domenica 25 aprile 2010

Stagioni 2010-2011. Londra.

Dopo aver commentato le stagioni 2010/11 negli U.S.A., è il turno di occuparci del nuovo cartellone, di recente presentazione, della massima istituzione operistica britannica, la Royal Opera House. Il teatro inglese conferma le linee guida della sua più recente tradizione – quella dell’era di Pappano, grazie a cui si è risollevato dalla mediocrità che ne caratterizzava le compagini (in ispecie quelle orchestrali) – senza, dunque, apportare modifiche significative a quello che sempre più appare come il fulcro (musicale ed estetico) del suo repertorio: l’opera ottocentesca, con un’evidente predilizione per i titoli risalenti alla seconda metà del secolo, e senza comunque trascurare nessuno (o quasi) dei grandi compositori della tradizione europea. Un programma che prevede, al solito, un buon numero di titoli del “grande repertorio”, di attrattiva popolare e di interesse mediatico. In ciò, credo, appare evidente l’influenza dei gusti e delle attitudini musicali del direttore principale del teatro, Antonio Pappano.

A dispetto però della mia precedente constatazione (circa il repertorio tardo ottocentesco), la stagione al Covent Garden, si apre il 10 di settembre prossimo venturo, con Così Fan Tutte: il titolo mozartiano è la ripresa dell’ormai noto spettacolo di Jonathan Miller (risalente al 1995) ed è affidato alle cure direttoriali di Thomas Hengelbrock, di estrazione baroccara (pare che, ormai, non ci sia altra scelta per Mozart e dintorni). Si prosegue con Don Pasquale (un’altra ripresa, sempre Miller), diretto da Mackerras, direttore corretto, ma algido e anonimo (almeno nel repertorio mozartiano e nella Lucia di Lammermoor discografica): il timore di una lettura sbiancata e garbata, che riconduca Donizetti ad una fredda silhouette settecentesca, o ad un “capodimonte” lucido e fragile, è più che mai concreto, con l'aggravante costituita dall’inquietante presenza di Iride Martínez (già sostituta della Dessay come Sonnambula parigina), debuttante Norina.
Molto interessante la terza opera in programma: Niobe, Regina di Tebe, di Steffani (riscoperta nel 2008, dopo 320 anni di oblio, nell’ambito del Festival di Schwetzingen). Le gioie finiscono presto, però, e si fermano al titolo (inconsueto per la programmazione del teatro), già perché esso è affidato al baroccaro Hengelbrock e alla voce di Véronique Gens, pupilla di Jacobs. Si prosegue con Les Pêcheurs de perles, di Bizet, in forma concertante, che si segnala per la conduzione di Pappano e il debutto alla Royal Opera House di John Osborn: poco interessante il resto del cast (Nicole Cabell, Gerald Finley e Raymond Aceto). Dopo un tradizionale Rigoletto (inficiato dalla Gilda della Gutiérrez e dal Duca di Kim), si passa a Roméo et Juliette: Piotr Bezcala e Nino Machaidze. Dirige il tutto Oren (dall'inspiegabile la carriera), che proprio non vedo che “c’azzecchi” con la poetica di Gounod (e non solo con quella, a dire il vero) e che è certezza di mazzate e tagli vergognosi.
Dopo Hänsel und Gretel è il turno di Cilea. Adriana Lecouvreur: in scena Kaufmann e la Gheorghiu, dirige l’elefantiaco Elder (kapellmeister anglosassone di ben scarso talento). Naturalmente sarà occasione di sproloqui e sparate quali “interpretazione storica”, “riscoperta”, “nuova raffintezza” etc…, col malcelato intento di cancellare così, di botto, tutto ciò che è avvenuto prima dell’epifania dei due divi, signora Olivero compresa (ma ci sarà qualcuno a “rovinare la festa” di rimozione che verrà celebrata dai soliti noti). A seguire Tannhäuser, nuova produzione con Botha, la Westbroek e la Schuster, dirige Bychkov: non il massimo, certo, ma si è ascoltato ben di peggio (e recentemente)! Si prosegue con la ripresa del Barbiere di Siviglia e con Die Zauberflöte, che si segnala solo per la direzione di Colin Davis (che pare stia vivendo una nuova giovinezza artistica). Dopo una bizzarra opera moderna – nuova commissione del teatro (dedicata all’arcinota Anne Nicole Smith, modella di Playboy dalle forme generose, che ereditò una fortuna dopo la morte del marito ottuagenario e dopo le battaglie legali instaurate dai parenti esclusi dal lascito, morta recentemente, in giovane età ed in circostanze quantomai sospette) – in cui la ROH pare credere molto, visto lo sforzo produttivo (l'ipersponsorizzato genius loci Richard Jones, Pappano e la Westbroek nel title-role: scelta che, sul piano estetico è più che azzardata - si veda foto a margine), è di nuovo la volta del grande repertorio: Aida.
A seguire Fidelio con Wottrich e la Stemme (ennesima dimostrazione del fraintendimento dell’opera, che non è un dramma musicale wagneriano, ma un’opera romantica che richiede voci più avvezze a Mozart che a Strauss), dirige Kirill Petrenko, direttore di oscura fama cui è stato pure affidato il Ring del bicentenario a Bayreuth. Segno dei tempi: si debutta pure alla Sacra Collina! Dopo Beethoven, Rimsky-Korsakov: La Sposa dello Zar, opera incantevole, purtroppo affidata alla morchiosa bacchetta del solito Elder (spicca nel cast la presenza di Paata Burchuladze: lo credevo in pensione). E’ poi il turno di Werther: dirige Pappano (è il repertorio a lui più congeniale) e propone, almeno sulla carta, il desaparecido Rolando Villazón (si apre fin da oggi il totosostituto). A seguire Macbeth: sempre Pappano alla direzione (e sarà interessante verificare il suo Verdi), ma con un cast che non lascia certo ben sperare, visto i nomi di Keenlyside e della Serafin nei ruoli della coppia protagonista.
Doppio (o triplo) cast all star per la successiva Tosca (diretta sempre da Pappano e presentato nell’allestimento iper tradizionale di Kent): si spartiranno i panni della bella attrice romana, la Gheorghiu, la Mattila e la Serafin…in una battaglia all’ultimo…grido (?), in Cavaradossi si alterneranno Giordani e Kaufmann, mentre Terfel e Uusitalo si spartiranno il truce Scarpia. Eurosbobba avrebbe scritto Celletti. Infine, dopo Peter Grimes e Madama Butterfly, la stagione si chiude con la rara Cendrillon di Massenet, condotta da Bertrand de Billy e interpretata dalla (pretesa) “nuova Colbran” Joyce Di Donato (opportuna pausa di riflessione dopo i troppi Rossini?), nonché da Eglise Gutiérrez nel ruolo, di tessitura astrale, della Fata.

Stagione popolare dunque, che evita disdicevoli “programmi rieducativi”, che si astiene (almeno in parte) dall’isteria baroccara, ma che non presenta moltissime attrattive: una mediocritas più o meno aurea, volta a rassicurare il pubblico anglosassone, non molto avvezzo a scossoni o sorprese (salvo il forfait di Villazón.. che a ben vedere non è certo un imprevisto).


Gli ascolti

Gounod - Roméo et Juliette

Atto I

Je veux vivre - Emma Eames (1905)

Bizet - Les pêcheurs de perles

Atto II

Comme autrefois, dans la nuit sombre - Luisa Tetrazzini (1909)

Verdi - Rigoletto

Atto I

Questa o quella - John McCormack (1913)

Atto II

Sì, vendetta, tremenda vendetta - Carlo Tagliabue & Lina Pagliughi (1938)

Verdi - Aida

Atto III

Pur ti riveggo, mia dolce Aida - Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939)

18 commenti:

Francesco Benucci ha detto...

noto con grande piacere che sulle rive del Tamigi non sono messi molto meglio di noi. sai, mi stava già venendo un forte complesso di inferiorità viste le ultime produzioni nostrane...
inquietante questa presenza in puccini e verdi della fantomatica Serafin (voglio proprio sentire quel macbeth Keenlyside-Serafin...).
l'apertura, per quanto io ami mozart e la sua ultima opera dapontiana, mi sembra alquanto spenta e in ombra. per il resto mi sembra tutto piatto e noioso: c'è qualche titolo accattivante come i pescatori di perle o la Niobe di Steffani!
c'è di buono che almeno possono contare su direttori che almeno sanno usare la bacchetta dignitosamente (Pappano, Davis, Mackerras). qui da noi pare che la bacchetta serva per ben altri mestieri...(vero, caro Barenboim??)
c'è qualche coproduzione con la Scala? tanto per capire cosa ci aspetta...

mozart2006 ha detto...

Devo fare una correzione. La Niobe di Steffani ebbe la sua prima esecuzione moderna a Castelfranco Veneto nel 1978, con il Clarion Opera Group diretto da Newell Jenkins, che senz´altro conoscerete per la sua incisione della Pietra del Paragone con Beverly Wolff e Carreras.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh...se non altro sul Tamigi propongono più di 20 titoli (la Scala arriva più o meno alla metà) ed evita sgradevoli operazioni rieducative...non c'è, intatti, uno snobistico disprezzo per il grande repertorio, senza però dimenticare autori e titoli più desueti. Certo il programma è incentrato sulla seconda metà dell'800 (come sempre del resto). Sui cantanti c'è da discutere, e pure molto.
Non sono però d'accordo su quanto scrivi circa i direttori d'orchestra: Pappano è molto più di un direttore dignitoso, e così pure Davis. Al contrario Mackerras è anonimo e si limita alla correttezza (il suo Mozart è soporifero). Sugli altri non vedo però miracoli: il pessimo Oren, il baroccaro (e altrettanto pessimo) Hengelbrock e Edler (un pesante battisolfa in salsa anglosassone). Dimenticavo Petrenko: un quasi anonimo...

Francesco Benucci ha detto...

Su Pappano posso anche concordare, ma non su tutto. certamente è una bacchetta buona, solida ed agile. ma nient'altro. per Davis, io non ho mai avuto una grande venerazione. l'ho sempre trovato pesante e talvolta rumoroso (soprattutto nel suo Mozart). certo ben lontano dal baccano e dal frastuono di Barenbum. lontano comunque dai grandi inglesi come Barbirolli o ancora di più Beecham.
su mackerras mi trovi pienamente d'accordo: noiso, piatto e metronomico. ciao

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Devo dire che considero Barbirolli e, SOPRATTUTTO Beecham, due tra i più sopravvalutati direttori di sempre: in particolare trovo il secondo assolutamente improponibile oggi. Il suo Puccini, ad esempio, è il prototipo del "musicista da sartine" di (in)fame memoria (si confronti la sua Boheme con quella di Karajan, per capire la differenza), il suo Mozart, poi, è semplicemente insulso: freddo, algido, arguto, in perfetto stile british...impeccabile (forse) ma lontano anni luce da tutto quel che c'è nella musica di Mozart. Beecham resta sempre alla superficie, alla forma vuota e cerimoniosa, all'arguzia da salotto buono, comodo e rassicurante...un elegante signore che può scaldare le signore del circolo del tè... La sua "gloria" è più il frutto dello sciovinismo britannico (e del mito costruito sulla sua persona, in un paese privo di vere glorie musicali, che scambia Purcell per un grande compositore e Britten per un rivoluzionario). Per me Beecham incarna la "vuotezza" vittoriana, gradevole, certo, ma privo di nerbo e originalità. Nell'opera come nella musica sinfonica! Trovo Davis assai migliore (credo che ad oggi sia l'interprete di assoluto riferimento per Berlioz, e anche il suo Mozart mi piace, vivo e passionale, lontano anni luce dal biancore asettico tipicamente anglosassone). Pappano in un certo repertorio lo trovo ottimo (tardo romanticismo e primo novecento: più problematico il suo Verdi), anche il suo Tristan è affascinante. In Italia ci è toccato Barenboim (alla Scala, e la sua malsana idea di esplorare territori a lui sconosciuti (Verdi e Bizet finora), oltre ad una schiera di battisolfa assurti a chissà quali altari. Insomma in questo senso meglio Londra, ma mi compiaccio di un'unica circostanza: Oren, grazie a Dio, non ha ancora messo piede sul podio del Piermarini...

Francesco Benucci ha detto...

bisogna premettere al discorso che il rigore e la cura del suono sono comunque delle caratteristiche tradizionalmente tipiche della scuola inglese.
Davis ha il limite, come d'altronde lo ha avuto lo stesso Marriner con sintomi più gravi e nocivi, di voler strafare, di voler dirigere tutti da Berlioz Mozart, da Britten a Verdi, da Elgar a Wagner. e ovviamente è impossibile ottenere buoni risultati su tutti i fronti (per non parlarlare del suo Beethoven!!!!)
Barbirolli, pur non avendo avuto la gloriosa carriera dell'esimio collega, secondo me ha una spanna in più: sebbene preferisse tempi spesso lenti, aveva sempre un suono molto preciso, dolce o drammatico, teso o lirico. era, in poche parole, più dinamico ed eterogeneo. Davis invece lo trovo molto piatto e pedante.
sentiti questi due audio del 4 concerto di beethoven.

http://www.youtube.com/watch?v=HNTGWR_FHhI
http://www.youtube.com/watch?v=sGj2HILrOac

quanto al discorso legato alla vuotezza vittoriana dell'arte di Sir Beecham: a me non sembra innanzitutto che l'età vittoriana sia un periodo vuoto di valori e principi, anzi: ne ha avuti, sicuramente rigidi, legati ad una morale un po' troppo severa ed eccessivamente limitata, ma li ha avuti. e il presente direttore, come è giusto ed ovvio che sia, è stato figlio di quella società: ecco che quindi la sua bacchetta risulta limitata nella fantasia, trattenuto nel gioco e nel divertimento del suono.

al discorso iniziale sulla scuola inglese ci metto dentro tutti, e dico tutti i direttori inglesi da Boult a Marriner, da Pritchard a Pinnock. in tutti, mutatis mutandis ovviamente, c'è sempre questa ricerca costante di un suono sempre perfetto, sempre pulito e mai squilibrato: è così nello Schubert di Boult come nel Corelli di Pinnock, nell'Haydn di Barbirolli e nel Messiah di Beecham/Goosens, nel Vivaldi di Marriner e nel Mozart di Mackerras. E credo che Pappano possa a buon titolo rientrare nella new generation di questa scuola.

Domenico Donzelli ha detto...

intervengo su beecham. Sono a mezza strada. I fischi ufficiali puccini e carmen sono noiosi. Se però sento la carmen dal vivo o il sansone cambio o rivedo il giudizio. Non solo ma beecham fu x elettr il direttore preferito dall'autore e la sua aida live senza essere quella di de sabata è vivace e pulsante. . Saluti dd

Marco ha detto...

Due parole su Kirill Petrenko. Il quale non né anonimo né un direttore di oscura fama. Al contrario, è un musicista con i fiocchi. Io l'ho ascoltato nell'"Eugenio Onieghin" e nel "Paese del sorriso" alla Komische Oper di Berlino e ne ho tratto un'impressione favorevolissima. A Firenze ha diretto un'ottima Quarta di Mahler. Oltretutto è un collaboratore fisso dei Berliner Philharmoniker.
saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

concordo, naturalmente, sulle considerazioni sul carattere della scuola direttoriale inglese: la ricerca del bel suono, la pulizia, la limpidezza e la trasparenza, al fine di rivelare gli orditi della costruzione musicale. Ma vi sono, ovviamente, notevoli differenze tra un direttore e l'altro. Ti dirò che lo stesso approccio "analitico" assume differenti valenze a seconda di chi dirige: a volte mi sembra frutto di approfondimento (nel mostrare l'intreccio strutturale, la polifonia, la costruzione), altre volte è mera superficialità, grabo, leggerezza fine a sé stessa.

Concordo sui limiti di Davis e Marriner (ma tali limiti sono riscontrabili in quasi tutti i direttori d'orchestra che hanno voluto concertare "di tutto di più"), ma nei loro territori d'elezione continuo a trovarli ottimi e di sicuro interesse. aldilà del garbo che riscontri nella scuola inglese come cifra identitaria. Se ascolto l'Handel di Marriner la ricerca del bel suono non è mai fine a sé stessa, ma vuole evidenziare la sapiente costruzione, è una lettura profonda, così pure il suo Mozart "olimpico" e neoclassico, e voglio aggiungere anche le sue incisioni rossiniane (un Rossini "diverso", certamente, più vicino a Mozart negli intenti del direttore, ma dall'approccio affascinante: ascolta la Sinfonia del Turco in Italia nella lettura di Marriner, la trovo, ad oggi, ineguagliata). Stesso discorso per Davis, nel suo repertorio è trascinante e passionale, la ricerca del bel suono è unita all'ampio respiro e ad una lettura romantica (in questo senso il suo Mozart è in contro tendenza rispetto al pallore baroccaro). Il suo Berlioz rimane insuperato, il suo Handel è trascinante, il suo Falstaff è uno dei migliori mai incisi.

Sull'estetica vittoriana non voglio addentrarmi, ma non sono affatto d'accordo con te: la trovo un mix indigesto di svenevolezze salottiere, ipocrita perbenismo, superficialità, conformismo sociale e politico, "bigottismo" stantio, il tutto condito da arguzia e lggerezza, come una patina gradevole che tinge di (poche) sfumature colorate, il grigiore sotteso... In ciò Beecham si inserisce perfettamente: le incisioni ufficiali di Carmen e Boheme sono il trionfo della noia, della superficialità e delle svenevolezze; il suo Mozart, TUTTO, è salottiero e arguto, elegante e anonimo, da buona famiglia dell'impero britannico, ma sotto non c'è nulla; il suo Messiah (goffamente riorchestrato) è di una pesantezza fastidiosa, un macigno lento e pachidermico che non riesce a muoversi; il suo Beethoven è vuoto e accademico; non conosco la sua Elektra...ma non riesco a figurarmi un suo Strauss (per cui ritengo molto più adatti Krauss e Bohm: coi quali, peraltro, lo stesso compositore aveva un rapporto speciale). Certo Beecham ha inciso un sacco (ovviamente con la EMI) e certa critica, anglosassone, l'ha ritenuto una specie di semidio (e continua a ritenerlo tale), ma, ribadisco, è la stessa scuola critica che ha imposto il Mozart sbiancato e asettico, i baroccari dalla pronuncia ostrogota, che scambia Purcell per un grande compositore (e considera Elgar e Walton alla pari di Brahms)... E questo, senza voler ampiare troppo l'argomento, deriva dal fatto che la cultura che ha espresso tale scuola critica è sostanzialmente priva di tradizioni musicali paragonabili a quelle dell'Europa franco-tedesca o all'opera italiana, un paese che fece del tedesco Handel il "suo" compositore di bandiera e che ha come esponenti più genuini della propria identità musicale (la più idonea a rappresentare quella cultura), Gilbert & Sullivan e le loro deliziose operette.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Su Petrenko.... Bene aspetteremo di sentirlo in qualcosa di più serio e impagnativo del Paese del Sorriso.... Mi darai atto però che vi è differenza tra dirigere il Ring e l'Onegin... Sulla collaborazione coi Berliner, non mi pronuncio: un'orchestra che si fa dirigere da Rattle mostra di essere in serie difficoltà identitarie...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Dimenticavo gli ascolti proposti del IV concerto per pianoforte di Beethoven: io preferisco quello di Davis con Perahia, grandissimo pianista.

Francesco Benucci ha detto...

non amo concludere un bel dibattito con il solito DE GUSTIBUS ma stavolta mi sembra l'unica via. ahahahaha...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

E perchè concluderlo allora?

Francesco Benucci ha detto...

Come vuoi…ahah.
Ci sono alcune cose del tuo commento che non mi convincono.
Sorvolando sull’età vittoriana su cui ammetto di non essere molto esperto. Le uniche cose che so sono piccoli resti del mio recente liceo. Ma comunque non la considero affatto un’età di svenevolezze salottiere ed ipocrita perbenismo, ma un’età certamente difficile e limitata in certi aspetti, ma anche piena di cultura: pensa a tutti i grandi che hanno costellato questa epoca: Dickens, Stevenson, Wilde o Conrad. Insomma non è una età da sminuire e sintetizzare con miseri aggettivi. Ma andiamo oltre…
Un secondo punto su cui non sono d’accordo è su Sir Marriner: la sua ricerca del bel suono non so fino a che punto sia il risultato di una sapiente ricerca soprattutto in Handel che è in certi aspetti più ostico di Mozart. Certamente è un esperto, su questo non ci sono dubbi, e il suo complesso è buono e morbido ma lui lo trovo senza fantasia, senza eterogeneità e varietà. Il suo Mozart lo conosco poco, al contrario del barocco: ha sempre letto con un gusto eccessivamente idilliaco e insipido musiche di Bach, Vivaldi, Corelli e Handel. http://www.youtube.com/watch?v=qwpBiLDSeqY. Certo non lo disprezzo…ma se senti un Vivaldi o un Bach di Pinnock si nota sempre un gusto quasi maniacale per il bel suono ma questo non sarà mai omogeneo e insipido, ma sempre pastoso e fluido: pur restando fedele al concetto di base della scuola british Pinnock riesce a unire il bel suono con la varietà costante, ritmo vivace e concretezza.
http://www.youtube.com/watch?v=dxyqj0JzxzQ.
Passando a Beecham. Come tu giustamente hai detto, l’assenza di grandi compositori e, in questo caso, di direttori ha “costretto” gli inglesi ha prendere come capostipite di una famiglia debole l’unica figura del passato inglese di grande valore…

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Dickens, Stevenson, Wilde e Conrad: autori assai diversi dei quali solo il primo può ascriversi nell'ambito dell'estetica vittoriana (anche se da un punto di vista parzialmente critico dello status quo: un certo embrione di denuncia per l'ipocrisia morale e il regresso sociale si può leggere nelle sue opere, pur se condite da buona dose di melassa e paternalismo); gli altri appartengono tutti alla reazione antivittoriana. In particolare Conrad e la sua visione pessimistica e brutale dell'esistenza e dell'uomo (il cuore di tenebra). Stevenson parte da una visione deterministica della vita (il contrario del moralismo vittoriano), mentre wilde si pone in conflitto con la morale comune e l'etica del periodo. L'estetica vittoriana è tutt'altra cosa: una visione conformista della vita, fedele allo status quo, stabilito da regole sociali, fondato su privilegi ed etichetta, un paternalistico sguardo agli ultimi, una visione bigotta della religione, un culto dell'apparenza incentrato sul decoro e la reputazione, un'ipocrita fermarsi alla superficie perchè tanto quello basta. Il neltteratura citerei Trollope, Thackeray, Carroll, Disraeli, George Eliot. Ma lasciamo stare la critica letteraria. Torniamo alla musica. E procedo con ordine.

Marriner: dici bene quando parli di morbidezza e di lettura idilliaca. E' la sua cifra interpretativa: una lettura neoclassica dire, pulita, olimpica, levigata, ma non mi appare per nulla vuota o superficiale. Qualche esempio: il Messiah, Acis and Galatea, I Concerti Grossi. E' un Handel diverso da come siamo (purtroppo) abituati ad ascoltare oggi: lo trovo equilibrato nell'evitare il biancore e l'eccessivo turgore. Se ascolti il Messiah diretto da Beecham - superando lo scoglio (per me insormontabile) - dell'orrenda riorchestrazione, senti una esecuzione slentata e pesante, un impasto di suono che scambia la solennità per retorica fine a sé stessa, e, quindi, resta pura superficialità (anche Klemperer è pesante e lento nel Messiah, ma appare più introspettivo...forse troppo). Ascolta il Mozart di Marriner, sia la trilogia dapontiana che le sinfonie: un Mozart neoclassico, illuminista (stessa sensazione per i concerti per pianoforte, non a caso in coppia con il cerebrale e razionale Brendel). Prova anche il suo Rossini, su cui stende una vena di malinconia, in una lettura ricca di sfumature e piena di spunti (lo trovo molto meglio del Rossini di Abbado).
Pinnock è altra cosa, innanzitutto l'approccio è barocchista (strumenti "originali" etc...), il suono è diverso. Se confronti le sinfonie mozartiane (entrambi hanno inciso l'integrale) noterai la diversità che li rende imparagonabili se non per la comune provenienza nazionale. Pinnock, tuttavia, resta tra i più interessanti esponenti del movimento barocchista ed evita certi eccessi e stridori assai diffusi tra i suoi colleghi.

Tornando a Beecham, non pretendo certo di farti cambiare idea su Sir Thomas, ma non mi sembra il caso di considerarlo l'unica figura del passato inglese di grande valore...questo è quello che la critica (anglosassone, che è tra le più influenti al mondo) ci ha imposto e che io mi permetto di contestare vivamente. Il discorso va fatto all'inverso: non è stato il più grande e quindi la critica inglese l'ha messo sugli altari, bensì è "diventato" il più grande perchè la critica inglese ci ha montato sopra un mito.

Francesco Benucci ha detto...

la presenza di autori quali conrad e wilde in un periodo le cui idee e posizioni etiche si collocano ben lontano dalle loro è comunque segno di grande vitalità artistica e dinamismo letterario. d'altronde anche nella roma antica uno dei momenti di massimo splendore letterario è stato il principato di Nerone...
tornando su marriner, sono pienamente d'accordo sul fatto che il suo handel sia decisamente meglio di altri. ma quello che gli manca è proprio volume, sembra quasi che dia una lettura bidimensionale, senza profondità. certo molto meglio del surrele piattume totale di Hoogwod. all'opposto collocherei i baroccari di oggi (non tutti) che danno una lettura monodimensionale, cioè pensando lo al volume e tralasciando il resto.
su pinnock non posso che essere d'accordo: ha delle qualità oggi rare tra i baroccari.

trovo anche io sgradevole la riorchestrazione di Eugene Goosens, rumorosissima e ben lontana dai canoni handeliani. ma nonostante ciò la direzione di Beecham riesce ad alleggerirla, magari rendendola lenta, ma mai pedante e monotona.
Beecham non sarà stato il più grande del passato inglese, aggiungerei infatti figure come Boult, Manns ma il fatto è che lui è diventato simbolo di un'epoca, come Toscanini da noi: Toscanini non è mai stato, secondo me, il più grande direttore italiano, eppure cirostanze e lui favorevoli, idee politiche e grandi sostegni della critica lo hanno reso icona della prima metà del 900. idem con Beecham, a cui si aggungono le numerose incisioni EMI che lo hanno reso famoso mondialmente.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Sulla letteratura vittoriana: certo in ogni periodo storico/letterario coesistono tante anime e tante varietà, tuttavia, secondo me, non si deve confondere la "cronologia" con l'estetica. Forse mi sono spiegato male: il mio riferimento "vittoriano" era riferito ad una certe visione estetica (quindi una condivisione di valori, etica, costumi), non al periodo storico (in cui convivono tendenze estetiche anche contrapposte). Il paragone con Beecham deriva, secondo me, dalla garbata e rassicurante superficialità del direttore inglese, in ciò molto affine alle ipocrisie "vittoriane", ossia a quella visione estetica dominante, senza tener conto delle controtendenze. Un appunto sulla Roma neroniana: la leggenda nera sulle presunte malefatte del l'imperatore, in realtà, è frutto, più che altro, della visione che noi abbiamo del periodo, deformato dalle letture degli storici dell'"opposizione senatoria", tra cui il sommo Tacito. In verità, analizzando bene la storia di Roma, si nota chiaramente come il potere imperiale venne interpretato essenzialmente in due modi: chi, come Augusto, ha lasciato l'illusione della legalità repubblicana, mantenendo i riti e le carichi (pur svuotate di significato) e preservando un potere formale al senato; e chi, come Nerone o Caligola, che ricevettero un'istruzione filosofica di tipo orientale (che concepisce come legittimo il potere assoluto), smascherarono detta illusione e tennero in nessun conto quei vuoti rituali. Naturalmente sia Augusto che Nerono gestirono il potere nello stesso modo, assolutistico, ma il primo lasciò l'illusione repubblicana (l'impero romano non si definì mai "impero", ma sempre repubblica), il secondo, in modo più realistico, interpretò il suo ruolo senza ipocrisie. La storiografia che ci è rimasta - tutta ascrivibile al partito "senatorio" - ha dipinto gli imperatori del secondo tipo come despoti o pazzi (in contrapposizione con l'ottimo Principe: Augusto) e ne ha deformato il governo. Caligola che nomina il suo cavallo senatore, non è un folle, tutt'altro: egli con quel gesto sancisce l'importanza nulla del senato, nominando persino un cavallo tra i suoi membri. Nerone fu uomo di cultura, istruito da Seneca, poeta e scrittore, urbanista e buon governante e molto meno feroce con gli oppositori di quanto lo fu Augusto. Non fu quella macchietta che è divenuto ggi nell'immaginario collettivo, che, con la cetra in mano, guarda Roma bruciare.

Tornando a Beecham: trovo quel Messiah molto pesante, il più pesante dell'intera discografia. L'orchestrazione non è semplicemente fuori stile, è goffa, brutta, pompieristica (con piatti, timpani, ottoni, cannoni) e Beechm non fa nulla per alleggerirla, ma ne esaspera la morchiosità con una lentezza estenuante, tagli interni, scelta di voci discutibile (Vickers in primis). E pensare che negli stessi anni Scherchen incideva un Messiah integrale e rispettoso dello spirito handeliano, ancora oggi di sicuro riferimento.
I parallelo Beecham/Toscanini è forzato e frutto dei medesimi pregiudizi che fecero del direttore inglese un mito in patria. Ma i due restano su due livelli differenti (anche di approfondimento).

Francesco Benucci ha detto...

tornando al discorso su roma: certamente Nerone è stato un uomo di grandissima cultura, poeta e musicista: aveva dato vita a veri e propri agoni canori, scriveva epigrammi e si era circondato di due grandissimi intellettuali: petronio e seneca. la parte davvero felice del suo regno e il quinquennio felix. dopo la morte della madre è stato tutto una degenerazione costante. io non lo voglio ovviamente considerare un pazzo che suona la cetra guardando roma che brucia, ma neanche voglio giustificare le sue azioni folli costruendo dietrologie politiche.

ovviamente Toscanini e Beecham si collocano su due piani molto lontati. e anche la loro immagine in un certo senso è altrettanto diversa. eppure entrambi hanno rappresentato un momento assai felice nella storia musicale del proprio paese. indipendentemente dalle loro qualità musicali e dalle loro diversità hanno rappresentato nei confronti della loro patria i direttori di riferimento, i Maestri.