo di recensioni di cd di fresco dati fuori. Alcuni affezionati lettori ed altrettanti assidui nostri detrattori ci rimproverano di essere poco informati sulle nuove tendenze e soprattutto sulle nuove star (e starlet) del mercato discografico, ed è per questo che, in questo mese di settembre, vogliamo dedicare un poco di spazio a quei cantanti cui major e critica dedicano tutto l'anno la loro incondizionata attenzione ed il costante, crescente plauso. Ovviamente a ogni recensione seguirà adeguato commento musicale.
Buona lettura.


L’ultima novità del pianeta baroccaro, è il nuovo album di Philippe Jaroussky: Opium. Il titolo, molto glamour (così come la patinatissima copertina che raffigura il divo con lo sguardo vago e distratto, la pelle levigata e diafana, e le labbra – più lucide e carnose del solito – semiaperte, sullo sfondo di un broccato da tappezzeria di albergo di lusso), ammicca a quell’ambiente di decadenza fin de siècle frammisto al gusto liberty e salottiero (seppur venato di inquietudini bohémienne) che caratterizza il repertorio a cui è dedicata l’incisione: mélodies e chansons di Debussy, Massenet, Saint-Saens, Chausson, Fauré, Caplet, Lekeu, Dukas, Chaminade, Hahn, D’Indy, Dupont, Franck. Confesso di aver avuto non poche difficoltà nell’ascolto di questo ennesimo esempio di come certe mode passino dalla curiosità sperimentale (per quanto discutibile) al mero grottesco.
Già, perché con questa grottesca raccolta, assurdamente affidata a una voce di controtenore in crisi d’identità (e che passa dagli eroi asessuati dell’Opera Seria, all’ambiguità di una scimmiottatura di Marlene Dietrich, Rita Hayworth, Theda Bara o di qualche altra femme fatale da cinéma noir – giacchè a questo rimanda, almeno nell’immaginario collettivo, questa selezione musicale), si è davvero varcato il segno. Inutile soffermarsi di nuovo sul fenomeno dei controtenori e dei falsettisti: già se n’è parlato abbondantemente e le considerazioni non potrebbero che essere le medesime, ossia che trattasi di fenomeno legato a certe mode (che hanno trovato in Francia l’humus ideale per imperversare in ogni ambito), a certa decadenza (di tecnica, stile, serietà), e a molta ignoranza (con la pretesa, però, di voler spacciare una discutibile e arbitraria scelta esecutiva – stigmatizzata e derisa dagli stessi autori delle musiche a cui viene affibbiata – come l’unica corretta e la più autentica nel ricreare le particolari atmosfere dell’Opera Seria e dei suoi divi). Il malcanto falsettista si sta diffondendo, in questi anni, in modo impressionante: come un cancro inguaribile diffonde le sue metastasi in ogni piega del repertorio lirico vocale. Partito come tentativo, assai malriuscito, di ricreare artificiosamente la voce di quegli evirati cantori che erano i protagonisti dell’opera barocca (e che, nonostante quel che ci raccontano i sedicenti filologi baroccari, venivano sostituiti, allorquando non fossero disponibili, da soprani e contralti donne dagli stessi compositori: noto è l’odio di Handel nei confronti dei falsettisti) agli esordi venivano impiegati nel solo repertorio secentesco/settecentesco – l’Opera Seria o la musica sacra – limitandone l’apporto a personaggi marginali; successivamente hanno conquistato i ruoli protagonisti (Giulio Cesare, Serse, Orlando, Rinaldo etc…) con gli esiti disastrosi che decine di incisioni (ligie alla filologia olandese, francese e anglosassone) testimoniano impietosamente (nonostante i plausi di certa critica evidentemente in mala fede). Con il passare del tempo, parallelamente allo scadimento della scuola di canto “tradizionale” e con la sempre maggior diffusione dei dogmi baroccari in settori musicali che poco o nulla avrebbero di che spartire con l’universo propriamente barocco, hanno conquistato Gluck e Mozart, mentre si preparano, ora, all’assalto della musica di Rossini (già qualche tentativo s’è fatto con opere complete – Aureliano in Palmira ad esempio – e recital grotteschi e filologicamente inaccettabili, dove questi finti castrati azzardano Tancredi, Arsace, persino Rosina: tutti ruoli che, come chiunque sa bene, vennero scritti per soprani e contralti). Un ulteriore esempio di tale scorrettezza, arbitrio e ignoranza – sì, perché chi compie certi scempi è semplicemente un ignorante che dovrebbe cambiar mestiere – è la recente uscita del Faramondo di Handel sotto la direzione di Diego Fasolis, dove per i due ruoli en travesti principali (Adolfo e Gernando) scritti rispettivamente per Margherita Chimenti (soprano) e Antonia Maria Merighi (contralto), vengono inspiegabilmente utilizzati due controtenori: scelta incomprensibile se si considera che non sono stati scritti per castrati (al contrario del protagonista: pensato per Caffarelli e qui purtroppo affidato a Cencic)! Solo moda, verrebbe da dire: ma una moda che porta a conseguenze nefaste e incontrollabili. Oggi costoro pretendono di cantare di tutto – forse sognano pure di infilarsi la gonna di Carmen e cantare l’Habanera con tanto di ventagli e velette? – e il bello è che nessuno glielo impedisce! E’ il turno, questa volta, di alcune romanze da salotto a cavallo tra ‘800 e ‘900! Di fronte ad un tale prodotto discografico ci si possono porre diverse domande, ma non ci si illuda che i responsabili di tutto ciò si degnino di dare risposte (più o meno convincenti). Che c’entra, ad esempio, il ricorso ai pretesi simulacri degli evirati cantori con Fauré, Debussy o Massenet? Cosa c’entrano i falsettisti con la tradizione musicale francese, poi, che non ha mai tollerato i castrati (e che quindi non ha certo bisogno di evocarne la figura – per loro inesistente – dal momento che essi erano sostituiti dagli haute-contre)? Per quale motivo fingere di ignorare che quei brani, scritti sì senza indicare un registro preciso, erano però dedicati alle voci allora attuali (che sono, poi, quelle “normali”: soprani, tenori, mezosoprani, baritoni…)? E ancora, come ci si può rappresentare senza scoppiare in una fragorosa risata, un elegante salotto borghese del bel mondo parigino, tra i fumi del tabacco e gli aromi del cognac, tra le figlie di buona famiglia e i rampolli dell’alta società francese, tra nobili dame e uomini d’affari in frac, come ci si può rappresentare, dicevo, in un tale ambiente (che non è solo cornice o sfondo, ma simbolo di una cultura e di un preciso orizzonte estetico) in piedi accanto al pianoforte, invece di una giovinetta graziosa o una diva in disarmo (giacchè proprio a costoro quei brani erano dedicati) un signore dallo sguardo languido e dal fare effeminato che, in abiti virili (più o meno), canticchia in falsetto? Perché, poi, si dovrebbe ascoltare la scimmiottatura di un soprano, quando si può ascoltare un soprano “vero” – voce che oggi, al contrario dei castrati, non mi risulta essere sparita o in pericolo di estinzione (nonostante l’impegno profuso in tal senso da parte di diversi esponenti, anche di lusso, di quel registro)? Ma si torni al disco che, dicevo, è un pout-pourri di brani che spazia in lungo e in largo nel repertorio delle romanze francesi a cavallo del secolo: dalla delicata “A Chloris” di Reynaldo Hahn, con il suo incedere lento e accattivante al misterioso “Lied Maritime” di D’Indy, passando per tutto il campionario del genere. L’esecuzione non è diversa dalla solita che ci si po’ aspettare da parte di qualsiasi falsettista, con l’aggravante del fastidio dovuto al fatto che la voce suona intrinsecamente estranea a quel particolare repertorio: certo si evitano i disastri dell’opera barocca (la coloratura raffazzonata, i fiati inesistenti, la mancanza assoluta di agilità “di forza”, la pronuncia ridicola dell’italiano), tuttavia permangono (e vengono amplificati) l’inerzia del fraseggio, l’assenza di colore e sfumature, la fortunosa aridità dei pochi acuti, l’impacciata resa interpretativa, la completa assenza di sensualità (elemento essenziale in questi brani che proprio nell’interpretazione e nella suggestione trovano la loro ragion d’essere, piuttosto che nel modesto contenuto musicale) e sostituita da un generico tono lamentoso e piagnucoloso, e ancora: la secchezza del timbro, l’acidità del tono, le assurde “messe di voce”, l’emissione fissa e stridente, la monotonia e la piattezza. Alla fine solo noia, noia e noia. Non vi è nulla di interessante nell’esecuzione di Jaroussky e davvero l’oppio suggerito dal titolo servirebbe a rendere più sopportabile un ascolto altrimenti faticoso e penalizzante per chiunque vi si accosti. Si confronti una qualsiasi delle romanze presenti nel disco con la stessa incisa da una Berganza, ad esempio, o da una Norman o anche da una Graham (i brani presentati, godono tutti di una certa fama e tradizione interpretativa): due mondi differenti. L’uno riesce a rendere piacevoli quei pezzi che null’altro sono che liriche d’occasione, senza alcuna pretesa artistica e senza grandi valori musicali (esattamente come i lieder, anche se oggi ci vengono propinati come cura d’élite alla nostra provincialissima ignoranza melomaniaca), valorizzandone ogni sfumatura senza nasconderne la sostanziale pochezza e rivelandone, anzi, la gradevole piacevolezza d’ascolto; l’altro, con il suo insistere serioso su presunti valori e dignità testuali – prendendosi sempre troppo sul serio – con un’esecuzione difficoltosa, imbarazzata, arida nel non riuscire a rendere le tante sfumature che i brani presentati consentirebbero (e che anche le pieghe della lingua suggerirebbero), ma che restano inevitabilmente inespressi: soffocati dall’artificiosità di una voce, una tecnica, un timbro che non permettono di per sé di indulgere in quei colori, quelle ambiguità, quella leggerezza che di questo tipo di repertorio sono la quint’essenza. Di leggerezza, nell’interpretazione di Jaroussky, non vi è neppure l’ombra: a meno che per leggerezza qualche sprovveduto non intenda un’emissione assottigliata e incolore, resa pallida e inerte dal falsetto. Persino la prosodia francese ne esce malconcia – non la pronuncia, ovviamente – a causa dell’innaturalezza di una voce artificiale e sforzata. Nulla di positivo, dunque, in questo ennesimo prodotto da hit-parade baroccara, dove l’etichetta vale più del contenuto. E il contenuto non si distacca dalla solita minestrina insipida che è la voce dei falsettisti. Voci che davvero oggi appaiono – per riprendere un vecchio slogan marxiano – l’oppio dei popoli.

Gli ascolti

Massenet

Elegie - Emma Eames (1905), Elisabeth Rethberg (1924)

Fauré

Nell - Grace Bumbry (1984)

Chausson

Le colibri - Suzanne Cesbron-Viseur (1927)

Le temps de lilas - Nellie Melba (1913)

Hahn

Offrande - Reynaldo Hahn (1909)

34 commenti:

Marco ha detto...

Francamente mi lascia assai perplesso il vostro accenno alla liederistica come ad un genere senza alcuna pretesa artistica e senza grandi valori musicali. Questa mi sembra un po' grossa, considerati i nomi di Schubert, Schumann, Brahms, Wolf. Non mi spiego un giudizio del genere.
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

La liederistica ha un suo valore musicale, ovvio, tuttavia non è quello che ci viene da tempo martellato nel cervello da parte di critici snob, fini pseudo intellettuali, sovrintendenti con la sacra missione di "educarci" etc... Credo vi sia un equivoco di fondo nell'odierna valutazione della liederistica tedesca (perchè solo quella è considerata davvero chic), cioè giudicare il brano musicale in base al testo cui si accompagna: scrivere musica sui versi, certamente splendidi, di Goethe o di Schiller, non implica, di per sè, che tali brani siano meravigliosi. Sono "canzoni" spesso con poche pretese, destinate a occasioni mondane e segnate dall'occasionalità (Schubert ha scritto qualche centinaio di lieder: tutti capolavori?). Sono brani piacevoli, certo, ma non molto diversi dallemélodies francesi o dalle romanze da salotto italiane (stessa destinazione e stessi destinatari), eppure oggi si guarda con raccapriccio a Tosti e ci si bea di Wolf. Se permetti non sono assolutamente d'accordo. Niente contro i lieder (anche se personalmente li trovo noiosissimi, in particolare quelli tedeschi), ma mi infastidisce sentire come vengano considerati i più raffinati esempi di musica vocale!

Velluti ha detto...

Beh, se per questo anche l'opera in molti casi era un genere d'occasione per sovrani e nobili che della musica operistica si servivano per accompagnare cene o serate galanti. Ho trovato la recensione particolarmente livorosa, e non è detto che la critica, per essere tale, debba sostanziarsi di offese reali a persone o a (presunte) preferenze sessuali.
E poi che male fa la cattiva esecuzione di musica che, per stessa ammissione del critico, non è granchè? Non è altro che una cattiva esecuzione come "ce ne è tanti pel mondo!". In realtà è palese che la critica del cd è solo un pretesto per parlare di altro. E tale critica è, per sua natura, non oggettiva, ma - appunto - pretestuosa.

P.S. Caro Duprez, eviti di abbandonarsi in deliri, questi si piuttosto isterici (mi duole dirlo, ma l'articolo è illegibile per quanto è acido, offensivo in maniera implicita, quasi intollerante o, se vole, fascista), che - volente o nolente - quasi si assimilano a quel "terzo sesso" che - in maniera velata - si taccia di "anormalità".

Velluti ha detto...

C'è poi una inesattezza nel suo commento, caro Duprez: dovrebbe sapere che l'omosessualità, l'ambiguità, l'androginia, sono componenti essenziali della cultura, sopratutto francese, fin du siècle. Devo rammentarLe i vari Proust, Huysmans, Flaubert, Musil, Verlaine, Rimbaud, le cui opere letterarie sono preclara testimonianza della preferenza accordata da questi autori, cosiddetti "decadenti", all'ambiguo e al sessualmente "non-definito"? O crede ancora alla favola manualistica (per giunta da pessimo manuale liceale) della donna angelo romantica vs. donna demoniaca decadente? Questa visione, forse, è più figlia dello scimmiottamento decadente attuato da un D'Annunzio, il quale tutto era tranne che un decadente (l'Italia, d'altronde, così come non ha mai avuto un vero romanticismo letterario, non ha mai avuto nemmeno un decadentismo).

Marco ha detto...

Mah, sai, il problema non è quello di contrapporre la liederistica tedesca alla romanza italiana o francese; né di arricciare il naso davanti a niente. La liederistica tedesca conta compositori grandissimi, che non hanno scritto tutti capolavori (e chi ha compiuto mai un'impresa del genere?), ma certamente ne hanno lasciata un grande messe. Del resto, amare i Lieder non significa sacrificare ad una cultura male intesa; significa soltanto apprezzare un grande genere, nobile quanto il canto italiano e non certo più di esso. Tuttavia paragonare Tosti a Wolf è assurdo; qui non si tratta di una contrapposizione di generi, ma di una statura compositiva troppo diversa. Per quanto riguarda il valore dei testi, questo può essere vero per Wolf, che in effetti ha messo in musica praticamente solo testi di grandi poeti (ma con l'eccezione dello "Spanisches Liederbuch" e dell'"Italienisches Liederbuch"). Nondimeno non certo per Schubert, che ha scritto alcuni dei suoi più grandi capolavori su testi mediocri (non è che "Die schoene Muellerin" o "Winterreise" siano opera di grandi poeti).
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per Velluti: le risponderò più approfonditamente in giornata. Così da chiarire il mio pensiero. Una sola cosa anticipo: non mi sono mai riferito a gusti sessuali veri o presunti che siano, non mi interessano e nulla c'entrano con la musica, nè, tantomeno, con i motivi per cui ho trovato questo cd un prodotto più che insufficiente, nè con le ragioni che mi portano a non apprezzare il canto controtenorile (o falsettista in genere). Ma ne parlerò più approfonditamente.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per Marco: chiedo anche in questo caso di concedermi qualche tempo per rispondere compiutamente ad un argomento che mi interessa molto.

Velluti ha detto...

Caro Duprez,
non sciorini però i soliti argomenti a cui credo di aver già risposto in un commento ad un post di qualche tempo fa: lì, con documenti alla mano, cercavo di chiarire le numerose imprecisioni che ripete spesso. Dico per inciso che mi fu detto che il post era "bellissimo" e che, se la Grisi lo avesse permesso, se ne sarebbe tratto un vero e proprio post. Ovviamente questo non è avvenuto, sebbene si siano comunque pubblicate vere e proprie recensioni di autori non propriamente appartenenti alla rosa dei collaboratori più scelti di dubbio valore critico e musicologico. Non lo dico per polemica, ma perchè fa sempre comodo ripetere stancamente argomenti funzionali all'attacco, a prescindere dalla loro reale storicità documentaria.

Domenico Donzelli ha detto...

certo che barocco e baroccari, anche ad altro repertorio applicati "tirano" sempre!!!!
da assoluto profano ed ignorante.
Guardo l'immagine scelta della odalisca, immagine molto cara all'esotismo fin du siecle (non solo francese, ma anche nostrano) ed ascolto il cantore Jaroussky alle prese con gli autori che vivevano in quell'epoca con quell'iconografia ed in ambienti che, magistralmente, ha evocato Luchino Visconti. Ebbene di quell'atmosfera non ritrovo nulla nel disco Opium, perchè di altra ambiguità parla (canta? forse) Jaroussky.
quanto poi al romanticismo o decadentismo italiano patiamo un poco di esterofilia, sempre ad avviso di un povero ex studente di liceo classico (quand'anche il più celebrato milanese!. Mi spiego la definizione ed il paradigma di romanticismo e di decandentismo nascono in altre nazioni. Conseguenza -perdonate un po' affrettata - se la manifestazione coeva italica non presenta tutti gli ingredienti di quella d'oltralpe non è perfetto romanticismo o perfetto decadentismo. Ripeto un poco affrettato. Sarebbe, per tornare all'opera, dire che il Tell o Favorita non sono autentica grand-operà per la sola divisione in quattro e non in cinque atti.

saluti ed alla prossima
domenico

ps nella mia oceanica ignoranza stento a ravvisare la superiorità della trota di Schubert rispetto a dopo di Tosti.
però........

Velluti ha detto...

Caro Donzelli, il paragone non regge: il decadentismo in Italia fu un fenomeno importato, dato che la stessa definizione di decadence si deve a Verlaine, che per primo la impiegò nel famoso sonetto "Je suis l'empire a la fin de la decadence!". Perdoni, ma qui non si tratta di esterofilia o altre bubbole del genere create per portare avanti polemiche a dire il vero poco costruttive, ma solo di realtà storica dei fatti. D'altronde, che D'Annunzio abbia poi preso una piega diversissima da quella di autori come Huysmans o Proust è fatto storico e non mia invenzione. Preferisce parlare, per D'Annunzio, di altra tendenza "decadente"? Va bene. Ma dovrà pur ammettere che la sua non ha nulla a che spartire con autori come Proust o Wilde, accomunati molto più tra loro che non con D'Annunzio.

Domenico Donzelli ha detto...

caro velluti,
il tuo commento è l'esplicitazione di quello che ho scritto. preso per modello di decandentismo Tizio o di romanticismo Caio dobbiamo vedere se vi rientrino anche altri soggetti.
per questa diatriba ti propono un altro e differente esempio. Se prendo come modello di barocco Bernini dovrò concludere, secondo il Tuo ragionamento che l'architettura di Borromini non fu barocca. Il che mi sembra un po' esagerato. Credo che sia più fondato dire che uomini coevi furono espressioni di medesime istanza ed idee di base, poi esplicitate in maniera differente.
Vedi il grand-opera il barocco o quello che vuoi è un gioco che va all'infinito.
ciao ed alla prossima
dd

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Come promesso, caro Velluti, torno al Suo argomento cercando – il più possibile – di rispondere in modo completo, esaustivo e approfondito. Nel farlo procederò affrontando separatamente ciascn punto del Suo commento, ma prima vorrei fare una domanda preliminare: ha ascoltato, Velluti, il prodotto discografico de quo? Infatti le mie ragioni, pur avendo portata generale, vanno lette in relazione al disco, e proprio nel raffronto con esso si colgono i motivi di quello che lei ritiene “livore” (o delirio…) e dell’ “acidità” che mi si attribuisce. Detto questo – per un discorso di metodo – passerei ai punti dei suoi commenti.
1) Circa l’occasionalità dei lieder: nulla di male. Ovviamente anche l’opera è genere che nasce sempre su commissione (e quindi per un’occasione), ma con connotazioni e intenti – non foss’altro per la maggior complessità della struttura – assai diverse. L’opera era destinata a corti o teatri nobiliari e pubblici, era genere che poteva certo accompagnare feste e banchetti (non propriamente l’opera seria: bensì serenate, odi, idilli, ossia composizioni meno complesse e con organici più essenziali e ridotti), ma che comunque era rivolto ad una fruizione differente, più generale e “pubblica” seppur d’elité. Il lied aveva una commercializzazione diversa, più immediata e soggetta a maggior caducità. Destinati ad una esecuzione essenzialmente privata, in case e salotti borghesi, anche laddove venissero cantati in occasioni mondane queste ultime avevano già un significato assai diverso dalle stesse feste nobiliari dell’epoca barocca (che rimanevano eventi quasi pubblici, nel senso che si riverberavo nella società). Una festa in un qualsiasi palazzo della Parigi fin de siecle, o in qualche salotto della buona borghesia tedesca, rimanevano fatti di cui il pubblico non aveva contezza. Schubert scriveva lieder (e pezzi pianistici a 4 mani ad esempio) per non morir di fame: li vendeva alla casa editrice che poi li immetteva sul mercato, alla stregua di best seller musicali. Brani dunque che non richiedevano difficoltà o ispirazione particolarmente elevata (poi è ovvio che uno Schubert controvoglia è sempre più ispirato di altri). Brani d’occasione in questo senso dunque: commerciali, prodotti di cassetta, destinati all’esecuzione privata e che non molto aggiungevano alla reputazione di un compositore. Oggi, invece vengono ritenuti prodotti di elité culturali, attribuendogli un valore estetico fin eccessivo, sostituendone la gradevolezza e la leggerezza che li caratterizza (che è poi dimensione potenzialmente molto poetica) con seriosità e rigore che sono la negazione stessa della loro essenza. Credo, cioè, che non si possa affrontare una chanson di Faurè o un lied di Schumann con lo stesso cipiglio con cui si affronterebbe una scena di Semiramide o un brano di Wagner.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

2) Circa la cattiva esecuzione: la scarsa ispirazione o originalità dei brani non significa, automaticamente, sgradevolezza musicale. Anzi, vuol dire distinguere tra valori artistici e elementi decorativi, senza attribuire scale d’importanza. Ma aldilà di questo non è giustificabile comunque nessuna cattiva esecuzione: o meglio in termini generali non vi è nulla di eticamente riprovevole in una cattiva esecuzione (di un lied di Wolf come di una sinfonia di Beethoven) salvo per le orecchie di chi ascolta, ma nel momento che si presenta qualcosa ad un pubblico teatrale o discografico, è lecito attendersi una buona esecuzione. Qui a mio avviso non c’è stata, ma rimane una mia valutazione – basata sull’ascolto però – probabilmente la Sua sarà differente, ma mi auguro derivi da un analogo ascolto e non da ragioni extra musicali.
3) Circa la pretestuosità della critica: in realtà non vi è alcuna mala fede nella mia recensione. Ho ascoltato il disco e ne ho proposto alcune riflessioni. Ovviamente l’argomento principale è l’interpretazione controtenorile in quanto tale – per me dovuta a mode e ideologie che hanno portato una “invasione di campo” dei falsettisti per ogni luogo del repertorio – dato che proprio in essa risiedono, concettualmente, i motivi di maggior lagnanza.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

4) Circa presunti assunti sessualmente discriminatori: me lo consenta, Velluti, ma qui è lei a delirare! Intolleranza, omofobia, addirittura fascismo!!!! Suvvia…torniamo alla musica. Nel mio pezzo nulla lascia intendere attacchi offensivi a gusti sessuali differenti (né mi risulta che il canto controtenorile comporti ipso facto una scelta omosessuale). Le ripeto, nulla mi importa dei gusti sessuali altrui e nulla possono c’entrare – detti gusti – con le valutazioni critiche del disco o nel mio mancato apprezzamento dei falsettisti. Semplicementi li ritengo stilisticamente una forzatura. Ad essere sinceri, però, è proprio il mercato discografico ad essere in parte discriminatorio, favorendo una certa identificazione sessuale dei controtenori, forse per cercare motivi di interesse extra musicali. Se bene legge questo ed altri miei scritti in merito, vedrà come l’oggetto di una certa ironia non sia detta pretesa ambiguità, bensì il grottesco che essa sottende nel marketing delle case discografiche. Ritengo, ad esempio, offensivo e gratuito presentare un controtenore in copertina vestito di pizzi e velette, o truccato come una Drag Queen, o in atteggiamenti forzati e sforzati…e questo perché mi sembrano superflui, in quanto sviano dai valori musicali che tali operazioni dovrebbero contenere. E se devo dirla tutta, trovo molto intollerante ritenere che parlar male dei controtenori significhi essere omofobi o fascisti: mi sembra una buona scappatoia per non affrontare l’argomento e per portare il livello della discussione su toni beceri e volgari (come se non bastasse la stampa nazionale in ciò). Io dei falsettisti critico stile, tecnica e ideologia, critico anche l’apparato scenografico che lo accompagna, ma proprio perché è chiarissima la forzatura. E del resto, perché non dire che modificare il rendering delle labbra di un cantante (uomo o donna che sia…o di quello che lei chiama impropriamente “terzo sesso”, confondendo la biologia con i gusti) per renderle più carnose o imporre ciglia finte e ombretti e rossetti pesanti, nulla possano c’entrare con qualsiasi musica e, quasi sempre, risultano grotteschi? Ma purtroppo oggi l’immagine soverchia l’essenza e, forse, per vendere bisogna ammiccare al pubblico che si ritiene più predisposto all’acquisto del prodotto. E questo vale per i controtenori dipinti come caricature del Vizietto (film delizioso o pure questo insopportabilmente fascista?), per i tenori in versione macho (con sovrabbondanze tricotiche su petti, menti o teste) o per soprani e mezzi in abiti succinti intenti a “mostrare la mercanzia” con atteggiamenti da zoccola (mi scusi il termine). Lei poi parla di anormalità, ma lo fa lei in una sorta di “difesa preventiva” ad un attacco mai sferrato: ripeto per l’ennesima volta che i controtenori non mi piacciano per mille motivi (che non le sto più ad elencare), ma nei quali non rientra nessuna ragione omofobica…non trasferiamo pure qui certe mode polemiche nazionali.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

5) Circa l’inesattezza del mio commento: Velluti, Lei fraintende (e lo fa consapevolmente). La mia critica sta innanzitutto nell’esecuzione musicale di una voce che era estranea all’estetica francese decadente (come a tutta la musica francese, dove i castrati – di cui i falsettisti si dichiarano in parte emulatori, nella ricerca di rendere quel particolare registro – non erano ben visti) e non nella cultura decadente. Ma se vogliamo parlare di questa, l’argomento va affrontato in modo più onesto. Innanzitutto distinguendo la fruizione privata dai valori estetici: Lei si figura un salotto borghese dove accanto al pianoforte siede un falsettista? Sono proprio i falsettisti (e non l’ambiguità che vorrebbero suggerire) ad essere fuori posto in quella sede, oserei dire filologicamente fuori posto. Ma poi davvero quelle voci aride e monocordi suggeriscono sensualità o ambiguità? Io non la colgo: nella sforzata e costruita artificiosità di una tecnica che risulta per forza arida e con ridotte possibilità espressive (il falsetto, che forza la voce e la snatura impedisce di fatto, o riduce consistentemente, tutt’al più, la possibilità di controllare fraseggio ed espressione, in quanto blocca l’emissione in un tono sempre artificiale) non trova spazio nessuna sensualità, nessuna malinconica leggerezza, nessuna ambiguità, nessuna lussuria. E poi, si fidi, non credo a nessuna favola manualistica: so bene in cosa si sostanzia l’estetica decadente e come la componente di ambiguità sessuale e indefinitezza ne siano elementi fondamentali (e del resto basta leggere Proust o Wilde o gli altri autori che ha diligentemente citato: anche se non tutti assimilabili al decadentismo letterario). Certo il contrasto tra donna angelo e donna demone è più romantico e tardoromantico, o magari scapigliato (si legga l’esemplificazione perfettamente sintomatica che ne da’ il Boito col suo “Dualismo”).

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Mi permetta, però, ora di contestare il suo assunto finale su D’Annunzio etc… Davvero, questo sì, mi sembra figlio di cattivi manuali liceali (la cui ideologia di riferimento, sovente, denigrava lo scrittore per colpirne le pretese vicinanze politiche: atteggiamento italianissimo che deriva dall’egemonizzazione gramsciana del nostro mondo culturale, di quell’estetica marxiana – codificata dal Lukasc – che ha portato ad interpretare anche la storia letteraria come la derivazione sovrastrutturale del fondamentale problema dell’emancipazione del lavoro dal capitale, buttando a mare quegli autori che non fossero sembrati idonei e funzionali alla rivoluzione e alla lotta di classe). L’Italia ha avuto il suo roanticismo e il suo decadentismo, ovviamente con connotazioni proprie ed originali (così come quello francese differisce da quello inglese). Del resto ogni tendenza letteraria va compresa e studiata nell’humus dove attecchisce: l’Italia ha avuto sviluppi culturali differenti da Francia Germania e Inghilterra, ovviamente questo si avverte nel modus in cui romanticismo e decadentismo si sono sviluppati da noi. D’Annunzio non scimiottò nulla, anzi contribuì a svecchiare le lettere italiane e a dare ad esse un respiro europeo, facendo penetrare le nuove istanze estetiche. La favola del D’Annunzio cattivo e prefascista che non capisce nulla di letteratura è baggianata che neppure nei burocratici e decaduti (non decadenti) licei di oggi si studia più. Del resto una cosa analoga accadde col Futurismo: il mio quotatissimo manuale di liceo, non perdeva occasione di biasimare i futuristi italiani (fascisti e guerrafondai) ed esaltare quelli sovietici (veri letterati invece), imprimendo un’insopportabile lettura ideologica ad una straordinaria esperienza creativa (più interessante negli scritti programmatici e nelle arti figurative che nelle realizzazioni propriamente letterarie): Majakovsky sì (anche gli insopporabili versi da cortigiano della rivoluzione d’ottobre, come il poema a Lenin) e Marinetti nò! La politicizzazione della critica letteraria ha sempre portato a grossi abbagli, grotteschi e risibili: si pensi alla querelle del Gattopardo, rifiutato da Vittorini perché ideologicamente sospetto. Potrà piacere o meno, ma il Piacere o La Passeggiata o La Pioggia nel Pineto restano esempi di quel decadentismo italiano che è esistito eccome. Così come il romanticismo (Manzoni).

Velluti ha detto...

Caro Duprez, la sua lunga risposta contiene una serie di elementi che mi confermano ulteriormente nella mia precedente valutazione. Una premessa: sovente la critica non-ufficiale, o se vuole di fronda, o se vuole autonoma, ritiene che - proprio per il fatto di essere libera da condizionamenti esterni o da lobbies - sia, per sua stessa natura, oggettiva, o quanto meno tendente all'oggettività. Autocoscienza che porta spesso ad errori madornali, che però nella valutazione del critico che li fa sono investiti di quella autorità che, sempre nella sua ottica, deriva dal fatto di essere "critica autonoma".
Ma andiamo con ordine.
Non ho ascoltato il cd di Jarousski; ma ho avuto modo di sentire il controtenore di recente a Parigi, in un concerto in cui ha presentato alcune delle arie da camera incise per la Virgin. Ma, spero l'abbia notato, il mio commento non fa il minimo riferimento al cd e non entra nel merito dell'esecuzione o nello specifico delle notazioni musicali che si muovono al prodotto discografico. Le mie notazioni sono meramente formali rispetto allo stile e al tono del suo post. E ciò è detto chiaramente nel mio commento. Quindi non si nasconda dietro un dito: qui non si parla di musica o di esecuzione, ma di toni, di uso della forma polemica.

Velluti ha detto...

Un primo punto mi preme sottolineare; lei dice che le interessano i valori strettamente musicali dell'esecuzione. E allora come spiega frasi del genere? (Sono costretto a virgolettare, dato che - per spirito di polemica che mira sempre ad avere l'ultima e decisiva parola, atteggiamento su cui dovrebbe indagare a più livelli. E' un consiglio! - spesso si getta una sorta di riserbo su quanto detto in precedenza e che rappresentava il motivo stesso del contendere) "Il titolo, molto glamour (così come la patinatissima copertina che raffigura il divo con lo sguardo vago e distratto, la pelle levigata e diafana, e le labbra – più lucide e carnose del solito – semiaperte, sullo sfondo di un broccato da tappezzeria di albergo di lusso), ammicca a quell’ambiente di decadenza fin de siècle frammisto al gusto liberty e salottiero...", oppure "Già, perché con questa grottesca raccolta, assurdamente affidata a una voce di controtenore in crisi d’identità (e che passa dagli eroi asessuati dell’Opera Seria, all’ambiguità di una scimmiottatura di Marlene Dietrich, Rita Hayworth, Theda Bara o di qualche altra femme fatale da cinéma noir – giacchè a questo rimanda, almeno nell’immaginario collettivo, questa selezione musicale), si è davvero varcato il segno". Qui si aprla di valori musicali o di ironia gratuita?

Velluti ha detto...

Secondo punto. Lei dice che non fa riferimento a fatti sessuali e si astiene da AFFERMAZIONI FASCISTE O OMOFOBE. Anche qui, caro Duprez, sembra non rendersi conto del significato offensivo e MUSICALMENTE GRATUITO di affermazioni del tipo: "Oggi costoro pretendono di cantare di tutto – forse sognano pure di infilarsi la gonna di Carmen e cantare l’Habanera con tanto di ventagli e velette? – e il bello è che nessuno glielo impedisce!", oppure "... un signore dallo sguardo languido e dal fare effeminato che, in abiti virili (più o meno), canticchia in falsetto", oppure "Perché, poi, si dovrebbe ascoltare la scimmiottatura di un soprano, quando si può ascoltare un soprano “vero” – voce che oggi, al contrario dei castrati, non mi risulta essere sparita o in pericolo di estinzione (nonostante l’impegno profuso in tal senso da parte di diversi esponenti, anche di lusso, di quel registro)?". Campionario degli orrori di certa omofobia travestita da critica oggettiva che vuole spacciare per valutazione competente una serie di attacchi volti. Non è un caso che - ad esempio - l'ironia (lei dirà leggera, io la trovo di una tale bassa grevità da essere stomachevole!) in merito al sogno di indossare velette e gonnella per fare Carmen sia un qualcosa che si riferisce a un fatto che non è ancora verificato. Non c'è una (nemmeno tanto sottile) allusione a gusti sessuali e desideri inconsci e reconditi? E questa non è intolleranza? Non è omofobia? Che ne sa dei desideri segreti di un artista?

Velluti ha detto...

Altra inesattezza: "E ancora, come ci si può rappresentare senza scoppiare in una fragorosa risata, un elegante salotto borghese del bel mondo parigino, tra i fumi del tabacco e gli aromi del cognac, tra le figlie di buona famiglia e i rampolli dell’alta società francese, tra nobili dame e uomini d’affari in frac, come ci si può rappresentare, dicevo, in un tale ambiente (che non è solo cornice o sfondo, ma simbolo di una cultura e di un preciso orizzonte estetico) in piedi accanto al pianoforte, invece di una giovinetta graziosa o una diva in disarmo (giacchè proprio a costoro quei brani erano dedicati)...". Legga un brano indicativo, presente nel racconto di Aubrey Beardsley, intitolato Venere e Tannhauser, e troverà quanto le voci androgine dei falsettisti esercitavano il loro fascino su autori che hanno scritto i manifesti fondativi del decadentismo francese. Qui un giovinetto, denominato Spiridione, abbigliato da donna, truccato, con un corpicapo dorato, canta un brano dello Stabat Mater di Pergolesi. E' proprio nel contrasto tra la lascivia del suo aspetto e la linfatica e bianchiccia vocina del fanciullo che sta il segreto del fascino provato dall'A. La sensualità decadente non è una sensualità procace e carnale: è una sensualità mortifera, acidula, malata. Potrà non piacere, ma è così.

Velluti ha detto...

Per quanto concerne D'Annunzio e il decadentismo, la valutazione che riportavo non è mia, ma di Mario Praz, forse il massimo studioso di decadentismo inglese. (E non mi risulta che Praz abbia mai scritto un manuale per licei!). Qui non c'entra politica o ideologia: è solo che D'Annunzio riprende alcuni elementi del decadentismo, che è precedente alla sua attività, ma li riformula in una direzione che va molto oltre quella francese e inglese. Insomma: saranno formalmente decadenti La pioggia nel Pineto o Il Piacere, ma ciò non toglie che il decadentismo francese non prenderà mai pieghe superomistiche o politiche (perchè c'è anche questo in D'Annunzio!), ma semmai il contrario.
Due ultime notazioni: quale autore da me citato non è propriamente decadente? Mi interesserebbe saperlo, dato che credo di aver richiamato i più grandi esponenti del movimento francese. Non è che per tirare sulla barca D'Annunzio si lascia a piedi qualche maestro fondatore del movimento? Infine, esempio preclaro di una concezione sottilmente omofoba, è proprio il suo acceno all'improprietà della mia definizione di "terzo sesso", essendo l'omosessualità fattore di scelta - Purtroppo chi non conosce gli studi di genere come quelli pubblicati da studiose come Camille Paglia o altri non può far altro che cadere in simili errori grossolani: e qui mi fermo per decedenza e per non infierire. Il riferimento bibliografico basti a chi è desideroso di conoscere realmente!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Velluti, lei continua ad attribuirmi concetti che non mi appartengono e ideologie che non condivido: scappatoia - ripeto - assai comoda per passare da una discussione argomentata ad uno scambio di insulti. Essendo evidente l'intento provocatorio di certe sue affermazione su omofobia e fascismo, a queste non rispondo, non avendo altro da aggiungere a quanto già da me scritto (non farei che ribadire i concetti espressi, chiari e limpidi, anche se lei continua a fraintenderli: come la questione del "terzo sesso" su cui non insisto io, proprio per non infierire).

Sulle altre questioni rispondo invece volentieri:
1) Ogni movimento letterario non ha una sola ed unica formulazione, ma diverse sfaccettature e modi di recezione differenti a seconda della cultura su cui si innesta. Il romanticismo, ad esempio, si declinerà differentemente su di una cultura tendenzialmente nazionale e luterana, rispetto ad una cultura disomogenea (al cui interno convivono tendenze diverse) e cattolica (e magari con la presenza dell'egemonia culturale della chiesa romana). E questo mi sembra logico e di buon senso. Del resto è superato lo schema che ragiona per separazioni manichee e che preso un modello lo trasforma in paradigma. E del resto Praz - grandissimo studioso - scrive il suo testo più famoso nel '30....
2) Non voglio far salire su una ipotetica barca del decadentismo europeo D'Annunzio (che peraltro su quella barca ci sta eccome, certo in una sua visione particolare, diversa, originale), tuttavia non esistendo un unico modello non si può fare una sorta di gioco della torre: come dire che in Italia o in Inghilterra non c'è stato nessun vero illuminismo perchè nessuno ha scritto come Rousseau o Voltaire e non ha fatto volare via teste nobili, coronate o di semplici oppositori...
3) Lei cita Rimbaud tra gli scrittori decadenti, mi permetto di contestare detto assunto.

Velluti ha detto...

Legga i sonetti scritti insieme da Verlaine e Rimbaud e vediamo se Rimbaud è decadente o no... Forse tra quelli che cito si potrebbe discutere su Flaubert. Ma non certo su Rimbaud (allora perchè Verlaine si e Rimbaud no, dato che sono pressochè contemporanei e hanno condiviso quasi tutto?). Detto da uno che ama i cimeli che Praz scrive nel '30 mi pare un controsenso; d'altronde lei stesso, in qualche altro commento, o forse la Grisi, non ricordo, avete detto che la data di pubblicazione di un'opera non è elemento che ne attesta la validità scientifica.
Badi bene, caro Duprez; io non ho usato insulti; mi pare che il primo ad usare un linguaggio non propriamente irenico sia stato lei nel commentare il detto cd.

Velluti ha detto...

P.S. Mi citi un solo studioso di genere che considera poco pertinente la definizione di "terzo sesso". Ovviamente citi studiosi che non sono simpatizzanti per le idee espresse da santa romana chiesa.

silvio ha detto...

Mi permetterei di riportare l'attenzione sul lied, condividendo in massima parte le notazioni espresse nel post su imprese discografiche di questa fatta...
Ritengo che il lied tedesco abbia e debba avere un peso particolare che lo rende intrinsecamente diverso da quello d'altra provenienza: il punto centrale, e qui parlo strettamente di Schubert, non è il ricreare un'atmosfera più o meno rarefatta, nè mostrare le capacità estrinseche di una voce dal tono mondano non trascurabile, ma una comunicazione sottile capace di condurre in una vera e propria esperienza teatrale con elementi minimali. Non è un canto atletico quello che serve, ma un canto dalle immense possibilità tecniche che si sappia prestare ad intenzioni molto lontane da quelle dell'opera. Amo moltissimo sia l'opera che il lied, ma sono cose profondamente diverse ed è giusto notare come non vadano richiesti gli stessi punti tecnico-emozionali ad entrambi. Mi permetto però di sostenere che un lied di Schubert, ancorchè composto su testi poco meno che banali come altri notava, ha una forza e una profondità estremamente distanti da quelle infuse da un Tosti o da molti altri i quali, questi sì, componevano pezzi gradevoli e salottieri ma non troppo di più.

silvio ha detto...

Bisogna ricordare che Schubert ebbe notorietà ai suoi tempi praticamente solo in forza della sua musica da camera e del lied, e che attraverso questi mezzi dovette concentrare e distillare la sua immensa capacità musicale. Per uno Schumann le cose non stanno esattamente così, nè per un Beethoven, infatti i risultati sono meno continui (su un corpus di centinaia di lieder, almeno la metà di quelli composti da Schubert sono armonicamente e simbolicamente interessanti e profondi, molto dipende naturalmentedall'interpretazione, e i nomi di Husch e Schlusnus non sono nuovi a nessuno qui dentro).

silvio ha detto...

La trota è un esempio ficcante della sobrietà e dolcezza dello spirito tedesco infuso in musica, che mima e nello stesso tempo evoca, allontan
a mentre descrive con proprietà realistiche, teso alla semplicità bucolica del pesce argenteo pur sapendo di non poterla mai raggiungere se non in rapidi guizzi estetici, subito sopiti. Il mio umile consiglio è che si guardino con occhi diverse tradizioni così evidentemente diverse, e che non si chieda a un Wolf (che non amo) l'armoniosità struggente di Napoli ma che si sappiano leggere i suoi messaggi, che stanno lì pronti per essere decodificati, che piacciano o meno, così come quelli di un Wagner o di un Korsakoff...

Domenico Donzelli ha detto...

caro silvio,
ho letto con attenzione la tua difesa nei confronti del lied. Schubert in particolare.
Il punto è che la dichiarata capacità del lied di rendere il piccolo mondo il bozzetto (attenzione però perchè non credo sia questo il fine di composizione come i Kinder di Mahler) è esattamente lo stesso di una romanza da salotto di Tosti.
Scusa hai mai ascoltato nell'interpretazione vissuta di una Pederzini Dopo. C'è tutta la melassa e la retorica sulle cosidette perdute o traviate, sull'uomo volubile dipinto , interessatamente, da papà Germont.
Allora il punto è uno solo ed è il mio da tempo non posso, non so e sopratutto non ritengo giusto riconoscere una superiorità al lied, magariper il semplice fatto che l'autore abbia scritto splendida musica sinfonica.
ciao dd

silvio ha detto...

l'ho sentita bene carissimo e purtroppo mi sembra ancora superiore Schubert. Poi io non parlo di una superiorità intrinseca del lied, parlo più che altro del compositore e della differenza intrinseca (come fare la differenza fra la musica sacra e un pezzo ammiccante, complesso, interessante ma pursempre comico o di estrazione comica). Io non intendo dare giudizi di valore, e anzi ascolto con piacere Tosti, ma ancora trovo che la stessa forma, se vuoi, venga riepmita in maniere e con risultati nettamente diversi...
con affetto

s.

Marco ha detto...

Io penso che il Lied non sia affatto un genere minore e che il suo scopo non sia il bozzetto. Ci sono dei Lieder che rappresentano autentiche concezioni del mondo e la cui bellezza è assoluta. Ma che bozzetto c'è in "Marcherita all'arcolaio" di Schubert, nei "Due granatieri" di Schumann o nel "Ganymed" di Wolf? Si tratta di vette della musica di tutti i tempi. Vette che Tosti nemmeno intravede. Per qualunque storico della musica degno di questo nome ciò è una cosa ovvia. Sono veramente stupito che si possano soltanto paragonare ambiti così diversi.
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Velluti, mi permetta: l'orizzonte estetico (e culturale) di Verlaine e di Rimbaud sono assai differenti. Mi verrebbe da dire anche la visione del mondo e la dimensione etica. Il "languore decadente" che si respira nelle liriche di Verlaine è opposto alle immaginifiche volate o alle allucinate visioni di Rimbaud (dal Battello Ebbro a Una Stagione all'Inferno, dalle Illuminazioni alla "lettera del veggente"...opere in cui trasuda un vitalismo visionario e quasi orgiastico che non mi pare c'entri molto con la stanchezza decadente...certo che se lei, invece, ritiene più caratterizzanti l'autore le raccolte "Les stupra" o l'album zutique - scritti con Verlaine - si accomodi, secondo me, sono versi del tutto dimenticabili). L'argomento cronologico, poi, fa acqua da tutte le parti: secondo lei, Velluti, il fatto che due autori siano contemporanei, implica che appartengano alla stessa tendenza estetica? Se è così immagino che Picasso, Dalì e Magritte siano riconducibili alla stessa estetica, vero? Neppure vale la condivisione di quasi tutto (peraltro la relazione artistica e affettiva tra i due durò un paio d'anni soltanto, tra tumulti d'ogni genere, e finì con due colpi di pistola sparati da Verlaine a Rimbaud che rimase leggermente ferito)...
Su Praz: non lo critico per la vetustà (nè sottovaluto l'estrema importanza e l'estremo valore), tuttavia la critica letteraria dal '30 a oggi ha affinato la propria ricerca e ha assunto una visione meno drastica, tendendo a non definire i generi con ferrei paletti, ma sottolineandone diversità interne e contaminazioni... Poi un testo valido resta un testo valido (come è quello del Praz), ma mi permetto di non condividerne alcuni assunti.

Ps: non commenterò affatto - come mi ero ripromesso - altre questioni relative al terzo sesso e a pretesi atteggiamenti omofobici...solo la tranquillizzo sul fatto che quel che scrive e dice Santa Romana Chiesa su questo e altri punti, non è oggetto di mio interesse.

Velluti ha detto...

L'atteggiamento visionario di Rimbaud è certamente differente rispetto al languore di Verlaine. Non è la contemporaneità a renderli espressione della medesima corrente (non mi attribuisca simili ingenuità, la prego!), ma la diversa articolazione di un medesimo atteggiamento di fronte alla vita. I versi scritti insieme dai due poeti saranno anche letterariamente dimenticabili, ma sono testimonianze di un programma letterario, che - per questo - va preso come tale.
Su Praz; qui non si parla di generi letterari, ma della possibilità di definire quanto accaduto in Italia tra la fine dell'800 e gli inizi del 900 come "decadenza", almeno così come lo definivano gli scrittori che hanno coniato l'espressione. Non è un problema di definizione storica "-etica", ma "-emica". E qui chiudo.

germont ha detto...

si può parlare di rimbaud come di uno scrittore di transizione, che parte sì da un grembo decadente e tardo-romantico, per poi finire in esiti simbolisti e di una conquista di uno stile individuale del tutto personale e dagli esiti originali.

Denis ha detto...

Io penso che il Lied ci faccia capire quanta differenza antropologica separa due mondi distinti e diversi che si debbono rispettare ed amare, quello nordico tedesco e il melodramma italiano.