domenica 5 dicembre 2010

I giorni della Valchiria - Seconda giornata: atto II

Così scrive la nostra Giuditta Pasta:


Dopo il mondo puramente umano del primo atto in cui l’unica traccia di divinità è quella del tuono di Donner che rintrona sopra la testa del fuggente Siegmund in mezzo alla tempesta, il secondo atto ci introduce in un mondo più complesso. Già lo spunto degli ottoni verso l’alto all’inizio del preludio è appesantito dal dolore degli archi che intervengono subito per intonare il motivo dei Wälsung musicalmente portato al limite della disperazione. I contrabassi marcano il motivo del persecutore Hunding mentre la coppia incestuosa non arresta la sua fuga; gli ottoni tentano più volte di spiccare il volo e, sopraffacendo finalmente sia la rabbia del marito tradito sia la corsa dei fratelli innamorati, l’intera orchestra si lancia bruscamente in un battito monoritmico che unisce l’accento bellico del motivo delle valchirie ed il motivo di Hunding, a sua volta così simile alla martellata dei Nibelungi sotto il giogo di Alberich. Il mondo che si apre all’inizio del secondo atto è un mondo di una commistione fatale dell’umano col divino, della perdita di ogni base sia per gli umani sia per gli dei, di un imbroglio che risulta tragico per entrambi. Non è uno spazio duale. E’ uno spazio essenzialmente misto, incatenato dove, da un lato, l’impotenza umana combatte la volontà divina proprio con questa sua impotenza, e dove, d’altronde, la potenza divina fatica ad attenersi al rigore della propria volontà.

Mentre un Fritz Reiner a San Francisco, un Erich Kleiber a Buenos Aires o ancora George Szell al Met e Rudolf Kempe a Londra scelgono un tempo ed un accento uniformemente veloce ed agitato per il preludio, marcato dalla sola indicazione “Heftig” (“veemente”), spetta a Furtwängler distinguersi con il semplice merito di dare risalto a un sol tratto: con l’orchestra della Scala nel 1950 il grande direttore tedesco riesce ad enfatizzare, seguendo il solito tempo energico, il gemito dei violoncelli che si addenta come un'eco con il motivo dei Wälsung nei violini, un minimo risalto che pure dipinge con insuperabile chiarezza la pena dei fratelli. Invece a Bayreuth l’elettrizzante Karl Böhm conduce l’orchestra a una tale intensità che, quando verso la fine del preludio l’orchestra si riunisce nell'uniritmico palpito bellico, durante il selvaggio arpeggio degli archi i loro attacchi diventano un vero gracchiare dei sacri corvi.
Il preludio passa all’appello di Wotan a Brünnhilde “Nun zäume dein Roß, reisige Maid”, corto brano vocale che pure dimostra subito se l’interprete di Wotan è “all’altezza” della tessitura abbastanza alta in cui gravita spesso questo ruolo di dimensioni impossibili (non da ultimo per l’estensione temporale). Come un semplice esempio positivo servirebbe il Wotan di Herbert Janssen, metallico e virile sia nel 1940 a Buenos Aires sia nel 1944 a New York. Emette acuti risonanti che nel caso di Wotan vanno fino al Fa ed in cui si esprime così spesso l’esplosione emozionale del dio nel lungo monologo. Penso a “Götternot! Endloser Grimm! ”, “Fahre den hin herrische Pracht” ed il successivo “So nimm meinen Segen, Niblungensohn!” o ancora il Fa alla fine del secondo atto. Hans Hotter dimostra con le sue incisioni del ruolo dal 1935 al 1965 di essere un cantante di grandissima preparazione tecnica e, accanto a Janssen, forse il più grande Wotan. Se gli rimproveriamo di avere attirato progressivamente una certa chiusura del suono, non si può negare che in ogni periodo della sua carriera è comunque stato in grado di affrontare la parte di Wotan senza compromessi vocali a cui si rivolgono tantissimi interpreti del ruolo per mascherare i loro difetti vocali con effetti drammatici, alla fine non dimostrando altro che i medesimi difetti vocali, perché Wotan è un ruolo che è assolutamente (in ogni caso, più che tanti altri ruoli) chiuso ai “trucchi” extra-vocali. L'Hans Hotter del 1935 intona il racconto del dio con un accento implorante che rimane il tono “portante” dell'intero monologo. Herbert Janssen è l’incarnazione stessa di un dio angosciato che diventa tanto furioso quanto è trepidante per la sua sorte. Sicuro e pieno in alto e fraseggiante con grande varietà nel centro, dimostra solo qualche problema con le discese nei gravi. Un cantante che vorremmo inoltre menzionare è Carl Braun di cui l’incisione del monologo nel 1914 ci permette di charire certi punti discussi e discutibili circa il canto wagneriano. Benché nel caso di Braun si tratti di quel famoso “Bayreuther Stil”, radicalizzato ed applicato in assoluto al repertorio non solo wagneriano da qualche tempo (ma già abbastanza “canile” ed “abbaiante” nelle registrazioni dei cantanti del Bayreuth di Cosima Wagner…), quello che distingue un Braun dai tanti “specialisti” wagneriani attuali è l’omogeneità nell’emissione e la collocazione del declamato integralmente nella voce gestita da una tecnica che lo rende capace di accentare in diversi modi e di legare. Nessuna traccia di quegli effetti extra-vocali che vanno considerati come il non plus ultra del Wagner “attuale”, e neppure di quell’intonazione distrutta, della voce spoggiata ed un’emissione senza principio che i grandi wagneriani dei nostri giorni hanno elevato al rango di loro “tecnica”, sempre modificabile a piacimento…
E’ il grido di battaglia con cui Brünnhilde risponde all’appello di Wotan all’inizio del secondo atto che ci attesta esplicitamente una cosa: con l’unico declamato (en plus gestito da un’emissione discutibile) non si può fare una buona Brünnhilde. L'“Hojotoho”, introducendo il personaggio secondo me più importante e più complesso della tetralogia, richiede una flessibilità acrobatica, saltando dal si3 al si4 e dal do4 al do5 oltre un lunghissimo trillo su fa#4 che prepara un altro si4. Quel si4 Brünnhilde deve tenerlo su due ottavi in forte, sostituirlo in seguito da un si3 ed alla fine fare un salto dal si4 al si3. Nella sezione di mezzo (“Dir rat’ ich, Vater”) canta nel centro e centro-grave (fino al re#3 e mi3), permettendo anche di prevedere come suonerà nel piccolo monologo dopo l’uscita di Wotan (“So sah ich Siegvater nie”) e soprattutto nella scena dell’Annunzio della Morte di cui la prima lunga sezione gravita esattamente nel centro e scende ai gravi estremi. Una delle prime registrazioni del “Hojotoho” (1903) appartiene a Johanna Gadski, cantante affascinante ed inoltre di gusto molto moderno. Voce ugualmente risuonante in ogni registro, con un centro dal timbro caldo, acuti taglienti e nel registro grave suoni di petto applicati senza un’ombra di esagerazione. Nella salita dal si3 al si4 e dal do4 al do5 adotta un portamento, senza insistere sull’acuto, mentre un’Astrid Varnay, eseguendo lo stesso passaggio, salta sugli acuti, senza veramente salirci, pigolandoli una volta arrivata. A differenza della Gadski che invece attacca con voce piena il si4 dopo il trillo e scende sullo stesso fiato al si3, facendo anzi un portamentone molto bello (e stilisticamente giusto visto il contesto) sull’ultimo “Hojoho”, gli acuti della Varnay risultano ridotti rispetto al volume impressionante del suo centro e centro-acuto. Anche una Birgit Nilsson sarebbe da confrontare con la Gadski quando arriviamo alla sezione di mezzo, che la Nilsson intona con il suo centro e centro-grave di molto minor fascino rispetto ai suoi acuti, che la grandissima cantatrice svedese attacca con incredibile precisione, senza portamento, con un timbro di puro metallo ed un volume assordante. Audacissima e piena di energia Marjorie Lawrence a Buenos Aires con Erich Kleiber. Salendo sui si4 e do5 con un portamento focoso e vertiginoso, preferisce attardarsi non con un suono acuto liscio, ma con un grido bellico che pure si distingue completamente dai pigolamenti di una Varnay, perche nel caso della Lawrence questi gridi fanno parte dei suoni che lei emette sul fiato ed in maschera, con un’intenzione artistica-musicale che viene secondata da una solida tecnica, mentre Varnay non fa altro che dimostrare i suoi difetti vocali. Peggiore della Varnay la prestazione in studio con Furtwängler di Martha Mödl che non ha né una voce generosa né dei veri fondamenti tecnici. Canta con voce soffocata, emissione penosa, con acuti piccoli sia causa delle qualità naturali del mezzo sia causa mancanza di sostegno e problemi nel secondo passaggio. Invece Frida Leider è la perfetta incarnazione della valchiria sia grazie al suo timbro giovanile ed il fluidissimo fraseggio sia per la perfezione tecnica davvero ammirevole e che le permette di eseguire sul fa#4 il più impressionante e forse l’unico vero trillo di tutta la discografia del “Hojotoho!”. Forse solo per la maggior ricchezza del timbro di oro puro della Flagstad la cantante norvegese potrebbe avere una prevalenza sulla collega ebrea tedesca. Mentre Flagstad dimostra una voce aurea dalla prima nota all’ultima nel 1936, sicurissima in ogni passaggio dell’acrobatico brano in questione, nel 1950 alla Scala è già la matrona che canta la giovane valchiria con un mezzo ormai non più così solido riguardo sia il timbro che il sostegno. Un anno dopo, a Ginevra, un soprano austriaco abbastanza giovane opera un vero miracolo: salendo con un portamentone saturato sul si e sul do, li tiene con voce letteralmente straripante. Il nome della cantante è Gertrude Grob-Prandl. Malgrado la qualità della voce in sé nei suoi acuti crei un impatto drammatico travolgente, la tiepidità della gestione del centro dà al fraseggio della Grob-Prandl un sapore neutrale che è una delle difficoltà che incontrano le Brünnhilde nel monologo “So sah ich Siegvater nie” e l’Annunzio della Morte.
Ma prima di passare al lato più “grave” di Brünnhilde e aggiungere riflessioni sulla natura vocale-drammatica dei fratelli fugaci fuggenti, dobbiamo fermarci sul personaggio che nella Valchiria appare solo nel secondo atto, Fricka. La dea suprema è sicuramente uno dei ruoli più “cantabili” dell’intero repertorio wagneriano. Con frasi che alternano recitativi e passaggi cantabili Fricka mostra una grandissima vicinanza all’accento e alla melodia propriamente italiana. E’ un ruolo che nessun concetto declamatorio può redimere. Espandendosi nella modesta tessitura da si2 a sol#4, Fricka non rappresenta un ruolo particolarmente difficile, non fosse che deve essere cantata esprimendo il carattere inflessibile e velenoso del personaggio. E’ così che nel 1935 Margarete Klose incarna una Fricka che assomiglia molto alla sua concezione del ruolo di Ortrud: è una dea insinuante e dimostra perfettamente la sua tecnica che stabilisce una sintesi fra declamato e legato. Invece Rise Stevens incarna una Fricka sontuosissima, piena nei gravi, autoritaria, aggressiva. Non incontra alcun problema con la tessitura ed avalla il ruolo con il suo fraseggio appassionato e la sua voce generosa. Christa Ludwig, cantante di invenzione infinita e grandissima personalità, dimostra ancora una volta, nella celebre registrazione di Solti, di essere una maestra di tecnica e di musicalità. Anche se non possiede né il registro grave della Stevens, né il metallo della Klose, Ludwig è dolce durante il suo ingresso, diventa subito insinuante, poi velenosa, e lega le frasi anche nei passaggi dove tante altre ricorrono ad un fraseggio spezzato (a nome del giusto accento drammatico). Canta con insistenza ed una formidabile linea vocale su “Deiner ew’gen Gattin heilige Ehre” (frase che deve assolutamente essere cantata con il più perfetto legato!) e nel finale “Heervater harret dein” esprime con esatta intuizione musicale sia la falsa tenerezza per la figliastra che la maligna gioia per il suo trionfo.
Rispetto a Fricka, Brünnhilde può sembrare un ruolo da vero contralto, visto le scese della valchiria al si2 ed al la2 alla fine del corto monologo “So sah ich Siegvater nie”. E’ un passaggio di irrepetibile semplicità fra le pagine wagneriane, condensando in qualche frase isolata la tristezza che sente la valchiria per dovere combattere al fianco di Hunding invece del suo prediletto Siegmund. E’ una tristezza che non è ancora quel dolore di compassione che Brünnhilde prova durante l’Annunzio della Morte e che le fa comprendere la conditio humana, separandosi così dalla sfera degli dei ancora prima della sua espulsione dalla squadra delle valchirie. Ammirevole qui il suono dorato della Flagstad nel 1936, con un registro centro-grave e grave di rara perfezione. Marjorie Lawrence con il suo timbro profondo dipinge una triste valchiria più commossa e di carattere più fragile della Flagstad, quest’ultima incarnando proprio un’amazzone di classica ed austera bellezza. Anche Helen Traubel ci affascina con la perfetta omogeneità e la pienezza del registro centro-grave e grave, da vero soprano drammatico e forse più mai udito da quegli anni nelle voci che si cimentano in questo repertorio… Nell’interpretazione di Astrid Varnay nel 1953 incontriamo elementi meramente declamatori, senza una vera coerenza nel fraseggio e con qualche effetto-difetto fuori vocalità che, per me, bastano per distruggere l’immenso impatto di questo monologo. Nel 1957 la Varnay è in peggiore forma, dimostra ancora una volta il suo timbro profondo senza avere nemmeno per scherzo la dignità e la qualità cristallina del suono di una Flagstad, Traubel o Lawrence. Non evita neanche quelle fissità che erano assenti nel 1953. Martha Mödl canta con più coerenza e semplicità e convince molto più della Varnay, ma alcuni suoni non vogliono proprio “uscire” e rimangono dei puri gemiti. E’ in questa sezione del secondo atto che arrivano i problemi anche per la Nilsson che esegue il monologo con incertezza di emissione e di intonazione nel centro-grave e grave che non sono mai stati il suo “point fort”. L’espressione è comunque molto calorosa ed incitata da una profonda inquietezza. Vocalmente le cose vanno meglio nel grave (la2-re3) grazie al sostegno dai suoni che la Nilsson emette di petto con maggior coerenza di stile e di sonorità, mentre più sopra fino al secondo passaggio le note rimangono prive di stabilità di emissione e intonazione.
Fritz Reiner accompagna e segmenta il monologo con una lucida alternanza fra contrabbassi e legni che, enfatizzando il motivo malinconico dei Wälsung nei contrabbassi, passa senza inutile esaltazione all’esplosione orchestrale che rievoca la fuga dei fratelli e la loro entrata. Invece Furtwängler tesse una polifonia discreta, interna che va dai soliti gemiti dei violoncelli, già uditi nel preludio del secondo atto, all’agitato dell’orchestra che come un’onda gigantesca butta i Wälsung sul palcoscenico. Sono i primi umani tra i tre che appaiono sulla scena nel secondo atto. Una sola ne uscirà viva: Sieglinde. E’ anzi l’unico personaggio che incontriamo in tutti i tre atti della Valchiria, ogni volta presentandosi in uno stadio diverso della condizione umana. Nel primo sono la volontà di evasione, la passione trasgressiva (o la passione per il trasgressivo) che prevalgono; nel secondo diventa tutta angoscia e delirio; nel terzo sale dal più profondo dolore e rassegnazione all’apoteosi della Speranza che le dà la forza di abbandonarsi alle tenebre della selva. Dirò direttamente che per me la più grande Sieglinde di tutti i tempi è Lotte Lehmann. Si potrebbe certamente discutere quale Sieglinde canti meglio il primo o il terzo atto, perche la Sieglinde (né il Siegmund) del primo atto è identica all’ambito vocale e drammatico di quello del secondo atto. Ma l’unica che secondo me riesce a tenere la perfetta misura vocale-drammatica in questo atto è Lehmann. Sicura e soprattutto prudente nel centro-grave (punto debolissimo per una grande, diversamente grande Sieglinde come Leonie Rysanek), riesce a legare in questa zona come nessun’altra. Sale al centro-acuto ed all’acuto con esemplare omogeneità e conserva il suo bellissimo timbro anche nei fortissimi, invece di diventare spinta o meramente centrata sulla corretta emissione degli acuti, come tante altre Sieglinde. Quello che trovo particolarmente affascinante nella sua voce è la perfetta fusione fra espressione e vocalità. Il suo timbro per sé è già saturato di espressività e di calore, è quasi un cuore caldo e palpitante che si fa voce. Non è mai esagerata, soprattutto nel secondo atto dove tante altre ricorrono a dei “verismi” per esprimere il delirio, inoltre resta ugualmente omogenea timbricamente e drammaticamente in ogni registro sia sul pianissimo che sul fortissimo. E’ una scena che dovrebbe evitare il più possibile delle esagerazioni sentimentali; Lehmann ci mostra che è esattamente con un’esecuzione misurata che la struttura di questa scena, così facile ad affogarsi in un misto irriconoscibile tra sussurri e grida, assume una conformazione chiara. Una chiarezza che la rende anzi più credibile e serve realmente di preparazione per la grande scena maestosa e tragica dell’Annunzio della Morte tra Brünnhilde e Siegmund.
L’Annunzio della Morte si distende come un immenso affresco della più grande nobiltà e trascendenza attorno allo stato tragico di un uomo destinato alla Morte e della gloria pesante della sua Annunziatrice. Dopo lo svenimento di Sieglinde appare un Leitmotiv che marca una svolta fondamentale, forse la svolta per eccellenza nell’intera tetralogia: il motivo del Fato che risuona lugubremente negli ottoni. E’ questo motivo, accompagnato da un palpito discreto, ma pomposo e quasi marziale nei timpani, che reintroduce Brünnhilde sul palcoscenico. In questa scena centrale l’intera prima sezione che si sviluppa in un permanente scambio di frasi fra lei e Siegmund gravita per entrambi in un registro marcatamente grave. Brünnhilde pronuncia le sue proclamazioni essenzialmente nella terza ottava ed in giù. Per esempio, a un certo punto scende e rimane per due ottave sul si2 (mi riferisco alla frase “Zu Wahlvater, der dich gewählt, führ’ ich dich: nach Walhall folgst du mir.”). Invece Siegmund genera le sue domande dal do3 in su (“Der dir nun folgt, wohin führst du den Helden?”). Di questa prima sezione abbiamo una registrazione fatta da Melanie Kurt e Jacques Urlus nel 1910 dove viene dimostrata in uno stato puro come si deve cantare l’Annunzio della Morte nella maniera gusta per potere creare un ambiente di suprema sublimità. Kurt è una forza divina inflessibile, impassibile nell’accento solenne e gelido al contempo. Jacques Urlus è fermissimo nel registro grave e centro-grave che rappresenta la zona nella quale Siegmund dà voce alla sua infinita curiosità e ad un funesto presentimento di una sorte già fissata. Nella registrazione di 1936 con Reiner da San Francisco (con un ampio taglio nel mezzo della lunga scena!) Lauritz Melchior dimostra un registro centrale e grave ancora più risonante e baritonale. Flagstad canta un’annunziatrice di immacolata purità, con un centro-grave ed un grave esemplare, qualcosa che manca a una Kurt che pure riesce a mascherare il difetto con la sua tecnica unita ad un’espressività ed un’intelligenza di stupefacente coerenza. La Brünnhilde della Flagstad non è priva di un tratto di malinconia simile agli angeli della pittura rinascimentale che contemplano tristemente il Cristo, anticipando gli eventi futuri. Neanche un solo suono inutile nello spazio strumentale di semplice maestà che stende Fritz Reiner con i musicisti dell’orchestra del Met. L’angelo e l’uomo avanzano entrambi con passi lenti e pomposi nel rito dell’Annunciazione, quasi con una qualità metafisica nello scambio di iconica formalità fra domanda umana e risposta divina. Ma quando il Siegmund di Melchior rifiuta quello che la forza divina gli impone, nella sezione agitata della scena Flagstad, invece di uscire della cornice canonica della sua epifania, diventa quasi una divinità manipolata dall’uomo di fronte all’insistenza insolente e l’irremovibilità di quel Siegmund che Melchior rende autenticamente – grecamente – eroico. E questo per il mero fatto d’incarnare vocalmente un Siegmund che resiste fino alla fine al fato, senza mai mostrare una vera disperazione, con una serietà ed austerità che risultano unicamente da un controllo perfetto del suo strumento sia nel grave e centro-grave sia nell’acuto in cui dà espressione al suo lamento per la sorte di Sieglinde ed alla decisione di ucciderla sul posto. Questo è ciò che rende Melchior per me il Siegmund di riferimento e che lo distingue fra tutti i grandi interpreti del ruolo, che si tratti di cantanti di così diverse preparazioni tecniche e gusti come James King, Ludwig Suthaus, Jon Vickers o Max Lorenz. La stessa purezza del suono corroborando un concetto espressivo di inarrivabile resa drammatica fa della Flagstad un’annunziatrice ed, ulteriormente, una ribelle davanti alla quale anche Marjorie Lawrence e Helen Traubel impallidiscono, malgrado la loro maestria nel padroneggiare la tessitura estremamente bassa della prima parte.
Quello che avviene sul palcoscenico dopo la metamorfosi di Brünnhilde per compassione, non è altro che un punto culminante di velocissima dinamica con cui l’intera azione “interna” dell’opera si esteriorizza bruscamente e porta alla sua conclusione uno degli atti più lungi ed in un certo senso anzi pesanti, del repertorio wagneriano. Detto francamente, è un atto che può diventare letteralmente insopportabile quando viene eseguito con cantanti e direttore incompetenti, ma che può anzi procurare un’esperienza autenticamente tragica con un’interpretazione felice. Senza l’intenzione di negare il valore della prestazione vocale e drammatica di tanti cantanti che non sono neanche stati menzionati durante queste considerazioni – forse troppo frammentarie e selettive –, ci fermiamo comunque ad un pensiero: con una Brünnhilde come quella di Kirsten Flagstad o un Siegmund di Lauritz Melchior si capisce quale poteva essere il suono perfetto immaginato da Wagner per le sue figure mitiche-divine o gli eroi che di solito vengono prematuramente “vulnerabilizzati” per la mancanza di un sufficiente sostegno tecnico. O ancora la fragilità femminile à la Lehmann – fragilità espressa con la voce, mai fragilità della voce (paragonabile al timbro costituito da un’elementare e fondamentale fragilità che è la voce di una Magda Olivero). L’eroismo melchioriano o l’idealismo vocale di una Flagstad sarà l’espressione di un gusto di un’epoca che oggi non esiste più, ma se un suono simile a quello della Flagstad o di Melchior è stato possibile e si è anzi fatto realtà materiale, perché non volerlo oggi? Anche con l’intenzione di investirlo per tutt’altri fini drammatici. Anche come il più lontano ideale vocale – e quindi drammatico, permettendo di partire dalla voce verso diverse possibilità drammatiche, invece di partire da una concezione drammatica non interamente concentrata nella preparazione vocale e che viene limitata da questo medesimo limite vocale. Una Varnay (ed dopo di lei tutte le wagneriane d’ispirazione “stile Bayreuth”) potrebbe cantare solo un tipo di Brünnhilde, quella umana, perche incapace di utilizzare la voce diversamente. Una Flagstad, con la sua perfezione tecnica, sarebbe capace di dare voce sia alle qualità sovrumane della valchiria sia al suo divenire umana. All’intuizione ed all’onestà artistica di ogni cantante spetta la scelta.

Giuditta Pasta


Gli ascolti

Wagner - Die Walküre


Atto II

Preludio - Wilhelm Furtwängler (1950)

Hojotoho! - Kirsten Flagstad (1936), Marjorie Lawrence (1940), Birgit Nilsson (1965)

Was so Schlimmes schuf das Paar - Hans Hotter (1935)

Deiner ew'gen Gattin - Margarete Klose (1935)

Schlimm, fürcht' ich, schloss der Streit - Helen Traubel & Herbert Janssen (1944)

Was keinem in Worten ich künde - Carl Braun (1914)

So sah ich Siegvater nie - Kirsten Flagstad (1936), Helen Traubel (1944)

Hinweg! Hinweg! - Lotte Lehmann (1936)

Siegmund! Sieh auf mich - Melanie Kurt & Jacques Urlus (1910), Kirsten Flagstad & Lauritz Melchior (1936)





1 commenti:

Giambattista Mancini ha detto...

Mi sono molto piaciute queste considerazioni scritte da Giuditta Pasta, alla quale faccio i miei complimenti.