mercoledì 15 settembre 2010

Ermione di Gioachino Rossini - Opera Rara

Ermione, oggi, è entrata di diritto nel novero dei più alti e affascinanti capolavori di Rossini, eppure essa fu l’unico, vero insuccesso del compositore. Rappresentata per la prima volta il 27 marzo del 1819 per il Teatro San Carlo di Napoli, scritta per il pubblico più musicalmente progredito d’Europa – già avvezzo alle tante sfide e innovazioni che Rossini gli sottoponeva – interpretata dai più grandi cantanti dell’epoca (Colbran, Nozzari, David, Pisaroni) e dalla migliore orchestra italiana, non piacque. Cinque repliche (a cui ne vanno aggiunte altre due, ma limitate al solo atto I) sono poche, anche per un mondo in cui l’opera era anche prodotto di consumo e il teatro era vivo e vissuto. Questa volta il genio pesarese non venne capito, proprio in quella Napoli ove ottenne (e dove ancora otterrà) i suoi più grandi trionfi.

Opera complessa, certamente, e ambigua: dalla severa linea neoclassica – fedele, soprattutto nello spirito, all’Andromaque di Racine, da cui il bel libretto di Tottola trae ispirazione – ma pure esuberante di invenzione musicale, di furore belcantista e di ricchezza orchestrale. Rossini riserva un’elaborazione strumentale di insolita difficoltà accompagnata ad una linea vocale che coniuga un virtuosismo trascendentale (nel senso più autentico, così come inteso da Liszt) ad un incedere tragico di purezza canoviana. In questa sua creazione, l’autore spinse lo scardinamento delle convenzioni, ben oltre le capacità e le possibilità del suo pubblico: anche quello più smaliziato. Infatti pur se, formalmente, l’opera mantiene la sua scansione in numeri chiusi, essi vengono rivoluzionati dall’interno e il rispetto per le forme viene forzato come mai prima d’ora (si pensi alla Sinfonia con il coro, il grande finale primo, la particolarissima scrittura della protagonista – la cui Gran Scena non chiude l’opera, come era convenzione – il finale tragico e non risolutivo, l’uso del recitativo drammatico). Si comprende, dunque, lo sconcerto del pubblico di fronte ad una tale messe di novità. Rossini era ben conscio di aver scritto musica difficile, tanto da pronosticarne il successo e la giusta comprensione solo dopo la propria morte (parole profetiche!), ma allo stesso tempo amò quella sua sfortunata creazione – la chiamava il suo piccolo Guillaume Tell italiano – tanto da riutilizzarne talune parti in altri suoi lavori: nel semi pastiche approntato per Venezia Eduardo e Cristina, nella revisione della Donna del Lago, nella versione veneziana del Maometto II, nella sua revisione francese Le Siége de Corinthe, nella versione parigina di Zelmira, nonché nel progettato Ugo, re d’Italia. Tuttavia l’opera sparì e si dovette aspettare il XX secolo per una sua compiuta riscoperta: precisamente nel 1987 a Pesaro, nell’ambito del ROF, venne presentata l’edizione critica della partitura, curata da Philip Gossett. Spettacolo storico, indimenticabile per lo splendore del canto della Horne e dei protagonisti maschili (allora ancora una vocalità semi sconosciuta, in un mondo musicale che da poco stava riscoprendo la correttezza dell’autentico stile musicale rossiniano), quei Merritt, Blake e Morino che oggi sono oggetto – in certi luoghi della critica più o meno ufficiale – di inconcepibili ridimensionamenti, ma funestata dal disinteresse della bacchetta di Khun e dalla vergognosa esibizione di una Caballè più svogliata del solito, impreparata e sfasciata vocalmente. Di pochi mesi precedente l’unica edizione discografica ufficiale dell’opera, almeno sino ad oggi: diretta da un abbastanza ispirato Scimone ed interpretata da Merritt (quale Oreste e non il più adatto Pirro: scelta che non ho mai compreso), Palacio (al limite delle sue capacità), Matteuzzi, la Zimmermann e la Gasdia. Ad esse seguirono altre rappresentazioni che non si fanno certo ricordare per la protagonista (dalla sfasciatissima Caballè nell’88 all’improbabile Antonacci, dalla sgradevole Pendatchanska alla Miricioiu, sino alla Ganassi del ROF 2008), mentre per i ruoli maschili si alternavano Merritt, Blake, Ford, Kunde. Da poco disponibile – almeno per il mercato anglosassone: da noi si dovrà attendere la fine di settembre – la nuova edizione discografica pubblicata da Opera Rara. Uscita più che gradita – inutile qui ribadire i tanti meriti della piccola etichetta inglese, nell’esplorazione di un repertorio per lo più dimenticato o sottovalutato – ma che non convince appieno. Per diversi motivi. Innanzitutto, un piccolo rilievo di carattere “commerciale”: Opera Rara abbandona la consueta eleganza dei suoi cofanetti, a favore di un più agile e leggero box (di quelli a tasca, con apertura su di un lato) ove si infilano libretto e cd. Immagino per motivi legati ai costi produttivi. Purtroppo il tutto avviene a prezzo invariato, sicché l’unico vantaggio si svolge a favore della casa discografica. Ma a parte il fastidio per questo nuovo formato (di costo uguale al precedente, ma di qualità molto più bassa), ben altri sono i problemi. Questa Ermione è compromessa da due fattori: la direzione d’orchestra e il tenore che interpreta Pirro. Ora, che David Parry fosse un direttore mediocre, non è scoperta di oggi, ma mai come in questa incisione è risultato piatto, pesante, chiassoso: pure qualche nostrano battisolfa potrebbe dargli lezioni di stile e sensibilità. E se questo tipo di direzione può essere tollerata con Pacini o Mercadante e già diventa poco sopportabile con Donizetti, è intollerabile per un’opera che ha nell’elaborazione orchestrale uno dei suoi aspetti più particolari. Parry compromette la densa scrittura rossiniana, le suggestioni beethoveniane, l’atmosfera drammatica: la Sinfonia, ad esempio, è un campionario di brutture, eseguita senza sfumature, con un coro sgangherato che strilla – ma dovrebbe udirsi fuori scena, come un lontano lamento di disperazione – in italiano ostrogoto, “Troja qual fosti un dì”; ma anche il finale I risolto in chiasso bandistico; o l’accompagnamento svogliato e rinunciatario delle arie. Insomma per dirigere Rossini – in particolare quello napoletano e francese – occorre un grande direttore, avvezzo alla musica sinfonica e profondo conoscitore dei compositori di area austro tedesca. Peccato che Abbado si sia dedicato alle sole opere buffe! Ma oltre a Parry, l’altro peccato mortale di questa incisione è il Pirro di tale Paul Nilon. Cresciuto nel vivaio del comprimariato di Opera Rara, è stato sconsideratamente promosso ad uno dei ruoli più difficili del Rossini serio (forse quello più impegnativo insiema all’Antenore di Zelmira). Nilon, semplicemente non ha la voce, la tecnica e il carisma per affrontare la parte. Manca di sicurezza, pasticcia la coloratura, fatica negli acuti (dispensati con parsimonia inusitata, persino il Kunde del 2008 al ROF era in questo più generoso) e i bassi risultano sgradevoli. Manca soprattutto di nobiltà e fierezza. “Balena in man del figlio” è un disastro: si dimentichi subito Merritt (paragone insostenibile per chiunque: soprattutto quello del recital The Heroic Bel Canto Tenor) e le sue spericolate salite al sovracuto (sino ad uno spettacolare Mi interpolato nella cadenza finale) o le bronzee discese baritonali; si dimentichi pure Kunde, Ford e persino Palacio! L’aria è un tour de force di 10 minuti, che mostra tutta la potenza del re, nella sua sfida orgogliosa alla Grecia: sontuosa come un’aria barocca, elaborata e complessa, più di qualsiasi altra aria rossiniana per baritenore. Nilon, invece, ne fa lo sfogo isterico di un sovrano debole ed effemminato, infastidito da richieste che non vuole, per mero capriccio, soddisfare. Dov’è l’orgoglio dell’eroe? La sua forza? La sua superbia? La sua rabbia? Non certo nela voce di Nilon: già la prima discesa al basso è avventurosa, la coloratura è imprecisa e pasticciata, i fiati corti (nella seconda sezione arranca non poco, grazie anche ai tempi assurdamente lenti imposti da Parry), gli acuti faticosi. Si aggiungano poi variazioni prudentissime e piane e cadenze che mai Rossini avrebbe potuto scrivere, talmente sono brutte e fuori stile. Pessimo, senza scampo. Ed è un peccato, visto che il resto non è affatto male: l’Oreste di Colin Lee – pur non facendo, ovviamente, dimenticare Blake – è efficace, abbastanza facile nell’acuto (anche se talvolta in odore di falsetto), evitando fastidiosi effetti zanzara, sicuro nella coloratura (sgranata e precisa) e nell'intonazione; discreto il Pilade di Bulent Bezduz; accettabile l'Andromaca di Patricia Bardon; dignitosi i comprimari, fatta salva la pronuncia (perfettibile per tutti). Una menzione particolare a Carmen Giannattasio che veste i difficili panni della protagonista: Ermione è parte atipica, ibrida, costruita sulla particolarissima vocalità di Isabella Colbran, oggi sfuggente. La scrittura si caratterizza sia per un uso spregiudicato dell’ornamentazione (tra le più complesse della storia dell’opera) sia per l’utilizzo del recitativo declamato e drammatico. Spesso – per un fraintendimento formale – i ruoli Colbran vengono affidati alla voce di mezzosoprano, eppure essi restano schiettamente sopranili: certo di un soprano dalla voce corposa e drammatica, sicura in acuto e dai centri solidi. La Giannattasio, tutto sommato, ne esce a testa alta (pare nettamente migliorata rispetto alla poco riuscita Parisina): certo non è la reincarnazione della Colbran e non tutto funziona alla perfezione, ma è, ad oggi, l’Ermione meglio cantata. Più sicura negli acuti e meno sguaiata della Ganassi e della Antonacci, più solida della Gasdia e infinitamente migliore della Caballè (la Giannattasio, a differenza della diva catalana, non farfuglia la coloratura, non spiana l’ornamentazione, non strilla gli acuti, né si rifugia in comodi ed inutili “filatini”, per non parlare del registro basso e centrale, sonoro e non traballente, al contrario della “roba” che usciva dalla bocca della Caballè). Emblematica la Gran Scena (anche se resta insuperata quella interpretata dalla Cuberli in un vecchio recital): anche se, purtroppo, viene accompagnata in modo semi dilettantesco da Parry (sentire la bandaccia fuori scena nella sezione centrale), la Giannattasio ben scolpisce il recitativo iniziale, mostra qualche difficoltà nel successivo arioso (soprattutto nella discesa ai bassi, molto sollecitati nel brano), ma la voce non perde mai di consistenza e di messa a fuoco; supera senza troppi problemi il diluvio di coloratura del cantabile, traccia con accento attendibile i continui sbalzi d'umore della principessa sino all'esplosione finale (dove tuttavia qualche affaticamento nell'estremo acuto è percepibile). Un ultimo accenno alla qualità dell'incisione, che è decisamente al di sotto degli standard Opera Rara (con evidenti problemi di bilanciamento e di equalizzazione: soprattutto nelle alte frequenze). Alla fine un'occasione sprecata: un'incisione che avrebbe potuto essere di qualche interesse (almeno per la protagonista) è stata compromessa da una direzione inadeguata e da scelte di cast incomprensibili (qualcuno migliore di Nilon, non penso fosse impossibile trovare: persino l'usurato Kunde, in studio e nella comodità della sala d'incisione, avrebbe potuto far meglio).



6 commenti:

Semolino ha detto...

La Giannattasio, tutto sommato, ne esce a testa alta
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gli ascolti che seguono bastano a smentire quanto riportato quì sopra!

http://www.youtube.com/watch?v=KRAbC4P4koQ

http://www.youtube.com/watch?v=ivrFUomRSVs

http://www.youtube.com/watch?v=3oz6q7RY9sM

http://www.youtube.com/watch?v=c6P42Uauj54



Le agilità sono uno sgallinacciamento meccanico, aspirato e ridicolo, si tratta di una vociuzza da paggio Oscar, tutta tubata in basso, stretta fra gola e bocca nei centri alla Barbara Hendricks, l'accento è quello di una soubrettina che si sforza a giocare al soprano tragico : ridicola!!!.
Il tenore è di uno stimbrato osceno, legnoso, forzto e aspro di gola.
Lei pigola e gridacchia senza ritegno, gli acuti sono uno strazio.
Non sa modulare e non ci sono né vere mezzevoci, né vere variazioni dinamiche ma sono bisbigli sottovoce.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Bah, Semolino...io ho sentito l'incisione e, ribadisco, la Giannattasio tutto sommato ne esce a testa alta. Ovviamente il ruolo è difficile e ibrido (forse adatto alla sola voce della Colbran, ma purtroppo non l'abbiamo sentita), ti do atto che il duetto finale è il punto meno riuscito dell'interpretazione della Giannattasio (e del tenore, che lì fatica non poco: ma già ho scritto che Lee non è certo irreprensibile). Che non sia la nuova Colbran non ci piove, che abbia i suoi problemi (in una parte gravosa come poche) anche, ma chi l'avrebbe cantata meglio? Non la Gasdia certamente (con la vocina aguzza e sbiancata), non la Antonacci o la Ganassi (mezzosoprani). Sicuramente non la vergognosa Caballè di Pesaro. Sono forse meglio i centri e i bassi della catalana, evanescenti e pieni d'aria, oltre che gutturali e sbracati? O gli acuti strillacchiati? O la dizione incomprensibile? O le agilità spianate e riscritte? Siamo seri Semolino... Certo che se si parte dal presupposto che dopo i cilindri di cera è tutto uno schifo...inutile discutere! Ma mi domando, perchè ascoltare quello che è stato inciso dopo il 1940, se si ha già il preconcetto che è robaccia?

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ps: le agilità non sono affatto sgallinacciate, sono sgranate e precise!

DavideC ha detto...

Fermo restando che ad Opera Rara e al suo staff bisognerebbe ergere un monumento solo per l'attività di "rispolvero" che svolgono da anni (anche se si limitano a togliere la polvere, senza poi passarci il lucido, ché "rare" sono le edizioni da antologia che ne escono fuori), concordo sulla sostanziale mediocrità stilistica di David Parry. Sebbene abbia sempre a disposizione ottime orchestre britanniche (PO e LSO di solito, non so in questo caso), fa sembrare tutti gli autori uguali (Meyerbeer-Donizetti-Rossini-Pacini); mica perché gran parte degli storici musicali (certo nell'intimo veristi) ne fanno un unico agglomerato sotto l'etichetta "Bel Canto di primo Ottocento" hanno tutti lo stesso stile! Diamine, lo sapete meglio voi di chiunque. Tra l'altro la musica che ne viene fuori è un ibrido, un'accompagnamento per lo più piatto insapore e nei climax al più tambureggiante che avvicina Rossini al John Williams di Star Wars! Ecco perché io considero un delitto che Claudio Abbado si sia limitato al buffo, se tanto mi dà tanto se ne evince che non apprezzi il serio, mentre venero Muti per le sue tre perle (quelle sì da antologia). Qualcuno mi spiegherà perché i celebratissimi Toscanini, Karajan gli altri dell'Olimpo fossero affascinati solamente dalle Ouverture (se non le avesse scritte era meglio, scherzo ovviamente) e abbiano IGNORATO COMPLETAMENTE certi capolavori assoluti; aspettare il 2003 perché Moise et Pharaon abbia avuto una degna rappresentazione è roba che grida vendetta! Pensate con i cantanti degli anni Ottanta che razza di portento si poteva imbastire! La Gazza Ladra conta all'attivo solo DUE edizioni (Gelmetti & Zedda) ed è opera che mangia i risi in testa al Barbiere... Non parliamo del Donizetti extra Lucia (pure questa OGGI trascuratissima e più amata in America che qua in Europa, boh) altrimenti m'incavolo... Se i direttori d'orchestra fossero alla mercé dei labels o dei direttori artistici dei teatri capirei, ma siccome spesso SE VOGLIONO possono imporre il loro gusto (Muti-Cherubini, Chailly-Schumann, Dorati-Haydn, tutti autori che, conti alla mano, non fanno cassa come Mozart & Co.) allora fatico a comprendere tutte queste assimetrie e differenze di trattamento fra tutto il ventaglio delle opere più belle della storia...
Saluti a tutti
Davide Contato

Semolino ha detto...

il duetto finale è il punto meno riuscito dell'interpretazione della Giannattasio
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la Giannattasio è vociuzza infelice supportata da tecnica becera, è oscena già di per se per limiti vocali e tecnici, figuriamocela alle prese con Ermione, il risultato è lì da sentire. Ha fatto diversamente dalle altre, ma non per questo ha fatto meglio. Il "metodo" di emissione e respirazione della Giannattasio è, alla base, molto meno ortodosso, e più grottesco, di quello che fù quello di una Caballé, e persino del pigolare di una Gasdia, tutte "cantanti" comunque censurabili insieme con l'ingolatissima Antonacci. La Ganassi poi è tutta un rigurgito informe di suonacci ingolfati, fibrosi, duri, fissi e sguaiati.

Insistere nel dire che io sono fra quelli che pensa che dopo i cilindri non si è fatto niente di valido è mala fede, lo sai benissimo che amo molto anche alcuni cantanti del dopo guerra. Sono pochi è vero, ma la realtà è quella che è e di vere voci per i ruoli Colbran non ce ne sono state.
Avrebbero potuto esserlo, in altro contesto culturale, la Stignani e la Matzenauer e in primis la Onegin soprattutto per l'estensione della sua voce tanto nel grave quanto nell'acuto.

Per me la sola Ermione accettabile e non dico a posto sotto tutti i punti di vista, dico solo ACCETTABILE è stata la Miricioiu. La Cuberli, purchè con voce non adatta (la cavata e il colore di Ermione è quello della Onegin e non quello della Cuberli) ha cantato un bellissimo finale, un poco algido ma vocalmente elegante e corretto nell'emissione, anche se carente nel registro grave.


PS : e non parto da nessun pregiudizio altrimenti non avrei preso abbagli come quello della Garanca, per limitarmi solo al più celebre.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh, caro Davide. poni interrogativi interessanti. Procederei con ordine:
1) Parry, anche in questo caso, dirige la LPO, ma non la sfrutta per nulla: è chiassosa, rumorosa e sgraziata, priva di sfumature (con quei piatti scroscianti, i tamburi, gli ottoni che spernacchiano). Davvero più adatto a Star Wars che al Rossini napoletano.
2) Effettivamente Parry appiattisce tutto e mette in un unico calderone Pacini, Donizetti, Rossini, Meyerbeer, Mercadente...ma questo credo dipenda dall'atteggiamento tipicamente anglosassone della semplificazione delle diversità alla più rassicurante categoria del "pittoresco" garbato e inoffensivo. La maggior parte dei direttori inglesi (Beecham compreso) ha sempre avuto la tendenza a uniformare tutto e tutti (sotto l'algida eleganza distaccata dello spirito british).
3) Purtroppo Abbado si è concentrato sul solo Rossini buffo, e visto i risultati, è un vero peccato: ma purtroppo ancora si guardava con sospetto a lavori in cui si riteneva (erroneamente) che l'orchestra dovesse limitarsi ad accompagnare i cantanti (le opere napoletane di Rossini sono capolavori di elaborazione orchestrale).
4) Il mancato incontro tra i grandi (da Toscanini a Karajan) e il Rossini serio, deriva da condizionamenti storici: semplicemente quella fetta di repertorio non era conosciuto, nè si avevano gli strumenti adatti per riproporlo secondo lo stile corretto. In particolare credo che i direttori d'area tedesca avrebbero potuto dare prospettive inedite al Rossini francese: penso ad un Tell diretto da Karajan (a patto di non fargli scegliere i cantanti: prima di ritrovarsi con un Arnold/Vickers).
5) Circa le occasioni mancate...beh, ve ne sarebbero da riempire 10 post!