sabato 17 luglio 2010

Le cronache di Carlotta Marchisio - Il barbiere di Siviglia alla Scala, seconda recita... nessuna novità!

Credevamo di esserci perse per Milano, lunedì sera, la sottoscritta e un paio di amiche sue. Abbiamo inizialmente preso le distanze da ogni responsabilità personale e incolpato sull’unghia la topografia, tant’è che ci siamo da subito chieste se per beffa del caso via Marconi fosse stata trasferita in via Dante e la stessa Via Dante, con una rotazione improvvisa di novanta e passa gradi, avesse preso il posto di via Marconi; quasi che il “Piccolo Teatro”, in pausa estiva, avesse deciso di ospitare una tantum un’opera scaligera. In altre parole, ci siamo domandate se questo Rossini in cartellone fosse stato epurato dal canto e rappresentato in forma di prosa, un po’ come successe nel ’92 al “Teatro delle erbe”. Purtroppo, va da sé, non c’è stato alcuno sconvolgimento cartografico né tantomeno una perdita improvvisa d’orientamento da parte nostra. Eravamo alla Scala e abbiamo assistito alla seconda recita del Barbiere di Siviglia…
Partiamo dai cantanti al debutto in questa produzione.
Inutile dirlo, l’artista che più di ogni altro ha catalizzato e continua a catalizzare l’attenzione su questo Barbiere è Juan Diego Florez, che mancava dal Piermarini dal 2007, eccezion fatta per un recente recital di successo. Diciamo subito che la prova del tenore peruviano mi è parsa buona, di gran lunga al di sopra di quella dei colleghi, vuoi per doti d’interprete, vuoi per sostrato tecnico non indifferente. Se il volume non è certo torrenziale, la zona centro-acuta/acuta rimane senza dubbio terreno di elezione, ancora fertile, per muoversi con disinvoltura sul pentagramma, tanto che le due puntature (chiusa della cavatina e del rondò) sono state eseguite e tenute con sicurezza degna di nota. Il fraseggio, pur inficiato dal diffuso “belato” di tanti tenori rossiniani del momento (Brownlee, giusto per rimanere nella stessa produzione, ne esibisce uno ancora più marcato), che finisce per produrre qualche intoppo nella potenzialità di colorare i versi, più che variegato è credibile ed efficace, poiché ben si addice alla parte dell’innamorato d’alto lignaggio. Insomma, complice la già menzionata dote scenica, il personaggio del Conte iberico viene fuori bene. Resta però qualcosa da dire sui segni d’usura, tipici del procedere della perfida linea del tempo, che tuttavia nulla vanno a togliere ai meritati applausi ricevuti. Sia chiaro, la forma fisica non c’entra nulla (gli ammiratori di Juan Diego possono con buona pace risparmiarsi la mano al cuore…). Ciò che non mi ha convinto appieno riguarda, con ogni evidenza, il coté vocale. Innanzitutto la respirazione. Nella cavatina e in particolare appena più avanti, nella canzone “Se il mio nome saper voi bramate”, il tenore è stato più volte in debito di fiato («che fido v’adoro» - «che sposa vi bramo»). Nelle ascese legate (la salita su «aurORA» o su «lo stral»), invece, capita che la voce si smagli leggermente e appaia un po’ tirata (a differenza, come detto, degli acuti di forza e a piena voce, ineccepibili), mentre al centro non è esente da qualche lieve stimbratura e calo d’intonazione, poco rilevanti ma da mettere in ogni caso in cronaca. Nel complesso, una prova considerevole.
Ci si chiede poi quali siano i motivi che spingono una sovrintendenza a scritturare dall’Ucraina cantanti censurabili come il Don Basilio di Alexander Tsymbalyuk. La voce è da vero basso slavo, che tradotto in termini contemporanei significa cavernosa e intubata. In alto non è mai a fuoco e per arrivarci il passaggio di registro è brado e risolto alla carlona. Nell’”aria della calunnia” i pochi passaggi con un minimo di ritmo vengono risolti con una piattezza di fraseggio che agghiaccia, mentre la lunga salita fino a «l’aria rimbombar!» è una sinestesia che rimanda immediatamente all’elettroencefalogramma di un comatoso. Un brutto momento, complice la pesantissima direzione di Mariotti.
Altro discorso per il veterano Alessandro Corbelli. Da parte sua ha invidiabili qualità attoriali che rivelano alla base uno studio approfondito e personale della resa scenica del “buffo”. Che sia la volta di Don Bartolo o di Don Pasquale, quando sale sul palco Corbelli è Don Bartolo o Don Pasquale. La mimica facciale rigogliosa di espressioni, l’intelligenza con cui pone la frase e la leggerezza sorniona del gesto ne fanno uno dei massimi interpreti di personaggi operistici di questa tessitura vocale. E però… Però c’è poco altro. Ed è per questo motivo che la sensazione l’altra sera è stata più quella di assistere a uno spettacolo di prosa che a uno di lirica. Perché non è accettabile che i recitativi vengano portati avanti senza pienezza di suono, senza un canto sfumato e modulato a seconda delle esigenze drammaturgiche del momento. Una gag all’opera diventa efficace se sa giocare con la miriade di variazioni potenziali che una voce impostata al canto può produrre. Altrimenti tanto vale acquistare un biglietto per “Il Pantalone impazzito” o “Le burle d’Isabella”, o per qualsiasi altra pièce della “Commedia dell’Arte”. Nell’aria del primo atto l’emissione, in quasi ogni zona del pentagramma, è apertissima, dal suono traballante, in special modo in acuto (evidenti segni di senescenza), mentre i gravi sono sonori ma ahinoi ancora parlati. Lo stesso Vassallo, che sul versante prettamente vocale è un Figaro volgare (pacchiani quegl’ «uno alla VOLTAHH» ripetuti nell’aria di sortita), spesso sguaiato in alto, privo di cavata e rotondità al centro e in basso (incredibile il primo duetto con Almaviva – “All’idea di quel metallo” – con interi versi scarniti, quasi mimati, da richiamare l’”effetto acquario”), presenta gli stessi problemi di Corbelli, anche più accentuati, nelle parti di raccordo.
Sugli altri cantanti si è già espressa l’amica Giulia, di cui condivido le riflessioni. Rimane tuttavia paradossale, ma pur degno di nota, che un solido comprimario come Ernesto Panariello (l’ufficiale) abbia il doppio della voce dei due tenori titolari.
La direzione di Mariotti ci è parsa ancora più ruvida della sera della prima, aggravata da un’orchestra in debito di protagonismo considerate le sparacchiate improvvise e impazzite dei corni e di quei fiati smorti, esagui e fissi (da pelle d’oca la svirgolata in tandem del clarinetto e del flauto nell’introduzione alla cavatina di Almaviva!). Il concertato nel finale primo è un suono indistinto, pesantissimo, senza sfumature, soverchiante tutti i cantanti, tanto da richiamare l’immagine di un indifferenziato preparato per polpette. Gelido e stopposo.
Un teatro prudentemente popolato di “incondizionali” ha espresso vivo consenso a tutti gli artisti, evitando il rischio di una seconda débacle che puntualmente non si è poi verificata. Ma uno spettacolo che regge appeso ai calzoni di un solo cantante e di un allestimento sulla soglia dei quarant’anni ci auguriamo sia di poco vanto per la direzione di un teatro come la Scala. E basti questo scambio di battute con un vicino di posto per rendere il senso ultimo del successo di questa produzione: «E’ davvero un brutto Barbiere». «Ha ragione, è il miglior spettacolo di questa stagione».


Gli ascolti

Rossini - Il barbiere di Siviglia


Atto I

Ecco ridente in cielo - Dino Borgioli (1929)

Una voce poco fa - Alda Noni (1951)

A un dottor della mia sorte - Carlo Badioli (1958)

Atto II

Ah! qual colpo inaspettato - Renée Doria, Alain Vanzo & Robert Massard (1960)

6 commenti:

Unknown ha detto...

Grazie per la recensione.
Aggiungo qualche scatto rubato prima e dopo la rappresentazione, e il momento dell'incontro con i fan: http://www.flickr.com/photos/xalira/sets/72157624483327890

pasquale ha detto...

Xalira belle foto

Enrico2010 ha detto...

Ho avuti alti e bassi con Celletti ma ultimamente lo sto rivalutando moltissimo.Era un uomo rude ma leale e teneva accesa la fiaccola dello spirito critico, a fronte del buonismo e del consenso organizzato imperanti.Quelli che hanno portato ai risultati che sappiamo.Fui l'ultimo a intervistarlo,per un lungo ciclo di 10 puntate intitolato "Nel salotto di zio Rodolfo".Non era né una jena né un pazzo,aveva le sue idee e le difendeva con coerenza.A microfoni spenti mi disse:"Ci siamo pizzicati...ma sei bravo,ne hai fatta di strada dopo quel Tancredi a Pesaro...".Diavolo d'un Celletti! Si era ricordato della prima intervista che gli feci , a Pesaro,dopo un Tancredi con la Valentini Terrani protagonista.
La lettera che avete postato in homepage page è molto bella.Non credo che Celletti sarebbe soddisfatto delle ultime stagioni a Martinafranca: alcune sono state una parodìa,un Festival del Malcanto.

Francesco Benucci ha detto...

scusate se cambio argomento: qualcuno ha qualche news sulla recente morte di Charles Mackerras?

Mauro Grondona ha detto...

Per Enrico: ti rispondo qui, a ridosso del tuo intervento, anche se "fuori sede".
Purtroppo mi sono perso quel ciclo di interviste.
Ma se tu, oggi, scrivi in questi termini di Celletti, può voler dire che i tempi sono maturi per un riesame critico, come penso che davvero occorra.
La forma di questo riesame secondo me dovrebbe essere quella del libro o del seminario di studi, più che una trasmissione o qualche intervento su di un blog, pur serio come questo. Ma tutto serve e va bene, intendiamoci.
Non so cosa ne pensiate, tu e l'ottima squadra del Corriere della Grisi.
In ogni caso, un caro saluto a tutti voi.
M

Giulia Grisi ha detto...

prima di tutto un saluto dalle vacanze.
secondo: piu che un riesame critico della fıgura di Celletti-per la quale basta ad ognumo la rilettura deı testı fondamentali-credo che occorra da un lato che parecchı fccıano ammenda cırca la caina fatta sul suo nome e che inalcunı luoghi ancora continua mentre dall'altro occorra domandarsı perche' sia avvenuta tanta damnatıo memorie.
ıl critıco severo e dura raccoglıe daı cantanti certe reazionı-e' chiaro.
Il punto credosia trovare il coraggio di guardare sin dove sıamo arrıvati nell'arte del canto dopo averne gettato dalla finestra ı pilastri su cui si e' sempre fondata-per sostituirvene dei nuovi che alla prova dei fatti non hanno retto.
L'odio per Cellletti ha coincıso con l'illusıone dı poter fondare ıl teatro d'opera su valorı dıversı da quelli in cui Cellettı credeva.
Ora sıamo qui a tavola con 'tre cocomerı ed un peprone! per dirla alla milanese-ossia a fare l'opera .....senza cantantı-ma con velıne soubrette attrıcı giullari dı ognı sorta e nulla funzıona.
Il riesame credo serva sulle nuove regole del gioco ed ıl loro fallımento....saluti