lunedì 31 agosto 2009

Guglielmo Tell

Lo sceltissimo pubblico che riempiva la Salle Peletier dell’Académie royale de musique, la sera del 3 agosto del 1829, assistette ad un evento irripetibile (per importanza storica e per valore artistico): andava in scena Guillaume Tell, ultima opera teatrale di Gioachino Rossini. L’evento – atteso da tempo e già rinviato, a causa di alcuni ritardi nelle prove, posticipate più volte in ragione dell’inaspettata e sfortunata maternità della Cinti-Damoreau (voluta dall’autore per il ruolo della protagonista femminile), e interrottesi, poi, per un’improvvida raucedine della stessa, nonchè dalla ritardata concessione, da parte del governo francese, di quel vitalizio (unitamente al rinnovo, stavolta perpetuo, del prestigioso incarico di Compositeur du Roi et inspecteur Général du chant) a cui l’autore aspirava (legittimamente) quale ricompensa per gli alti servigi resi alla cultura musicale parigina, e come condizione imprescindibile per la consegna dell’opera (più volte minacciandone il ritiro, stanti le lungaggini della burocrazia d’oltralpe) – segnò, di fatto, il definitivo ritiro dalle scene dell’autore.

Ritiro consapevole e fortissimamente voluto: Rossini riteneva che la sua carriera fosse ormai giunta ad una maturazione tale per cui non vi erano ragioni per prolungarla. E nonostante le tante e assai vantaggiose profferte da parte dei teatri più prestigiosi d’Europa, il pesarese sognava di rientrare in patria, nella “sua” Bologna, forse, ed ivi rimanere per godere i meritati frutti delle sue fatiche. Molto s’è scritto e detto sulle ragioni effettive di tale ritiro (prematuro, in relazione all’età anagrafica e all’influenza, al rispetto, rectius venerazione, che la sua musica e la sua opera suscitavano, ma tuttavia comprensibile se si osserva la ricchezza qualitativa, ancor più che quantitativa, del suo catalogo sino ad allora), ma forse il motivo principale risiede – oltre che nella stanchezza e nella pigrizia congenita al personaggio (in cui, peraltro, indulgeva con mirabile autoironia...sconosciuta alla maggior parte dei suoi colleghi passati e, soprattutto, futuri) – nell’inattualità di Rossini stesso (nel senso nietzschiano del termine): i valori estetici (ed etici) della sua musica erano ormai disattesi, l’opera marciava verso linguaggi differenti, sostituendo l’effetto evocativo della musica, con l’esposizione sempre più “sfacciata” di effetti (o effettacci) ed affetti; trasformando l’astrattezze delle forme che costruivano il dramma attraverso la perfezione di un bello ideale a cui essenzialmente tendevano, in un ribollire di sensazioni volte a tradurre la natura e i sentimenti in musica (non più ad evocarne l’idea). Il passaggio, insomma, da un classicismo ancora tendenzialmente illuminista ad un’estetica romantica e preromantica. Rossini visse questo ricambio di civiltà come una decadenza dell’arte vocale e strumentale (unita all’innegabile scadimento tecnico, in particolar modo dal punto di vista orchestrale, che segnava le nuove generazioni operistiche: fatto salvo Donizetti, infatti, non si può che notare la rozzezza della strumentazione nel primo Verdi e in Bellini, per tacere dei minori, accompagnate, spesso, ad un trattamento incongruo e impacciato della vocalità), ma non per motivi di conservatorismo fine a sè stesso, quanto perchè vedeva una degenerazione estetica di quella civiltà musicale che avrebbe potuto ancora dir molto – come insegna il Tell – se solo fosse stata trasformata dal suo interno attraverso quel linguaggio tracciato proprio in quell’ultima costruzione musicale (gigantesca): ammirata, celebrata, ma subito – come si vedrà – disattesa e scientemente dimenticata (il Guglielmo Tell verrà sempre considerato alla stregua di una splendida cattedrale, una Bibbia: “la nostra Divina Commedia” scrisse Bellini, mentre Donizetti si spinse più in là dichiarando che “il primo e il terzo atto li ha scritti Rossini, il secondo atto Dio” – eppure le rappresentazioni si diradarono e la venerazione si trasformò in culto: culto lontano, tale era l’oggettiva distanza di quel capolavoro con tutto il resto). Il 3 agosto 1829, l’opera – si diceva – andò finalmente in scena: la gestazione fu più lunga del solito standard rossiniano (la consapevolezza di essere alla sua estrema prova teatrale, portò l’autore ad una cura maggiore nei dettagli della strumentazione – che quì raggiunge un vertice assoluto – e nella stesura del libretto), non per questo, tuttavia, i lavori precedenti erano connotati da sbrigatività o fretta: il genio di Rossini stava proprio nel riuscire, in tempi ristrettissimi, a comporre musica di qualità elevatissima, costantemente ispirata (e pure laddove ricorreva all’autoimprestito – prassi usata da tutti i compositori coevi e precedenti – i brani presi da titoli diversi si fondevano mirabilmente in quelli nuovi, tanto da assumere una nuova identità, anche opposta a quella originaria). Rossini mise mano al Gugliemo Tell nella seconda metà del 1828 e concluse virtualmente la partitura nel novembre di quello stesso anno, anche se continuò a lavorarci per altri 10 mesi, fino alla prima dell’anno successivo: tempi quindi insolitamente lunghi, che trovano un precedente nel solo caso della Gazza Ladra, la cui composizione si protrasse per più di tre mesi (e non a caso le due opere appaiono collegate da una visione musicale grandiosa, una cura nell’orchestrazione differente da qualsiasi altro lavoro ad esse contemporaneo, una costruzione elaborata e raffinatissima che guarda direttamente e da pari al grande sinfonismo europeo – Beethoven in particolare – un valore musicale che sovrasta, in modo più marcato nella Gazza Ladra, la staticità del soggetto, ed il medesimo oblio, pur nella generale ammirazione, nei posteri più immediati e successivi). Le aspettative, oltre per l’evento in sè, erano dovute anche al fatto che il Tell era, in effetti, la prima opera originale che Rossini scriveva dal 1823, quando a Milano andò in scena la Semiramide (suo capolavoro italiano e, forse, la sua vera ultima opera: giacchè il Tell è “qualcosa di diverso”): infatti i lavori che seguirono in realtà furono una cantata celebrativa scritta per durare una sola serata (Il Viaggio a Reims) o rielaborazioni – seppur profonde – di titoli precedenti (Le Siége de Corinthe, Moise et Pharaon, Le Comte Ory), oltre ad un pastiche, ove il pesarese ebbe minimo ruolo (Ivanohe). Per l’occasione il cast fu scelto tra gli artisti più collaudati che calcavano le scene parigine: il complesso e ingrato ruolo del protagonista (tutto risolto in un recitativo scolpito e tragico – alla maniera francese, si direbbe, anche se Rossini, italiano, ne diede la più alta e compiuta definizione formale ed estetica – e a cui viene affidato un solo brano solistico, con scarse aperture melodiche peraltro) venne affidato a Henri-Bernard Dabadie, il primo Pharaon del Moise e il primo Raimbaud dell’Ory, nonchè il creatore di tanti ruoli della generazione musicale appena precedente e successiva (La Vestale, La Muette de Portici, Robert le Diable, L’elisir d’amore). La massacrante parte di Arnold (tutta giocata nelle zone più scomode del registro tenorile – dal Sol in sù – e che conta, all’interno della partitura, come ebbe a sottolineare James Joyce – appassionato d’opera e ammiratore del tenore irlandese John O’Sullivan – più di quattrocentocinquanta Sol naturali, una novantina abbondante di La bemolle, più di cinquanta Si bemolle, quindici Si naturali, una ventina di Do naturali, oltre ad un paio di Do diesis nel Terzetto) venne assegnata ad Adolphe Nourrit (che raggiungeva gli acuti secondo la prassi dell’epoca, ossia in falsettone e non di petto, come invece farà il primo Arnoldo italiano: Gilbert-Louis Duprez, “inventore” della tecnica suddetta) e che fu il primo Néoclés del Siége, il primo Ory, il primo Masaniello, e poi creò i ruoli principali della Juive, di Robert le Diable, di Les Huguenots. Per la parte di Mathilde, Rossini pensò fin da subito a Laura Cinti-Damoreau (anche se pensò di sostituirla, suo malgrado e a causa degli impedimenti del soprano, con Anna Fischer Marraffa, poi ritenuta non sufficiente per il ruolo). Jemmy venne affidato alla prima Sinaide del Moise: Louise-Zuléma Dabadie (moglie del baritono). Walter fu Nicolas-Prosper Levasseur (già eminente interprete rossiniano – interperete oltre che del primo Mosè, anche dei debutti parigini di Ricciardo e Zoraide, Cenerentola, La Donna del lago, Il viaggio a Reims, nonchè creatore dei principali ruoli di basso cantante nel Comte Ory, Robert le Diable, La Favorite, Le Huguenots, Le Prophéte, La Juive, Dom Sebastien), mentre Alexis Prévost interpretò l’oppressore Gesler (e ancora, Augusta Mori fu Hedwige, Bonel fu Melchtal, Alexis Dupont fu il pescatore Ruodi, Alexandr Prévost fu Leuthold, Jeanne-Etienne Massol fu Rodolphe). Il successo – come è noto – fu enorme, anche se, forse, il pubblicò non comprese fino in fondo la portata rivoluzionaria della partitura, nè apprezzò compiutamente l’immane sforzo creativo. Fatto è che anche i più feroci oppositori di Rossini (Berlioz in primis) dovettero inchinarsi al suo genio: e pure il solito Wagner, dopo aver speso una vita in livorosi attacchi (gretti e gratuiti come suo solito) alla musica italiana e al pesarese in particolare dovette riconoscerlo (si tramanda un colloquio avvenuto tra il compositore italiano e il borioso tedesco nel 1860, nel quale Wagner rese omaggio alla grandezza di Rossini, il quale – con l’impagabile ironia di cui era dotato, lui – commentò divertito l’episodio, incredulo di aver, inconsapevolmente, composto, e più di 30 anni prima, della vera musica dell’avvenire...). Dopo il trionfo del Tell, Carlo X (insensibile di solito alle sollecitazioni culturali in genere e musicali in particolare) si decise ad insignire il compositore con la Legion d’Onore e, all’apice di una carriera sfolgorante e rapida, nel ruolo di faro della musica vocale europea, Rossini si ritirò dalle scene (non dal mestiere di compositore o guida o mentore per giovani colleghi, il prediletto Donizetti in particolare), non senza, immediatamente dopo le prime rappresentazioni, porre mano alla sua gigantesca partitura e ridurla a dimensioni più agili (conscio del triste destino di tagli e rimaneggiamenti che di lì a poco avrebbe dovuto soffrire) prima che lo facessero altri al posto suo. Tuttavia – dopo aver curato e approvato la versione italiana di Luigi Balocchi, prima, e Calisto Bassi, poi – lasciò il Tell al suo naturale corso: la partitura venne mutilata, riassemblata, accorciata, ridotta – alla fine – al solo Atto II, tutt’al più unito a qualche balletto (memorabile l’aneddoto in cui il direttore dell’Opéra, incontrando Rossini durante una passeggita, gli annunciò con grande soddisfazione, che l’indomani avrebbero rappresentato il secondo atto del Guglielmo Tell, al che il compositore rispose, con stupita ironia, “Come?!? Tutto il secondo atto?”). Destino comune a tante sue partiture, ma che in questo caso risulta più sgradevole (e sgradito al compositore, nonostante il suo pragmatismo disilluso e consapevole di non poter porvi rimedio). Dal punto di vista musicale, ciò che immediatamente colpisce del Guglielmo Tell è l’ampiezza: sia di dimensione che di concezione. A parte la durata (che, tuttavia, ne fa il più lungo dei lavori del suo catalogo, sopravanzando la pur ampia Semiramide) impressiona la grandiosità della struttura: i numeri tipici dell’opera rossiniana, le forme, i topoi, restano tutti (seppur frammisti alla nuova estetica del grand opéra francese, che si stava da poco delineando e a cui proprio Rossini, contribuirà indirizzandolo verso la sua propria compiutezza), eppure vengono dilatati al massimo. Le forme consuete del teatro rossiniano non vengono stravolte o rivoluzionate o “superate” (brutta espressione), ma attraverso di esse e al loro interno l’autore cerca nuove soluzioni espressive, senza mai abbandonare la propria estetica e il proprio modello ideal musicale. Il Guglielmo Tell, infatti, si presenta come una grande opera neoclassica, nel senso essenzialmente illuminista del termine, a cui Rossini resterà sempre fedele nella sua parabola artistica. Il preteso romanticismo dell’opera altro non è che una forzatura a posteriori di un mondo che non riusciva e non riuscirà ad intuire la profonda novità del capolavoro: confondendo l’oggetto drammatico (tratto da Schiller e ricco di suggestioni preromantiche: patriottismo e fascino della natura) con la sua traduzione musicale che è volta, come conviene all’estetica rossiniana più pura, al concetto di bello ideale, astratto, entro cui svolgere la costruzione artistica intesa come artificium di perfezione formale e di elaborazione razionale, quindi umana. La presenza della natura nel Tell, infatti, non avviene mai per formule meramente mimetiche, cioè attraverso l’effetto e la sensazione che esso suscita sull’animo dell’ascoltatore, bensì tramite un più complesso procedimento evocativo: è la perfezione della forma e la mirabile razionalità della costruzione che traduce in musica il “disordine” naturale, che sarebbe troppo banale cercare di riprodurre tout court: è qui che sta la diversità di Rossini, parlare al cuore attraverso la ragione, e non sostituire l’uno all’altra! Ed è questo che lo rende inconciliabile a qualsiasi – forzato – accostamento al romanticismo che allora cominciava ad affacciarsi sulla scena musicale dell’epoca. Proprio il voler rinchiudere certe opere dell’autore (Donna del Lago e Guglielmo Tell in particolare) nel nuovo mondo romantico portò ad un completo fraintendimento dell’ultimo capolavoro rossiniano: spesso, infatti, si parla del Tell come di una gigantesca e mirabile costruzione musicale, ma totalmente priva di valore drammatico. In realtà questa pretesa assenza deriva dall’incomprensione che dell’opera hanno avuto contemporanei e posteri: se in essa si ricercano tracce di preteso romanticismo o elementi che preludano al Verdi più risorgimentale, non si potrà che constatarne la mancanza, tuttavia ciò non autorizza ad escludere che essa sia priva di drammaticità. Certo è la tipica drammaticità del teatro musicale rossiniano (di matrice essenzialmente illuminista e neoclassica), l’incapacità di coglierlo e di interpretarlo ha portato parte della critica a decretarne la totale assenza. Ma è nell’analisi della partitura, più che nell’esegesi della funzione teatrale del libretto, che va ricercato il senso del Guglielmo Tell. Si nota, innanzitutto, una cura particolare in tutti gli aspetti/elementi della struttura musicale. L’orchestra, per prima cosa, è chiamata come pochissime altre volte nella musica operistica contemporanea ad un impegno così gravoso. La strumentazione è elaboratissima, una vera summa delle capacità dell’autore, che attraverso soluzioni timbriche complesse e atipiche, imprime all’orchestra un respiro sinfonico (in questo, Rossini, poteva contare su una della migliori orchestre d’Europa: si consideri – in tal senso – come l’autore, calibrando la complessità della scrittura strumentale sul mezzo di cui disponeva, mantenga sempre un livello musicale straordinariamente elevato, sia che si trattasse di lavori composti per Napoli e Parigi, sia per teatri in cui le compagini orchestrali erano di livello assai più mediocre). Nel Tell, dunque, anche l’orchestra ha un ruolo protagonista. Non è solo un’opera per cantanti (come, del resto, nessuna opera di Rossini, è solo opera per cantanti, nonostante l’eccellenza di esso debba essere condicio sine qua non), a dimostrazione che ridurre il belcanto all’isteria di qualche primadonna – come certa critica con velleità “enciclopediche” si ostina a fare – sia operazione al tempo stesso stupida e scorretta (oltre che ignorante ed estremamente preconcetta nel ritenere che i compositori di opera – in specie di opera italiana – siano poco più che analfabeti musicali rispetto a colleghi sinfonisti o operisti europei, preferibilmente germanici). La raffinata costruzione strumentale si nota anche nell’aspetto coreografico: le danze, elemento tipico del grand opéra francese, non superavano, sovente, il livello del mero elemento decorativo, luogo di ispirazione stanca o routinier, funzionale alla mera esibizione di ballerini famosi. Nel Tell, invece, esse sono perfettamente inserite nella drammaturgia dell’opera e il livello musicale che le sostiene è sempre di prim’ordine (si confrontino, ad esempio, gli inutili e prolissi balletti dei grand opéra successivi, sino a quelli confezionati da Gounod – che perlomeno ebbe l’onestà di riferirsi all’elaborazione di essi con il termine de-composizione – ma anche quelli delle opere francesi di Verdi, spesso musica men che mediocre, dall’ispirazione dubbia e dalla realizzazione maldestra, così pure quelli composti da Donizetti che, seppur superiori a quelli verdiani – se non altro perchè il bergamasco era più versato nell’arte dell’orchestrazione del “cigno di Bussetto” – non si distaccavano molto dall’occasionalità del genere). Analoga importanza viene attribuita agli elementi corali: il coro abbandona la mera funzione decorativa o di transizione, per assumere un ruolo potentemente drammatico, divenendo così vero protagonista della vicenda. Tuttavia è l’aspetto più propriamente vocale che, ancora, impressiona: innanzitutto per la nuova visione che della vocalità mostra di avere Rossini. Una visione, s’intende, che è logico sviluppo della sua estetica e che costituisce non la negazione di quella precedente, ma la prosecuzione e trasformazione. Ciò appare molto bene nell’uso del virtuosismo: meno esibito, ma più espressivo. Alla funambolica sequenza di agilità, salti tonali e cadenze (che mettevano in mostra la perfezione tecnica degli interpreti e segnavano l’astrattezza della musica) si sostituisce un trattamento più sobrio degli elementi di puro abbellimento, ma assai più complesso in ciò che richiede al cantante in termini di tenuta, fiato, tessitura, registro e fraseggio. E se questo sviluppo era già percepibile nella rielaborazione francese delle sue opere italiane, proprio nel Tell esso troverà la sua più compiuta e spettacolare realizzazione: si pensi al massacrante ruolo di Arnoldo o a quello di Matilde o, soprattutto, all’ingratissima parte di Guglielmo, giocato tutto su di un declamato tragico che solo raramente trova uno sfogo melodico solistico e che però richiede non comuni doti espressive. I luoghi della partitura dove tutti questi elementi sono evidenti, sono ovunque, tuttavia in alcuni di essi la lezione rossiniana appare più mirabile. A cominciare dall’amplissima Sinfonia in 4 sezioni, dove appare chiarissimo il trattamento che Rossini fa degli elementi naturalistici: dal Preludio intimo e concertante (violoncello e contrabbassa) alla successiva Tempesta (che richiama i Temporali delle sue opere comiche, ma con una consapevolezza evocativa assai maggiore, laddove prima era più evidenziato l’aspetto meramente descrittivo), dal Ranz des Vaches (rielaborazione di una melodia alpina, affidata a flauto e corno inglese, fondamentale nel disegnare l’ambientazione) al travolgente Galop finale. O ancora il duetto Arnoldo/Guglielmo, oppure il gigantesco finale primo. L’atto II – quello che per Donizetti venne scritto da Dio in persona – è scandito da tre blocchi fondamentali: l’aria di Matilde, il famosissimo terzetto Arnoldo/Guglielmo/Gualtiero (dove il tenore deve toccare il Do diesis) e il Grande Finale con la cospirazione e il giuramento (modello dei tanti altri giuramenti che costelleranno i grand opéra, e non solo, a venire). L’atto III contiene la grande scena solista di Guglielmo difficile da sostenere nel costante declamato (che diverrà cifra tipica del teatro musicale francese e la cui più perfetta realizzazione è contenuta qui nel Tell, dell’italiano Rossini). Infine l’atto IV con l’impervia scena di Arnoldo e il gigantesco finale. La strada segnata da Rossini e dal suo capolavoro, tuttavia, rimase deserta: l’opera preferì fuggire dal confronto con il Tell e percorse vie differenti che portarono ad una differente civiltà musicale. L’ultimo lavoro teatrale del pesarese rimase un modello ammirato da lontano e mai seguito. E pure le sue interpretazioni (almeno le più recenti, a partire dagli anni ’50) risentono di tale distaccata considerazione: l’incomprensione e la difficoltà ne decretarono la pretesa irrappresentabilità, se non in occasioni particolari (tutte o quasi, deficitarie: dalle più risalenti – zeppe di tagli e interpretati con spirito più verdiano che rossiniano – alle incisioni discografiche integrali – di cui la migliore resta quella diretta da Chailly, forse l’unica a rendere giustizia al capolavoro – sino alle più recenti riproposte: dal deludente Muti scaligero, all'anonima esecuzione del ROF, all’inutilissima edizione diretta, e massacrata di tagli, da Pappano). Opera essenziale però, nonostante tutto, per comprendere l'autore e la musica dell'avvenire (detto con rossiniana ironia), se solo avesse avuto la capacità di percorrere il tracciato che Rossini aveva così ben segnato.

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domenica 30 agosto 2009

Spigolature da melomani, questioni da filologi

L’edizione critica di Zelmira, curata da Helen Greenwald e Kathleen Kuzmick Hansell (Fondazione Rossini 2005), illustra chiaramente i connotati di quella che fu la cosiddetta “versione di Parigi”, rappresentata nel 1826 al Théâtre des Italiens, protagonisti G. Pasta, G.B. Rubini, M. Bordogni e A. Schiassetti. Versione riproposta quest'anno al Rossini Opera Festival.
Presi da una certa curiosità, in compagnia del buon amico Tamburini, abbiamo consultato l'edizione critica, dalla quale abbiamo dedotto quanto segue.
Per punti:

1) A Parigi venne tagliata la scena seconda del primo atto, ossia il dialogo fra Emma e Zelmira dopo l’Introduzione. Si passava così dall'uscita di scena di Antenore e Leucippo alla cavatina di Polidoro. A Pesaro, quest'anno, la scena Emma-Zelmira è stata eseguita, come da edizione napoletana.

2) Altre consistenti modifiche interessarono l'Aria di Antenore ("Mentre qual fiera ingorda"). Nel Recitativo dopo il duetto Zelmira-Ilo, furono tagliate le battute 65-70 (vedi autografo dell'opera, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi) e venne effettuato un ulteriore taglio alle battute 75-81. "Mentre qual fiera ingorda" (cantabile dell'aria) venne tagliato, mentre si eseguì regolarmente il Coro dei Sacerdoti "Di luce sfavillante". Al Coro seguì, al posto della cabaletta "Ah dopo tanti palpiti", un recitativo sul quale le responsabili dell'edizione critica annotano: “Nessuna delle fonti musicali conosciute mette in musica questo testo" (Commento critico, p.170). Impossibile quindi eseguire la scena così come proposta a Parigi, a meno di non comporre di sana pianta un recitativo da inserire in luogo di quello perduto.

3) Verso la fine del secondo atto venne modificato il Recitativo dopo il Quintetto, nella sezione che presenta Zelmira e Polidoro in carcere. Dopo le parole di Zelmira “che le mie preci accolse”, fu aggiunto il distico “e propizio al figlial tenero amore/In vita serba il caro genitore”, dal quale si passava direttamente alla grande

4) Aria di Zelmira, costituita da una Preghiera composta per l'occasione e da una parte di musica riciclata da Ermione. Sia il tempo di mezzo ("Stridon le ferree porte") sia la cabaletta "Dell'innocenza, o Dèi" provengono dalla Gran scena della protagonista in Ermione. Osservano le curatrici dell'edizione critica: “lo stesso Rossini apportò molti cambiamenti e indicò vari tagli direttamente nel manoscritto autografo di Ermione”, che si trova alla Bibliothèque del Musée de l’Opéra di Parigi (Ms.Rés. 649). Il manoscritto della Preghiera si trova invece nei Fonds Michotte a Bruxelles. L’unica fonte conosciuta della partitura completa dell’aria di Zelmira versione Parigi 1826 (preghiera e cabaletta) è conservata a Napoli, nella Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella [2.8.40 (17)]. L’edizione critica segue la lezione della partitura di Ermione per quanto riguarda il tempo di mezzo, giacché la partitura di Napoli presenta in questa sezione alcuni tagli, relativi a battute di raccordo fra enunciato e ripresa della cabaletta.
Sia la preghiera (Andantino) sia la cabaletta (Più mosso) sono in partitura nella tonalità di mi maggiore; il mi maggiore è, per inciso, anche la tonalità di "Se a me nemiche o stelle" da Ermione. Ed è nel tempo di mezzo che, nella recente esecuzione di Pesaro, è stato operato un rappezzo (pratica corrente e diffusissima nel XIX secolo) in modo che il mi maggiore della preghiera si trasformasse, nella cabaletta, in un più "comodo" re maggiore (e quindi i si naturali acuti di Zelmira che concludono la scena diventassero dei la). Il rappezzo viene messo in opera nel momento in cui Antenore e Leucippo cantano "Giunto è il fatal momento". Nella partitura c'è una modulazione (battute 77-82) per cui il tema del crescendo orchestrale passa dall'iniziale do maggiore, attraverso una progressione cromatica, alla tonalità di mi maggiore. A Pesaro la modulazione era identica, ma veniva risolta sulla tonalità di re maggiore. Al proposito si possono ascoltare gli esempi musicali seguenti:

Zelmira - Numero 10bis: Aria Zelmira - Battute 70-90 - Edizione critica

Zelmira - Numero 10bis: Aria Zelmira - Battute 70-90 - Realizzazione pesarese

Per completezza riportiamo in appendice il passo dell'esecuzione pesarese e, a confronto, lo stesso brano musicale (identico nella progressione tonale, limitatamente al passo in questione) così come si ascolta nell'Ermione. (A onor del vero, già al momento dell'ascolto radiofonico avevamo avuto il sospetto di un cambiamento di tonalità per la cabaletta, ma abbiamo voluto attendere il rientro dalle vacanze per compiere una verifica al pianoforte.)

Un altro problema relativo ai pertichini dell'aria è costituito dalla presenza di Antenore. Nel libretto stampato per le rappresentazioni di Parigi, Antenore usciva di scena dopo il Quintetto "Nei lacci miei cadesti" per non rientrarvi più. Nell’edizione critica, invece, Antenore è in scena e canta nel tempo di mezzo e nella cabaletta di Zelmira: in ciò viene seguita la partitura di San Pietro a Majella. In linea generale, comunque, l’edizione critica segue il manoscritto di Ermione per i punti su cui le fonti divergono (vedi Commento critico, p. 172), ribadendo che “potrebbe (...) non trattarsi della stessa forma del passo come eseguito a Parigi”.
A Parigi, quindi, Antenore non partecipava alla scena finale. Probabilmente si trattò di un cambiamento deciso durante le prove. “Fu in questa forma che la scena venne eseguita a Parigi e così è presente nel libretto parigino del 1826. Questa edizione ha ritenuto di ricomporre le contraddizione tra le fonti” (volume I dell'edizione critica, p. XLI), assegnando ad Antenore, nel Recitativo dopo l’aria di Zelmira (vedi oltre), una frase ("Ma qual fragor?") che il libretto parigino attribuiva a Leucippo. Dopo questa frase Antenore esce definitivamente di scena e le restanti battute del libretto napoletano (nonché il tentativo di assassinare in extremis Polidoro) passano integralmente a Leucippo.

5) Altri cambiamenti effettuati nel Recitativo dopo l’aria di Zelmira: le battute 1-7 sostituirono le battute 105-136 della prima versione e il passo proseguì con le battute 137-168 dell’edizione napoletana. In un secondo momento, vennero inserite al posto di alcune delle vecchie battute (169-172) 5 battute nuove per Ilo (n. 40-44 del nuovo recitativo). Le ultime sei battute del recitativo sono uguali nelle due versioni. Nell’autografo c’è un taglio delle battute 34-37 (che corrispondono alle n. 163-66 dell’edizione napoletana) e che contengono una citazione musicale del duettino Emma-Zelmira. Scrivono le curatrici dell'edizione critica: “La modifica [non] è certamente attribuibile allo stesso Rossini”. Il cambiamento può essere legato al fatto che, nel libretto parigino del 1826, il figlio non entrava in scena nel finale dell'opera e Zelmira cantava “O piacer! Sposo, ti stringo/Un’altra volta al mio tenero seno” (nell’edizione di Napoli gli stessi versi recitavano "O piacer! figlio! ti stringo/un'altra volta al mio materno seno"). “Da ciò sembra potersi dedurre che nel 1826 Rossini avesse modificato la musica di questo passo e in effetti le battute corrispondenti sono state depennate nell’autografo, ma non è presente alcun passo sostitutivo”. Di fatto, quest'anno a Pesaro, abbiamo udito il passo così come compare nell'edizione di Napoli.

6) Veniamo al Finale II, vale a dire la grande Aria finale di Zelmira dell'edizione napoletana riscritta per terzetto con coro. Ancora Greenwald e Kuzmick Hansell: “I cambiamenti furono apportati da Rossini direttamente nel manoscritto autografo originale, dal quale è possibile ricostruirli per intero. Questa è l’unica fonte conosciuta che conservi il Finale secondo come realizzato per Parigi [N. 11a]” (Commento critico, p. 181). “Che il compositore tenesse ben presenti gli interpreti a disposizione si evince dal fatto che, assegnando un passo particolarmente fiorito a Ilo (N. 11, battuta 85a), ha indicato sul manoscritto non il nome del personaggio, ma quello del tenore Rubini” (volume I, p. XLI – il passo in questione si trova a p. 640 del manoscritto). Le battute riscritte per Rubini presentano passi di grande impegno virtuosistico e ben 6 mi bemolle sovracuti. Per esemplificare la complessità del brano, ne abbiamo realizzato una versione digitale. Va tenuto presente che il passo viene ritornellato: le prime undici battute (28a-38a della partitura) si ripetono nelle battute 72a-82a, mentre le successive sei (n.85a-90a) sono riprese dalla numero 94a alla 99a. Le ultime otto (100a-107a) sono la cosiddetta "coda": le riportiamo per completezza.

Zelmira - Numero 11bis: Finale II - Battute di Ilo


E’ evidente, dunque, che i filologi non erano materialmente in grado di ricostruire al 100% la versione parigina del 1826, e che anche per quanto concerne il finale rimangono, oggi come spessissimo nell’800, piccole incongruenze legate al meccanismo di innesto di sezioni musicali appartenenti ad altre opere, nella fattispecie Ermione.
Lo spettatore profano, però, non può fare a meno di domandarsi perché sulla locandina pesarese di questa Zelmira comparisse la dicitura “versione di Parigi” quando non si è eseguita esattamente la VERSIONE di Parigi ma soltanto il suo FINALE, ossia la sola porzione ancora effettivamente eseguibile perché ricostruita con la garanzia delle fonti documentarie.
Peccato veniale, direte voi, perché al pubblico è piaciuto aver udito un’aria in più cantata da Antenore.
Peccato filologico mortale, però, per chi è solito confrontarsi con questi problemi, in quanto questa supposta versione di Parigi è in realtà quella di Vienna cui è stato appiccicato il finale di Parigi del 1826! In fondo, sarebbe bastato limitarsi all’indicazione di cartellone FINALE DI PARIGI (come fece la signora Horne in tutte o quasi le rappresentazioni di Tancredi con il finale tragico, appartenente alla versione ferrarese) per salvaguardare la correttezza del rapporto con l’edizione critica, che, mi pare, dovrebbe essere uno dei criteri ispiratori di un allestimento da festival.
Uno ma non il solo. Credo siamo tutti d’accordo sul fatto che se si decide di eseguire una rielaborazione d’autore pensata per determinati cantanti, in questo caso la Pasta e Rubini, delle cui caratteristiche vocali molto sappiamo, le scelte di cast dovrebbero essere tali da garantire una resa vocale compatibile con quelle da loro possedute e per le quali hanno posto nella storia del canto. L’idea drammaturgica di Rossini è chiara, evidentissima ed il confronto con quanto scritto in prima battuta per questo finale di Zelmira indicava la via da seguire, ossia quale cantate protagonista femminile ricercare sul mercato. La musica non vive in se stessa, perché è documento cartaceo: la musica esiste solo per forza di un “medium” che è l’esecutore, peculiarità che distingue questa forma d’arte dalle altre. Una “versione Pasta” presuppone che si disponga di un soprano in grado di cantare quello che cantava la Pasta e di rendere quel tipo di canto che fece di lei la cantante preferita da Bellini: forza e varietà di accento, vis tragica, coloratura etc... Per la Pasta furono concepite la Beatrice di Tenda, la Sonnambula e la Norma belliniane, l’Ugo Conte di Parigi e l’Anna Bolena donizettiana, la Niobe di Pacini…etc…Tutte opere che la protagonista della recente produzione di Zelmira non canta. Né può pensare di cantare, se non come seconda donna, ove prevista.
Scelta inadatta, che ha scontentato i buon udenti, inutile alla resa proprio di quel finale parigino che si è deciso di farci ascoltare, finale di straordinaria inventiva musicale e forza tragica. Altro sgambetto alla filolologia, a nostro avviso, perché la scelta dei componenti di un cast deve essere pertinente a quanto si intende far rivivere in scena, ossia il pensiero musicale e drammaturgico dell’autore. Potremmo anche arrivare a dire lo stesso per quanto attiene la scelta di Flórez, essendo quanto scritto da Rossini un “ad personam” molto forte, come lui stesso pare ancora indicarci quando scrive “Rubini” invece di “Ilo”. Sappiamo bene, però che queste tessiture di altezza eccezionale, con sovracuti scritti a manciate, erano amministrate da voci che usavano non solo la voce di petto, ma anche quella di testa, i cosiddetti falsettoni, modalità esecutiva che possiamo ritenere estinta da lungo tempo, a meno di anomalie assolute come Chris Merritt. Questo fatto giustifica parte delle mende esecutive del tenore in acuto, e rende secondaria la questione della restituzione di Ilo - Rubini da parte di un tenore che con la vocalità di Rubini ha poco che fare.
Balza agli occhi con tutta evidenza, però, come il festival abbia usato due principi del tutto opposti nel procedere all’esecuzione del finale in questione, uno per la signora Aldrich ed uno per il signor Flórez.
Per la prima è stato predisposto l’abbassamento di un tono, dalla tonalità da mi maggiore a quella di re maggiore, della cabaletta dell'aria finale, scena tra l’altro di tessitura assai idonea ad una voce di mezzo acuto. Tessitura che una Bumbry, una Verrett, una Dupuy, una Horne in piena carriera avrebbero amministrato con comodo, conferendole il vigore tragico che le spetta. Ma queste erano mezzosoprani, non mezzi soprani...
Il terzetto finale, invece, che contempla per Flórez l’esecuzione delle pazzesche agilità sulle note mi bemolle-re naturale sovracuto, non ha subito alcun abbassamento, per giunta con un tenore capace del re naturale ( che non è poco! ) e che avrebbe potuto eseguire abbassata la figura ornamentale, anziché rabberciare alla bell’e meglio la scrittura del passo, tra l’altro ripetuto due volte.
Dunque nell’arco di cinque minuti il principio ispiratore dell’esecuzione cambia, in due sensi opposti. Si sceglie l’esecuzione di un finale che come tale non può essere eseguito da due degli esecutori principali e si procede all’abbassamento di tonalità per la cantante più deficitaria del cast, ma non per chi canta qualcosa di pressoché ineseguibile facendogli un rappezzino allo spartito piuttosto che un doveroso e assai più rossiniano abbassamento ad una tessitura abbordabile.
E di queste scelte il melomane curioso non capisce la logica ispiratrice, che di certo non è unica, né unitaria, a meno di non assumere l’adagio: cantante che vai, filologia che trovi!

GG e AT


Gli ascolti

Rossini

Ermione


Atto II - Il tuo dolor ci affretta...Se a me nemiche, o stelle - Nelly Miricioiu (con Bruce Ford - 1995)

Zelmira

Atto II - Stridon le ferree porte...Dell'innocenza, o Dèi - Kate Aldrich (con Kunde, Palazzi & Esposito - 2009)

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venerdì 28 agosto 2009

I venerdì di Wagner: Estate 2009 - Quando Bayreuth fa rima con provincia

Per Bayreuth il 2009 rappresenta un anno di transizione, un’edizione che serve alle due sorelle Wagner a stabilire le basi della nuova gestione in tandem che avrà il suo giro di boa il prossimo anno con la nuova produzione di “Lohengrin” con Jonas Kaufmann, Annette Dasch (e già la scelta di quest’ultima appare discutibile, ma staremo a sentire) ed Evelyn Herlitzius diretti da Andris Nelson e con la regia curata dello “scandaloso” Hans Neuenfels.

Seguirà “Tannhäuser” nel 2011 diretto da Thomas Hengelbrock e con la regia di Sebastian Baumgarten, e intanto si cercano i protagonisti, nonostante i nomi più accreditati siano quelli di Robert Dean Smith e Lars Clavemann impegnati nel ruolo del titolo e Günther Groissböck in quello del Langravio.
Nel 2012 sarà varata una nuova produzione del “Fliegende Holländer” targata Thielemann che vedrà il debutto nel ruolo di Senta di Adrianne Pieczonka, già presente a Bayreuth nel 2006-07 come Sieglinde.
L’anno del bicentenario della nascita di Richard Wagner, 2013, il Festival avrà un nuovo “Ring” diretto da Kirill Petrenko mentre per la regia si corteggiano Lars von Trier, che già avrebbe dovuto dirigere il Ring del 2006, ma che abbandonò il progetto dopo aver fornito la sua visione di “Walküre” e “Siegfried” e la cui presenza probabilmente resterà solo sulla carta, ed il più papabile premio Oscar Florian Henckel.
Se il 2014 non offrirà nuove produzioni, il 2015 vedrà la luce di un nuovo “Tristan und Isolde” diretto da Thielemann, con la regia di Katharina Wagner e forse Stephen Gould nel ruolo di Tristan.
Deposto lo scettro, il grande veterano Wolfgang Wagner dopo 57 anni di carriera all’interno del Festspielhaus, ha deciso di cedere la direzione del Festival alle due figlie Katharina Wagner e Eva Wagner-Pasquier, un tempo rivali, oggi unite e decise a portare avanti il lavoro del padre attraverso una gestione dalle scelte e dai contenuti freschi e innovativi con l’aiuto del direttore Christian Thielemann.
Si parla addirittura di introdurre nel Festival le prime tre opere neglette del Maestro.
I cast di quest’anno, come vedremo, sono stati, tranne alcuni casi, i medesimi dell’anno precedente... e purtroppo ancora una volta le scelte quanto meno sbagliate che negli ultimi anni hanno affossato il prestigio del Festival, non corrispondono alle esigenze dei ruoli e della musica.
Il problema è che le voci per interpretare Wagner ci sarebbero anche, ma chissà perché, a Bayreuth non sono gradite.
Nel “Tristan und Isolde” a parte il sempre affidabile ed intenso Robert Dean Smith (che arriva al finale esausto, ma è cantante credibilissimo) abbiamo ascoltato una Isolde, Irene Theorin, la cui voce fragile, inadatta e con numerosi problemi sia nella resa tecnica che espressiva è risultata semplicemente fuori luogo, soprattutto se confrontata con la Nina Stemme che l’aveva preceduta.
Al suo fianco una Brangaene, Michelle Breedt, adagiata su una generica correttezza e con un timbro quasi intercambiabile con quello della Theorin, un Kurwenal, Jukka Rasilainen, completamente manchevole ed un buon Robert Holl nel ruolo di Marke.
Peter Schneider, direttore sempre professionale e molte volte salvatore del Festival, semplicemente dirige con mestiere un “Tristan” “normale”, innocuo e prosciugato da qualunque tensione.
Spettacolo applaudito e buato.
Nei “Meistersinger” (con la risibile regia di Katharina Wagner: disponibile il DVD con tanto di dietro le quinte) Alan Titus sostituisce, grazie al cielo, Franz Hawlata nel ruolo di Hans Sachs.
Vocalmente migliore nonostante l’usura, se la cava egregiamente grazie ad una resa malinconica e paterna assieme al Walther lirico e argenteo di Klaus Florian Vogt ed al buon Beckmesser di Adrian Eroed.
La Kaune annega Eva con la sua voce piccola, asettica e stimbrata e sul suo stesso esempio troviamo la Magdalena della Guber ed il Pogner di Korn.
La direzione di Weigle oltre ad essere precisa possiede una genericità disarmante, una mancanza totale di brio e brillantezza tanto da risultare algida, dai colori cupissimi e pesanti.
E’ una commedia non una messa in suffragio, santo cielo!!!
Spettacolo applaudito e buato.
Nel “Ring" il difetto sta purtroppo tutto nel cast che mortifica la struggente resa orchestrale di Thielemann.
Dohmen iniza discretamente e finisce tragicamente eppure avrebbe tutto per essere Wotan, nel colore, nel fraseggio, nel timbro, ma purtroppo non riesce a governare la ruvida voce e a dare una interpretazione convincente.
La Breedt è una Fricka sufficiente, ma senza palpiti; la Brünnhilde della Watson perde colpi e voce ogni anno purtroppo, le resta ormai solo il fraseggio drammatico e commosso; l’Alberich di Shore non riesce ad andare oltre il lato più becero del personaggio; la Mayer manca sia dell’autorità di Erda che della solennità di Waltraute, ma trova un suo spazio grazie alla voce scura ed interessante, ma dal fraseggio monocorde.
Rose e fiori, però, se confrontata con Ralf Lukas la cui presenza nel Festival nei ruoli di Donner e Gunther resta un mistero insondabile.
Wolfgang Schmidt, che fino a qualche anno fa sembrava possedere tutte le qualità per essere l’erede di Siegfried Jerusalem, oggi è un rudere e nemmeno dei più belli.
Fu un dignitosissimo Tannhäuser e Siegfried a Bayreuth tra il 92 ed il 94, ma già dal 95 la voce risultava durissima, legnosa e inespressiva nonostante cantasse il ruolo dappertutto, Scala inclusa.
Rimase fisso a Bayreuth fino al 2004 come interprete di Siegfried…un supplizio decennale!
Seguendo l’esempio del sottovalutato Manfred Jung (Siegfried giovanile e sognante del centenario, ma anche Mime convincente 14 anni dopo sempre a Bayreuth) oggi interpreta Mime affliggendo gli ascoltatori con i resti di una voce frantumata in migliaia di suonacci acidi e ignobili. BASTA!
Christian Franz è un’altra presenza inspiegabile se non addirittura vergognosa.
Già Siegfried dal 2001 al 2004 a Bayreuth come doppio di Schmidt, allora riusciva a cantare peggio del suo collega, in più la sua chiave di lettura del figlio di Siegmund era e rimane da bambinaccio isterico e capriccioso più vicino ad un comico nano nibelungico che ad un eroe curioso, ma ancora acerbo e pieno di vita.
Che senso ha riproporre lo stesso disastroso cantante a distanza di 5 anni, che aveva distrutto il ruolo anche al Met soltanto pochi mesi prima?
Ottimi i bassi, Kwangchul Youn, Ain Anger e Hans Peter Koenig, rispettivamente Fasolt-Hunding, Fafner e Hagen, gli unici veri trionfatori del “Ring” grazie alle voci duttili, scure e timbrate e le interpretazioni notevolissime e già di riferimento nell’odierno panorama.
Bravissimi anche Endrik Wottrich e la Westbroek.
Wottrich riscatta una voce corta, ingolata e querula grazie ad un fraseggio veemente e votato al pessimismo, al suo fianco la Sieglinde della Westbroek vince per la bellezza luminosa del timbro, per la robustezza dello strumento e grazie al fraseggio delicato e femminile.
Si distinguono nelle parti di fianco le prove convincenti della Freia-Gutrune della Haller, del simpatico Froh di Bieber ed dell’insinuante Loge di Bezuyen.
La direzione di Thielemann non esito a definirla storica per il suo guardare all’antico con gusto moderno, per l’uso appropriato dei tempi, per i fraseggi sempre cangianti e morbidi del magma orchestrale, per la tensione romantica che attraversa la melodia e per il respiro musicale sempre fuso con le esigenze del momento scenico.
Spettacoli applauditi e buati.
Nel “Parsifal” Chritopher Ventris si conferma interprete abile e immedesimato, ma a disagio con i pochi acuti e con le zone di passaggio. La Fujimura è completamente estranea per voce e sensibilità alle particolari esigenze di Kundry: se l’anno scorso era una curiosità, oggi non riesce ad andare oltre, come per l’affaticato l’Amfortas di Roth. Jesatko è il solito Klingsor trucibaldo e vociferante, mentre emerge su tutti l’ottimo Kwangchul Youn, Gurnemanz umano, accorato e cantato con intelligenza.
Interessantissima come sempre la lettura di Gatti, che dopo il fallimentare ”Don Carlo” ritrova nella narrazione sacra, dilatata, cristallina di “Parsifal” il suo terreno d’elezione in cui è più libero di esprimersi con la sua impronta personale.
Spettacolo applaudito e buato.

Insomma due bacchette e pochi cantanti sugli scudi, non salvano il Festival da una dimensione provinciale e amorfa lontana dai propositi bayreuthiani.
Questo è davvero il meglio che il panorama operistico può offrire a Wagner?
Questi sono i nuovi percorsi vocali del Festival di Bayreuth?
Se vogliamo fare un Festival che esponga il meglio ed esplori nuove vie allora chiamiamo cantanti come ad esempio:
Peter Seiffert, Stig Andersen, Jon Frederic West, Simon O’Neil, Ben Heppner, Greer Grimsley, Juha Uusitalo, Bryn Terfel, Stephen Milling, Renè Pape, Eric Halfvarson, Phillip Ens, Jane e Dietrich Henschel, Michaela Schuster, Petra Lang, Violeta Urmana, Nina Stemme, Stephanie Blythe, Rosalind Plowright, Anna Larsson, Catherine Wyn-Rogers, Liu Qin Zhang, Emily Magee, Soile Isokoski, Jeanne Michèle Charbonnet, Lance Ryan, Jennifer Wilson, Petra Maria Schnitzer, Alan Held, Matthias Goerne, Anja Harteros, Camilla Nylund, Janice Baird, Christine Brewer, Boaz Daniel, Peter Mattei, Sergej Leiferkus, Peter Sidhom, Walter Fink, Volker Vogel, Wolfgang Ablinger-Sperrache, Georg Zeppenfeld, Günther Groissböck, Burckhard Ulrich, Yvonne Naef, Johan Botha, Herwig Pecoraro e mal che vada anche la Dalayman e Bullock.
Per le bacchette invece i vari Tate, Mehta, Salonen, Eschembach, Bychkov, Chung, Rattle, Pappano, Barenboim, Nagano che dovrebbero essere presenza fissa per un grande festival wagneriano.
La parola alle due sorelle Wagner nel 2010.


Gli ascolti

Wagner - Lohengrin


Atto III - In fernem Land

Jacques Urlus (1911)
Aureliano Pertile (1922)
Miguel Fleta (1924)
Lauritz Melchior (1935)
Franz Völker (1936)
Sergei Lemeshev (1948)
Sándor Kónya (1960)

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martedì 25 agosto 2009

Grandi concerti di canto: Martine Dupuy, Nizza 1986

Agli insulti, si sa, non si deve reagire con l'insulto.
Poco tempo fa nella nostra chat un insipiente, che cercava rissa con alcuni di noi, che mai né qui né altrove hanno celato la propria ammirazione per Mademoiselle Dupuy, ha definito la cantante come capace solo di emettere suoni afoni o giù di lì.

In genere rispetto le altrui opinioni. A condizioni che siamo motivate e, quindi, attendo il chattatore con esempi dell'afonia della cantante marsigliese.
Credo che un ipotetico denigratore della signorina Dupuy (e tutti i grandi è normale ne abbiano) potrebbe, se dotato di buon orecchio ed allenamento all'ascolto invenire, in Rossini ed autori coevi, forse altri difetti.
Il principale potrebbe essere la voce molto sopranile. Se non fosse che avevamo sentito ed ammirato Teresa Berganza, ancor più sopranile di Martine Dupuy e che, oggi, siamo assediati da soprani lirici, che incapaci di eseguire correttamente il passaggio (primo) sono corte e sbiancate in alto e, quel che è peggio, non possono competere nè con la classe nè con la tecnica nè con il virtuosismo delle signore Berganza e Dupuy. A differenza di Teresa Berganza (ed anche di Marilyn Horne) Martine Dupuy, tendenzialmente schiva e timida, non amava esibirsi nel concerto di canto. Sbagliava. Era, al contrario, una splendida concertista. In primo luogo perché donna non bella, ma elegante sapeva con questa sola qualità "riempire" il palcoscenico. In secondo e, forse più importante luogo, perché era capace, principalmente per virtù tecnica, di toccare ed esprimere tutte le corde che la grande concertista deve, passando dalla tragedia, all'epica ed alla commedia. Sempre nel formato del salotto.
Non solo: a Nizza nel novembre 1986 lo fece con un solo autore. Il proprio o, quanto meno, quello che le era per voce, tecnica e frequentazione più congeniale, ovvero Rossini. Né la Horne, né la Berganza avevano mai proposto una simile scelta.
Quella di Martine Dupuy è la risposta più eloquente a certe serate dove il pubblico si infligge una ventina di Lieder dello stesso autore e deve essere soddisfatto perché culturalmente appagato.
Spiace per tale opinione, che per certo è quella del nostro chattatore con propensione a rissa ed insulto, ma la cultura, intesa come ricostruzione di un'epoca e di un gusto è appagata e soddisfatta anche con un recital olorossiniano.
E mi spiego. Passiamo dalla scena tragica Giovanna d'Arco, che ripercorre l'intera poetica e l'intera grammatica musicale rossiniana ai brani più squisitamente salottieri ed anche più "difficili", perchè tratti dai Péchés e non dalle arcinote Soirées, che in formato salotto ricordano la poetica dell'esilio (tanto di moda e praticata da frequentatori di casa Rossini come Mario de Candia ed il conte Pepoli), dello struggimento amoroso, del brano brillante e, magari, con quel pizzico di osè, che un salotto in crinolina imponeva.
Il tutto proposto con accento ora patetico, languido ed eroico (ed irrinunciabile, rossinianissima ostentazione di grande tecnica di canto) nei diciassette minuti della Giovanna d'Arco, con dinamica sfumata ne "L'esule" o ne "La separazione" e con divertimento in "A Grenade" e nella "Chanson du bébé".
I bis mi sembrano il giusto omaggio della primadonna a sè stessa e, quindi, i divertissements di Tirindelli e di Arditi, che di prime donne se ne intendevano e le composizioni di una assoluta ed indiscutibile divina come la Patti.


Gli ascolti

Gioachino Rossini


Arie da Camera

Giovanna d'Arco

L'esule

Mi lagnerò tacendo

La separazione

A Grenade

Odi d'un cor che muore

Addio alla vita

Se'l vuol la molinara

Addio ai parigini

La chanson du bébé

Bis :

Tirindelli - So

Arditi - Il gitano

Patti - On parting

Martine Dupuy, mezzosoprano

Vincenzo Scalera, pianoforte

Nizza, 1986

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domenica 23 agosto 2009

Moïse et Pharaon a Salzburg

La ORF ha trasmesso in questi giorni il grande successo salisburghese di Riccardo Muti in Moïse et Pharaon di Rossini, opera in cui lo avevamo già ascoltato a Milano, al Teatro Arcimboldi.
L’evento musicale è stato accompagnato da svariate interviste al Maestro, certo affascinato da quest’opera, nella quale ha affermato di ritrovare certe ascendenze di Cherubini, Spontini e Gluck, sue antiche passioni.

L’ascolto dell’audio è di grandissima suggestione, soprattutto in alcune pagine consone all’indole di Muti: lo hanno assecondato in ogni intento un coro (Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor) ed un'orchestra eccezionali (Wiener Philharmoniker) nella loro perfezione esecutiva, tocco, colore.
I punti di forza di questa direzione, a parte l’ouverture, sono stati le grandi scene corali o gli ensemble, come l’inizio dell’atto II ( la cosiddetta scena delle Tenebre ), la successiva grande preghiera di Moise, “Ô toi dont la clémence”, oppure quella al IV atto, “Des cieux où tu résides ”, o il finale dell’opera, con la cavalcata dei cavalieri egiziani travolti dalle onde del Mar Rosso.
Muti nulla ha tolto alla solenne monumentalità di queste pagine di Rossini, assecondandone ed amplificandone l’aspetto mistico o descrittivo, ora con tempi larghi e cantabili, ora con grandiosa drammaticità (finale), mentre le arie sono state accompagnate con il vigore tragico di sempre (scena di Sinaïde, scena di Anaï) finalmente prive delle nevrosi e degli scatti furibondi che avevano caratterizzato gli accompagnamenti dell’edizione di Milano.
La concezione che Muti ha di Rossini, però, è ciò che lo limita in altri importanti momenti dell’opera, quelli lirici ed elegiaci in primis. In una visione tragica di ispirazione neoclassica di quest’opera, Muti ha finito per trascurare la vicenda amorosa di Anaï e Aménophis, che non è affatto marginale nell’opera. La vicenda amorosa, a ben vedere, connoterà sempre gli affreschi storici del successivo Grand Opéra di cui Moise costituì un indiscusso modello e non sarà mai situazione drammaturgicamente secondaria all’affresco storico. In questo aspetto invece, Muti ha mancato di languore e di lirismo, rifugiandosi in accompagnamenti meccanici, come nel grande duetto oppure nel momento della fuga degli amanti. La stessa direzione delle danze, momento formalizzato di questo genere di opera, forse ha lasciato a desiderare in fantasia e varietà.

Limite vero di questa produzione, però, è stato il cast vocale, in parte rimaneggiato all’ultimo ma di certo inferiore a quello dell’edizione milanese. Ed il cast in Rossini regge lo spettacolo.
A raggiungere gli effetti voluti da Muti sarebbe stato necessario un basso di voce ben più ampia e di qualità timbrica superiore all’Ildar Abdrazakov di oggi, che ha perso parte di quella morbidezza che avevamo udito a Milano. Il suo canto fatica ad essere solenne, ieratico e sacerdotale come la parte richiede, e non bastano la correttezza e l’accento compassato per dar vita ad un Moise in sintonia con orchestra e coro che gli fanno da straordinario sfondo.
Anche Nicola Alaimo è lontano dall’impressionante Faraone scaligero di Erwin Schrott. Gli fanno difetto slancio e aggressività, mordente e precisione nel canto di agilità, in una linea buona ma inerte, sempre sulla difensiva. Faraone è personaggio negativo, ma personaggio grandioso, a tutto tondo e…a tutta forza, forse lontano dalle corde di questo cantante.
Eric Cutler (Aménophis) non possiede nulla della qualità timbrica e della freschezza esibite dal Filianoti del 2003 a Milano. La voce è perennemente strozzata negli acuti e fibrosa, per modestia tecnica; anche l’esecuzione della coloratura è parsa approssimativa, mentre J.F. Gatell (Eliézer) ha cantato allo stesso modo di quanto udito nel Viaggio a Reims scaligero, cioè modestamente e con voce asfittica.

Nel reparto femminile ha raccolto molti consensi Marina Rebeka, con una prova che in un teatro italiano avrebbe destato, come già nell’Anna Erisso pesarese, parecchie perplessità. Se già aveva sofferto il peso tragico di Anaï una voce lirica come Barbara Frittoli, non poteva non uscirne acciaccata una voce più leggera come la Rebeka, per il semplice motivo che Anaï, al pari della Mathilde del Tell, non è soprano di coloratura. Alla grande scena finale, diretta da Muti anche in modo più pacato di quanto fatto a Milano, il soprano lettone è uscito provato. Non basta una buona punta della voce per gestire questo ruolo, che, per forze di cose, porta un soprano di coloratura a forzare sul centro per reggere il confronto con il robusto orchestrale ed il ritmo incalzante e, per conseguenza, a perdere di fuoco negli acuti, troppo spesso forzati o gridati. Anche il canto di agilità ne ha risentito, con un’esecuzione aspirata ed imprecisa di quanto prescritto da Rossini. Sin dal duetto d’amore col tenore, che prevede un incipit di reale contenuto tragico, il soprano manca del giusto peso vocale che le consenta di essere credibile nell’accento. Una prova ben diversa da quella del recente Viaggio a Reims di Milano e più vicina a quella del Maometto II dell’anno passato, caratterizzata da un senso di approssimazione anche musicale. E queste sono le conseguenze di carriera (di certo felici per lei, un po’ meno per il compositore ed il pubblico) regalate proprio del Festival Rossini, artefice del suo avvallo (e non solo del suo) quale soprano tragico. Ci spiace, perché nei ruoli idonei al suo reale tonnellaggio vocale ed alle sue capacità espressive, la Rebeka sarebbe soprano davvero interessante.
Nino Surguladze, in sostituzione di Sonia Ganassi, non è cantante da belcanto per emissione e preparazione tecnica. Per quanto giunta all’ultimo, è parsa più preparata della collega sul piano musicale, forse perché intimorita dall’arduo compito, ma questo non le è bastato in una sede prestigiosissima quale Salzburg per essere all’altezza del compito. Le hanno fatto difetto, oltre all’emissione, che nel belcanto è primo requisito, gli acuti, troppo gridati, ed il canto di agilità. La sua Faraona, alla fine, è uscita abbastanza estranea agli stilemi espressivi del belcanto.
E dire che la tradizione esecutiva di quest’opera fino agli anni ‘50 fornisce chiari parametri per la corretta scelta delle voci di Anaï e Sinaïde, la prima solitamente affidata a soprani drammatici o quantomeno spinti, la seconda a voci più liriche quando non a mezzosoprani acuti, soluzione che garantiva maggiore adeguatezza alle caratteristiche drammaturgiche e di scrittura vocale dei due ruoli.
Senza infamia e senza lode la Marie di Barbara di Castri, anche se un timbro più morbido nell’attacco della preghiera del IV non avrebbe guastato.
In conclusione, un grande Maestro, con grandi coro ed orchestra, che però da solo non bastano in Rossini.


Gli ascolti

Rossini - Moïse et Pharaon


Atto I

Si je perds celle que j'aime - Eric Cutler & Marina Rebeka (2009)

Atto II

Désastre affreux! - Nicola Alaimo, Nino Surguladze & Eric Cutler (2009)

Moment fatal - Eric Cutler & Nicola Alaimo (2009)

Ah! d'une tendre mère - Nino Surguladze (2009)

Atto IV

Quelle horrible destinée! - Marina Rebeka (2009)

Des cieux où tu résides... Quel bruit!...Que sont-ils devenus! - Ildar Abdrazakov, Juan Francisco Gatell, Barbara Di Castri, Marina Rebeka, Nicola Alaimo & Eric Cutler (2009)

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sabato 22 agosto 2009

Hildegard Behrens: un ricordo non solo wagneriano

Per molti wagneriani, Brünnhilde è tornata nel Walhalla.
Hildegard Behrens, la grande Brünnhilde, e non solo, degli anni ’80 ci ha lasciati pochi giorni fa.
Una notizia che personalmente mi ha fatto rivivere nella mente tutte le fasi del mio rapporto con la sua voce e con la sua arte scenica.

L’ultima sua immagine che ricordo è la foto di un allestimento catanese di ”Walküre” di pochi anni fa, in cui il soprano nei suoi abituali abiti da Brünnhilde trattiene a braccia tese Siegmund che minaccia di colpire con Nothung l’amata sorella addormentata.
E’ una foto che ci regala anche l’espressione solenne e dolcissima di una cantante attrice di grandi fascino e intelligenza, che ha saputo essere di primo livello soprattutto negli anni ’80.
Quella “Walküre” di pochi anni fa rappresentò probabilmente uno degli ultimi appuntamenti teatrali assieme all’immancabile Elektra, a Kostelnicka, a Kundry e a qualche esperimento come Ortrud, di una voce ormai provata da onerosa carriera, ma ancora in grado di conquistare grazie al suo poderoso carisma.
Ed è proprio con l’opera dedicata alla figlia di Wotan che ho fatto la conoscenza dell’artista, grazie al famoso video del Met diretto da James Levine.
Sinceramente questo primo approccio si rivelò tutt’altro che idilliaco.
La voce della Behrens era all’epoca della ripresa molto provata: gravi parlati, vibrato nei centri, acuti aspri e urlati.
Ma a parte tali difetti quello che mi colpì furono la personalità scenica così naturale e l’uso del fraseggio così arroventato e tragico, che fuoriuscivano da questa donna minuta ma fascinosa.
Non sempre mi è piaciuta, non sempre è stata interprete ispirata, non sempre la sua voce nei ruoli affrontati ha dato il meglio, ma quando era nel suo elemento è riuscita a imprimere nella sua interpretazione tutta la sensibilità artistica di cui era dotata.

Non cercherei la miglior Behrens nell’imbarazzante Tosca del Met diretta da Sinopoli o nella sua incarnazione dell’Elettra mozartiana in cui allo squilibrio mentale della protagonista si affiancano squilibri vocali vistosi e ingombranti.
Nemmeno le sue incarnazioni di Elektra di Strauss o della Senta wagneriana, o ancora della pur pregevole Leonore di Beethoven mi hanno convinto, preferendole le voci di Eva Marton o di Gwyneth Jones… eppure, cos’è che aveva questa sorta di Janis Joplin dell’Opera che ammaliava le platee più importanti con la sua voce abrasiva, dal timbro chiaro quasi infantile, ma terribilmente tragico e umano?
Proprio in questo risiedeva il segreto della sua voce, proprio questo faceva di lei una grande artista.
Voglio ricordarla anche ai lettori che passano da queste parti evocando i ruoli con cui più l’ho identificata.

BRUNNHILDE (Ring des Nibelungen)

No, non mi riferisco alle recite del Met o a quelle di Monaco dirette da Levine e Sawallisch.
Quei video ci regalano una splendida performance attoriale, vocalmente sono recite di sicuro interesse, ma putroppo la Behrens non era in gran forma e di lei possiamo apprezzare la forza del fraseggio e la potenza drammatica del suo canto, ma è una voce che mostra più di una crepa.
Mi sto riferendo alle recite dell’estate 1983 che la consacrarono Brünnhilde di riferimento.
Siamo a Bayreuth, Solti debutta e scappa dal podio della verde collina, in scena uno spettacolo “disneyano” di Peter Hall che darà molti grattacapi a Wolfgang Wagner ed una compagnia canora tutt’altro che ineccepibile.
Ma quelle recite videro brillare la nuova Brünnhilde di un soprano al suo esordio nel ruolo, voluta fortemente da Solti.
Hildegard Behrens trionfò.
Voce da Sieglinde si disse, ma la sua Brünnhilde è una creazione assolutamente fresca e brillante.
La voce risuonava ricca di femminilità e tenerezza nell’espandersi con quel timbro così chiaro e limpido, ma dall’accento così arroventato e cangiante.
Per la prima volta, forse, il Festspielhaus aveva una Walkiria più adolescente che guerriera, una giovane donna sensibile e sensuale che sapeva trovare inflessioni commosse e malinconiche, che sapeva confondersi e rendere incandescente il suo canto, che sapeva trasmettere amore con la dolcezza di una bambina.
Da ascoltare il suo vibrante risveglio così luminoso e sensuale oppure l’olocausto così esausto e toccante, ma imbevuto di una sacralità umanissima.

ISOTTA (Tristan und Isolde)

Una principessa inquieta, giovanissima, ma già profondamente donna e ferita dall’offesa arrecatole dall’uomo che ama, poi piena dell’ansia di colei che aspetta il suo Tristan per concedere corpo e cuore e infine angelo di luce e tenebre che trasfigura la sua anima e quella del suo amante.
La voce iniziava a dare qualche segno di cedimento nella linea, gli acuti iniziavano a perdere la precisione, il grave incominciava ad aprirsi troppo, eppure il canto è davvero sempre regale e carnale. Questa la visione che ci offre la Behrens dell’eroina wagneriana assecondata dalla bacchetta di Bernstein.

ELISABETH (Tannhäuser)

In questo ruolo, che è più di una curiosità, la Behrens si riappropria della sua dimensione lirica e si lascia trasportare dalla delicatezza virginale dell’eroina wagneriana.
Anche in questo caso una fanciulla adolescente, ma decisa eppure inafferrabile come Mélisande, a cui il soprano dona il suo timbro caldo e lucente.
Basta ascoltare l’ intervento che Elisabeth compie per difendere Tannhäuser, in cui all’acciaio dell’accento si unisce una voce limpida e leggera.

SALOME (Salome)

Che cosa c’entra l’immensa Franca Valeri con la Behrens e con Salome?
Se è colei che con la sua comicità colta e geniale vi ha fatto conoscere questa incarnazione della Behrens c’entra eccome!
Qualche anno fa, Radio 3, “Di tanti palpiti”, trasmissione condotta dalla grande attrice.
La Valeri analizzava un’opera a settimana con il suo stile dissacrante e quella mattina toccò a “Salome”, affiancando l’edizione di Karajan a quella con la Caballé.
Sia la Behrens che la Caballé furono per me una rivelazione.
Se volete la “teenager scatenata” (parole della Valeri) con la voce di Isotta, ascoltatevi quella della Behrens.
Ce n’è per tutti: il timbro chiaro al pari di una Welitsch o di una Studer, l’erotismo decadente di Wilde, la sensualità malata e acerba della Lolita di Kubrick, l’interprete ammaliante che si lancia nei vortici vocali dell’eroina straussiana con spavalda incoscienza e incanta con le sue arti l’ascoltatore.

MARIE (Wozzeck)

Quando entra in scena il personaggio di Marie, la Behrens riesce con pochi gesti ed una mimica naturalissima a renderla facilmente identificabile con una donna qualunque, banale, non diversa dalle donne che incontriamo tutti i giorni e non lontana da noi.
Attraverso un fraseggio capace di evocare un erotismo sfatto e con una vocalità aspra e terribilmente espressiva, la Behrens trasmette direttamente sulla pelle la sete di desiderio e riscatto che pervade questa creatura colpevole di voler essere solo se stessa e sfuggire dall’orrore quotidiano.
Vertice la scena dello specchio oppure la preghiera in cui un momento intimo diventa rivelatore dell’angoscia inespressa di una donna che prevede il suo destino di morte.

KOSTELNICKA (Jenufa)

Ecco come sarebbe diventata la Marie del “Wozzeck” se fosse invecchiata dopo le delusioni avute dal marito, dal Tamburmaggiore e dalla società in genere.
Né strega, né megera, ma un monumento alla femminilità sfiorita e offesa dagli uomini e dalla sua stessa amarezza. La voce screpolata sostiene una linea di canto frastagliata che aiuta una caratterizzazione formidabile e commovente.

Ecco, credo che l’unico modo per rendere omaggio ad una cantante come Hildegard Behrens sia ascoltarla in queste incarnazioni, e non solo per ricordarla.











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venerdì 21 agosto 2009

I venerdì di Wagner: Giulia Grisi intervista Marianne Brandt (quarta parte)

Giulia Grisi: Arriviamo al ventesimo anniversario del Ring…

Marianne Brandt: Nel 1896 Bayreuth era diventata una meta obbligata ed era vista con rispetto dalla stampa e dal pubblico mondiale e la presenza dei cantanti stranieri aveva avuto grande eco nonostante le critiche dei conservatori tedeschi e razzisti xenofobi, che vedevano il Festival come una fabbrica di soldi.
In quell’anno si celebrava il ventennale della prima del Ring e Cosima decise di mettere in scena finalmente la monumentale opera del marito, omettendo dalla programmazione il Parsifal.
Contattò per l’occasione i cantanti che avevano partecipato alla prima, ma solo tre erano in carriera ed in forma vocale: Lilli Lehmann scelta per interpretare Brünnhilde, Heinrich Vogl, Loge e Siegmund, e Marie Lehmann nel breve ruolo della II Norna.
La ricerca degli altri cantanti non fu facile. Cosima li convocò non badando alla loro nazionalità, e per facilitare le cose istituì una scuola di canto e interpretazione, un conservatorio wagneriano, assieme a Kniese.
L’iniziativa ebbe vita brevissima, dal 1892 al 1898, e si proponeva di allevare nuove voci adatte allo “Stile di Bayreuth” ed al canto wagneriano.
Le grandi creazioni di Cosima, in questo periodo, furono sicuramente il tenore Alois Burgstaller e Ellen Gulbranson.
Il primo poco più che ventenne aveva cantato solo nelle fiere di paese e nelle chiese e si trovò ad affrontare nel 1896 il ruolo di Siegfried dopo aver interpretato due piccoli ruoli nel 1894.
La Gulbranson fu allieva della Marchesi, si perfezionò proprio nella scuola di Bayreuth e divenne uno strumento indispensabile nelle mani di Cosima.
Fu l’unica interprete di Brünnhilde dal 1896 al 1924 (anno in cui si alternò con Olga Blomè), interpretando sempre a Bayreuth e con successo anche il ruolo di Kundry.
Ebbe carriera lunga, ma parsimoniosa di ruoli: Elisabeth (Tannhäuser), Ortrud (Lohengrin), Brünnhilde (Ring), Kundry (Parsifal), Aida e Amneris (Aida), Leonore (Favorite), Leonore (Fidelio), Cleopatra di Enna.
Frequentò molti importanti teatri, ma sempre per pochissime recite all’anno, così il suo successo e la sua carriera furono praticamente legati a Bayreuth.
Cosima aiutò anche cantanti come Ernst Kraus, Beatrix Kernic, Fritz Volgelstroem, Hans Breuer, Otto Briesemeister e Anton van Rooy a diventare interpreti storici rispettivamente dei personaggi di Siegfried, Eva, Lohengrin, Mime, Loge e Wotan.
Il problema di Cosima era trovare dei degni direttori d’orchestra.
Aveva già corteggiato il promettente Richard Strauss sia per il podio del Festspielhaus, sia per sua figlia, ma Strauss come compagna aveva già scelto la sua Elisabeth delle recite bayreuthiane: Pauline de Ahna.
Ma, oltre a questo, due cose impedivano ulteriori ingaggi del maestro (che comunque tornerà per Parsifal negli anni '30): la sua carriera di compositore, che mal si conciliava con il suo stile così estraneo a Wagner e la rivalità che poteva nascere con Siegfried Wagner.
In più, nel 1894 Levi decise di abbandonare il Festival per ragioni di salute e nel dire addio lasciò a Cosima un messaggio in cui si diceva disgustato del clima che si respirava a Bayreuth e dalle pressioni razziali che aveva ricevuto.
Mentre accadevano questi stravolgimenti, Siegfried Wagner, che già nel 1891 aveva iniziato a lavorare nel Festival come aiutante nell’illuminotecnica, aiutante di direzione, direttore di scena e infine direttore musicale sotto la guida di Humperdinck, Kniese, Richter e Mottl, incominciava ad ottenere un certo prestigio all’interno del panorama musicale.
Fu anche un discreto compositore, ma le sue opere non riuscirono a ottenere fortuna duratura nei grandi teatri.
Con questa preparazione Cosima lo scelse per condividere le recite del Ring con Richter, che avrebbe diretto la prima, e Mottl.
La preparazione della Tetralogia non voleva essere, almeno nelle intenzioni, una nuova interpretazione da parte della vedova, ma solo la riproposizione fedele dell’allestimento del ’76.
Max Brückner, Hans Thoma e Arpad Schmidhammer furono incaricati di recuperare i bozzetti delle scene e dei costumi, visto che le scenografie originali erano state vendute, dando loro un taglio più leggero, “moderno” e realista eliminando quegli elementi che avevano fatto storcere il naso a Richard Wagner.
Cosima rimase incantata dalle proposte di Brückner, ma a livello tecnologico il nuovo Ring non si differenziava molto dalla prima edizione. In più, non sarebbe stata sfruttata l’energia elettrica che già stava prendendo piede.
Ma una personalità irrequeta come quella di Cosima non poteva rimanere fedele alle sue premesse, così prese il sopravvento sulla produzione e decise di dare un’impronta personale alla regia del Ring.
Della direzione d’orchestra le importava poco, bastava che il direttore ammortizzasse il suono, ma tutta presa dalla regia pretese che la recitazione fosse sobria, ed il canto fosse più stilizzato possibile.
Il risultato come scrissero i critici fu il seguente: i cantanti stavano immobili sul palcoscenico con la sola eccezione di Brünnhilde, le scene erano belle e le luci funzionali, ma gli “incantesimi” e la magia tecnica erano resi in maniera troppo casalinga, eccetto il drago del II Atto del Siegfried.
I costumi non suscitarono l’effetto sperato ed i cantanti divisero come sempre critica e pubblico.
Carl Perron fu un Wotan insufficiente, troppo lirico e fu sostituito successivamente da Anton van Rooy e Theodor Bertram; Heinrich Vogl ebbe il suo trionfo personale interpretando magistralmente Loge e Siegmund, la Fricka della Brema piacque, ottime critiche anche verso il Mime esemplare di Hans Breuer, l’Alberich perfetto di Friedrichs e la Erda e Waltraute di Ernestine Schumann-Heink presenza quasi fissa dei Festival successivi, meravigliosa la Sieglinde della Sucher, inadeguato Emil Gerhauser nei panni di Froh e Siegmund, Alois Burgstaller fu considerato acerbo per la parte di Siegfried, ma adeguato e con una voce da maturare (avrebbe dimostrato in seguito di essere migliore interprete di Siegmund), la Lehmann, probabilmente a causa delle tensioni con Cosima e gelosa del successo della Gulbranson iniziò trionfalmente e terminò con fatica il Götterdämmerung, Grengg fu un Hagen cupo e impressionante tanto che in molti lo avrebbero voluto al posto del Wotan di Perron.
L’orchestra fu elogiata e ritenuta eccezionale soprattutto nelle mani di Richter e Mottl, ma con la bacchetta di Siegfried Wagner purtroppo si rivelò un fiasco in quanto la sua lettura venne ritenuta soporifera e poco dinamica.
Curiosamente solo Mahler e Shaw difesero Siegfried Wagner.
A questo punto mancava solo un’opera, secondo Cosima, degna di entrare nel tempio di Bayreuth ed era Fliegende Holländer, il cui allestimento coincise con il 25esimo anno di attività del Festival e con l’inizio del secolo.
I soliti “benpensanti” fecero ostruzionismo, ma Cosima andò avanti e iniziò il solito lavoro meticoloso.
Analizzò la partitura, le scene ed i costumi degli allestimenti di Weimar (1850) e Monaco (1864), per la scenografia e ai movimenti si ispirò alle architetture e alle usanze scandinave e affidò le decorazioni ed i costumi all’immancabile Brückner e al pittore Maximilian Roscan.
Alla regia lavorarono insieme madre e figlio (Siegfried) il quale, ispirandosi alle pitture di Turner, grazie ad un disegno luci magico ed un sapiente gioco di fumo, riuscì ad illuminare l’atmosfera creata sul palcoscenico con un alone di mistero incombente.
I cantanti, la direzione e la regia per la prima volta ebbero all’unanimità i toni del trionfo da parte del pubblico e della critica e il Fliegende Holländer di Bayreuth fu ritenuto come lo spettacolo migliore che si potesse vedere nel mondo.
Merito anche dei cantanti come van Rooy e Bertram impegnati nel ruolo dell’Olandese, la Destinn come Senta, Heidkamp come Daland, ruolo affidato nella ripresa del 1902 a Max Lohfing e Paul Knupfer, Kraus e Burgstaller come Erik e la Schumann-Heink come Mary e della direzione crepuscolare di Mottl.

GG: Come furono gli ultimi anni di Cosima prima del ritiro?

MB: Gli anni tra 1901-1903 furono di importanti cambiamenti e terribili avvenimenti per il Festival che si stava preparando agli allestimenti del 1904 e del 1906.
Nacque di nuovo un contrasto con il teatro di Monaco.
Possart voleva assolutamente rappresentare il Parsifal nel suo teatro, ma il diritto d’autore che legava l’opera a Bayreuth era in discussione al Reichstag, indeciso se farlo terminare nel 1913 o prolungarlo fino a 50 anni.
Cosima, appoggiata da Strauss, intervenne affinché si rispettasse il volere del Maestro e si facesse rappresentare il Parsifal solo a Bayreuth.
Ma il Reichstag non accolse la richiesta di Cosima in quanto ritenne poco plausibile che un’opera fosse appannaggio di un teatro soltanto e la donna sperò che almeno la legge avrebbe tutelato Parsifal fino al 1913.
Ma nel 1903 il Metropolitan di New York con la collaborazione dell’Opera di Monaco allestì il Parsifal con interpreti provenienti da Bayreuth!
L’avvenimento venne ribattezzato “Gralsraub”, furto del Graal!
Fino ad allora l’opera si era data in concerto e credo in selezioni, ma Cosima, furibonda, cercò con ogni mezzo di boicottare l’allestimento, ma tutto fu inutile in quanto New York non faceva parte della convenzione di Berna e le leggi valide in Germania non avevano nessun diritto in America.
La donna, in risposta alla impossibilità di fermare la macchina teatrale del Met, decise di escludere dal Festival tutti i cantanti che avevano preso parte allo scempio, vale a dire Alois Burgstaller, Andreas Dippel, Milka Ternina, Marion Weed, Lillian Nordica, Olive Fremstad, Anton van Rooy, Robert Blass, Otto Gorlitz, Marcel Journet, Alfred Mülhmann (Burgstaller però verrà integrato successivamente da Siegfried Wagner), e impedì al direttore Alfred Hertz di dirigere qualunque opera o concerto in Germania!
A peggiorare la situazione fu il “tradimento” inatteso che Cosima subì da parte di Mottl, reo di aver diretto una serie di concerti a New York come titolare dell’Opera di Monaco e non di Bayreuth e sospettato di aver dato dei consigli sull’allestimento del Parsifal, atti che gli valsero il disprezzo della donna e l’esilio da Bayreuth.
Senza direttori, Cosima scelse nuove leve come Karl Muck che prese il posto di Levi nella direzione di Parsifal, il talentuoso Michael Balling già aiutante e orchestrale a Bayreuth.
Nel 1904 si riprese lo spettacolo il Tannhäuser con un nuovo cast;
Desider Mathray e Fritz Remond nel ruolo del titolo, Katharina Fleischer-Edel che incarnò una Elisabeth perfetta e divenne Sieglinde, Brangäne ed Elsa di riferimento a Bayreuth, i vibranti Wolfram di Clarence Whitehill e di Theodor Bertram, il carismatico soprano Louise Grandjean, prima francese a Bayreuth e Paul Knupfer e Felix von Kraus nel ruolo del Langravio.
Se la direzione di Siegfried Wagner non convinse pienamente, ed i cantanti ebbero la loro buona dose di successo, il Baccanale suscitò uno scandalo senza precedenti per la presenza di una leggenda come Isadora Duncan, che scalza e seminuda incantò ed indignò critica e pubblico con la sua danza sensualissima ispirata alle pose greche.
Cosima, sistemato il patrimonio familiare grazie all’aiuto dell’immancabile von Gross, cercò di trovare un marito alle figlie, crecandoli tra i grandi compositori e direttori d’orchestra, come Strauss e Bruckner, ma si trovò come generi un conte siciliano che sposò Blandine, Henry Thode che convolò a giuste nozze con Daniela, mentre Isolde finì per sposare Franz Beidler già aiutante musicale a Bayreuth e direttore d’orchestra nel 1904 e nel 1906.
Beidler fece un passo falso dettato dall’ambizione: negò a Siegfried Wagner di essere l’erede legittimo di Richard Wagner e pretese un ruolo più importante all’interno del Festival.
Cosima appoggiò il figlio e Siegfried offeso a morte decise di esiliare Beidler dal Festspielhaus e dalla famiglia.
Il 1906 segnò per Cosima l'ultimo anno di direzione: ella scelse di riprendere il Tristan und Isolde con un cast rinnovato ed una visione registica ancora più diafana e intima.
Alfred von Bary interpretò un Tristan accorato e malinconico, Maria Wittich, la “Tante Wittich” di Strauss, reduce dallo scandalo per la Salome e dal successo come Sieglinde e Kundry a Bayreuth, ammaliò con la sua voce potente e piena di calore, per Brangäne si ricorse al soprano Katharina Fleischer-Edel, che conferì all’ancella un tono più fresco e sensibile come doveva essere stata la prima interprete alla prima di Monaco, Walter Soomer impressionò con il suo Kurwenal brutale e carismatico, Knupfer e von Kraus furono due solidi Re Marke.
Michael Balling sostituì Felix Mottl nella direzione dell’opera ed ebbe un franco e duraturo successo personale.
Il 1906 fu anche l’anno in cui morì Julius Kniese, preparatore vocale e amico prezioso della donna che venne sostituito, di comune accordo con Siegfried, con il soprano e veterana di Bayreuth Louise Reuss-Belce presente al Festival in piccoli ruoli già dal 1882 in cui interpretava una Fanciulla Fiore nel Parsifal e che successivamente incarnò Eva, Fricka, Gutrune senza disdegnare personaggi di fianco come le Walkirie e le Norne.
Fu, però, durante una visita nel Natale dello stesso anno al principe di Hohenlohe che la salute di Cosima peggiorò sfociando in un attacco di cuore.
La donna lo percepì come un segnale per farsi da parte e lasciare campo libero all’adorato figlio Siegfried nella gestione del Festival.
Dal 1908 Siegfried prendeva il posto della madre, che però rimase una presenza costante e insostituibile all’interno del Festspielhaus quanto a suggerimenti e scelta di cantanti.
Insomma il regno di Cosima non sarebbe tramontato così facilmente!

Per approfondire

Bayreuth: una storia del Festival Wagner – Fredric Spotts
Memorie Wagneriane – Angelo Neumann
Anna Bahr-Mildenburg - Gesture and the Bayreuth Style (Musical Times 2007) – Nicholas Baragwanath
The honourable Lady – An appraisal of Cosima Wagner – Sven Friedrich
La voce in Wagner (RITMO 6/1983 N°534) – Arturo Reverter
America’s Musical Inheritance: Memories and Reminiscences – Anna Eugenie Schoen Rene
The music dramas of Richard Wagner and his Festival Theather in Bayreuth – Albert Lavignac
The Virtuoso and the Artist – Richard Wagner
L’arte del dirigere l’orchestra – Richard Wagner
Per una perfetta rappresentazione del Tannhäuser – Richard Wagner
Great Women Singers of my times – Hermann Klein
Schumann-Heink: the last of the titans – Mary Lawton
Fundamentos de mi metodo de canto - Antoni Ribera
Nota di lettura del libro di Malou Haine Ernest Van Dyck, un ténor à Bayreuth - Jean-Marc Warszawski
Weingartner's Bayreuth treatise – Felix Weingartner
Wagner – Tutti i libretti d’opera – Piero Mioli

historicopera.com
cantabile-subito.de
wagnermania.com
isoldes-liebestod.info
archives.metoperafamily.org
forum.bayreuth.ru



Gli ascolti

Giulia Grisi intervista Marianne Brandt / 4


Ack, Varmeland du skona (trad.) - Ellen Gulbranson (1914)

Om dagen vid mitt arbete (trad.) - Ellen Gulbranson (1914)

Grieg - En Svane - Ellen Gulbranson (1914)

Grieg - Vaer hilset, i damer - Ellen Gulbranson (1914)

Grieg - Og jeg vil ha en hjertenskaer - Ellen Gulbranson (1916)

Häser - Frühlingstoaste - Fritz Friedrichs (1906)

Mozart - Don Giovanni

Atto I

Dalla sua pace - Alois Burgstaller (1906)

Weber - Der Freischütz

Atto I

Nein, länger trag ich nicht die Qualen - Alois Burgstaller (1906)

Wagner - Wesenkdonck-Lieder

Der Engel - Wilhelm Gruning (1912)

Träume - Ellen Gulbranson (1914)

Wagner - Der Fliegende Holländer

Atto I

Dich frage ich, gepreisner Engel Gottes - Theodor Bertram (1906)

Nur eine Hoffnung soll mir bleiben - Anton van Rooy (1906), Theodor Bertram (1907)

Wie? Hör ich recht? Mein Tochter sein Weib? - Max Lohfing (1911)

Atto II

Johohohe! Traft ihr das Schiff im Meere an - Emmy Destinn (1911)

Bleib', Senta! Bleib' nur einen Augenblick! - Alois Burgstaller & Melanie Kurt (1906), Ernst Kraus & Melanie Kurt (1911)

Mögst du, mein Kind, den fremden Mann willkommen heißen? - Paul Knupfer (1915)

Wie aus der Ferne längst vergang'ner Zeiten - Theodor Bertram (1902)

Atto III

Willst jenes Tags dich nicht mehr entsinnen - Emil Borgmann (1904)

Verloren! Ach! verloren! Ewig verlor'nes Heil! - Theodor Bertram (1906)

Wagner - Der Ring des Nibelungen

Das Rheingold

Weia! Waga! Woge, du Welle - Artner, Knupfer-Egli & Metzger (1904)

Der Wonne seligen Saal - Theodor Bertram (1906)

Vollendet das ewige Werk! - Hermann Bachmann (1908)

Immer ist Undank Loges Lohn! - Otto Briesemeister (1907)

So weit Leben und Weben - Otto Briesemeister (1904)

Jetzt fand' ich's: hört, was euch fehlt! - Otto Briesemeister (1908)

Wer hälfe mir? - Hans Breuer & Otto Briesemeister (1907)

Die in linder Lüfte Weh'n da oben ihr lebt - Robert vom Scheidt (1904)

Weiche, Wotan! Weiche! - Ottilie Metzger & Theodor Lattermann (1913)

Abendlich strahlt der Sonne Auge - Theodor Bertram (1904), Walter Soomer (1907), Anton van Rooy (1908), Hermann Bachmann (1908)

Die Walküre

Atto I

Müd am Herd fand ich den Mann - Ernst Kraus & Paul Knupfer (1910)

Ein Schwert verhieß mir der Vater - Ernst Kraus (1906)

Winterstürme wichen dem Wonnemond - Ernest van Dyck (1903), Ernst Kraus (1904), Alfred von Bary (1904), Wilhelm Gruning (1908)

Du bist der Lenz - Katharina Fleischer-Edel (1907), Lilli Lehmann (1907)

Siegmund heiß' ich und Siegmund bin ich! - Alfred van Bary (1904), Ernst Kraus (1906)

Atto II

Hojotoho! Hojotoho! - Martha Leffler-Burckard (1901)

Zauberfest bezähmt ein Schlaf - Ernst Kraus (1909)

Atto III

Leb' wohl, du kühnes, herrliches Kind! - Anton van Rooy (1902), Theodor Bertram (1902), Walter Soomer (1907), Hermann Bachmann (1908)

Der Augen leuchtendes Paar - Theodor Bertram (1902)

Siegfried

Atto I

Das ist nun der Liebe schlimmer Lohn! - Hans Breuer (1904)

Als zullendes Kind zog ich dich auf - Hans Breuer (1904)

Vieles lehrtest du, Mime - Ernst Kraus (1912)

Auf wolkigen Höh'n wohnen die Götter - Walter Soomer (1912), Theodor Bertram (1906)

Fühltest du nie im finstren Wald - Ernst Kraus (1915)

Notung! Notung! Neidliches Schwert! - Wilhelm Gruning (1905), Ernst Kraus (1906), Erik Schmedes (1907)

Hoho! Hoho! Hohei! Schmiede, mein Hammer, ein hartes Schwert! - Ernst Kraus (1906), Erik Schmedes (1907)

Atto II

Wir sind zur Stelle - Ernst Kraus (1915)

Daß der mein Vater nicht ist - Ernst Kraus (1909)

Ist mir doch fast, als sprächen die Vöglein zu mir! - Ernst Kraus (1915)

Hei! Siegfried gehört nun der Niblungen Hort! - Emilie Feuge-Gleiss (1904)

Er sinnt und erwägt der Beute Wert - Ernst Kraus (1915)

Lustig im Leid sing' ich von Liebe - Ernst Kraus (1916)

Atto III

Stark ruft das Lied - Ottilie Metzger (1907)

Götterdämmerung

Atto I

Zu neuen Taten, teurer Helde - Lucie Weidt & Erik Schmedes (1909)

Vergäß' ich alles, was du mir gabst - Ernst Kraus & Hermann Bachmann (1909)

Blut-Brüderschaft schwöre ein Eid! - Erik Schmedes (1909)

Hier sitz' ich zur Wacht, wahre den Hof - Richard Mayr (1910)

Seit er von dir geschieden - Ottilie Metzger (1911)

Atto II

Hoiho! Hoihohoho! Ihr Gibichsmannen, machet euch auf! - Allan C. Hinkley (1907)

Atto III

Frau Sonne sendet lichte Strahlen - Artner, Knupfer-Egli & Metzger (1904)

Mime hieß ein mürrischer Zwerg - Erik Schmedes (1907), Ernst Kraus & Eduard Habich (1909)

Brünnhilde! Heilige Braut! - Erik Schmedes (1909), Ernst Kraus (1909)



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