sabato 31 gennaio 2009

I Racconti di Hoffmann in diretta radiofonica da Torino

I Contes d'Hoffmann: una delle più straordinarie opere mai scritte, una gemma del repertorio francese che grandi, immensi artisti hanno contribuito a eternare nel ricordo del pubblico. Mai questo capolavoro ci era parso lungo, prolisso, in una parola... pesante. Fino a ieri sera.

Emmanuel Villaume si è confermato bacchetta poco elegante e assai greve, poco o nulla adatta ad accompagnare un canto, che, mai come ieri sera, avrebbe avuto bisogno di essere sostenuto, guidato, corretto e confortato dalla buca. Tempi bislacchi, nessuna ricerca di colori foschi o misteriosi, chiasso scambiato per brillantezza, sonorità sovente bandistiche.
Il tenore Arturo Chacón-Cruz, inizialmente previsto nel secondo cast, promosso al primo per rimpiazzare l'annunciato e, poi, svanito Roberto Aronica, ha mostrato una voce naturalmente bella e molto sonora, ma anche una scarsa cognizione dei rudimenti tecnici dell'arte, cantando in modo stentoreo, tutto sul forte-mezzoforte e di gola. Il registro centrale è suonato sovente stonato, gli acuti assai tirati, pur senza arrivare ai disastri recenti di un Filianoti o di un Villazón. Ma la strada, ahimè, è quella, e speriamo che il signor Chacón-Cruz, che sappiamo essere giovane (classe '77) e che sicuramente ha una bella dote di natura, possa evitare il destino cui sono andati incontri i summenzionati colleghi. La speranza è l'ultima a morire, anche perché il timbro è realmente bello e di qualità. Da segnalare il taglio della seconda strofa sia nell'aria dell'atto di Olympia sia nel brindisi dell'atto di Giulietta.
Non nutrivamo alcuna speranza e illusione nei riguardi di Desirée Rancatore, voce ormai slabbrata e stinta, un pigolio che dall'afonia dei gravi si arrampica su per i tornanti di un sovracuto divenuto ormai precario e aleatorio quanto il resto della gamma. Rileviamo che la signora, priva della flessibilità e lucentezza tipiche del soprano leggero, ha un rapporto sempre più conflittuale con l'intonazione, tanto che la gag della bambola, cui si scaricano le pile risulta colma di umorismo involontario.
Vera sorpresa della serata è l'Antonia di Raffaella Angeletti, che con vocina vetrosa, tiratissima e, spesso, gridata in acuto, affronta una grande parte di soprano lirico senza possederne l'ampiezza e soprattutto sfoggiando una proprietà di accento, che apparenta da subito la cantatrice cardiopatica a una piccola Nedda. Prudentemente evitata, nel terzetto, la salita al do diesis scritto, appena toccato e, strillato, il re nat. in vocalizzo.
Monica Bacelli non ha nulla di Giulietta, né il mezzo importante, richiesto dalla natura drammatica del personaggio come da quella dello strumentale su cui si trova a cantare (barcarola a parte), né il fascino fatale della cortigiana domiciliata sul Canal Grande. La voce è povera e opaca, priva di spessore in basso (dove spesso sconfina nel parlato) e stridula in acuto.
Quarta in mezzo a cotanto muliebre senno la Musa/Nicklausse di Nino Surguladze, stilisticamente ben poco plausibile a causa dei gravi gonfiati a dismisura, in una sorta di penosa imitazione della Barbieri, senza il sontuoso timbro della Fedora nazionale.
Simone Alberghini, anche lui inizialmente reclutato per il secondo cast, ha sostituito "last minute" Alfonso Antoniozzi nelle parti dei quattro Diavoli, cantando con voce artificiosamente scurita e non molto sonora, ma risultando se non altro corretto e sufficientemente vario nel fraseggio. A riprova del fatto che Simone Alberghini dovrebbe seriamente e costantemente cantare in corda di baritono sta l'esecuzione di "Scintille, diamant" in tonalità di baritono con acuti facili e sonori. Queste virtù, che in altri tempi non sarebbero state sufficienti a concludere una recita di provincia senza "incidenti" di percorso, lo hanno reso il miglior elemento del cast.

Avvertenza: gli ascolti, che non sono quelli paradigmatici per i Contes riteniamo bastino e avanzino, per commentare una serata... così!


Gli ascolti

Offenbach - Les Contes d'Hoffmann


Atto I

Les oiseaux dans la charmille - Alda Noni (1951)

Atto II

Ah! je le savais bien
- Catherine Malfitano & Neil Shicoff (1980)

Atto III

Amis, l'amour tendre et rêveur - Alain Vanzo (1985)


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martedì 27 gennaio 2009

Ben Heppner in concerto alla Scala


La stagione dei recitals di canto del Teatro alla Scala è proseguita ieri sera con l’esibizione, in un concerto di brani cameristici, di Ben Heppner, tenore di spicco nel panorama lirico mondiale, star del Metropolitan e rinomato interprete wagneriano.
Nonostante il nome e la fama, il richiamo per il pubblico non è stato poi così forte da riempire il teatro, che vantava all’incirca 70 palchi vuoti e almeno 175 posti vuoti in platea (per tacere del loggione mezzo vuoto), forse a causa di una carriera lontana dai nostri palcoscenici. Ciò nonostante il pubblico presente in sala ha tributato al tenore canadese calde ovazioni terminate in sonore richieste di bis, cui il tenore si è simpaticamente prestato fino all’ultimo quando ha deciso di accompagnarsi da solo in un brano jazz (o rock, non sappiamo!).
Il programma era di quelli molto vari nel toccare brani cameristici del repertorio tedesco (Schubert e Strauss), inglese (Britten), francese (Duparc) e persino italiano (Bellini, Donizetti, Verdi e Puccini) : tentativo di creare un programma interessante e non la “solita” pura Liederabend, con inserzioni cameristiche di diverse aree geografiche ed epoche. Va detto che stilisticamente il tenore canadese si è trovato a suo agio più in Strauss, Schubert e Britten che nei brani di Duparc o del repertorio italiano (censurabilissima l’idea di rendere il Brindisi verdiano come il canto di un ebbro …sperando che l’effetto fosse davvero voluto!!!) mentre vocalmente si sono percepiti chiaramente grossi segni di usura vocale, scotto da pagare nel tempo quando si affronta per sistema un repertorio troppo pesante rispetto alla propria natura vocale. Heppner è certamente un cantante molto interessante sotto il profilo della personalità artistica, che non è certo mancata l’altra sera. La voce è sempre quella di un lirico spinto di qualità, dotata di ampia sonorità, ma comunque sempre imprestato ai ruoli di cosiddetto Heldentenor. Per questo motivo spiace rilevare il declino del mezzo vocale, tale da inficiare le belle intenzioni mostrate nel corso della serata, varietà di fraseggio, ricerca di sfumature e nuances anche nel repertorio da camera, che vanno si ricercate ma anche correttamente eseguite. Nella zona medio grave della voce, infatti, il suono tende ad oscillare (nei primi lieder di Schubert soprattutto), ogni tentativo di cantare piano o di effettuare una messa di voce si è tradotto in suoni indietro, spesso rotti vistosamente a dare l’effetto anche della stecca vera e propria (per esempio in “Dolente immagine di Fille mia”, come pure in alcuni lieder di Strauss).
L’incostanza della resa vocale lo ha fatto fatica re non poco per arrivare alla fine della serata.
Nei bis Heppner si è poi cimentato con l’opera italiana (Fedora e Fanciulla del West) in cui ha vistosamente “domingheggiato” con voce voluminosa ma bassa di posizione ed acuti spinti e fibrosi. Da ultimo Heppner si è accompagnato da solo al piano in un brano moderno, in cui ha mostrato grande verve e simpatia oltre che talento pianistico.
Un’occasione senz’altro interessante per sentire un artista dalla grande carriera che, personalmente, fatichiamo ad immaginare oggi come oggi in un’opera completa, specie del suo repertorio, come le recenti vicende newyorkesi provano.

Franz Schubert
Dem Unendlichen D 291
Im Abendrot D 799
Gott im Frühlinge D 448
Die Allmacht D 852

Richard Strauss
Befreit op. 39 n. 4
Das Rosenband op. 36 n. 1
Du meines Herzens Krönelein op. 21 n. 2
Zueignung op. 10 n. 1

Benjamin Britten
Da The Holy Sonnets of John Donne op. 35
Batter my heart

Da Winter Words op. 52
The Choirmaster’s Burial n. 5
Proud Songsters n. 6

Henri Duparc
Extase
Chanson triste
Le manoir de Rosemonde
Phidylé

Vincenzo Bellini
Dolente immagine di Fille mia

Gaetano Donizetti
Su l’onda tremola

Giuseppe Verdi
Brindisi

Giacomo Puccini
Canto d’anime

Pianoforte : Thomas Muraco

Gli ascolti

Schubert - Die Allmacht - Jacques Urlus
Strauss - Zueignung - Jussi Bjorling

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Il soprano prima della Callas, quinta puntata: GINA CIGNA



Gina Cigna, nel periodo che va dal 1935 al 1945, fu, per il pubblico italiano, il sinonimo del soprano drammatico. Nel periodo successivo, diciamo nel dopo Callas, è stata considerata la prima interprete di riferimento di Turandot e, al tempo stesso, la più discutibile di Norma.


Turandot e Norma sono anche i titoli che, con riferimento al periodo 1935-1945, fanno automaticamente pensare a Gina Cigna.
Gina Cigna si chiamava, in realtà, Geneviève Sens ed era di origine francese. In patria era destinata alla carriera di pianista, propiziata da studi con solisti di fama storica come Alfred Cortot. In Italia, dopo studi piuttosto saltuari di canto, trovò patria, marito (il secondo, credo) e fama e divenne GINA CIGNA. In Italia rimase sino alla morte, che la colse centenaria.
Gina Cigna imperò nei maggior teatri italiani. Alla Scala dove aveva debuttato nel 1929 cantò parti una più onerosa dell'altra dalla Maddalena di Coigny sino a Francesca ed Isabeau, Abigaille e, persino, Alaide di Straniera frequentemente Turandot. Mai Norma. Come e più di Maria Caniglia fu chiamata al repertorio drammatico per il ritiro degli autentici soprani drammatici come la Poli Randaccio, la Arangi-Lombardi , la Scacciati. Come Maria Caniglia fece, nel proprio repertorio, piazza pulita, per un decennio, di ogni concorrente. Come Maria Caniglia ed anche Zinka Milanov concorse, al Met, alla successione della Ponselle, esibendosi fra il 1937 ed il 1938 in Aida, Gioconda, Norma Cavalleria, le opere del soprano italo-americano. Poi preferì l'Italia o il Met preferì la Milanov. Non si può dimenticare che gli anni della carriera della Cigna e della Caniglia furono quelli in cui il regime fascista, all'apogeo ed alla ricerca di consenso per ogni dove, fu particolarmente prodigo verso l'arte, musica, teatro musicale e di prosa ed, in primo luogo, il nascente cinema e nessun teatro pagava i cachets dei maggiori teatri italiani. Talora erano, persino, più elevati di quelli sudamericani, dove, come tutte le cantanti di grandi carriera del proprio tempo, Gina Cigna si esibì (Buenos Aires, Montevideo e Rio). Cantò anche al Covent Garden, in Francia e durante le tourneè "dell'Asse" a Berlino.
Ma, come tutti i grandi del proprio tempo, la Cigna frequentò anche teatri di provincia, compresa la cosiddetta piccola provincia, spesso riservata ai debutti, come, infatti, avvenne al Teatro Cagnoni di Vigevano dove la nostra debuttò, nel 1932, Norma in compagnia di Merli e della Pederzini. Un simile episodio ci informa e della diffusione capillare della musica e del rispetto che cantanti famosi o famosssimi avevano per sè e per il proprio pubblico, affrontando un grande ruolo.
Il repertorio della Cigna, musicista esimia e, quindi, agevolata nell'apprendimento rapidissimo delle parti oltre che donna dotata di straordinario vigore fisico, era vastissimo: Verdi sia il tardo, compresa la Valois del don Carlos, sia il primo con Ernani e Nabucco, Puccini con Tosca e la fondamentale Turandot, il Verismo sopratutto con Andrea Chenier e Francesca da Rimini (che alla Scala nella stagione 1937 fece epoca). Deve essere poi ricordato l'approdo ai titoli, allora desueti del repertorio primo ottocentesco: non solo la Norma, ma anche Straniera ed il Mosè. La Cigna cantò spessimo anche Violetta di Traviata. Nelle numerose trasmissioni radiofoniche, cui prese parte negli anni '80, fece più volte cenno ad un diretto consiglio di Toscanini nella scelta di questo ruolo. Quello che è interessante rilevare è come spesso ebbe quale Alfredo Tito Schipa. A riprova che le voci emesse correttamente, come quella del tenore leccese non temono colleghe dotate di tonnellaggio vocale. Altri tempi si dice. Ritengo, semplicemente, altra tecnica di canto!
Su due ruoli si è appuntato, sempre, l'interesse della critica, riferito alla Cigna: Turandot e Norma, anche perchè il soprano italo-francese fu la protagonista delle prime registrazioni discografiche.
Gina Cigna, di entrambe le opere, è il paradigma del gusto del proprio tempo.
In particolare credo che alla Cigna si debba, nel bene e nel male l'approdo di Turandot alla cosiddetta vocalità verista. Alcune prime interpreti o erano cantanti, che non intrattenevano rapporti con il gusto verista, quali Giannina Arangi-Lombardi, o non erano soprani drammatici vedi Maria Jeritza e Claudia Muzio. E lo stesso valga per Rosa Raisa, prima interprete, che nasceva alla scuola della Marchisio ossia al gusto castigato ed all'accento nobile, come le registrazioni di altri brani operistici documentano.
Il primo soprano verista nel senso completo (e deteriore?) del termine a vestire i panni di Turandot fu, probabilmente, Tina Poli Randaccio. Gina Cigna assegnò al personaggio, molto astratto e per nulla “vero” della principessa cinese, un fraseggio tagliente, una scansione, talvolta, prossima al parlato, acuti fenomenali, lanciati sulla massa orchestrale ed una voce al centro di straordinaria ricchezza ed ampiezza e suoni di petto dal colore scuro e maschile.
Intendiamoci bene erano, soprattutto sulla base di un gusto espressionista se non verista, legittime realizzazioni di quella "furia castratrice" che è Turandot. Ed erano giustificate sulla base del peso orchestrale e dell’obbligo di svettare su quella massa. Ed in fondo anche acclamate Turandot come Birgit Nilsson, Ghena Dimitrova (fra l’altro allieva della Cigna) si sono attenute sia pure con qualche ritocco tecnico a quel modello interpretativo.
A parte Joan Sutherland, limitatasi all’incisione discografica, come se la cavassero in teatro con il difficile equilibrio fra personaggio e mezzo vocale le citate Arangi-Lombardi, Muzio, Jeritza non lo sappiamo. E, pure, doveroso precisare che i rapporti di queste cantanti con la principessa pucciniana furono quantitativamente o scarsi o, al più, misurati al contrario di quanto accadde a Gina Cigna. E se si aggiunge che che la prima Tintora, altro ruolo con vocalità massacrante, (Lotte Lehmann) con Turandot ebbe un rapporto di "toccata e fuga", limitandosi ad una recita, le conclusioni che il personaggio convenga, senza danni gravi ed irreparabili, solo a cantanti di eccezionale robustezza e vigore, sono quasi scontate.
Allo stesso trattamento o deformazione (?) sotto il profilo interpretativo vennero sottoposte le parti di Strauss. Le prime interpreti di Tintora (Lotte Lehamnn, Stella Roman) o Elektra (Rose Pauly) non possedevano vizi e vezzi, che le più sfegatate declamatrici imporranno fra il 1940 ed il 1950 con un deteriore e censurabile gusto.
Con queste premesse, dovute per una esatta collocazione di una interpretazione, comunque storica la Turandot di Gina Cigna deve essere ascoltata. E allora: all’attacco di "straniero ascolta" Gina Cigna svetta è una sciabolata di cui la tecnica di registrazione, per giudizio di chi ascoltò in teatro la cantante, non coglie la quantità vocalità. Alla proposizione del primo enigma le sonorità sono attutite in tutta la sezione e nelle discese al registro basso non si sentono suoni di petto. Passato il primo round, sfavorevole alla principessa, Turandot sfodera gli artigli o parte di essi e le sonorità divengono maggiori, sopratutto nella zona re4-fa diesis 4. Si avverte una voce penetrante e percuotente, la linea vocale martellata (insomma Turandot reagisce!) compare qualche sonorità di petto (attutisce la paura) ; al terzo enigma sia in alto che in basso la voce appare più ampia e la tensione giustifica nella logica dell’interprete ( se per servo t’accetta ti fa re) il ricorso al parlato e suoni poitrineé marcati sulla frase (straniero ti sbianca la paura), mentre gli acuti sono, ad onta del sistema di registrazione, impressionanti.
All'invocazione “figlio del cielo” l’idea interpretativa è giusta; poi l' immascheramento solo parziale del suono nel centro produce stimbrature e sbiancamenti; in chiusura del brano la cantante esibisce un “tua figlia è sacra” penetrantissimo e due do straripanti. Si deve anche notare che la Cigna modera i suoni di petto.
Il richiamo ai suoni di petto è doveroso. Sono, a ragione ritenuti, uno dei peggiori difetti delle cantanti veriste, che ne abusavano con la conseguenza della voce rotta in due tronconi, dopo pochi anni di carriera e di una dinamica, spesso limitata. Non sono, però, un'invenzione dei soprani e mezzo soprani veristi. Ascoltare per credere le registrazioni di Giannina Russ.
Nel caso della Cigna suoni di petto e, più ancora, l'esibizione di un sontuoso centro si ripercuotevano sugli acuti estremi che erano duri e spinti, talvolta stonati.
Non lo abbiamo proposto come ascolto, ma il duetto di Aida con la Stignani a Berlino nel 1937 e il concertato del trionfo sempre in quella rappresentazione mettono in evidenza il difetto.
Oggi, tanto per dire che ogni epoca ha i suoi mezzi per fare a pezzi le voci, si abusa dei piani, privi di sostegno con l’identico risultato.
La Cigna offre un paio di esempi di suonacci di petto nella chiusa dell’aria di Maddalena di Coigny, con un do centrale sgangherato; ed è un peccato perché nella prima parte dell’aria la cantante è una vera interprete, attenta al fraseggio ed alla situazione e per giunta con un tonnellaggio vocale di cui le altre interpreti, in primis la Muzio, non disponevano.
Al contrario nella Gioconda, sede eletta dei topici del malcanto la Cigna è misurata e contenuta e non compare, a differenza niente meno che di una Callas, il suono di petto sul "croce del mio cammin" e quelli in chiusura sono, stranamente, contenuti e misurati.
Ed è strano perchè il suono scuro di petto era, da molto prima della Cigna e del verismo, (ne erano specialisti i tragici di epoca rossiniana e protoromantica come la Colbran, la Pisaroni, Donzelli e la Pasta) il mezzo di esecuzione del tragico e del coturnato.
Tragedia e coturno evocano l'altra grande realizzazione della Cigna: Norma.
Inoppugnabile la tesi che Norma debba essere tragica e drammatica, ma l'espressione della tragedia protoromantica impone che il rispetto delle indicazioni di spartito, (o, se si ricorre ai raggiusti e trasporti, che non si riducano a semplificazioni) e che il pubblico comprenda la differenza fra Norma e Gioconda e comprenda che il personaggio coturnato sino al 1840 si esprime anche con il canto d'agilità. Canto nel quale la Cigna non era per nulla versata. Logica conseguenza della tecnica di canto.Sia nell'accento che nel virtuosismo la Cigna nel ruolo di Norma latita. Come l'esecuzione della "Casta diva" mette in rilievo che la mancanza o carenza di copertura del suono nella zona centrale della voce la priva della nobiltà e stilizzazione, irrinunciabili per un personaggio "1831".Con particolare riferimento al momento più tragico ossia il duetto con Pollione, il difetto di ostentare suoni di petto nella zona centro grave snatura il timbro, che la registrazione live (Met 1937) testimonia spontaneamente bello, nelle zone immediatamente successive dove compaiono certi "birignao" (consumar potrei l'eccesso) da Luisa Ferida, la cattiva dei telefoni bianchi; quando, poi, arrivano i famosi "i romani a cento a cento" lo slancio è unico ed irripetibile, ma le omissioni dei trilli e l'esecuzione pasticciata delle agilità costituisce un pesante passivo, passivo che si accresce con il "posso farti alfin " tagliato e rappezzato. Paradossalmente se la cava molto meglio Martinelli, cui la tessitura grave risparmia le stonature della fase finale di carriera e che appre assai più in regola con la tecnica di base, nonostante una carriera, spesa a cercare di avere la voce di Caruso.Mi domando l'impressione che facciano in ascoltatori giovani, che non hanno assistito all'epoca d'oro della "belcanto renaissance", ossia sentito dal vivo una Horne o una Sutherland le registrazioni di Gina Cigna. E me lo domando perchè la generazione precedente, che è poi la mia, ha assistito ad una forse ingiusta od esagerata crocefissione di cantanti come la Cigna, la Caniglia, la Favero e la Milanov in nome del bel suono, del legato, del virtuosismo ma almeno ha sentito tanto, tantissimo suono perfettamente, o quasi, emesso. L'attuale ascoltatore non sente il suono ben emesso e neppure sente "voce e verità drammatica",che costituivano i caposaldi delle interpretazioni delle massacranti carriere delle sopracitate signore, che -perdonatemi- comincio a sognare e rimpiangere, pur nelle pallide registrazioni discografiche

Gli ascolti - Gina Cigna

Bellini - Norma
Atto I - Casta Diva (1932)
Atto II - In mia man alfin tu sei (con Giovanni Martelli - 1937)

Cilea - Adriana Lecouvreur
Atto I - Io son l'umil ancella (1929)
Atto IV - Poveri fiori (1929)

Giordano - Andrea Chénier
Atto III - La mamma morta (1932)

Ponchielli - La Gioconda
Atto IV - Suicidio (1932)

Puccini - Turandot
Atto II - Straniero, ascolta! (con Francesco Merli - 1939)

Verdi - La forza del destino
Atto I - Me pellegrina ed orfana (1932)

Verdi - Aida
Atto III - Pur ti riveggo mia dolce Aida (con Beniamino Gigli - 1937)

Zandonai - Francesca da Rimini
Atto III - Benvenuto signore mio cognato (con Alessandro Ziliani - 1942)

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sabato 24 gennaio 2009

Vec Makropulos alla Scala

Nonostante la fama di passatisti, cui, peraltro, teniamo molto, Giulia Grisi, Adolphe Nourrit e Domenico Donzelli si sono recati alla quarta rappresentazione (turno C) del Vec Makropulos.
L’opera prescelta per celebrare l’autore ceco fa parte di un dichiarato piano educativo progettato dalla dirigenza artistica del massimo teatro milanese. Peraltro insegnare agli ignoranti rientra fra le opere di misericordia spirituali. E allora questa dirigenza artistica dovrebbe applicare tale principio in primo luogo a sé medesima. Ben venga Janacek ma il compositore ceco non è, né mai lo fu, una punta isolata all’interno di quella cultura mitteleuropea cui la dirigenza scaligera vuole iniziarci. Il nostro autore appartiene alla medesima epoca, seguita alla stagione di Wagner e Verdi, autori come Puccini, Catalani, Mascagni e Zandonai. Quegli stessi autori che la dirigenza scaligera ostinatamente ignora, sul presupposto che si tratti di musica per melomani e vociomani. Consiglieremmo quindi, nella nostra suprema ignoranza, a chi deputato alle scelte artistiche di esaminare con attenzione partiture quali la Francesca da Rimini (assente da 50 anni in Scala), Iris o Isabeau, la cui assenza supera le nozze d’oro sempre sul palcoscenico milanese. Forse udita la compagnia di canto assemblata dalla Scala viene da pensare che sia assai più conveniente “educare” il pubblico a Janacek che non riproporre i titoli sopra citati o altri consimili. C’è poi un altro problema, che ci sembra assolutamente prioritario, ossia quello della lingua prescelta. In un lavoro musicale fondato su una sorta di recitato-declamato è essenziale che l’ascoltatore, che non è obbligato ad essere poliglotta, deve essere messo nella condizione di comprendere tutte le sfumature del dialogo drammatico. Ed è solo questa intellezione che consente di valutare la qualità dell’interprete chiamato a vestire i panni dei personaggi e crediamo, ma è opinione personale, che a questa esigenza possa essere anche sacrificata la lingua originale con la sua metrica e prosodia, che peraltro, ribadiamo, il pubblico che non sa la lingua ceca non può apprezzare. Talvolta i dogmi possono anche essere sacrificati in nome della prassi. Peraltro “l’incolto” pubblico scaligero ha premiato il teatro con 50 palchi vuoti ed una platea con larghi buchi, il tutto nonostante la svendita dei biglietti più costosi del teatro. Ricordiamo che nei maggiori teatri stranieri esistono diverse fasce di prezzo per gli stessi prezzi a seconda del tipo di spettacolo. E magari anche un diverso numero di rappresentazioni a seconda della “popolarità” del titolo proposto.
Quanto poi all’allestimento spiace per chi ci giudica vociomani ma, come sempre, in primo luogo debbono essere giudicate le prestazioni dei cantanti. Per comprendere quali siano le doti del grande cantante-attore invitiamo ad ascoltare non solo le solite Kabaivanska, Scotto ed Olivero ma complete cantanti attrici come Lotte Lehmann, Rose Pauly, Maria Jeritza o Eleanor Steber, le quali, senza inutili preziosismi, ed in ogni lingua in cui hanno cantato, hanno dato senso a ogni frase e ad ogni parola. Giovedì sera la signora Denoke, in natura dotata di una voce da Mimì, fissa e priva di proiezione del suono (caratteristica comune a molte mozartiane e wagneriane delle ultime generazioni) ha esibito la stessa voce, lo stesso accento e lo stesso colore, sia che maltrattasse la domestica che male l’acconciava, sia che deridesse il dolore di un padre per il suicidio del figlio, sia che accettasse l’ineluttabile fine e la normalità della morte. Il fatto che, poi, la signora sia dotata di uno splendido fisico non è sufficiente per rendere l’aspetto divistico del personaggio, che non si limita a scendere un praticabile o ad accavallare le gambe, ma che deve, fin dal suo primo apparire, far percepire al pubblico il fascino ambiguo ed inumano del personaggio che ha attraversato quattro secoli e il cui solo scopo di vita è quello. La tecnica precaria è confermata da una voce che progressivamente perde ampiezza e penetrazione nel corso della serata, sino ad essere poco udibile nella prima parte del terzo atto. Le cose vanno un po’ meglio nel finale, dove spende le residue energie. Miro Dvorsky è un altro degli inspiegabile abbonati delle stagioni scaligere in opere dalla vocalità novecentesca e spinta, più digeribile qui che nel Tabarro e in Jenufa. Abbiamo inoltre dubitato della qualifica di basse-bariton per la voce bianchiccia e spoggiata di Mark S. Doss, mentre ascoltando il Vitek di David Kuebler e il Janek di Eric Stoklossa abbiamo provato struggente rimpianto per la pletora di caratteristi che nelle operacce del Novecento italiano cantano le maschere di Turandot, Goro e Sonora. Rimane poi la direzione d’orchestra di Marko Letonja : l’orchestra suona bene, con suono nitido, pulitissima negli attacchi e brillante, una prova ben diversa da quella dell’ultimo Don Carlo.
Sempre bello ed efficace ma anche suggestivo il vecchio allestimento di Luca Ronconi, già visto a Torino con protagonista Raina Kabaivanska.

Giulia Grisi, Domenico Donzelli e Adolphe Nourrit



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giovedì 22 gennaio 2009

Il Turco in Italia a Genova


Martedì sera abbiamo ascoltato la diretta radiofonica del Turco in Italia dal Teatro Carlo Felice di Genova.
Secondo il giudizio di molti la trasmissione via etere trasforma e addirittura deforma le voci liriche. Mai come questa volta ci auguriamo che ciò sia anche solo parzialmente vero.
Perché altrimenti non sapremmo spiegarci il successo che ha accolto lo spettacolo, pur con isolati dissensi rivolti alla protagonista.

Protagonista che era Myrtò Papatanasiu, che sostituiva l’annunciata Cinzia Forte. E che ha esibito fin dall’entrata una voce acida e piccola perché non appoggiata sul fiato, stridula fin dai primi acuti, con agilità tutte in bocca, fiati corti e sovente spezzati (finale primo, concertato della festa). La fatica di barcamenarsi in una grandiosa parte di soprano assoluto ha portato la cantante greca a regalare uno dei più pigolati rondò di Fiorilla di cui si abbia memoria. Per giunta concluso da un sovracuto fioco e calante.
Antonino Siragusa, tornato al Rossini buffo dopo l’escursione come Oreste, ci ha riportato ai tempi dei tenori di grazia o presunti tali pre Rossini-Renaissance: voce tutta nel naso, bianchiccia, impiccata e spesso calante in acuto (proprio brutta la chiusa della seconda aria), molto a disagio con la copiosa coloratura prevista. Va segnalato, a onor del vero, che Siragusa ha eseguito anche l’aria del primo atto, solitamente omessa.
Roberto De Simone e Vincenzo Taormina erano accomunati dalla voce dura e al limite del parlato. Non siamo ai livelli costernanti di un Praticò, ma è triste constatare che la lezione dei vari Dara, Corbelli, De Corato etc. è ormai lettera morta.
Simone Alaimo, che ci è sempre sembrato più un tenore camuffato da basso che un basso autentico, ha la solita voce legnosa di sempre, che l’età ha reso oscillante in acuto e fioca nei gravi, ma canta se non altro con proprietà di fraseggio e senso dello stile rossiniano. In un simile contesto, non è poco.
Pesante e fracassona la direzione di Jonathan Webb, dai tempi troppo lenti e slabbrati e notevoli sfasature tra buca e palco, segnatamente nei concertati.

Ma sicuramente tutti questi sono “effetti speciali” dovuti alla diretta radio.
Speriamo che il dvd (avete letto bene, questa produzione sarà immortalata da un dvd Raitrade...) sappia "rimettere le cose a posto".


La locandina:

Direttore - Jonathan Webb

Selim - Simone Alaimo
Donna Fiorilla - Myrtò Papatanasiu
Don Geronio - Bruno De Simone
Don Narciso - Antonino Siragusa
Prosdocimo - Vincenzo Taormina
Zaida - Antonella Nappa
Albazar - Federico Lepre

Genova, 20.I.2009



Gli ascolti

Rossini - Il Turco in Italia


Atto II

Credete alle femmine - Sesto Bruscantini & Enedina Lloris (1984)

Intesi, ah tutto intesi...Tu seconda il mio disegno - David Kuebler (1983)

"I vostri cenci vi mando"...Squallida veste e bruna - Lucia Aliberti (1986)

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lunedì 19 gennaio 2009

Concerti di canto alla Scala : Daniela Dessì.


Daniela Dessy, in carriera dal 1978 e debuttante in Scala nel 1989 ha tenuto ierisera un concerto in Scala.

Davanti ad un concerto di canto ci si domanda quale sia il programma che può connotare una cantante il cui repertorio sia stato essenzialmente italiano, dapprima a cavallo fra il genere comico ed il semiserio, fra settecento ed ottocento e, da un ventennio circa, il Verismo. E questo dopo approcci numerosi, ma sporadici al primo ottocento, da Rossini al primo Verdi, sino al tardo Verdi. Penso alle ariette del settecento, alla grande letteratura cameristica di Rossini, Bellini e Donizetti ( e magari pure Mercadante e Pacini, visti i rapporti della Dessy con opere rare e desuete almeno sino al 1985 ) per approdare a Tosti, che, come documentato da una Olivero o da una Scotto, è l’approdo naturale alla diva fin de siecle; oppure alle rare pagine cameristiche di Mascagni, Leoncavallo . Possono poi esserci tutti gli autori francesi coevi a Puccini, in particolare Massenet, la cui produzione cameristica è di grande qualità e certamente superiore a quella di Puccini, cui la Dessy ha dedicato la seconda parte del concerto: durata, orologio alla mano, dodici minuti.
Francamente con l’esperienza ed il gusto di una Dessy Debussy e Faure hanno poco a che spartire. In primo luogo perché la dizione della Dessy è confusa e pasticciata, senza essere il pubblico italiano maniaco della perfetta dizione: credo che su pagine dalle nulle difficoltà vocali si pretenda una buona articolazione del testo In secondo luogo perché Daniela Dessy, nonostante la frequentazione ormai ventennale del repertorio a cavallo fra ottocento e novecento, non ha nulla a che spartire in punto di gusto del fraseggio con le grandi dive, che frequentano questo repertorio. Nei panni delle eroine veriste la Dessy appartiene più al filone della Freni o delle Chiara, che hanno sempre evitato il concerto di canto. Ed il riferimento alla Olivero, alla Scotto, alla Kabaiwanska, ma anche a Regine Crespin si rende obbligatorio.

La diva liberty deve possedere tutte le nuances della lingua, articolarla alla perfezione, saper passare in un istante dal pianissimo al forte.
La Dessy di questa sera canta perennemente fra il piano ed il mezzo piano, per esorcizzare suoni duri ed oscillanti appena compaia un fa o un sol; se scende il suono è opaco e vuoto, mentre sugli acuti estremi la voce si riduce di volume e rassomiglia sempre più ad un grido stimbrato e acido.
Restando al concerto, sono bastate le frasi moderatamente acute dell’aria di Lia per sentire tutti i difetti in bella mostra.
Quando poi Daniela Dessy ha affrontato la seconda parte del concerto, quella vera, ossia i bis, abbiamo sentito la cavatina di Contessa delle Nozze con una voce priva del legato e della stilizzazione necessaria, pergiunta neppure tanto sontuosa come è giusto che sia quella di una cantante di scuola italiana.
Adriana, Lauretta dello Schicchi, Liù e Tosca, sono stati accomunata da un fraseggio disattento, da una occasionale cura del particolare e del dire (i mezzi espressivi delle Bertini del melodramma) e, per giunta, gravate da un timbro che, salvo poche note centrali ed a condizione di cantare piano, appare depauperato e privo delle caratteristiche delle cosiddette voci d’oro, alla cui schiera la nostra Daniela apparteneva allorquando, misconosciuta e pretermessa, eseguiva in Napoli una Mimi che pativa pochi o punti confronti.

Programma

Gabriel Fauré
Après un rêve op. 7 n. 1
Automne op. 18 n. 3
Rêve d'amour op. 5 n. 2
Au bord de l'eau op. 8 n. 1
Chanson d’amour op. 27 n. 1

Claude Debussy
Nuit d'étoiles
Beau soir
Paysage sentimental
Il pleure dans mon cœur
Romance

Da L’enfant prodigue
recitativo e aria di Lia

Giacomo Puccini
Mentìa l'avviso
Sole e amore
Sogno d’or
Terra e mare
Storiella d'amore
Morire?
Canto d'anime

Bis

Wolfgang Amadeus Mozart

Le nozze di Figaro
Porgi amor

Francesco Cilea
Adriana Lecouvreur
Poveri fiori

Giacomo Puccini
Gianni Schicchi
O mio babbino caro

Turandot
Tu che di gel sei cinta

Tosca
Vissi d'arte

Pianista : Marco Boemi

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domenica 18 gennaio 2009

Cavete Arthurum: Puritani a Bologna, secondo e terzo cast

Come anticipato, abbiamo assistito a due delle repliche dei Puritani bolognesi, principalmente, lo confessiamo, per ascoltare i due tenori che, con Florez, hanno sostenuto in questi giorni la parte di Arturo. Complimenti alla dirigenza del Comunale, che è riuscita a scritturare contemporaneamente ben tre artisti disposti ad affrontare questo ruolo mitico e da molti ritenuto alle soglie dell’inaffrontabile. Ciò detto, va rilevato che nessuno dei tre convocati si è dimostrato all’altezza dell’arduo compito.

Di Florez, corretto ma di limitato volume e peso specifico inadeguato al personaggio, oltre che non sempre appropriato nel fraseggio, abbiamo detto recensendo la première. Nel secondo cast dello spettacolo, per due recite soltanto (9 e 16 gennaio), ha cantato Celso Albelo, giovane tenore spagnolo che debuttava nel titolo. La sera del 9 (da noi ascoltata tramite una registrazione in house) il cantante aveva affrontato la parte con spavalderia, cercando di coniugare accento eroico e morbidezza di canto. Il tentativo era riuscito solo in parte: cercando di simulare un tonnellaggio vocale che non gli è proprio (la voce, da noi già udita dal vivo nel Tell di Santa Cecilia, novembre 2007, è di lirico leggero), il tenore aveva spinto eccessivamente, segnatamente sugli acuti, spesso risultati strozzati e di intonazione incerta, e in un paio di casi vistosamente calanti. La scelta di forzare aveva privato il canto di brillantezza e di quelle nuance che di Rubini erano la cifra caratteristica e cui Bellini aveva evidentemente pensato, disseminando la partitura di variazioni dinamiche ed agogiche che non sempre Albelo aveva non dico risolto, ma tentato di affrontare. Il 16, prima della rappresentazione, il teatro ha annunciato che Albelo avrebbe cantato malgrado un lieve raffreddore. All’entrata il tenore ha cantato come la sera del 9, con voce sufficientemente ampia e di timbro chiaro, ma anche faticando vistosamente nel legare i suoni e con intonazione incerta particolarmente nella zona che precede e coincide con il passaggio (re-sol) e sul primo acuto (la) de “fra la gioia e l’esultar”. All’attacco della seconda strofa la voce risultava davvero malferma e sporca, e dopo il do diesis (preso di forza e fortunosamente intonato) di “se rammento il mio tormento” il canto si è trasformato in una serie di rantolii e suoni accennati in cui era difficile trovare traccia di quanto previsto dall’autore. Nel dialogo con Enrichetta le intenzioni di Albelo sono apparse opportune ed adeguate, ma la necessità di spingere per risolvere un momento di slancio come “Non parlar di lei che adoro” ha polverizzato quello che rimaneva della voce del tenore, la cui cadenza “e la vergine adorata” si è risolta in una serie di suoni strozzati, davvero penosi e imbarazzanti. La pausa della polacca ha permesso al tenore di recuperare un po’ di energia e volume da sfoggiare alla sfida, ma l’attacco del terzetto e la tessitura alta dello stesso hanno ricondotto Albelo a suoni rauchi che sarebbe eufemistico definire stonati. A quel punto una voce dal pubblico ha urlato per due volte, a breve distanza, “basta!”. Il tenore ha smesso di cantare e ha lasciato la scena. Dopo una breve pausa, l’opera è ripresa dal recitativo dopo il terzetto (in assenza di Arturo, ovviamente) e il primo atto si è concluso normalmente.
Prima del terzo atto, è stato comunicato che Albelo, malgrado l’aggravarsi della sua indisposizione, avrebbe portato a termine la recita. Il recitativo di entrata, malgrado l’evidente fatica, è stato risolto con intelligenza e solo qualche slittamento d’intonazione, ma a partire dal primo la bemolle acuto (“Elvira, ah Elvira!”) sono ricomparsi i suoni stonati e stimbrati destinati a farla da padroni sino alla fine della serata, soprattutto in fascia centrale (canzone, duetto con Elvira), anche perché gli acuti e sovracuti scritti del duetto, salvo quello sul si di “d’ogni pianto” all’attacco, sono stati trasportati al grave (con raggiusti che sembravano improvvisati, e probabilmente lo erano) o semplicemente eliminati (soppresso anche il fa sul passaggio di “ti chiamo e te sol bramo, ah”), salvo poi aggiungere in chiusura un do sovracuto a squarciagola (già squarciata, purtroppo). Identici problemi nel “Credeasi misera” e nella cabaletta finale, chiusa peraltro da un re sovracuto corto e calante.

Intendiamoci: un’indisposizione è capitata, capita e capiterà sempre a tutti gli artisti, anche ai più grandi, ma non basta un raffreddore, per quanto grave, a rendere il canto così slabbrato e sgraziato. La nostra impressione è che Albelo, al di là della forma fisica non ottimale, abbia pagato lo scotto di una prima recita di Puritani cantata al di sopra dei propri mezzi e con il mero utilizzo e conseguente sovraccarico delle corde vocali, cui è stato richiesto di supplire alle lacune della tecnica di canto. Tecnica che, per inciso, è massimamente utile proprio in quelle serate che per vari motivi “non girano” e in cui è consigliabile cantare “sugli interessi” e non “sul capitale”. Insomma, giocare al risparmio, per cercare di salvare non solo la serata, ma anche la faccia e, più ancora, la voce. E questo vale anche per il direttore, che avrebbe dovuto proporre e, nel caso, imporre non soltanto un ridotto volume orchestrale, ma anche una serie di provvidenziali tagli alla partitura. Non si propongono i Puritani in edizione (pseudo) integrale con un tenore in quelle condizioni, quale che sia la causa delle stesse. Non potendo contare su un sostituto (a questo avrebbe dovuto provvedere il Teatro, ma dubitiamo che sarebbe stato possibile trovare un… quarto Arturo all’ultimo momento!), Mariotti avrebbe dovuto come minimo tagliare il terzetto e la cabaletta finale (e forse anche una strofa della canzone del trovatore), presentandosi magari al pubblico prima dello spettacolo per spiegare le ragioni della forbice così tempestivamente applicata (forbice che è stata poi applicata per cause di forza maggiore, lasciando nell’imbarazzo e nell’incertezza esecutori e pubblico). Certo questo avrebbe supposto, da parte di Albelo, una maggiore consapevolezza e del proprio stato di salute e delle proprie condizioni vocali rispetto al ruolo di Arturo. Ma è inverosimile che un tenore che elimina acuti e sovracuti scritti, per aggiungerne altri ad libitum (peraltro stonati), disponga di una simile autocoscienza. Per dovere di cronaca registriamo che il generoso pubblico bolognese ha premiato la simpatia e l’audacia del cantante spagnolo tributandogli applausi a scena aperta e una vera e propria ovazione dopo il “Vieni fra queste braccia”.

Se in Albelo abbiamo ravvisato, tra una forzatura e l’altra, almeno l’ombra del cavaliere altero e valoroso che dovrebbe essere Arturo, nulla di tutto questo ci è stato possibile individuare nel canto di Ivan Magrì, che per due sere (13 e 15 gennaio: noi abbiamo visto la prima) ha cantato a Bologna nell’ambito delle recite destinate agli allievi della Scuola dell’Opera Italiana del Teatro Comunale. Siffatte rappresentazioni intendono riprendere i titoli della stagione “canonica”, ponendosi quindi a metà strada fra il saggio di conservatorio e la recita propriamente detta. Premesso che simili lodevoli iniziative sortirebbero assai maggiore profitto se applicate a titoli un poco meno ostici dei Puritani (una bella Serva padrona, magari), l’interesse di questi Puritani “dei giovani” era costituito dalla presenza di Magrì, che a dispetto della giovane età è già comparso nelle stagioni ufficiali dei nostri teatri (ricordiamo lo sposino della Lucia di Lammermoor sempre a Bologna, lo scorso anno, e il Fernando nel Marino Faliero bergamasco, un paio di mesi fa). Ebbene, Magrì ha cantato con voce enorme (il triplo di quella sfoggiata da Florez nei momenti di maggiore intensità), anche di bel colore ma totalmente sprovvista del sostegno e conforto di una tecnica di canto che aspiri a essere minimamente professionale. In fascia centrale non suonava neppure immascherata, con quale efficacia nel rendere la nobiltà del personaggio, è facile immaginare. L’acuto è poi assolutamente aleatorio, con molti suoni presi alla sperindio e aggiustati all’ultimo secondo, con deprecabili effetti di glissando. Spiace vedere questa immensa dote naturale abbandonata a se stessa, e ci auguriamo che Magrì riesca a trovare, con il tempo e lo studio, un’impostazione vocale che lo renda in grado di affrontare questo, ma anche altri repertori (un Cavaradossi con una simile voce costituirebbe, oggi come oggi, più un unicum che una rarità).

Le due Elvire non offrivano maggiori motivi di conforto. Yolanda Auyanet ha centri più corposi della Machaidze ma un’analoga tendenza a spingere i suoni e a risolvere con sciatteria la copiosa coloratura prevista dal ruolo. L’acuto è importante, ma non di rado fisso e in molti casi anche stonato. Ha avuto bei momenti nel cantabile della pazzia, in cui qualche frase sapientemente legata al centro ha messo in luce almeno parte del potenziale di una scena che, la sera della prima, era scivolata via nell’indifferenza quasi totale. Tutt’altra cosa, comunque, rispetto a Hale Soner, Elvira nel cast dei giovani, che ha cantato con voce da minisoubrette, inesistente in prima ottava, stridula in acuto e abbastanza sicura solo nei sovracuti (è stata, delle tre Elvire, l'unica a tentare le varianti in alto nel finale primo), stremata dalla coloratura, spesso e volentieri spinta nel tentativo (quasi sempre frustrato) di risultare udibile. A lei potremmo consigliare di continuare con lo studio e comunque di indirizzarsi verso un repertorio più abbordabile (Susanna, Despina e così via).

Simone Del Savio, nei panni di Riccardo nel secondo cast, è risultato meno becero rispetto a Viviani, cercando, soprattutto nella cavatina, omogeneità dei registri e un canto sfumato, a onta di un registro medio-acuto non sempre impeccabile. Purtroppo, in altre parti, e particolarmente alla sfida e nel finale dell'opera, la ricerca di un accento veemente ha compromesso la tenuta della linea vocale. L’emissione, inoltre, non è sufficientemente stilizzata per risultare totalmente convincente in questo repertorio. Dal canto suo Kartal Karagedik ha sfoggiato voce di discreto calibro e nulla più (per giunta con una notevole tendenza ad andare “indietro”), legato faticoso, scarsa consistenza dei gravi e, a livello espressivo, una brutalità piuttosto irritante (e tralasciamo il taglio del da capo della cabaletta).

Come Giorgio, Giovanni Battista Parodi, dalla voce legnosa e che stenta a legare i suoni (con grave pregiudizio del “Cinta di fiori”), è comunque risultato più efficiente di D’Arcangelo, se non altro nel volume di voce. Di grande effetto la “canna” sfoggiata da Alexey Yakimov, nel cast dei giovani: una voce ampia e ricca, tipicamente russa, che ci piacerebbe riascoltare in un Boris o in una Kovancina, o comunque in un titolo in cui l’emissione ingolfata e il fraseggio monotono risultino un filo meno fastidiosi.

Resta da dire del direttore del cast dei giovani, Alessandro Vitiello, che pur cercando tempi meno frenetici rispetto a Mariotti ha concertato senza grazia e con numerosi sfasamenti fra orchestra e cantanti (notevole, nel finale, la mancata intesa con i solisti alla cabaletta finale, attaccata da soprano e tenore in ritardo e a mezza voce).

Insomma, i due cast alternativi hanno confermato che, come tutti i grandi titoli del Belcanto, i Puritani non sono opera che possa farsi “tanto per fare”. E che non bastano la buona volontà, l’impegno e nemmeno... il fa sovracuto, per fare un buon Arturo o una vera Elvira.



Gli ascolti

Bellini - I Puritani

Atto I

A te o cara - Marcelo Alvarez (con Ciofi, Alberghini, Zanellato & Buffoli) (1997)


Atto III

Finì... Me lassa!...Nel mirarti un solo istante - Joan Sutherland & Nicola Filacuridi (1960)

Credeasi misera - Aldo Bertolo (con Devia, de Corato & Surjan) (1985)


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venerdì 16 gennaio 2009

"Pensa alla Patria"


“Buon Dio, ecco terminata questa povera piccola Messa. Io sono nato per l’opera buffa, Tu lo sai bene! Poca scienza, poco cuore, ecco fatto! Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso…” scriveva Rossini, riferendosi alla Petite Messe Solennelle, tracciando così di sè un ritratto ironicamente umile, leggero e con la tipica modestia di chi sa di essere il più grande... Questa affermazione e la sprezzante incomprensione di Beethoven (a cui, evidentemente, rimanda), sono testimonianza di quella malinconia e di quella leggerezza che è l’universo musicale rossiniano: serio o buffo che sia. Innanzitutto per constarne la difficoltà di ridurre quest’ultimo, in particolare, alla semplice dimensione del comico! Vi sono ambiguità, segreti, malinconie, nel gioco delle costruzioni musicali, nell’apparente perfezione dei meccanismi del surreale, che mostrano quale e quanta complessità e finezza innervi la musica del pesarese che sembra sempre sollevarsi distaccata, con aristocratica leggerezza “dalle cose del mondo”, dai drammi così come dalla commedia.

Nessun titolo buffo di Rossini può essere inquadrato nel genere meramente comico, si diceva: in ciascuno vi è qualcosa di più, forse nemmeno intuito dal librettista (e spesso nemmeno colto dal pubblico, ora come allora), ma ricercato e raggiunto attraverso una certa distanza disillusa, a testimoniare la nostalgia per la fine di un mondo ormai passato e l’inadeguatezza e l’estraneità agli eccessi di quello nuovo (così irragionevole e primitivo nel dar sfogo ai suoi istinti più immediati – laddove Rossini mediava e stemperava ogni passione, ogni dolore, ogni risata, attraverso una trasfigurazione ideale e musicale, che la rendeva astratta e quasi metafisica...trasportandola ad un livello di superiore razionalità). Nemmeno nelle farse definite tali dall’autore stesso, peraltro, vi è spazio per il puro abbandono al ridicolo: ognuna nasconde un lato oscuro, segreto...niente di insistito, di troppo marcato, ma solo qualche accenno che si percepisce appena nella scelta della strumentazione, ad esempio, nell’abbandono di certe frasi di oboi o clarinetti, nel languore del canto dei corni...magari incastonati tra crescendo e concertati in cui le parole perdono significato proprio e diventano solo fonemi prestati alla musica per dar forma ad una follia del tutto razionale. Come nelle farse così nelle opere buffe: l’intima crudeltà del Barbiere di Siviglia, la nostalgia mozartiana del Turco in Italia, il malinconico lirismo della Cenerentola. Per non parlare delle grandi opere semiserie, la cui ambiguità è scelta di genere. Il grado di tale ambivalenza è ben rilevabile, poi, anche dai frequenti autoimprestiti: lo stesso brano, la stessa cellula musicale, assume significati antitetici a seconda del contesto in cui viene inserito, e la stessa musica che pareva attagliarsi perfettamente ad un ingarbugliato intreccio comico, appare inspiegabilmente perfetta (con leggere modifiche di dettagli) per esprimere situazioni e sentimenti opposti. Questa ambiguità è presente pure in quella che viene spesso indicata come il più puro esempio del buffo astratto rossiniano, della pura “follia organizzata”, del comico assoluto...la cui musica per dirla con Stendhal avrebbe fatto “dimenticare tutta la tristezza del mondo”. L’Italiana in Algeri, dramma giocoso in due atti, su libretto di Angelo Anelli, rappresentato per la prima volta a Venezia il 22 maggio 1813. In una struttura certamente incentrata sul gioco degli inganni, sull’assurdo e il surreale – in cui però emergono talvolta inaspettati squarci di lirismo e malinconia: si sentano i corni della cavatina di Lindoro – si staglia una protagonista del tutto atipica rispetto al genere: Isabella. Creato per l’ugola e la tecnica di Marietta Marcolini (che ottenne così un enorme successo) è ruolo che per statura e complessità, si pone a mezza via tra la commedia e la tragedia (ossia in quel luogo dove Rossini amava di più transitare) in un’ambiguità e polivalenza (rilevabile anche dai segni scritti in partitura) che contribuisce – forse anche inconsciamente – ad attribuirle tutto quel fascino. In particolare la grande scena con Rondò nel secondo atto, “Pensa alla Patria”, che per struttura, intensità e livello di virtuosismo, richiama l’Opera Seria. Stendhal la definisce un monumento storico! Ed in effetti si staglia come unicum nel resto dell’opera.

Il brano, il N. 15 della partitura, si presenta come una lunga scena di 228 battute strutturata in coro introduttivo, recitativo accompagnato e Rondò, composto di andante iniziale e allegro per la cabaletta. L’incipit, dopo la breve introduzione strumentale, dà già la dimensione drammatica del pezzo. A piacere, è indicato in partitura, mentre la voce scende nelle zone più basse della tessitura sino ad una cadenza in crescendo (di mano dell’autore) piuttosto intricata e con salti ascendenti di nona (SI2-RE#4; RE#3-FA#4) per poi chiudersi in un SI2. Dopo la pausa il cantabile vero e proprio caratterizzato da sestine ascendenti e discendenti e da una scrittura insistita nelle zone centrali e basse della tessitura. Segue l’allegro, dove, dopo le brevi battute in cui Isabella prima zittisce l’inopportuna ilarità di Taddeo (con un impeto e una dignità da vera eroina tragica) e poi si rivolge con severa dolcezza all’amato Lindoro (che poco prima era “impallidito” di fronte alla risoluta fermezza della protagonista), la linea vocale si arricchisce di abbellimenti e agilità di forza, nella ricerca di un estremo virtuosismo (peraltro insistito sempre in centro e in basso) che fa turbinare la voce in un vero delirio di scale, cadenze, colorature: “Qual piacer! Fra pochi istanti” con una teoria di quartine che si susseguono su e giù per il pentagramma, per concludersi, dopo la ripetizione variata, nella cadenza di prammatica, lasciata all’interprete.

Il brano proprio per quelle caratteristiche di atipicità (che non può essere considerata mera parodia dell’Opera Seria) e per la sua estrema difficoltà, è stato banco di prova di tante primedonne, tra cui non può essere dimenticata la Laura Cinti-Damoreau: una delle più grandi cantanti del suo tempo, a Parigi collaborò direttamente con Rossini, nella stagione del Théatre-Italien. Per il ruolo di Isabella scrisse una serie di variazioni e di cadenze che ben danno l’idea di cosa fosse il canto d’opera nella prima metà dell’800 e di quale fosse allora il ruolo dell’interprete (che – spesso si dimentica, suggestionati da certe vulgate che risalgono alle ottuse incomprensioni di certi campioni del germanesimo musicale – era anch’esso e prima di tutto, musicista e non ignorante e capriccioso guitto da palcoscenico come amano rappresentare i suddetti). Dette variazioni – che si possono leggere nella loro interezza in nota all’edizione critica dell’opera – si caratterizzano per una vera e propria riscrittura acrobatica del brano: non solo, infatti, si inseriscono nelle corone a fine frase (luoghi deputati alla cadenza), ma anche, e soprattutto, nel cantabile (battute 87-99) e nella ripresa del tema dell’allegro (battute 184-207). La Cinti-Damoreau nell’arricchire la scrittura rossiniana, insiste nella zona acuta (più congeniale alle sue corde). Particolarmente impressionante è la grande cadenza nella sezione finale dell’andante, con quattro salti ascendenti di ottava (SI2-SI3; RE#3-RE#4; FA#3-FA#4 e LA3-LA4) inseriti in quartine discendenti, seguiti da una lunga scala cromatica che sale e scende dal SI acuto al RE, per chiudersi sulla tonica della tonalità. Non da meno, naturalmente, le cadenze finali tendenti allo sfogo in acuto.

Tuttavia, pur divenendo in fretta il brano più famoso dell’opera (vuoi per l’atipicità del suo carattere, vuoi per l’esibizione vituosistica), non passò indenne alle sue successive revisioni, spesso dovute ad esigenze di censura: a Roma vennero cambiate le parole in “Pensa alla sposa”, a Venezia fu sostituito il coro introduttivo a causa della sua nascosta citazione della Marsigliese. Ma l’intervento più radicale fu la sostituzione del brano per la ripresa al San Carlo di Napoli nel 1815, dove il pezzo che mai avrebbe potuto passare la rigida censura borbonica, fu rimpiazzato dal N. 15a, “Sullo stil dei viaggiatori”, anch’esso di notevole impronta virtuosistica, caratterizzato da una scrittura più acuta, ma assai più convenzionale e inevitabilmente inferiore rispetto all’originale. Il ruolo di Isabella attirò le grandi primedonne dell’epoca, e anche nel secolo successivo non smise di affascinare le grandi dive.

La riscoperta novecentesca dell’opera si può far risalire alla sera del 26 novembre 1925 quando Vittorio Gui accompagnò Conchita Supervia a Torino. E da lì sino alle protagoniste della Rossini-renaissance a partire dagli anni ’60/’70 e cioè Teresa Berganza, Marilyn Horne, Lucia Valentini-Terrani, Martine Dupuy e, più recentemente, Ewa Podles (tralascio volutamente Agnes Baltsa, poiché fenomeno legato alla moda dell’epoca e alle majors del disco – e perché, oltre alle evidenti mancanze tecniche, poco interessante dal punto di vista esecutivo: mera lettura della pagina scritta, seguita pedissequamente senza alcuna fantasia o libertà…in ossequio alla fondamentale incomprensione di Abbado dell’opera belcantista e rossiniana – così come Jennifer Larmore che si limita a fare la parodia della Horne). Ognuna di esse con un approccio differente al ruolo e al brano, derivante da diversità di tecnica e di personalità artistica.

Si consideri ad esempio la morbida eleganza della Berganza (mi riferisco all’incisione ufficiale del ’63), vellutata e venata di malinconia, ma con una coloratura perfetta (anche se non si avventura in iperbolici sfoggi di virtuosismo, mantenendo, e semplificando, per lo più le cadenze originali e senza variare più di tanto la ripresa dell’allegro), nitida, brillante, oppure l’Isabella della Valentini-Terrani (sul finire degli anni ’70): coloratura fluente, pulita, linea di canto sicura in tutta la gamma dell’estensione.

Importante punto di svolta, però, è costituito dalla Horne: mi riferisco a due incisioni diversissime tra loro. L’incisione in studio dell’opera integrale (1980 con Scimone) e il recital “Souvenir of a Golden Age” (recentemente ristampato) che contiene il Rondò e che risale al 1966. La Horne affronta il personaggio con piglio “eroico”, come sfoggio di un vertiginoso vituosismo “di forza”. L’esibizione vocale è, in entrambi i casi, stupefacente. Le quartine sgranate in modo perfetto, la voce sicura che spazia in alto e in basso con una facilità disarmante, le cadenze pirotecniche e le ricche e fantasiose variazioni nelle riprese. Mentre nell’incisione integrale, però, la Horne si attiene fondamentalmente alla redazione rossiniana (pur prendendosi tutte le libertà dovute all’interprete, come nelle variazioni dell’allegro, risolte nel registro basso) ed esegue, ad esempio, solo parte della grande cadenza prevista dall’autore prima del cantabile dell’andante, nel recital recupera alcune delle variazioni della Cinti-Damoreau (sia nelle due cadenze dell’andante stesso che in quelle finali, mentre le variazioni nella ripresa dell’allegro sono più o meno le stesse che riproporrà 15 anni dopo con Scimone), in uno strepitoso esempio di acrobatico virtuosismo.

Sulla stessa linea, ma ancor più indirizzata verso un’interpretazione eroica e guerriera del brano, è il Rondò della Podles (in un bel disco del '95), dove sfrutta appieno il sontuoso registro basso e l’incredibile facilità nello sgranare la coloratura: la Podles nell’andante non esegue le cadenze di Rossini, ma opta per formule più ridotte, tuttavia nell’allegro (sia nelle variazioni della ripresa, sia nella cadenza finale) recupera alcuni stralci della Cinti-Damoreau.

Una lettura meno “di forza”, ma pur sempre di grandissimo impatto virtuosistico, è quella della Dupuy (dal vivo a Bologna nel 1987), che pure si attiene alla scrittura rossiniana, sostituendo – come tutte finora – le cadenze originali con altre, meno impegnative. In effetti non mi risulta che, sino ad ora, siano mai state riproposte integralmente le variazioni della Cinti-Damoreau, né che sia mai stata eseguita integralmente la grande cadenza scritta da Rossini prima della sezione cantabile dell’andante. Scelta comprensibile e filologicamente ineccepibile (almeno per una filologia rettamente intesa): ogni cantante ha la sua propria personalità, le sue caratteristiche vocali e, soprattutto, è interprete del ruolo. E un vero interprete, almeno nel senso ottocentesco del termine, contribuisce alla configurazione del ruolo, lo adatta alle proprie capacità e peculiarità, ne arrichisce la scrittura dove e come può o vuole. Non ripropone meccanicamente e non riproduce (almeno tendenzialmente) interpretazioni che appartengono ad altri: sennò si rischia di ricadere nella mera archeologia musicale. Resta il fatto che sulla carta sono incredibili e piacerebbe ascoltarle prima o poi…anche se, visto il livello delle odierne e sedicenti primedonne – che usurpano il ruolo di cantanti rossiniane – forse è meglio immaginarsele o leggerle, piuttosto che ascoltarle, magari stuprate dalla tecnica periclitante di qualche starlette da rivista patinata che scimiotta le grandi dive del passato (in operazioni commerciali giocate su improbabili e improponibili parallelismi).

Gli ascolti

Rossini: L'Italiana in Algeri

Atto II


Pronti abbiamo e ferri e mani... Amici, in ogni evento... Pensa alla Patria... Qual piacer! Fra pochi istanti - Teresa Berganza (1957), Marilyn Horne (1981), Lucia Valentini-Terrani (1985), Martine Dupuy (1987), Ewa Podles (2002)


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mercoledì 14 gennaio 2009

divinatio in plauditores n° 2

Caro Oscar,
forse dovrei dire cara contessa Serpieri, richiamando il personaggio della novella boitiana (reso a tutti noto, però, da Luchino Visconti ed Alida Valli), che furente per il tradimento si trasforma da amante in delatrice.

Quello che chiunque affermi altrove non mi interessa. E' la loro opinione che io rispetto in misura inversamente proporzionale a quanto loro non hanno rispettato quella mia e di chi con me condivide l'avventura di questo blog. Lasciami dire però, che taluni fori mi ricordano i salotti della nobiltà nera romana o del cappuccio milanese dove si può essere ammessi solo se la propria opinione si plasma su quella dei padroni di casa. In genere tali salotti mi ricordano certe veglie funebri lombarde dove tutti si è accomunati dalla celebrazione delle "cristiane ed elette virtù" del de cujus, magari noto viveur o nota nave scuola.
Mi disturba e offende, però, che si faccia chiaro ed esplicito riferimento alle opinioni di chi non può e/o non vuole intervenire per controbattere, ovvero che per l'ennesima volta, pur a distanza di tempo si venga meno, secondo un consolidato stile, al rispetto del dibattito e del dialogo.
E allora dall'unico rostro che ho e voglio avere, contando nulla gli altri, credo di dover ribadire ed esprimere il mio ed altrui pensiero sull'esecuzione dei Lombardi del signor Meli, sempre tanto caro a parte del pubblico e degli addetti ai lavori ed oggi proposto come tenore verdiano del futuro.
Ho ascoltato l'esecuzione per mezzo di Teleducato. Ne ho ricavato che vale la pena di starsene a casa non ravvisando un interesse in un Pertusi, per forza di cose usurato, in una Theodossiou, il cui luogo di esibizione sarebbero quei graziosi locali dove, al Pireo, si cuoce e commercializza il gyros pitha e, appunto Francesco Meli.
E all'elogiato signor Meli mi limito.

La parte di Oronte è la prima parte importante e seria (nell'accezione teatrale) composta da Verdi. Verdi, al pari di Bellini, credo, preso da sé stesso, specie in gioventù non era nè Rossini nè Donizetti nel trattare le voci. A sua attenuante l'epoca di transizione fra vocalità protoromantica a vocalità romantica piena, che sarà, appunto, quella del Verdi dalla fine degli anni di galera, quando stilemi compositivi ed espressivi di marca donizettiana verranno definitivamente cassati o almeno superati per divenire verdiani.
Quindi non si può, per correttezza, parlare di vocalità verdiana con riferimento al giovane innamorato jerosolimitano. Oronte canta come i tenori di Donizetti e soprattutto si esprime come loro. Basta sentire la sospirosa e tenera cavatina e la cabaletta, ancor più accorata ed elegiaca. Pur trattandosi di cabaletta. Verdiana per giunta.
Allo stesso modo si esprimerà l'anno successivo Ernani, almeno alla sortita ed alla morte e pure Carlo V, baritono, sempre nell'Ernani.
La sortita di Oronte è di quelle pagine, che per renderne la situazione drammatica, ossia per essere interpreti, richiedono morbidezza di voce, legato, forcelle, smorzature, ovvero l'apparato espressivo di un Edgardo e di un Chalais. Parti donizettiane, che cito perchè il primo Oronte -Carlo Guasco- ne fu interprete famosissimo o, per la seconda, creatore.
Rispetto a queste parti la tessitura è meno acuta, anzi decisamente centrale, senza, però, nulla avere in comune con quelle da baritenore pensate per Donzelli e suoi emuli. Oronte fu di competenza degli eredi o emuli di Rubini, fra cui appunto Guasco, Poggi (alla Scala nel 1844, ma era il marito della divina Frezzolini), Mario a Londra nel 1861, se non sbaglio.
Negli anni '50 dell'800 Oronte, come in misura maggiore Ernani, entra nell'orbita dei tenori più marcatamente verdiani come Raffaele Mirate (Milano), Baucardè a Napoli nel 1853, sino a Gaetano Fraschini, che nella prima parte della carriera passava per un tenore "muscolare".
Ma la parte, marcatamente centrale, consentiva (e consentì per un lungo periodo se si ascolta come affronta il terzetto Francesco Merli) fraseggi vari, ispirati ed eloquenti.

La storia interpretativa di Oronte sembra far propendere che le caratteristiche vocali dei primissimi esecutori, quindi, di scuola e formazione protoromantica potesse anche richiamare quella dell’attuale Francesco Meli, se tecnicamente più ferrato, sapesse legare e smorzare come lo spartito, ossia Verdi, indica.
Quanto alle indicazioni di spartito dell’aria si parte con una doppia forcella prevista su "nel suo bel core” alla quartina di “beato amore” Verdi prevede dolce, sul do centrale di “tante armonie” compare l’indicazione “marcato” e sul fa di “ quanto” quella di con forza. Insomma un po’ di ormoni anche per Oronte, perché subito dopo Verdi riprende a chiedere un “dolcissimo” sul fa di “pianeti” e arrivati alla serie di “mortal” della chiusa dell’aria l’autore stesso oltre a distribuire una dovizia di forcelle, che forse gli esecutori intendevano anche come rallentando e stentando (indicazione che ai tempi era lasciata all’assoluto dominio dell'esecutore) provvede, anche, di qualche gruppetto, che serve ad illeggiadrire ulteriormente l’aria e più, a dare una sorta di indicazione interpretativa. Nella sezione conclusiva la scrittura è sempre marcatamente centrale salvo un paio di sol acuti e la dinamica sempre improntata all’elegia se si pensa che alla chiusa Verdi espressamente indica un “dolcissimo” sull’ultimo sol, preceduto da un pianissimo sul penultimo “non va”.
Questa piccola e parzialissima disamina non rappresenta il “far le pulci” o fare Beckmesser, riducendo l’arte al rispetto dei segni di esecuzione, ma solo informarsi sull’autore e sulla sua opera, come leggere direttamente in latino Cesare o Cicerone anziché in traduzione. Esaminando grandi tenori alle prese con un’altra pagina verdiana come l’aria di Rodolfo della Miller abbiamo, molto tempo fa, rilevato come l’aderenza al pensiero dell’autore possa essere pienamente realizzata con un rispetto ora parziale, ora amplificato delle indicazioni dello stesso.
Essere ascoltatori seri ed autonomi impone di rilevare che tutti i segni di espressione previsti da Verdi (che non credo fossero esaustivi se richiamo alla mente e al cd certe esecuzioni verdiane di Marconi, Bonci, Slezak, de Lucia ed anche Tagliavini o Bergonzi fra i sessanta ed i settanta) non sono stati minimamente rispettati, che la voce del signor Meli suona sul sol acuto stimbrata perché sta nella gola e non nei risuonatori superiori e perché le note precedenti gli acuti (intendo re mi e fa) non sono adeguatamente coperti ed immascherati e che l’unico, ripeto unico, tentativo di addolcire si è risolto in un suono indietro. Dirò anche di più il suono immascherato assume di suo una stilizzazione ed una astrattezza, che sottrae il canto al quotidiano per consegnarlo alle iperboli espressive del Romanticismo. Accedeva ad esempio a Tucker, meno vario nel fraseggio di tenori della generazione precedente, ma dotato di una tecnica di canto, che esaltava con la proiezione del suoni i tratti essenziali dell’eroe romantico, fosse Rodolfo o Manrico.
Il nostro Francesco Meli ricorda altro tenore, sempre genovese, dalla dote cospicua e dalla tecnica approssimativa, anche se più squillante in alto: Alberto Cupido. Ascoltare proprio Cupido nei Lombardi scaligeri del 1987 per la dimostrazione dell'assunto.
Come abbiamo già detto altre volte ed altrove nei grandi teatri o ai grandi appuntamenti si arriva "già fatti" e non da fare. E lo abbiamo detto con il conforto di una assoluta professionista (prima che primadonna) come Maria Callas. Senza questi presupposti l'esecutore verdiano del futuro presto e per forza diventerà Andrea Chenier e don José, come, purtroppo, e per la stessa ragione accadde ad un altro Oronte parmigiano: Josè Carreras.
Spiace, ovvio perchè al melomane quello autonomo e autopensante la smorzatura da sogno l'acuto proiettato e prorompente danno la scarica adrenalica.

Chiosa. E' un po' limitato, calunnioso ed indimostrato, assumere che il fischio isolato provenga da dd o gg. Non sono omnipresenti, non sempre contestano apertamente se insoddisfatti ( come nel caso bolognese) e, forse, il loro pensiero non è poi un...."apax". Purtroppo, diranno in molti.


Gli ascolti

Verdi - I Lombardi alla prima crociata


Atto II

La mia letizia infondere...Come poteva un angelo - Ferruccio Tagliavini, Carlo Bergonzi (1979), Carlo Bergonzi (1986), Alberto Cupido (1986)

Atto III

Qui posa il fianco...Qual voluttà trascorrere - Carlo Bergonzi, Christine Deutekom & Paul Plishka (1979), Carlo Bergonzi, Aprile Millo & Paul Plishka (1986)

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sabato 10 gennaio 2009

175.000: Wagner in italiano!!!

Wagner in italiano, che è, poi, il contraltare del Verdi in tedesco, era la nostra idea per i 150.000 ingressi nel blog. Le entrate al di sopra di ogni attesa in occasione dell'inaugurazione scaligera, ci hanno costretti a rinviare ad un successivo incremento di ingressi il "concertone" di Wagner in lingua italiana.

Il mito e la foia dell'esecuzione in lingua originale sono nati negli anni '40 del secolo scorso e sono stati incrementati negli anni successivi, trascorsi i quali eseguire un Lohengrin in italiano è il segno di ignoranza ed inculturalità. E su questo altare ci siamo persi, magari, il trio Caballé, Bergonzi, Bumbry in Lohengrin o il Corelli, Mac Neil, Cossotto, Arroyo in Tannhauser.
I nostri nonni o bisnonni e, persino, Wagner non la pensavano affatto così. Il problema essenziale era farsi capire (oltre che quello contingente di riempire il teatro stante l'assenza di sovvenzioni pubbliche ed alchimie di bilancio) e, quindi, in Italia e paesi di lingua spagnola si cantava Wagner in Italiano ed in Francia in gallico idioma.
A questa regola si attenevano cantanti di carriera middleuropea come, primi, che ricordo Frida Leider, Brunilde scaligera nel 1928 o Leo Slezak protagonista, sempre in Scala, di Tannahauser nel 1905. Non solo, ma anche cantanti italiani quali Giuseppe Kaschmann, che era dalmata di Lussinpiccolo, conoscevano ed eseguivano Wagner nelle due versioni. Basta guardare le cronologie del Met, della Scala e di Bayreuth.
La conseguenza della scelta della lingua originale prima, sempre e comunque ha distrutto la grande tradizione dei cantanti italiani o di scuola italiana continuata sino alla Callas ed alla Tebaldi ed anche più oltre come intendiamo testimoniare.
Anche quest'ultimo assunto deve essere oggetto di qualche riflessione e puntualizzazione, ovvero i cantanti tedeschi, coevi ai wagneriani "mediterranei" cantavano con la stessa tecnica (spessisimo aveva studiato in Italia o con maestri italiani) di quelli italiani. Fra Slezak e Vinas, a parte la lingua non corrono differenze, come pure fra Pertile e Volker, nei panni di Lohengrin. Ancor più evidente l'eguaglianza se ascoltiamo le Elsa di Brabante di una Tebaldi (o quelle veramente sontuose della Pampanini o della Caniglia) e quella della Muller o della Lemnitz.
Poi i cantanti di origine tedesca hanno completamente dimenticato tecnica e gusto della generazione loro precedente e abbiamo sentito solo mal canto e mala interpretazione, sconosciute, ripeto dieci anni prima della funesta apparizione dei Kollo, Jerusalem e successori, così Wagner ha subito uno scempio interpretativo, pari solo all'attuale dell'opera barocca.
Per inciso: diversi mondi, diverse poetiche, eguale scempio sul presupposto di teorie pseudo culturali , che, invece, affondano la radice nell'incapacità professionale e culturale dei loro mentori.
Gli ascolti non sono completi e non hanno questa presunzione. La struttura dell'opera wagneriana, sopratutto la Tetralogia riduceva molto, sopratutto all'epoca acustica, la possibilità di registrarne estratti. Quindi mancano le testimonianze di grandi wagneriane come la Pinto, la Krusceniscky o sono assolutamente inattendibili.
Però in mezzo alla scelta a registrazioni di levatura storica come il Lohengrin di Pertile (alla Scala l'opera si dava ogni biennio sinchè il tenore fu fra gli ospiti fissi del teatro) o il Wotan di de Angelis o l'autentica teoria di Wolfram dove è una gara fra i maggiori baritoni italiani devo segnalare il Lohengrin di Fleta.
Le sonorità attutite, l'uso pressochè costante di una mezza voce dolcissima e penetrante (perchè sostenuta dal fiato.....more solito), l'emissione pura e stilizzata superano ogni altra registrazione del brano, Fleta restituisce l'idea, più dei grandissimi che in ogni lingua hanno cantato il personaggio, che Lohengrin è un semidio, apparso in terra, ma seguita ad essere un semidio e come una deità deve esprimere la propria teofania.
Buon ascolto!!!


Gli ascolti - Gran concerto wagneriano


Lohengrin


Atto I
Grazie, o Signor - Enrico Molinari (1928)
Sola ne' miei prim'anni - Maria Caniglia (1936), Rosetta Pampanini (1940), Maria Chiara (1973)
Mercé cigno gentil - Fernando de Lucia, Aureliano Pertile (1927)

Atto II
Aurette a cui sì spesso - Mafalda Favero
Elsa!...Chi è là? - Elvira Ceresoli & Cesira Ferrani (1905), Elena Nicolai & Renata Tebaldi (1954), Bianca Berini & Katia Ricciarelli (1973)

Atto III
Cessaro i canti...Dì, non t'incantan - Giuseppe Borgatti (1919 - acustico), Giuseppe Borgatti (1928 - elettrico), Fernando de Lucia & Josefina Huguet, Aureliano Pertile & Ines Alfani-Tellini (1927), Gino Penno & Renata Tebaldi (1954)
Da voi lontan - Aureliano Pertile (1927), Ettore Parmeggiani (1928), Miguel Fleta (1924)


Tannhäuser

Atto I
Sia lode a te - Fiorello Giraud (1903)
Allor che tu coll'estro - Mattia Battistini (1911), Enrico Molinari (1928)

Atto III
O tu bell'astro - Mattia Battistini (1902), Riccaro Stracciari (1925), Enrico Molinari (1928), Carlo Tagliabue (1946)
Col cor contrito - Giuseppe Borgatti (1919)


La Valchiria

Atto I
Cede il verno - Francisco Vinas (190?), Giuseppe Borgatti (1919)

Atto III
Addio, sublime prole d'eroi - Nazzareno de Angelis (19??), Luigi Rossi-Morelli (1930)
Questi occhi fulgidi ognor - Luigi Rossi-Morelli (1930)


I Maestri cantori di Norimberga


Atto I
Nel verno al pié - Alfonso Garulli (1902), Fiorello Giraud (1903)


L'Olandese volante

Atto II
D'un'antica, remota usanza - Giuseppe Taddei & Angeles Gulin (1970)

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venerdì 9 gennaio 2009

I Puritani a Bologna: tra divismo e velleità

Di ritorno dai Puritani di Bologna, le nostre considerazioni su una produzione che ha come principale motivo d'interesse la presenza di Juan Diego Flórez, al debutto italiano nel titolo e alla terza prova nell'opera (dopo Las Palmas 2004 e Vienna 2005).

Nemmeno in questa lussuosa occasione ha trovato la sua esecuzione di riferimento la recente edizione critica dei Puritani di Bellini. Nella sua originaria versione parigina, l’opera continua, infatti, a rappresentare uno scoglio ingestibile, nella sua monumentale integrità, per i cantanti del giorno d’oggi, sia che si tratti di divi consumati o di aspiranti tali. Mentre il programma di sala ingannevolmente afferma agli spettatori che “ …in questa edizione potremo ascoltare tre passi “riaperti”: un terzetto (atto I scena X) per Arturo Enrichetta e Riccardo, “Se il destino a me t’invola”; una parte del duetto Elvira Arturo ( atto III scena II ) a partire dalle parole “Ah perdona ell’era misera” e l’intero Andante sostenuto cantabile “ Da quel dì che ti mirai”. Ultima aggiunta la cabaletta a due per Elvira e Arturo ( atto III scena III ) nel finale ultimo, “Ah sento o mio bell’angelo”…) (Programma di sala, pag. 11, autore G. Gavazzeni), lo scorrere della serata dimostra come la dura realtà dell’andare in scena abbia imposto al celebre tenore come alla sua giovane compagna di viaggio di mettere da parte velleità ed ambizioni e rassegnarsi ad una riduzione sensibile delle rispettive parti, soprattutto per quanto riguarda il terribile terzo atto. Sicchè l’agognata “edizione critica”, indispensabile marchio “culturale” da porre sui cofanetti dei dvd e nei curricula delle carriere dei più giovani, si è semplicemente tradotta nella ricollocazione dell’originario terzetto che precede il finale primo ( Arturo Enrichetta Riccardo) e nella riproposizione, quale “cabaletta a due” e non più per soprano solo, dell’”Ah sento o mio bell’angelo” in chiusa d’opera. Il tutto a fronte di alcuni tagli vistosi, tra cui, nota più dolente di tutte, per non dire dvvero snaturante della sua essenza musicale e drammaturgica, la vasta amputazione del duettone finale ( ove non solo non è stato riaperto alcun taglio, ma si è anche dimezzato quanto di prassi da sempre, e per questo cut si rimanda all’incisione Filippeschi Pagliughi, Previtali ); la sezione finale della seconda strofa dell’aria di Arturo al terzo atto; parte della Polacca di Elvira; parte della sezione finale del duetto Riccardo-Giorgio. Di modo che, come al solito nel nostro presente, alla novità di alcuni elementi di tutto interesse ha fatto da contraltare un’operazione di “sartoria” dello spartito di fronte alla quale paiono ben poca cosa quelle che operava l’augusto avo del curatore del programma di sala! E questo tralasciando, poi, gli aspetti di quella che dovrebbe essere anche la componente “vociologica” (permettetemi il termine) della filologia musicale, poiché in una edizione che pretenda di dirsi ”critica” occorre rispettare, e non tradire, come in questo caso, le corrette modalità del canto del tempo (a cominciare da quella cosa chiamata “emissione stilizzata”, fondamentale nel belcanto ma oramai dimenticata, assieme a tutta una serie di altre “pretese” da melomani rétro come noi, per nulla interessati ai begli occhi del soprano o alla silhouette del tenore, ma al mero canto ). Ma andiamo con ordine.

Sarebbe noioso riproporre considerazioni sullo storico quartetto della prima parigina, nonché le notizie, che già vi ha qui fornito direttamente il curatore dell’edizione critica, prof. Della Seta, circa la genesi di questa opera e la sua edizione critica. Ne abbiamo parlato ampiamente e ritroverete gli argomenti in alcuni post precedenti.
Delle quattro voci scelte dal teatro bolognese solo D’Arcangelo aveva, a mio avviso, le carte in regola per i Puritani, ma nemmeno lui poi ha saputo convincere.

Flórez è per sua propria natura voce leggera, priva del corpo come degli armonici necessari. Canta Arturo per coté di carriera, per imposta necessità a chi vuol essere stella belcantista da star system, ma è intimamente Lindoro, Idreno, don Narciso, al limite Ernesto ( e in questo non v’è niente di male….ognuno ha la natura vocale che ha). Gli mancano la voce e la “potenza” necessaria nel canto belliniano, sia nei momenti eroici che in quelli lirici, ove canta bene, con eleganza ma….in maniera evidentemente inadatta. Anzi, canta con quella “maniera” che già altre volte abbiamo criticato. Si è presentato con voce lunga, facile alla tessitura vertiginosa come allo sfogo nei sopracuti, con una linea di canto pulitissima e nitida, fatto che gli fa grande onore dopo il brutto Rigoletto. E va ammirato soprattutto per la sua capacità di reazione. E per quanto la voce sia molto ridotta di volume, resta di gran lunga il migliore della serata, data anche la capacità dimostrata nel “resistere” ad un ruolo che sfianca. Il ruolo è sempre stato inadatto a lui, e di qui i robusti tagli, eccessivi quelli del terzo atto. La cavatina è stata uno dei momenti migliori della sua serata, perché è elegante ed ancora facile in alto, ad onta di un do diesis non sicurissimo e di alcuni fiati un po’ corti. E' mancato un legato di vera qualità nei passaggi la-re tipo “A te o CA-RA, amor TALO-RA “ e le forcelle, che sono un po’ il suo handicap per forza di cose, non sono risultate ben udibili per mancanza di cavata della voce. Ingiusti gli sparsi buu dall’alto. Anche se non è da escludere che si sia trattato di una reazione all'invadenza dei plauditores.
Flórez ha poi sofferto vistosamente nei momenti di forza per assenza di peso, a cominciare dal recitativo con Enrichetta come al successivo duetto della sfida, ove frasi come ”Sprezza audace..” fanno sembrare il suo timbro infantile. Ha puntato bene in alto le frasi, assai faticose per la sua voce, “ Non temo il tuo furore..ti sprezzo…”, che molto gli costano: si è controllato bene, però, senza spingersi a forzare o gridare. Un po’ di fatica nella tessitura acuta del terzetto, cantato, però, con bel lirismo, a meno di qualche attacco scoperto a voce un po’ troppo piena ed una mezza stecca, che può capitare.
Non ha potuto barare, invece, alla grande aria del terzo atto, opportunamente scorciata, come già altri tenori in passato, da Filippeschi ad Araiza, in questo caso della sezione “ Sempre uguali ha i luoghi e l’ore “ ( battute 442-458 ) della seconda strofa, ove Bellini, stando alle numerose messe di voce e legature, richiede ulteriore ampiezza nella linea di canto. Il brano si addice ad una voce importante, per poter dare vero senso a malinconia, nostalgia, doloroso ricordo insite nella nenia belliniana. L’accento è pertinente, ma Florez arriva a questo punto evidentemente stanco e l’aria è pesante per la sua voce: il canto è risultato leggero e manierato, le forcelle scritte anche in questo caso appena abbozzate. E non ho potuto fare a meno di pensare alla convenienza che avrebbe Florez a praticare Les Pêcheurs de Perles, La dame blanche, Le Postillon de Lonjumeau, la Manon di Auber….. Anche il recitativo all'inizio del terzo atto, ad essere più precisi, è stato eseguito con slancio e proprietà di intenzioni, ma anche con la voce di Ramiro che entra in casa di Don Magnifico. E per inciso è questo recitativo uno dei pochi punti (assieme all'attacco di "Nel mirarti un solo istante" e alle primissime battute del "Credeasi misera") in cui Flórez ha cantato a voce piena in un terzo atto giocato in evidente difesa. Il successivo duetto con Elvira, abbiamo detto, è stato davvero troppo tagliato. Se ne è eseguita la metà circa. Per fortuna! Come da tradizione si è eliso l’annunciato “Da quel dì che ti mirai” ( battute 560-717 ) , ma si è pure tagliata parte della prima strofa di Elvira del “Vieni, vieni tra queste braccia”, per attaccare già sul “Ah deh vieni, vien tel ripeto t’amo” quella che è la sezione finale della ripresa a due voci del brano, ove Arturo canta, tra l’altro, una terza sopra alla sua prima scrittura ( battute 795-838). Gli acuti restano facili, compreso il re naturale prescritto, ma lo slancio di un Pavarotti o di un Kraus, oppure la varietà di accento di certi dischi a 78 giri, appartengono ad un altro pianeta. Ed ad un’altra opera! La fatica è stata tantissima, e la voce è parsa spesso al limite. Né la musica è potuta cambiare al tremendo finale, cantato con tanta fatica, acuti facili ma deficit di ampiezza e di dinamica: il brano è eseguito con logica prevalenza di lirismo, ma frasi come “ ..l’ira frenate..” non sono per nulla liriche , o lo possono essere solo se le approccia una voce corposa e piena. Ed alla fine resta solo una domanda: perché Flórez non dà una svolta opportuna al suo repertorio? Certa opera francese attende questo grande tenore: là stanno da tempo le sue opere ed è ora di cantarle!

Nino Machaidze non possiede qualità tecniche e men che meno timbriche, se queste abbiano mai importanza nel belcanto, per cantare Elvira. I problemi tecnici ve li descrivemmo chiaramente allorquando fu Amina in quel di Genova l’anno passato, e vi rimandiamo a quella recensione, dato che nulla è cambiato. L’interprete, invece, è pertinente nei suoi intenti, ad onta di un portamento scenico non da grande primadonna quale è Elvira.
A parte il fuori scena iniziale della chiesa, ha avuto da subito le sue belle gatte da pelare. Il duetto con Giorgio è caratterizzato da grande slancio, con virtuosismo di chiara ascendenza rossiniana, da eseguire di forza. La voce è arrivata subito acida e vetrosa al centro sin dalle prime battute “ Sai com’arde il petto mio..”, offuscata e a tratti proprio afona in ottava bassa, ove il passaggio di registro non gira come dovrebbe. I primi acuti sono stati anch’essi striduli: note chiave della serata i la bem e la nat tenuti ( ve ne sono svariati scritti ), una vera croce per la giovane georgiana. Sulla coloratura di forza prescritta per frasi tipo “…di dolor io morirò, di dolor…” si è arrangicchiata in qualche modo, incespicando sui lunghi trilli ( altro punto debole ) prescritti sul mi-la nat di “ dolor amor”. Un grido il la nat di “..Ah padre mio..”.
La polacca, tagliata nella sezione centrale ( 208-226 ) e nelle code, è stata eseguita a bella e giusta velocità, ma in modo impreciso, a cominciare sin dal gruppetto previsto in seconda battuta di ingresso, quindi il trillo maldestro scritto sul fa diesis di “rose”, poi quella scritta su “..monil, del bel monil…” e di lì un po’ tutta la coloratura successiva, compreso il sopracuto in chiusa. Il finale primo, eseguito a meno delle tradizionali ma non scritte puntature ai re naturali, ha messo in evidenza i problemi timbrici del registro acuto, nelle salite al do di “Ah vieni..”: la voce è sonora, ma non corposa, almeno non quanta ne serve ad una vera grande Elvira.
Quanto alla scena di pazzia all’atto secondo atto, ha cercato costantemente di cantare piano e dolce dando rilievo espressivo a frasi come “…ah mai più qui assorti insieme…”, ma le difficoltà a legare i suoni al centro han finito col penalizzarla. Mariotti l’ha assecondata al massimo, facendo quasi sparire l’orchestra in alcuni punti, ma l’assenza di cavata necessaria e prescritta da Bellini in frasi come “ ancor tu sai che un cor fido…” è venuta fuori con chiarezza. L’effetto è stato quello di un certo torpore, persistente anche nelle battute di conducimento prima della cabaletta, che meriterebbero di essere ravvivate. La cabaletta chiama in causa ancora il virtuosismo di forza che, pedonatemi!, mi rese tanto celebre all’epoca: spariscono subito i segni di corona scritti sul “ vien ti posa vien ti posa sul mio cuor “, le serie di quartine discendenti sono eseguite alla comemiviene e senza purezza, i trilli lasciamoli perdere assieme al sopracuto in chiusa. Insomma, qui di grande virtuosa non se ne parla proprio, nonostante quel che ci vogliono far credere i signori del management. Quanto al duetto del terzo atto, anche la signora Machaidze ha beneficiato, come Flórez, della forbice della provvidenza, che le ha scontato un bel tocco della sua parte del “vieni vieni fra queste braccia”. Arrivataci stanca, come il suo partner, ha cantato con un accento dolente molto commovente, ma, ahimè, il timbro, per la stanchezza e la tensione, e la qualità del legato sono parsi improbabili. Ciononostante, evidentemente in grazia e della freschezza data dalla giovane età e della scelta di spingere regolarmente i suoni, la signora è riuscita a coprire in più di un punto il tenore nei passi a due. Quanto al senso generale di questa Elvira, non possiamo non sottolineare, come per Florez, la mancanza di peso vuoi lirico-tragico vuoi virtuosistico: Elvira è ben altro che una ragazzina un po' querulina, bensì primadonna completa, con tanto di fascino ed eleganza, caratterizzata da anche da vero vigore drammatico. Il risultato complessivo è stato, per forza di cose, troppo "mignon" per essere accettabile e corretto a valle della belcanto renaissance.

Gabriele Viviani, di solida natura e con voce corposa, facile in acuto ma vistosamente limitato in basso, ha cercato di cantare con accuratezza e dolcezza, ma l’emissione non è stilizzata, spesso vistosamente nasale. Il canto resta punto elegante, e talora anche greve. Nell’aria del primo atto si sono sentite alcune grossolanità anche vistose, come la pausa, non scritta per andare a prendere il mi bem nella coloratura scritta legata di “..alla vita che s’avanza…” e nella corrispondente battuta della seconda strofa. Ma, soprattutto, l’esecuzione è stata piatta e senza colori. Semplificata la cadenza di Bellini, eseguita alla bell’e meglio.
In cabaletta ( terrificante il pertichino del secondo tenore) è stato abbastanza preciso, pur omettendo le quartine vocalizzate della sezione finale, ma, soprattutto, sempre monotono e inelegante.
Al famoso terzetto con Arturo ed Enrichetta gli è stato giustamente richiesto di cantare piano, quasi di sussurrare il pedale alla trenodia del tenore, ma la voce è parsa fuori fuoco, posto che la tessitura è altissima. Nulla di speciale al duetto con il basso, cantato in modo troppo verista e nemmeno molto preciso nella scrittura (e senza contare il taglio di una decina di battute, dalla 317 alla 327).

Ildebrando d’Arcangelo ha cantato con voce bassa, troppo bassa ed ingolata per il suo stesso standard. E’ parso correttissimo nel duetto con Elvira al primo atto, anche nell’esecuzione musicale, ma monotono e un po’ greve, a causa… dell’emissione. Senescente. Anche per lui marcata afonia all'ottava bassa.
Al secondo atto “Cinta di fiori” è stata eseguita con troppa pesantezza, complice anche Mariotti. Nessun colore, nessun accento dolente, nulla. Di nuovo tanta monotonia, pure con qualche frase a voce ballante. Il duetto con Viviani in affanno. Una prova inaspettata da lui.

Terribile il Bruno di Gianluca Floris, un po' meglio il Gualtiero di Ugo Guagliardo, corretta ma priva di slancio e microbica l'Enrichetta di Nadia Pirazzini. Ma pretendere la perfezione dei comprimari, in una compagnia che quasi al completo ignora che cosa sia una voce proiettata, sarebbe grottesco.

La prova, osannata dal pubblico, di Michele Mariotti è stata a luci ed ombre, caratterizzata proprio dalla discontinuità. Le luci sono arrivate, come spesso nei giovani direttori odierni, ove era necessario mettere in primo piano il lirismo, i toni estatici e sognanti. Le ombre, invece, laddove era necessario sostenere con l’orchestra la tensione drammaturgica, dar forza e vigore drammatico all’azione, sottolineare i toni epici e cavallereschi. Esempi: l'inizio dell'opera, in cui nulla faceva pensare alla solennità dell'alba, l’apertura dell’atto secondo, mollissima e noisa; la scena del temporale all’atto terzo, ove non è riuscito ad essere davvero corrusco e spaventoso, oppure nella terribile marcetta, che sarebbe un “Allegro maestoso sostenuto”, che inframezza l’aria di Arturo: che passassero di lì dei “furenti” è stato davvero difficile crederlo. A reggere bene e con convinzione l’azione drammaturgica, poi, gli è riuscito, ma molto bene, nel duetto del primo atto Elvira-Giorgio, con fuori scena suggestivi e begli effetti prospettici e la prima sezione del duetto Giorgio Riccardo, con epica e piglio veri. In altri momenti ha ripiegato su “effetti” molto riusciti, come il clima sospeso del ripristinato terzetto del primo atto. Ho trovato, invece, monotonia e pesantezza in altre parti, come nel coro iniziale dell’opera, oppure nel mix alterno di belle sonorità e inerzia nell’ingresso di Arturo, come pure nel finale primo, con una introduzione molto bella seguita da momenti letargici sulle frasi del coro “ Demente vivrà”, oppure una chiusa veloce molto, troppo meccanica; o nel “Suoni la tromba intrepido”, staccato con bella velocità ma un po’ bandistico.
L’orchestra, inoltre, non ha avuto sempre un bel suono, un po’ di fragore di piatti, qualche fracasso qua e là, intonazione precaria dei fiati soprattutto all'ultimo atto. Insomma una prova alterna, di certo servizievolissima verso i cantanti ( basti pensare alla pazzia di Elvira), di un giovane di belle speranze, spinto un po’ troppo in alto e un po' troppo in fretta per la sua effettiva resa.

Veniamo allo spettacolo di Pier'Alli, il solo che alla fine non benefici delle ovazioni del pubblico, beccandosi qualche fischio a nostro parere ingiustificato. Il regista-scenografo-costumista crea una scena tutta giocata sui toni del grigio e del blu, con begli effetti di luce soprattutto nel duetto atto primo Giorgio-Elvira, al terzetto nel finale primo (con i personaggi isolati da tre proiettori stile Sandro Sequi) e nell'introduzione al terzo atto, risolta con un suggestivo controluce. A scene anche troppo stilizzate e rarefatte si contrappongono costumi ligi alla tradizione, ancora una volta giocati sul grigio-blu scuro, con l'unica macchia bianca costituita dai costumi di Elvira. Già visti i simboli ricorrenti (pugnali che calano dall'alto a mo' di colonne, porte automatiche, proiezioni di cieli foschi che nel finale si rasserenano), così come i gesti rituali del coro, per il quale pare valere la regola cara a Beppe de Tomasi, "si entra da destra, si canta e si esce da sinistra e viceversa" e che per il resto non esce da figurazioni simmetriche e spesso rimane in scena nella totale immobilità. Certo si poteva fare di più per i solisti, che, salvo Viviani e in parte d'Arcangelo, abbandonati a loro stessi tendono ad abbassare un pochino troppo l'età dei loro personaggi, sortendo un curioso effetto di bambini che giocano a fare i grandi. Davvero censurabile la scena della pazzia, con Elvira circondata da prefiche velate di nero che recano in mano, al posto delle tede di classica memoria, più prosaiche lampade ad olio.

Nel complesso, e sintetizzando, uno spettacolo che onora ben poco Bellini e poco aggiunge al percorso artistico del divo per il quale è stato montato, malgrado il rilievo che Flórez viene ad assumere in un cast in cui tutti, ma proprio tutti, sono almeno due spanne sotto di lui. E uno spettacolo sul quale grava l'ombra dell'affaire Mosuc, ben noto e doviziosamente commentato in molti fori specializzati.

Giulia Grisi & Antonio Tamburini


Gli ascolti

Bellini - I puritani


Atto I

Ah! Per sempre io ti perdei...Bel sogno beato - Ernest Blanc (Bonynge - 1963)

O amato zio...Sai com'arde in petto mio - Margherita Rinaldi & Paolo Washington (Ceccato - 1969)

A te o cara - Francisco Araiza (Soltesz - 1987)

Son vergin vezzosa - Gianna D'Angelo (con Kraus, Arié, Granados - Wolf-Ferrari - 1967), Anna Maccianti (con Kraus, Gaetani, Fortunato - Zani - 1970), Adriana Maliponte (con Kraus, Raimondi, Di Stasio - Gavazzeni - 1972)

Dov'è Arturo?...Ah, vieni al tempio - Lina Pagliughi (Previtali - 1952), Anna Moffo (Rossi - 1959), Anna Maccianti (Zani - 1970), Adriana Maliponte (Gavazzeni - 1972)

Atto II

Oh rendetemi la speme...Qui la voce sua soave...Vien diletto - Anna Moffo (Rossi - 1959), Margherita Rinaldi (Ceccato - 1969), Adriana Maliponte (Gavazzeni - 1972)

Atto III

Son salvo, alfin...Corre a valle - William Matteuzzi (con Mariella Devia - Bonynge - 1989)

Finì, me lassa!...Nel mirarti un solo istante...Vieni fra queste braccia - Anna Moffo & Gianni Raimondi (Rossi - 1959), Anna Maccianti & Alfredo Kraus (Zani - 1970)

Ah! Sento, o mio bell'angelo - Lucia Aliberti (Luisi - 1988)

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