giovedì 30 settembre 2010

Mese verdiano XXIII - Son giunta! Ultima puntata: i bonus

In realtà l'ultimo post dedicato alla Forza del destino, che chiude il mese verdiano del 2009 protrattosi per un anno, non è dedicato esclusivamente a "Son giunta", ma ad alcune pagine riservate all'infelice e sofferente protagonista di Forza del destino.

Nessuna pretesa di ascolto riparatorio come quello pensato per Poliuto, che più che la riparazione ha scatenato insurrezione per alcune imprecisioni e risurrezione di siti e fori diversamente piuttosto languenti e cultori della polemica oziosa, semplicemente offrire stralci dell'esecuzione ora in capo a cantanti, che mai hanno affrontato il ruolo in teatro, o delle quali non esiste, purtroppo, l'intera esecuzione della scena del convento, che aveva costituito il nostro topos verdiano per il 2009.
Neppure alcuna presunzione di completezza perchè in questo caso alcune assenze sarebbero davvero imperdonabili come quella di Rosa Ponselle, che proprio con questo titolo debuttò ed al Met ed in carriera, smentendone la fama jettatoria, Zinka Milanov o, a livello più basso, Adriana Guerrini.
Certo è che la donna Leonora a noi del blog piace nobile ed ispirata con una linea di canto curata, raffinata ed attenta ai segni di espressione, che canti ogni nota dandole senso ed eviti, perchè non previste in spartito forzature d'accento e parlato in luogo di cantato.
Tutte quelle che abbiamo rispondono a questo modello.
Tutte e per differenti motivi meravigliano.
Ad esempio Sena Jurinac ed Eleanor Steber, che in carriera non erano ritenute soprano da Verdi pesante.
Entrambe offrono per contro un'esecuzione di quello che dovrebbe essere il tardo Verdi lirico contrapposto erroneamente a quello detto in salsa verista della Cigna ad esempio. Poi a conti, anzi ad ascolti fatti, Gina Cigna esegue un meraviglioso "Me pellegrina ed orfana", mentre molti soprani negli ultimi decenni nel tardo Verdi liricizzato hanno rovinato la propria voce, la propria fama e, forse, anche Verdi.
Sentire per capire in che possa credibilmente consistere il cosiddetto Verdi lirico ossia la saldezza con cui la Steber affronta la messa di voce sull'incipit dell'aria manovrando con estrema facilità note, che agevoli proprio non sono, battendo la zona del passaggio superiore della voce femminile, o come i quattro "pace mio dio" della ripetizione siano per intensità e colore vocale assolutamente differenti o come non ci sia difficoltà nella zona bassa "né togliermi dal cor l'immagine sua". Arrivata all'"Alvaro io t'amo" il piano usato dal soprano americano è prima di tutto misurata e nobile espressione dell'animo di donna Leonora, penitente, ma non pentita. Altra caratteristica del personaggio. Atletismo vocale ed espressione, come Verdi impone, si coniugano, poi, nell'esecuzione della Steber in due luoghi topici ossia il si bem di "invan la pace" (tenuto a perdifiato) e quello conclusivo eseguito come previsto in spartito.
Replica Sena Jurinac. Malinconica e sobria e con un timbro morbidissimo ed una dizione e gusto per il dire rari in una cantante non italiana (anche se signora Bruscantini!). Malinconica perchè questa Leonora ricorda come in sorta di delirante riminiscenza, resa perfettamente solo perché non compare un suono forzato o aspro, ovvero fuori di posto, sobria perché sono banditi, sempre per virtù tecnica, effetti plateali. Basti sentire il "ne togliermi dal core" in zona grave dove la Jurinac è vocalmente esemplare. Per amor di confronto il "io t'amo" non ha il mordente e lo slancio della Steber, ma ha la stessa proiezione di suono solo usata interpretativamente per delineare ben differente sentimento.
Quando proponiamo, poi, le due Giannine siamo credo in un mondo vocale ed interpretativo molto lontano dall'attuale. La Russ, tradizionalmente citata come l'ultimo soprano drammatico d'agilità rende nella preghiera (accompagnata da piano e sparuto coro, come si addiceva a quegli anni di registrazioni primordiali) l'esempio della donna trasfigurata e redenta, solo che si percepisce una colonna di suono, una ricchezza di armonici congiunte ad una leggerezza e saldezza di emissione che nel dopo guerra abbiamo solo conosciuto grazie alle più accreditate belcantiste dedite al massimo ai titoli donizettiani, censurate e con ragione in Verdi, specie se tardo.
Solo l'ascoltatore più attento troverà che incidentalmente in zona grave l'altra Giannina, ossia la signora Arangi Lombardi emette qualche suono non perfettamente calibrato, ma al tempo stesso onestà vuole che si riconosca alla stessa cantante di essere non solo una vocalista esimia e dotata di un mezzo straordinario in natura, ma anche di essere interprete e, per giunta, moderna. Ove per moderna non si intenda quella che ripropone o precede gli stilemi di oggi, ma quella che non sembra risentire nell'aderenza di esecuzione a nessun altro dettato che non sia quello di rendero lo strazio e la paura astratte e quintessenziate, che conducono al luogo di una dura espiazione una dama di rango.
Sentite cosa accade quando l'Arangi Lombardi quando attacca l'aria, la voce della tragedia. Quando arrivano le prime invocazioni la voce acquista una solennità ed una ampiezza impareggiabili non si avverte nessuna difficoltà nella scrittura e nelle frasi "che come incenso ascendono" l'artista si prende pure il lusso di rallentare senza intaccare legato e saldezza di emissione. Il capolavoro di edonismo vocale, che è anche la sigla interpretativa della Arangi Lombardi, la smorzatura del fa diesis dopo il pio frate.
Infine l'ospite ossia chi pesso cantò in concerto la Vergine degli angeli, lo incise pure insieme a Casta diva, come a significare che se avesse voluto avrebbe potuto essere anche soprano, ossia Ebe Stignani. Trentaquattro anni di carriera per la voce strumento, il modello di emissione in tutta la gamma, di arrotondamento del suono, di gusto castigato. Insomma la voce verdiana per dote e per tecnica. Ma questo è affaire per il mese di ottobre, ossia il mese verdiano.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Madre, pietosa Vergine - Giannina Arangi Lombardi (1930)

La Vergine degli Angeli - Giannina Russ (1904), Giannina Arangi Lombardi (1928), Ebe Stignani (1938)

Atto IV

Pace, pace, mio Dio! - Eleanor Steber (1945), Sena Jurinac (1955)

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martedì 28 settembre 2010

Stagioni 2010-11. Vienna, Venezia, Trieste

Potremmo definirle le stagioni dell’Imperial Regio Governo, tanto per offrire un contentino ai nostri detrattori, che vedono in noi pericolosi reazionari anche sotto il profilo politico.

Il cartellone madre, ossia quello della Staatsoper viennese, spicca come di consueto per numero e eterogeneità delle proposte. Anche se a onor del vero quest’anno le novità appaiono meno numerose e soprattutto assai meno nuove del consueto.
Su una quarantina di titoli appena sei le nuove produzioni, alcune delle quali invero poco fantasiose, se non nella scelta del titolo, nell’assemblaggio del cast.
Si prenda ad esempio l’Alcina, che ricalca nei ruoli della protagonista e di Bradamante la distribuzione proposta l’anno scorso nella provinciale (rispetto alla capitale dell'Impero) Milano. Certo si dirà che la novità della proposta risiede nella bacchetta, sempre prestigiosa, di Marc Minkowski. Peccato che la suddetta sarà impegnata a dirigere nella parte di Ruggiero quel che avanza (pochino) della voce di Vesselina Kasarova e nientemeno che Verónica Cangemi (una delle iatture per le quali dobbiamo ringraziare il cosiddetto specialismo applicato all’opera barocca) nei virtuosismi di Morgana. E siccome la filologia impera, non dubitiamo a chi sarà affidata l’aria che conclude il primo atto dell’opera!
Quanto al Don Giovanni, altra nuova produzione, non possono che destare rinnovate perplessità le ormai consunte scelte di Ildebrando d’Arcangelo e Alex Esposito quali padrone e servitore, perplessità che si estendono alla presenza di Saimir Pirgu quale Ottavio. In alcune repliche il tenore sarà Pavol Breslik, già periclitante Gennaro al fianco di Frau Gruberova. Quanto a Sally Matthews, deputata Donn’Anna alla première, invitiamo i lettori a cercare su Youtube traccia della sua Fiordiligi e a trarre le conclusioni e gli auspici del caso.
Le Nozze di Figaro, altra nuova produzione, sanciscono il passaggio (inedito, salvo errore, che naturalmente le nostre maestrine dalla penna rossa provvederanno tosto ad emendare) di Erwin Schrott dal ruolo di Figaro a quello del Conte. La scelta, alla luce della Carmen ultima scorsa e dei numerosi e udibili problemi in acuto del basso-baritono uruguaiano, appare azzardata anche e soprattutto se si considera che il Figaro di turno non sarà certo un basso profondo, bensì Luca Pisaroni. Ogni speranza di differenziare timbricamente servo e padrone sembra così tramontare. Ma è ben vero che lo stesso può dirsi del Don Giovanni. Entrambe le opere, per colmo di ventura, saranno affidate alla direzione, diciamo greve, di Franz Welser-Möst.
Vero titolo “cult” della stagione Anna Bolena, affidata a un quartetto di voci giovani, à la page, altamente innovative: Anna Netrebko, Elina Garanca, Francesco Meli e Ildebrando d’Arcangelo, diretti dallo specialista Evelino Pidò. Se la produzione di Barcellona ha suscitato ironici commenti circa l’età biologica delle primedonne, che si alterneranno nel ruolo della sventurata consorte di Enrico VIII, si potrebbe analogamente commentare che a Vienna andrà in scena una versione “Kindergarten” del titolo donizettiano. Anche e soprattutto, vien da pensare, sotto il profilo dei tagli, che si renderanno necessari stante l’assoluta e totale estraneità al Belcanto, provata da passate Lucie e Sonnambule, della deputata protagonista.
Quanto alla Kata Kabanova, si segnala unicamente per la presenza di Deborah Polaski, ormai confinata a parti di fine dicitrice, quale Kabanicha.
Il resto della stagione scorre più o meno senza sorprese, non fosse che per alcune presenze inquietanti e quasi spettrali, la più notevole delle quali è forse quella di Neil Shicoff quale Hermann della Dama di picche (al fianco di Anja Silja), Pinkerton (con Svetla Vassileva e Hui He), Cavaradossi (al fianco di Catherine Naglestad) e Capitano Vere nel Billy Budd. Una presenza numericamente e qualitativamente così significativa, da parte di un tenore così inequivocabilmente finito, dice, da un lato, di un ricambio generazionale che fatica a emergere, dall’altro, dell’assoluta e totale mancanza di gusto, decenza e vergogna da parte di chi propone al pubblico un siffatto prodotto, che potremmo definire come minimo scaduto. A parità di condizioni vocali, verrebbe da invocare la presenza di Kunde, magari proprio come Gennaro al fianco della sempreverde (nel senso dell’immutabilità di pregi e difetti) Gruberova, che proporrà la Borgia, come già a Barcellona, in forma di concerto. Sempre in forma concertante la signora sarà, al Musikverein, nientemeno che Violetta. Qui naturalmente il problema non è la mancanza di ricambio generazionale, bensì l’insufficiente qualità del medesimo.
Si sbalordisce poi nel vedere Fiorenza Cedolins impegnata come Butterfly e soprattutto come Amelia Grimaldi. Facile supporre, anche in questo caso, tardive e non indolori sostituzioni. L’annotazione vale anche per Annick Massis, ultimamente più rinomata per i forfait che per le apparizioni sceniche, attesa quale Lucia di Lammermoor.
Peraltro il Boccanegra è per tre quarti, protagonista femminile esclusa, il medesimo che fu rappresentato pochi mesi or sono nella provincialissima Parma. Ennesima dimostrazione che possono variare lusso e incidenza mediatica dei contenitori, ma il contenuto è sempre più spesso il medesimo, a qualunque latitudine. E sovente in sprezzo di qualunque logica, che non sia quella del Nome.
Meno folta del consueto la presenza dei divi teatrali e discografici: Flórez affronta il solo Elisir d’amore (non certo una parte che possa valorizzarne le doti, come già visto e udito in passato), la Genaux la sola Isabella (e per fortuna), la Netrebko la sola Bolena (ma non si tratta certo di un cimento da poco), idem come sopra per la Garanca, mentre un'incredibile Waltraud Meier sarà impegnata nientemeno che come Kundry. Roberto Alagna, in una sorta di ritorno (tardivo) alle origini vocali dopo i cimenti verdiani, sarà Faust (accanto al Mefistofele di Erwin Schrott) e Des Grieux di Massenet (con la Manon di Norah Amsellem), José Cura sarà il Des Grieux di Puccini (ed ecco che la cronaca trascolora nella fantascienza) e affronterà in blocco il dittico Cavalleria/Pagliacci, mentre Jonas Kaufmann, per la gioia degli amanti del declamato (non sempre) intonato, riprenderà il suo ormai proverbiale Werther mannaro al fianco della fedele Sophie Koch.
La stellina nascente Julia Novikova, forte della recente popolarità quale Gilda in mondovisione, alternerà Regina della Notte, Adina e Zerbinetta. In questo la signorina si dimostra vera emula del suo pigmalione Domingo, ma un poco di prudenza in più non sarebbe forse fuori luogo, nel teatro che fu il regno di Selma Kurz.
Sarà poi bello tacere di molte delle bacchette coinvolte nella stagione viennese, ma non possiamo non segnalare la presenza, in alcune repliche del Barbiere, di Jean Christophe Spinosi, star della filologia d’oltralpe, che pochi mesi fa rinunciò (per misteriose ragioni) a dirigere il medesimo titolo in Scala.
Quanto a filologia, però, niente e nessuno può battere il cartellone del Theater an der Wien. Come competere con irrinunciabili performance quali la Semele di Cecilia Bartoli, la Rodelinda di Danielle de Niese o i Dialoghi delle Carmelitane con Patricia Petibon (Blanche) e Deborah Polaski (Madame de Croissy)? Appunto, non si può.
Le due stagioni italiane sfigurano fatalmente di fronte a una simile dovizia di titoli e di star.
In realtà la stagione della Fenice appare la più rinunciataria, delineandosi come una successione di titoli da sussidiario dell'opera. Fa eccezione lo spettacolo di apertura, Intolleranza 1960 di Luigi Nono (composizione della quale Beverly Sills, impegnata nella première statunitense del titolo, ebbe a scrivere: Luigi and his opera were both Nonos), di cui ricorre il cinquantesimo anniversario della prima esecuzione, avvenuta proprio alla Fenice, e che si avvale di una nuova produzione realizzata dagli studenti dello IUAV di Venezia, sotto il coordinamento di Luca Ronconi ed altri guru del teatro italiano. Altro “corpo estraneo”, e sulla carta unica produzione allettante (ma il cast è, al solito, un’incognita, allo stato attuale) l’Acis and Galathea di Haendel, allestito al Teatro Malibran con i solisti dell’Académie européenne de musique del Festival d’Aix-en-Provence.
Per il resto siamo nell’ambito dei c.d. grandi titoli, quasi che la Fenice volesse convertirsi in un teatro di repertorio. E talune presenze ricorrenti nei cast (segnatamente nelle opere mozartiane) fanno pensare a un tentativo di costruire una sorta di compagnia stabile attorno al teatro veneziano.
Giusta e opportuna appare, nell’attuale congiuntura, la riproposta di titoli e allestimenti visti nella presente e nelle recenti stagioni. Ma se il desiderio di “fare cassetta” con titoli quali Don Giovanni, Traviata e Rigoletto appare legittimo e sensato, viene naturale interrogarsi su alcune scelte di cast, davvero anacronistiche, quando non assurde.
La più appariscente riguarda forse la Lucia di Lammermoor. Salvo la protagonista il cast è, a voler esseri buoni, degno delle proverbiali spedizioni punitive nei teatri della profondissima provincia. Speriamo almeno che in sede esecutiva prevalga quel minimo di buonsenso capace di suggerire al concertatore un robusto utilizzo della tanto deprecata forbice di Gavazzeni. Ma temiamo sia fallace speranza. Tenore e baritono, per colmo di ventura, saranno assieme a Patrizia Ciofi i protagonisti della ripresa di Traviata.
Da comprimariato, ossia da scuola primaria dell’opera, il cast del Barbiere di Siviglia, che a ogni ripresa del modesto allestimento di Morassi sembra smarrire sempre più ogni residuo contatto non solo con il portato della Rossini renaissance (bersaglio di una damnatio memoriae degna di peggior causa), ma con la capacità di portare in scena in condizioni almeno accettabili uno dei titoli più frequentati, in qualunque epoca, del Pesarese.
Ma il top – si fa per dire – lo si raggiunge con il Trovatore, che vedrà il debutto nel ruolo eponimo di Francesco Meli. Poco danno, si potrebbe dire, anche per le dimensioni contenute della sala di Campo San Fantin. In realtà il danno è molto, e il primo destinatario dello stesso è proprio Meli, che sembra deciso a ripercorrere il cammino, diciamo deleterio, già intrapreso da Marcelo Alvarez, per giunta non potendo vantare in natura la potenza vocale e la facilità in alto che avevano caratterizzato la prima parte della carriera del tenore argentino. Leonora sarà Maria José Siri, preparata e musicale, come già nell’Aida scaligera “last minute” dell’anno scorso, ma anche lei assai distante dal possedere il tonnellaggio della protagonista verdiana. Il secondo cast è, se possibile, ancor più bislacco, combinando il modesto Stuart Neill (già periclitante Don Carlo anch’egli “last minute” sempre a Milano) e la tutt’altro che raffinata Kristin Lewis, già presente in una non memorabile edizione del titolo nei teatri veneti (ancora una volta, si stenta a scorgere una qualsiasi differenza fra la cosiddetta provincia e i cosiddetti grandi teatri).
Rispetto alla veneziana, la stagione del Verdi di Trieste appare più equilibrata fra titoli di forte richiamo e proposte più audaci. Come alla Fenice, purtroppo, le scelte di casting contrastano spesso pesantemente non solo con le richieste della partitura, ma con quelle del buon senso.
Se la Traviata affidata a Mariella Devia è il tributo che il teatro paga volentieri pur di assicurarsi la presenza di una delle poche dive ancora in grado di offrire serate di canto professionale, che cosa dire del cast di contorno, che unisce al modesto vincitore dell’ultima edizione di Operalia il modesto Monterone del Rigoletto dominghiano?
Se si dispone di Maria José Siri, e la si vuole proporre a tutti i costi in un’opera di Verdi, perché non affidarle un titolo (che so, Luisa Miller, o Alice Ford) un po’ meno pesante dei Foscari, per giunta da cantarsi al fianco di due cantanti legnosi e poco rifiniti quali Dalibor Jenis e Jorge de León?
Che senso ha proporre il Samson et Dalila con un protagonista vocalmente ben oltre le frutta come Ian Storey (e per soprammercato, al fianco di una voce non più freschissima, ma ancora d’impatto, almeno in fascia medio-acuta, come quella di Luciana d’Intino) o la Francesca da Rimini (opera di superba invenzione musicale, a dispetto di certa critica) affidata a due soprani leggeri in disarmo, che rispondono ai nomi di Hasmik Papian e Patrizia Orciani (quest’ultima in considerevole difficoltà nella parte lirica e sognante, e assai meno onerosa, di Fidelia, nel recente Edgar bolognese), o ancora la Lucia di Lammermoor assegnata a soprani che stentano in acuto (eufemismo!) come Silvia dalla Benetta e Olga Peretyatko, o il Gianni Schicchi, protagonista un baritono di voce opaca e legnosa, che non significa necessariamente fine dicitore?
Queste e altre domande giriamo ai signori agenti, sovrintendenti e direttori artistici, che sappiamo essere nostri fedeli lettori. Davvero ci stupiamo del fatto che i teatri si svuotino sempre più?



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domenica 26 settembre 2010

La riparazione: cantare Poliuto

Eccovi la riparazione per il Poliuto di domenica scorsa.
Ascolti selezionati, pochi, da cui abbiamo volutamente omesso la leggendaria produzione scaligera del ‘60, perché tutti voi la conoscete benissimo.
Rarità archeologiche, more nostro, ma non solo, che mi pare illustrino bene le ragioni da sempre alla base dell’allestimento del grandioso dramma donizettiano. Ragioni chiarissime alla Scala di Ghiringhelli, che per ripresentare al suo pubblico la più grande di tutte le dive ormai in declino evidente, scelse un titolo incentrato sul protagonista maschile. Non fu certo una scelta casuale!


Poliuto è il prototipo del “tenore di forza” del melodramma romantico. Duprez di Poliuto non era più quello di Lucia, e lo dice lo stesso Donizetti. Una voce divenuta potente persa o ridotta la duttilità. Anche se pensato in origine per Nourrit Poliuto circolò in Italia grazie a tenori come Negrini, Tamberlick sino ad Aramburo, Tamagno, che ante Otello ne fece il proprio titolo di preferenza. Al modello del tenore di forza romantico ovvero con voce di colore chiaro, accento altisonante e squillo negli acuti, aggiungiamo doviziosamente interpolati si rifanno tutti gli ascolti proposti che crediamo servano a chiarire il modello vocale del protagonista. A questo modello, sia pure in condizioni vocali non certo freschissime, si rifà Giacomo Lauri Volpi in una tardiva registrazione del duetto ancor più tardiva dell’esecuzione teatrale ( Terme di Caracalla nel 1955) e con qualche slancio verista, ma entusiasmante per il rapporto verso il martirio, anzi l’autodistruzione, verso il martirio Aureliano Pertile in quel che resta purtroppo di una edizione EIAR. Ma i due modelli del tenori di forza rimangono Antonio Paoli ed Augusto Scampini. Fanno sentire per il coesistere di slancio, splendore, vocale e forza al medesimo tempo e pur con le tare delle registrazioni acustiche qualche cosa a noi ignoto.
Quanto agli altri ruoli, un esempio di baritono di buona carriera del suo tempo, Ferruccio Corradetti, dotato di un buono ma non straordinario mezzo naturale, bella tecnica e pertinenza stilistica. Quanto basta a rendere giusta dignità ed eleganza a Severo, ruolo che non richiede necessariamente un cantante fenomenale.
Le interpreti selezionate che hanno inciso qualche frammento del ruolo di Paolina sono soprani lirici o al più spinti, come Maria Pedrini. La parte, nata per la Tadolini e poi rivisitata nei Martyrs per la Dorus Gras, è stata anche appannaggio di soprani come la Caniglia, Paolina del Poliuto di Gigli nel ’40 alla Scala e di Lauri Volpi a Caracalla nel ’55, dato il moderato tasso di virtuosismo della parte. Si tratta di voci comunque importanti, che frequentavano unitamente a Verdi e al Verismo titoli come la Norma, non senza pagarne il tributo stilistico ai canoni del tempo, come Emilia Corsi o Maria Pedrini. Purtroppo ci mancano cavatina ed “Arpe angeliche”, incise ma mai stampate, di Giannina Russ, ma ci basta la De Macchi, non certo tra i primi soprani della storia del canto, a documentarci come la cifra della vocalità di Paolina non fosse perduta nemmeno in pieno Verismo. Nessuna di queste cantanti era specialista di belcanto, somma virtuosa, modello da letteratura sul canto: avrebbe dovuto essere Maria Callas, se non fosse stata in declino, a restituire il ruolo ad una fuoriclasse assoluta del tempo moderno, ma il compito tocco ad altra primadonna di rango, Leyla Gencer, già doppio della Callas nel Poliuto scaligero, di cui non si conosce l’audio della straordinaria prestazione, poi come Pauline dei Martyrsuna quindicina d’anni dopo.
Delle rarissime produzioni post ‘60 scaligero, come esempio di modernità, valeva la pena di proporvi il finale dei Martyrs veneziani del 1978, in duo con Ottavio Garaventa. Lui, tenore di serie B del suo tempo, nato come tenore da Lucia Manon Elisir e non certo “di forza” alla Corelli, canta con una pienezza timbrica, un legato, un volume inimmaginabili domenica scorsa a Bergamo. La sua si che era una voce sonora e che correva!
Lei, grandissimo soprano a fine carriera, manovra i resti di una voce malferma e rotta, ma canta con una intensità soggiogante ed una eleganza che oggi non trovano pari in nessun soprano in attività, ad onta degli scricchiolii e degli artifici messi in gioco per mascherare lo sfascio vocale. Anche i suoni brutti o poco controllati, non sono mai l’orrore ingovernato e selvaggio udito da parte della Paolina di domenica scorsa.

Così si canta e si è sempre cantato Poliuto, come da tradizione antica e precedente ogni filologismo moderno, senza pseudofestival e velleità culturali di sorta.


Gli ascolti

Gaetano Donizetti

Poliuto


Atto I

Di quai soavi lagrime - Maria De Macchi (1908)

Di tua beltade immagine - Ferruccio Corradetti (1908)

Atto II

Ah! tu! Non trovo la parola...Lasciami in pace morire omai - Aureliano Pertile, Maria Pedrini, Giuseppe Manacchini & Augusto Beuf (1939)

Atto III

Deh, fuggi da morte...Il suon dell'arpe angeliche - Augusto Scampini & Cecilia David (1907), Antonio Paoli & Honora Popovici (1909), Carlo Albani & Emilia Corsi (1911), Giacomo Lauri-Volpi & Margherita Benetti (1957)

Les Martyrs

Atto IV


Rêve délicieux...Pour toi, ma prière...O sainte mélodie! - Ottavio Garaventa & Leyla Gencer (1978)

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venerdì 24 settembre 2010

Ciao Tino!

Ciao Tino.
Dobbiamo separarci per forza.
E allora facciamolo a modo nostro, come ci è piaciuto farlo fino a ieri: una grande risata mentre ascoltiamo i nostri pezzi preferiti e più emozionanti.
Sarà impossibile divertirsi e ridere di nuovo così tanto come abbiamo fatto assieme.....impossibile!
Alla prossima!




Concerto per Tino


Palomero y Padilla

Princesita - Miguel Fleta


Bizet - Les pecheurs des perles

Mi par d'udire ancora - Miguel Fleta (1927)


Massenet - Werther

Ah! Non mi ridestar - Tito Schipa (1934)


Bellini - Bianca e Fernando

Sorgi, o padre - Claudia Muzio (1922)


Danny Boy - Eleanor Steber (1946)


Meyerbeer - Les Huguenots

O beay pays de la Turaine - Joan Sutherland (1962)


Saint-Saens - Samson et Dalila

Mon coeur s'ouvre à ta voix - Grace Bumbry (1971)


Verdi - I vespri siciliani

Arrigo, ah, parli a un core - Maria Callas (1951)


Bellini - Norma

Sediziose voci...Casta Diva - Maria Callas (1952)


Bellini - I puritani

Ah, vieni al tempio - Maria Callas (1956)


Donizetti - Anna Bolena

Piangete voi?...Al dolce guidami - Maria Callas (1957)


Verdi - La traviata

Alfredo, Alfredo, di questo core - Maria Callas (con Giuseppe Di Stefano, Ettore Bastianini - 1955)


Donizetti - La fille du régiment

Il faut partir - Beverly Sills (1970)


Meyerbeer - Robert le diable

Robert, toi que j'aime - Beverly Sills (1969)


Korngold - Die tote Stadt

Glück das mir verblieb - Beverly Sills (1968)


Rossini - L'assedio di Corinto

L'ora fatal s'appressa...Giusto Ciel, in tal periglio - Beverly Sills (1969)


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mercoledì 22 settembre 2010

Mese verdiano XXII - Son giunta! Undicesima puntata: Deborah Voigt, Daniela Dessì, Norma Fantini

Sono Norma Fantini, Daniela Dessy e Deborah Voigt le ultime gran dame spagnole penitenti, principiate dall’impetuosa Gina Cigna, che arrivano all’immaginario convento della Madonna degli Angeli, che per un anno ha offerto motivo di riflessioni sul canto, sul personaggio e sulla vocalità verdiana del passato remoto, recente e del presente.
Sono i soprani, che, oggi, nei teatri del mondo si esibiscono nel repertorio verdiano.

La disamina delle loro esecuzioni offre l'opportunità di riflettere sui cambiamenti di gusto e di tecnica del canto. Voglio credere possa offrire elementi di riflessioni superiori alla sterile polemica a coloro che ci invitano a rinnegare il passato ed al tempo stessi a quelli che vorrebbero vedere le scene (tavole pittate, naturalmente) calcate da Rosa Ponselle piuttosto che Anita Cerquetti. Ognuno alla fine trarrà le proprie conclusioni.
Quando al convento arriva Deborah Voigt, accompagnata con energia dal maestro Noseda e destinata ad incontrare quel che resta della voce di Samuel Ramey, abbiamo la perfetta radiografia di una voce pronta per lo sfasciacarrozze. Basta sentire i suoni duri, spigolosi e privi di vibrazioni emessi sul fa di “son” o quelli ingolati e vuoti sul successivo sol di “giunta” per sincerarsi che riposo ed affetti familiari sarebbero la corretta attuale occupazione della cantante.
Quando, poi, arrivano le frasi orizzontali di “e mio fratel” insomma le medesime ove si spiegavano turgore ed opulenza vocale delle Cerquetti e Caniglia sentiamo una voce secca ed acida, che sa solo gridare. Stranamente in tutta la performance questa Leonora di Calatrava emette, sempre nel genere suoni stimbrati e di fibra, acuti decenti compreso il si nat, che chiude il recitativo di entrata.
Nell’aria per una voce in queste condizioni il direttore stacca, giustamente un tempo velocissimo, per evitare difficoltà e debiti di fiato; naturalmente cantante e direttore omettono il rispetto dei numerosi segni di espressione previsti da Verdi, segni che imporrebbero altra voce e soprattutto differente controllo del fiato. All’indicazione “con passione” che introduce il “deh non m’abbandonar” sarebbe opportuna la modifica “senza nessuna passione”, per rendere quel che viene eseguito. Quando arriva una frasetta medio alta “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti” ovvero il momento in cui Leonora comincia ad entrare nell’ottica della penitente e dove le solite Cerquetti, Stella e Ligabue profondevano tutta la pietosa retorica del caso sorge il dubbio che Mrs. Voigt non abbia capito il significato della frase o forse si trovi in difficoltà con il fiato e l'esigenza, non rispettata, delle due forcelle indicate dall'autore. Quando alla ripresa orchestrale, che coincide con la chiusa del brano “deh non m’abbandonar” Verdi indica “animando sempre più” la prescrizione è rispettata dalla sola orchestra: la cantante non riesce ad implementare ampiezza e volume e, persino, manca all’appuntamento con il piano e la smorzatura (questa di tradizione) del "pietà Signor”, che normalmente riesce anche a voci che di Leonora non hanno il tonnellaggio. Credo di ravvisare il motivo dell’omissione nel problema di individuare dove prendere fiato, ripresa che lo spartito, in effetti, non prevederebbe.
Le cosa non vanno certo meglio al duetto con il Guardiano che è, appunto, quel che avanza di Ramey, ballante e privo dell’ampiezza che canto e retorica verdiana della situazione scenica imporrebbero. Poi per la cronaca quando arrivano gli acuti possiamo anche verificare che è l’unico basso dopo Pinza, Pasero e Vaghi che sappia come emetterli.
Dirò subito, ripetendomi, che in tanta condizione vocale da ritiro la Voigt azzecca i si nat sparati della parte. Che siano, poi, suoni morbidi e rotondi proprio no, ma rispetto a quelli immediatamente precedenti ed alla ottava centrale vuota e da faringite cronica sembrano una meraviglia. Ovvio che le condizioni vocali della Voigt non consentano di rispettare l’indicazione di dolcissimo del “più tranquilla l’alma sento” o tutte le indicazioni di forcella e crescendo che dovrebbero condurre progressivamente la voce al fortissimo del secondo si nat “sua figlia”. Le difficoltà tecniche si trasformano (more solito) nell’inespressività della frase “ah si del ciel qui udii la voce”, che la cantante non riesce (e si tratta di omofonia) ad eseguire legata. Una voce priva di smalto, rotondità non può certo rendere per sola virtù di timbro e capacità di accento l’indicazione “sottovoce e misteriosamente”.
Quando alla chiusa del brano arriva una minima difficoltà vocale rappresentata dal “mi toglierà” conclusivo che prevede il passaggio della voce dal do 3 al la 4 per poi scendere al fa e l’indicazione “dolce poco rallentando e morendo” abbiamo un’esecuzione disastrosa e dilettantesca, tipica della cantante ormai priva e di dote vocale e di dote tecnica. E’ vero che per la prima volta in tutta la scena la Voigt si riscatta dicendo la frasetta “andiamo” che introduce la stretta. E’ proprio cercare il pelo nell’uovo a favore di una cantante, che trascina fra un urlo ed uno strillo la sezione conclusiva del duetto e che arrivata alla famosa Vergine degli Angeli, applaudita dal devoto pubblico del Met (ben diversa era devozione al rudere vocale di Zinka Milanov) rende felice l’ascoltatore che l’atto sia terminato e la penitente Leonora de Calatrava avviata alla volontaria espiazione.

La seconda penitente, che approda al convento virtuale è Daniela Dessy. I rapporti della signora Dessy con questo titolo verdiano sono stati limitatissimi. Anzi una sola recita nel teatro di limitae dimensioni di Montecarlo. Il soprano italiano ha avuto anche un rapporto occasionale con l’Amelia del Ballo in Maschera e la circostanza è assolutamente ovvia, atteso che la signora Dessy vero soprano da tardo Verdi, quello gagliardo per usare la terminologia di Giacomo Lauri-Volpi proprio non lo è. Il suo repertorio sarebbe stato quello, che in epoca di maggior disponibilità di cantanti e più ponderata scelte fu di Mafalda Favero. Non di più, anzi, qualche titolo pucciniano in meno. Invece oggi la Dessy è sistematicamente Tosca, Adriana, Francesca, occasionalmente Fedora, spesso Aida, sull’errato presupposto che la schiava etiope sia un lirico come Manon. Ha pagato questo repertorio pesante con acuti sempre progressivamente meno sicuri anche se, a differenza di molte colleghe, anche più giovani, conosce bene l’arte di destreggiarsi in ruoli al di sopra delle proprie possibilità tecniche e naturali.
Che si tratti di una Mimì neppure al massimo della freschezza vocale lo si percepisce dall’incipit il “son giunta” dove la cantante spinge per esibire il volume e l’ampiezza da soprano verdiano. Ma se il volume lo si può anche trovare e si riesce a rispettare il ff sul fa diesis di “cielo” è l’ampiezza del recitativo che è estranea alla Dessy, la quale spesso spinge, forza ed emette suoni aperti come accade sempre nel recitativo di ingresso. Che si tratti di una cantante che sappia come gestire l’accento è evidentissimo sul si nat che chiude il recitativo che è qualitativamente discreto e dove la Dessy, pur con una presa di fiato non prevista riesce anche nel tentativo di smorzare la nota. Nell’incipit dell’aria la voce suona un poco indietro ed ingolata e l’interprete, che non rispetta i copiosi segni di espressione, piatta. Credo che, in realtà sia in affanno per una scrittura vocale ed un peso orchestrale maggiori di quelli dei titoli congeniali, tanto è che quando cominciano le serie di “deh non m’abbandonar" la Dessy prende un paio di brutti fiati e se smorza emette suoni falsettanti. All’ultimo “pietà Signor” prima dell’ingresso del coro dei claustrali, però, canta piano e allora è colorita e varia e le riesce, pure, la frasetta “che come incenso ascendono”. Quando, però, alla chiusa dell’aria è irrinuciabile lo slancio si percepiscono su frasi medio alte suoni tesi (vedasi il “non ricuserà”) o addirittura lo sforzo del si bem di “pietà Signor”. Ovvio che il soprano da Manon sia, nonostante gli anni capace di smorzare come di tradizione il conclusivo “pietà Signor”, previa presa di fiato fuori ordinanza, peraltro.
Suonata la campana Daniela Dessy è accolta da uno sgraziatissimo Fra’ Melitone (Roberto de Candia), che imita maldestramente altro maldestro Frate Portinaio, ossia Bruno Praticò, con suoni malmessi, parlati, che fanno assurgere al rango di fini dicitori e stilisti persino Capecchi e Corena. Non è essere nostalgici, è sentirci!
Nel canto di conversazione la Dessy è proprio ispirata e nobile vedi “Mi manda il Padre Cleto”. Saper dire, quando la scrittura non comporta difficoltà, è una delle qualità del soprano bresciano in questa fase di carriera.
La vera ed assoluta disgrazia nella quale inciampa questa Leonora e che le dovrebbe consigliare altro romitaggio è lo sciagurato Padre Guardiano di Paata Burchalazde. Tutti i difetti che può avere l’esausta voce di un basso slavo, che canta nel basso ventre sono puntualmente presenti. E mi fermo, ma mi domando e giro la domanda per quale motivo debba essere concesso a simili can-tanti di calcare i palcoscenici.
Nell’allegro agitato “Infelice, delusa” puntuali compaiono e la difficoltà a cantare con vigore in zona medio grave e ad affrontare gli acuti di slancio (il solito si nat della “figlia a maledir”) nonché suoni non ben controllati e sostenuti nella frase “darmi a Dio”. Al di là delle condizioni sono le dimostrazioni che Daniela Dessy non è un soprano drammatico e neppure un lirico spinto. L’assunto viene ulteriormente confermato all’allegro mosso “se voi scacciate” per la carenza di quell’enfasi che la retorica verdiana esige mentre le cose vanno meglio sulle frasi, che richiedono accento ispirato e castigato come “salvati all’ombra” o alla chiusa della sezione “mi toglierà”. Va anche rilevato che certi attacchi sul do grave o addirittura sul si danno luogo a suoni aperti nelle note immediatamente successive e, perdonate la ripetizione, come la sezione conclusiva del duetto “Tua grazia” attaccato sul mezzo forte per dare senso e significato al successivo “plaudite o cori angelici” manchi di slancio e, pur con questa carenza, gli acuti estremi siano difficoltosi. Una chiosa, poi, che vale anche per la prestazione di Deborah Voigt. Tradizionalmente veniva tagliata la coda in modo da risparmiare alla Leonora di turno un paio di si bem e consentire, poi, di chiudere con volume il duetto. Sarà anche stata una delle tante manifestazioni della deprecata “forbice di Serafin”, ma quando il soprano stenta in alto ed è stanco per la lunghezza della parte non riesco a ravvisare (salvo nel fatto che oggi i direttori non sappiano lavor di forbice) la necessità dell’esecuzione integrale del passo.
Rivestita del saio della penitente Daniela Dessy trova il suo elemento naturale nella preghiera conclusiva, anche se talvolta, proprio per il repertorio pesante e non consono alle proprie doti naturali e capacità tecniche, non risulta spontanea e facile nell’attacco della Vergine degli angeli -un re centrale- e si sente una certa difficoltà a controllare il regolare flusso del fiato nelle frasi successive dove per il salto mi3-mi4 ricorre anche ad un portamento per facilitare l’esecuzione del passo nel corso del quale, però, rispetta i segni di espressione previsti.

Terza ed ultima penitente della rassegna Norma Fantini, che pur in carriera da vent’anni è una outsider dei teatri italiani o quasi e cantante dal repertorio tutt’altro che esteso.
Qui anticipo le conclusioni sulla voce e sull’interprete, poi, proverò ad esemplificare con questa Forza del destino. Doverosa premessa: ho sentito in teatro una sola volta Norma Fantini, per giunta annunciata malata, ma dotata di voce ampia e sonora. Quanto basta per Manon di Puccini.
Ho riascoltato, però, curioso più volte questa ed altre performance. Io credo che Norma Fantini sia un soprano lirico di quelli, per esemplificare stile Rosetta Pampanini ovvero con una voce di buon volume in natura. Questo oggi è sufficiente per essere applicate costantemente al tardo Verdi ed a certo Puccini come Tosca e Manon o alla Maddalena di Coigny, mentre quei soprani, fra il 1920 ed il 1940, avrebbero cantato Butterfly, Manon di Massenet, Mimì, le Margherite di Gounod e Boito, magari Traviata e oggi, invece, possono fare i drammatici nel repertorio fra Bellini ed il primo Verdi a condizione di eseguire senza difficoltà i passi di agilità.
Basta sentire quello che accade nel recitativo e nell’aria “Madre pietosa Vergine” in prima ottava Norma Fantini è composta e non emette suoni aperti (unico suono un po’ enfatico e spinto il si nat grave di “perdei”), ogni tanto si ha il sospetto che qualche nota, proprio per paura di enfasi e verismo, sia piuttosto chiusa. Ad un certo punto, però e sistematicamente, sul mi4 fa4 accade qualche cosa ovvero i suoni diventano spinti e per conseguenza vibrano in una voce che altrove non è vibrata. Basta sentire proprio l’attacco “sul giunta” il fa diesis mi di “sangue”, sempre al recitativo e ancora nell’aria al “vergine perdona al mio”. Moderando il suono “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti” piuttosto che alla chiusa “pietà Signor” il difetto si attenua e non poco.
Per contro nelle note immediatamente precedenti la fine del passaggio superiore il timbro è dolce e consente accento ispirato, consono al personaggio dolce e remissivo. Anzi qualche volta Norma Fantini eccede in dolcezza e mitezza e finisce con il richiamare personaggi da dramma borghese come in “alcun potria sorprendermi” o nelle battute che precedono il duetto con il Guardiano. Insomma una Mimì o una Butterfly, piuttosto che Leonora di Vargas, anche se gli acuti presentano in maniera molto ridotta il difetto dei mi e fa acuti. Tutto questo, però, non può che far concludere per una cantante che canta esibendo il volume a discapito della qualità del suono.
Esattamente lo stesso accade al duetto: durante tutta la prima sezione la cantante modera il volume e riescono solo un poco spinti (nella media di tutte le Leonore de Vargas) gli acuti estremi e l’accento per la penitente in nuce è quello giusto, come accade nelle differenti ripetizioni di “ah tranquilla l’alma sento”, stranamente eccede nella frase “voi mi scacciate”, che è pur vero prevede l’indicazione “declamato”, ma qui si declama un po’ di enfasi di troppo.
Alla sezione conclusiva, quella che richiede impeto e slancio, i mi ed i fa suonano spinti se cantati a piena voce e pregiudicano la qualità degli acuti estremi. L’attenuante è quella di sempre ovvero dell’inizio delle riflessioni: può essere che stia cantando Forza del destino piuttosto che Butterfly o Bohème. Mi domando però, anche se la riflessione esula dalla Forza del destino, che possa accadere cantando poderosamente e con compiacimento di certe zone della voce il repertorio del primo Romanticismo, che sappiamo è un vero ballo sulle punte.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

2006 - Deborah Voigt (con Samuel Ramey & Juan Pons - dir. Gianandrea Noseda - Met, New York)

2007 - Norma Fantini (con Alexander Vinogradov & Enrico Marabelli - dir. Julien Salemkour - Staatsoper unter den Linden, Berlino)

2008 - Daniela Dessì (con Paata Burchuladze & Roberto de Candia - dir. Alain Guingal - Opéra, Monte-Carlo)

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lunedì 20 settembre 2010

Poliuto a Bergamo: pollice verso!

“Leoni per tutti!!” : questa è la sintesi finale dell’ennesima spedizione punitiva che ha avuto luogo ieri in quel di Bergamo. E non è un pubblico da circo romano quello che ha giustiziato con violenza, inaudita ma giusta, tre quarti del cast e graziato per miracolo il resto, bensì un pubblico scandalizzato ed arrabbiato dalla mortificazione e dal massacro che annualmente si compie a Bergamo dei capolavori di Donizetti e affini.
Ciclicamente vengono allestite produzioni simili di titoli must della storia dell’opera italiana, titoli rari ma amatissimi, con tale dilettantesca leggerezza, tale sciatta approssimazione ed irritante presunzione di essere all’altezza del compito, da scatenare reazioni furibonde di fronte a cast inadeguati oltre misura, collocati in allestimenti pacchiani e senza idee che finiscono per sfregiare fino alla beffa il compositore che presumono di celebrare.


Volete i dettagli macabri?
Sinteticamente:
- una Paolina indecorosa, chiamata senza alcuna ragione artistica razionale e dimostrabile, che ha urlato, berciato, stonato, ululato, cempennato ( oltre che sforbiciato e manomesso in tonalità la sortita direi..) tutta la parte, aggirandosi per la scena ( per volontà registica, certamente ) come la parodia di una diva del muto. Collocare una cantante dotata di siffatta vocalità, note centrali aperte e sguaiate oppure masticate tra i denti come sassi, acuti buttati fuori come urla, agilità alla miritorniinmente, e soprattutto con un emissione compromessa da anni di repertorio pesante amministrato con scarse cognizioni tecniche, è prova di assoluta ignoranza in fatto di canto, solo perché della malafede non ne abbiamo la prova.

- un Poliuto inadatto al compito, dalla voce vuota al centro e legnosa, senza più possibilità di legare i suoni, stonato nell’entrata e sfiancato già al finale secondo. Ha miracolosamente retto l’intonazione nel duetto finale con la consorte, completamente stonata, per poi gridare esausto l’intero finale, dove la benzina era evidentemente finita. Della sua serata si può salvare soltanto la grande scena del secondo atto, eseguita integralmente e variando opportunamente il da capo, che ha riscosso il solo vero applauso della serata. Spiacente per i Kunde-boys, numerosissimi e affezionati, ma fare il baritenore in Rossini è una cosa, altro è essere tenore di forza in Donizetti, su una scrittura assai più orizzontale e connotata da toni epici differenti. L’anziano contraltino può anche convincere o passare in parti Nozzari, ma ieri era soltanto un tenore….vecchio, con tutti i difetti dei tenori alla fine, ed alle mende suddette aggiungo i portamenti continui, il senso di sforzo, la durezza del timbro, la fatica. Solo gli acuti sono ancora note brillanti, perchè appartengono alla vera voce di questo tenore, ma ahimè, ieri non bastavano.

- Il Severo di Simone del Savio, il solo passato indenne tra le forche caudine del pubblico, è stato incolore, privo di autorità scenica e vocale. Non avere voce per farsi sentire più di tanto a volte aiuta, si scivola via alla chetichella, ma non per questo la prova è stata positiva. Il suo canto non ha avuto ampiezza o rotondità alcuna, le frasi importanti tutte messe là senza colore o accento, gli acuti spinti e di fibra ( alcuni poi ci potevano essere risparmiati davvero…). Una prova insufficiente anche la sua.

- La bacchetta del maestro Rota ha afflitto anche quest’ultima produzione bergamasca. Alla direzione artistica non erano già bastati le precedenti esperienze? Ai melomani si, tutto ci era chiarissimo.
Con una compagine orchestrale che era circa la metà di quella dell’Occasione fa il ladro del progetto Accademia scaligero di sabato sera ( !!!! ), il maestro Rota ha diretto mollemente “polleggiato” una sorta di scampagnata paesana domenicale, ridicolizzando regolarmente il tasso tragico dell’opera di Donizetti a cominciare dal tema delle “Arpe angeliche” dell’ouverture, e di lì sino alla fine, con una desolante assenza di tensione drammaturgica, di nerbo, insomma di senso del testo donizettiano. Non parliamo poi della qualità del suono, chè sarebbe pretender troppo. Come pure è pretender troppo che una bacchetta che si trovi a gestire un cast tanto deficitario sappia suggerire qualche artificio o correzione, ( urgenti per la sig. Marrocu in certe frasi acute del duetto finale, che hanno suscitato gli sbeffeggi a scena aperta del pubblico ) quando non qualche doveroso soccorso, come al tenore in difficoltà nella scena del battesimo, solo per esemplificare.

- Brutto e contestato l’allestimento, corredato pure di note critiche del regista all’opera nel programma di sala, note che da sole dimostrano come l’opera lirica non possa trovare via di riscatto alcuna sin tanto che la riflessione che si fa sui testi è di questo tipo. Ci è stata dispensata la sola commistione di romanità e fascismo, vista rivista e stravista e arcirivista, con protagonisti e coro in abiti anni ’40, salotto da conversazione privata domestica, con tanto di cameriere che serve il thè, stile Macintosh della mutua, immancabile specchio pendente dal soffitto e dio-totem fallico dorato sullo sfondo. Paccottiglia senza idee e senza gusto, e soprattutto, senza niente da dire.

Noi invece abbiamo qualche riflessione da sottoporre, di ordine generale, per un Festival Donizetti che non riesce a trovare una ragione di esistenza. Non mi sento come una mia giovane conoscenza, che durante un intervallo, manifestandomi il suo pensiero, mi ha detto che in fondo a Bergamo si va per ridere. Forse i giovani praticano cinicamente una real politik assai diversa dalla nostra di fronte alla vita e, dunque, anche al teatro…non so. Saremo noi dei dinosauri, ma, a mio modo di vedere, la contestazione doverosa ad un cantante non diverte, soprattutto se un’opera come questa viene fatta a pezzi e snaturata. E se il fatto ciclicamente si ripete, perché si va in scena con spettacoli indecenti ( e cito l’Anna Bolena, preceduta peraltro da un Devereux dello stesso livello anche se di diverso riscontro di pubblico; la Lucrezia Borgia; i Puritani; la Favorite..) vuol dire che non si tratta di casi eccezionali, ma di una regola legata ai criteri di scelta che governano la costruzione del cartellone.
Un festival ha il compito istituzionale di tutelare la memoria storica e le prassi esecutive di un compositore, di rappresentarlo al meglio, di essere il riferimento per tutti gli altri teatri che allestiscano quell’autore. Donizetti con i suoi 70 titoli ed altrettanti rifacimenti, a differenza di Bellini, Rossini o Puccini, è un compositore che ancora necessita di un festival dedicato, perché ci sono questioni filologiche importanti da gestire, titoli anche eccellenti, desueti o rarissimamente proposti, insomma, una produzione musicale ai più ignota per molti aspetti. Eppure il Donizetti Festival non riesce a sganciarsi dal tasso delle produzioni paesane destinate al pubblico bergamasco ( che ieri anche era composto perlopiù da anziani …), produce e coproduce allestimenti di titoli assolutamente impegnativi e per i quali, di fatto, non esistono più cantanti con errori marchiani di cast, si affida a cantanti macroscopicamente inferiori all’onerosità di certe ruoli ( quelli del Donizetti post 1830 richiedono voci anche di un certo tonnellaggio, oggi di fatto inesistenti …) per poi lamentare l’assalto di onde barbariche extramurane, dimenticando che scelte come quelle operate sulla parte di Paolina sono ben più di una semplice provocazione al pubblico dei melomani.
Fatto sta che a Bergamo anziché conservare una memoria del grandissimo compositore e dei suoi coetanei, se ne crea una nuova, quella grottesca che abbiamo visto ieri come già altre volte negli anni recenti, e penso alla Bolena, alla Borgia ed ai Puritani in particolare.
Se si spendono i denari pubblici o degli sponsor sotto l’etichetta “festival” o si cambia rotta, e alla svelta, o si smette, perché i tagli alla cultura che il nostro governo sta praticando appaiono, in questo caso, giustificati e doverosi tagli allo spreco e all’ignoranza.

Dedicheremo alla Direzione Artistica il prossimo post, il "Poliuto della riparazione."

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sabato 18 settembre 2010

700,000: Sì, fui soldato

"Siamo arrivati a 700.000. Caspita", direbbe la donna Fabia di portiana memoria.

In primo luogo ringraziamo i nostri assidui lettori, che apertamente approvano o discutono criticamente opinioni ed ascolti sia con i messaggi a latere dei post che con gli interventi nella chat, che, sempre più affollata, sembra dirci della necessità non impellente, ma neppure remota, di affiancare al Corriere un forum.
Del pari grazie ai nostri, egualmente affezionati, detrattori, sparsi per il mondo virtuale. E grazie senza buonismo o evangelismo, ma per il semplice motivo che le loro querimonie, le loro rampogne, i loro biliosi commenti, le loro grossolane e scurrili parodie incrementano accessi ed ascolti e costituiscono il più sferzante stimolo a proseguire. Sulla nostra strada.
Da ultimo, ma non ultimo grazie a coloro i quali per motivi istituzionali e commerciali, spess fra loro congiunti, proseguono pervicaci sulla loro strada di pseudo-culturale, ottuso ed acritico asservimento a politiche e logiche invece agli antipodi ed ultronee alla tradizione e cultura del melodramma e che ci danno l'opportunità di commenti, disamine storiche, comparati ascolti.
Abbiamo scelto un brano, grondante retorica, che riassume in sé il senso e la poetica di un'epoca del melodramma, quel tardo Ottocento che gli pseudo-intellettuali di cui sopra liquidano con fastidio, per non dire di peggio, al solo e unico scopo di sciogliere peana ad altre epoche ed altri autori, che ricordano un campionario di ricette macrobiotiche ovvero di nouvelle cuisine, a fronte di un saporito, abbondante carrello di bollito misto. Noi, lo avrete capito, incliniamo verso i piatti sostanziosi.


Gli ascolti

Giordano - Andrea Chénier


Quadro III

Sì, fui soldato

Amedeo Bassi - 1904

Antonio Paoli - 1911

Bernardo de Muro - 1912

Edward Johnson - 1914

Aureliano Pertile - 1923

Francesco Merli - 1928

Renato Zanelli Morales - 1929

Isidoro de Fagoaga - 1930

Beniamino Gigli - 1933

Galliano Masini - 1941

José Soler - 1953

Mario del Monaco - 1954

Franco Corelli - 1960

Carlo Bergonzi - 1966

Plácido Domingo - 1970

Richard Tucker - 1970

Alain Vanzo - 1970

Giuseppe Giacomini - 1991

Luciano Pavarotti - 1996

Nicola Martinucci - 1999



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mercoledì 15 settembre 2010

Ermione di Gioachino Rossini - Opera Rara

Ermione, oggi, è entrata di diritto nel novero dei più alti e affascinanti capolavori di Rossini, eppure essa fu l’unico, vero insuccesso del compositore. Rappresentata per la prima volta il 27 marzo del 1819 per il Teatro San Carlo di Napoli, scritta per il pubblico più musicalmente progredito d’Europa – già avvezzo alle tante sfide e innovazioni che Rossini gli sottoponeva – interpretata dai più grandi cantanti dell’epoca (Colbran, Nozzari, David, Pisaroni) e dalla migliore orchestra italiana, non piacque. Cinque repliche (a cui ne vanno aggiunte altre due, ma limitate al solo atto I) sono poche, anche per un mondo in cui l’opera era anche prodotto di consumo e il teatro era vivo e vissuto. Questa volta il genio pesarese non venne capito, proprio in quella Napoli ove ottenne (e dove ancora otterrà) i suoi più grandi trionfi.

Opera complessa, certamente, e ambigua: dalla severa linea neoclassica – fedele, soprattutto nello spirito, all’Andromaque di Racine, da cui il bel libretto di Tottola trae ispirazione – ma pure esuberante di invenzione musicale, di furore belcantista e di ricchezza orchestrale. Rossini riserva un’elaborazione strumentale di insolita difficoltà accompagnata ad una linea vocale che coniuga un virtuosismo trascendentale (nel senso più autentico, così come inteso da Liszt) ad un incedere tragico di purezza canoviana. In questa sua creazione, l’autore spinse lo scardinamento delle convenzioni, ben oltre le capacità e le possibilità del suo pubblico: anche quello più smaliziato. Infatti pur se, formalmente, l’opera mantiene la sua scansione in numeri chiusi, essi vengono rivoluzionati dall’interno e il rispetto per le forme viene forzato come mai prima d’ora (si pensi alla Sinfonia con il coro, il grande finale primo, la particolarissima scrittura della protagonista – la cui Gran Scena non chiude l’opera, come era convenzione – il finale tragico e non risolutivo, l’uso del recitativo drammatico). Si comprende, dunque, lo sconcerto del pubblico di fronte ad una tale messe di novità. Rossini era ben conscio di aver scritto musica difficile, tanto da pronosticarne il successo e la giusta comprensione solo dopo la propria morte (parole profetiche!), ma allo stesso tempo amò quella sua sfortunata creazione – la chiamava il suo piccolo Guillaume Tell italiano – tanto da riutilizzarne talune parti in altri suoi lavori: nel semi pastiche approntato per Venezia Eduardo e Cristina, nella revisione della Donna del Lago, nella versione veneziana del Maometto II, nella sua revisione francese Le Siége de Corinthe, nella versione parigina di Zelmira, nonché nel progettato Ugo, re d’Italia. Tuttavia l’opera sparì e si dovette aspettare il XX secolo per una sua compiuta riscoperta: precisamente nel 1987 a Pesaro, nell’ambito del ROF, venne presentata l’edizione critica della partitura, curata da Philip Gossett. Spettacolo storico, indimenticabile per lo splendore del canto della Horne e dei protagonisti maschili (allora ancora una vocalità semi sconosciuta, in un mondo musicale che da poco stava riscoprendo la correttezza dell’autentico stile musicale rossiniano), quei Merritt, Blake e Morino che oggi sono oggetto – in certi luoghi della critica più o meno ufficiale – di inconcepibili ridimensionamenti, ma funestata dal disinteresse della bacchetta di Khun e dalla vergognosa esibizione di una Caballè più svogliata del solito, impreparata e sfasciata vocalmente. Di pochi mesi precedente l’unica edizione discografica ufficiale dell’opera, almeno sino ad oggi: diretta da un abbastanza ispirato Scimone ed interpretata da Merritt (quale Oreste e non il più adatto Pirro: scelta che non ho mai compreso), Palacio (al limite delle sue capacità), Matteuzzi, la Zimmermann e la Gasdia. Ad esse seguirono altre rappresentazioni che non si fanno certo ricordare per la protagonista (dalla sfasciatissima Caballè nell’88 all’improbabile Antonacci, dalla sgradevole Pendatchanska alla Miricioiu, sino alla Ganassi del ROF 2008), mentre per i ruoli maschili si alternavano Merritt, Blake, Ford, Kunde. Da poco disponibile – almeno per il mercato anglosassone: da noi si dovrà attendere la fine di settembre – la nuova edizione discografica pubblicata da Opera Rara. Uscita più che gradita – inutile qui ribadire i tanti meriti della piccola etichetta inglese, nell’esplorazione di un repertorio per lo più dimenticato o sottovalutato – ma che non convince appieno. Per diversi motivi. Innanzitutto, un piccolo rilievo di carattere “commerciale”: Opera Rara abbandona la consueta eleganza dei suoi cofanetti, a favore di un più agile e leggero box (di quelli a tasca, con apertura su di un lato) ove si infilano libretto e cd. Immagino per motivi legati ai costi produttivi. Purtroppo il tutto avviene a prezzo invariato, sicché l’unico vantaggio si svolge a favore della casa discografica. Ma a parte il fastidio per questo nuovo formato (di costo uguale al precedente, ma di qualità molto più bassa), ben altri sono i problemi. Questa Ermione è compromessa da due fattori: la direzione d’orchestra e il tenore che interpreta Pirro. Ora, che David Parry fosse un direttore mediocre, non è scoperta di oggi, ma mai come in questa incisione è risultato piatto, pesante, chiassoso: pure qualche nostrano battisolfa potrebbe dargli lezioni di stile e sensibilità. E se questo tipo di direzione può essere tollerata con Pacini o Mercadante e già diventa poco sopportabile con Donizetti, è intollerabile per un’opera che ha nell’elaborazione orchestrale uno dei suoi aspetti più particolari. Parry compromette la densa scrittura rossiniana, le suggestioni beethoveniane, l’atmosfera drammatica: la Sinfonia, ad esempio, è un campionario di brutture, eseguita senza sfumature, con un coro sgangherato che strilla – ma dovrebbe udirsi fuori scena, come un lontano lamento di disperazione – in italiano ostrogoto, “Troja qual fosti un dì”; ma anche il finale I risolto in chiasso bandistico; o l’accompagnamento svogliato e rinunciatario delle arie. Insomma per dirigere Rossini – in particolare quello napoletano e francese – occorre un grande direttore, avvezzo alla musica sinfonica e profondo conoscitore dei compositori di area austro tedesca. Peccato che Abbado si sia dedicato alle sole opere buffe! Ma oltre a Parry, l’altro peccato mortale di questa incisione è il Pirro di tale Paul Nilon. Cresciuto nel vivaio del comprimariato di Opera Rara, è stato sconsideratamente promosso ad uno dei ruoli più difficili del Rossini serio (forse quello più impegnativo insiema all’Antenore di Zelmira). Nilon, semplicemente non ha la voce, la tecnica e il carisma per affrontare la parte. Manca di sicurezza, pasticcia la coloratura, fatica negli acuti (dispensati con parsimonia inusitata, persino il Kunde del 2008 al ROF era in questo più generoso) e i bassi risultano sgradevoli. Manca soprattutto di nobiltà e fierezza. “Balena in man del figlio” è un disastro: si dimentichi subito Merritt (paragone insostenibile per chiunque: soprattutto quello del recital The Heroic Bel Canto Tenor) e le sue spericolate salite al sovracuto (sino ad uno spettacolare Mi interpolato nella cadenza finale) o le bronzee discese baritonali; si dimentichi pure Kunde, Ford e persino Palacio! L’aria è un tour de force di 10 minuti, che mostra tutta la potenza del re, nella sua sfida orgogliosa alla Grecia: sontuosa come un’aria barocca, elaborata e complessa, più di qualsiasi altra aria rossiniana per baritenore. Nilon, invece, ne fa lo sfogo isterico di un sovrano debole ed effemminato, infastidito da richieste che non vuole, per mero capriccio, soddisfare. Dov’è l’orgoglio dell’eroe? La sua forza? La sua superbia? La sua rabbia? Non certo nela voce di Nilon: già la prima discesa al basso è avventurosa, la coloratura è imprecisa e pasticciata, i fiati corti (nella seconda sezione arranca non poco, grazie anche ai tempi assurdamente lenti imposti da Parry), gli acuti faticosi. Si aggiungano poi variazioni prudentissime e piane e cadenze che mai Rossini avrebbe potuto scrivere, talmente sono brutte e fuori stile. Pessimo, senza scampo. Ed è un peccato, visto che il resto non è affatto male: l’Oreste di Colin Lee – pur non facendo, ovviamente, dimenticare Blake – è efficace, abbastanza facile nell’acuto (anche se talvolta in odore di falsetto), evitando fastidiosi effetti zanzara, sicuro nella coloratura (sgranata e precisa) e nell'intonazione; discreto il Pilade di Bulent Bezduz; accettabile l'Andromaca di Patricia Bardon; dignitosi i comprimari, fatta salva la pronuncia (perfettibile per tutti). Una menzione particolare a Carmen Giannattasio che veste i difficili panni della protagonista: Ermione è parte atipica, ibrida, costruita sulla particolarissima vocalità di Isabella Colbran, oggi sfuggente. La scrittura si caratterizza sia per un uso spregiudicato dell’ornamentazione (tra le più complesse della storia dell’opera) sia per l’utilizzo del recitativo declamato e drammatico. Spesso – per un fraintendimento formale – i ruoli Colbran vengono affidati alla voce di mezzosoprano, eppure essi restano schiettamente sopranili: certo di un soprano dalla voce corposa e drammatica, sicura in acuto e dai centri solidi. La Giannattasio, tutto sommato, ne esce a testa alta (pare nettamente migliorata rispetto alla poco riuscita Parisina): certo non è la reincarnazione della Colbran e non tutto funziona alla perfezione, ma è, ad oggi, l’Ermione meglio cantata. Più sicura negli acuti e meno sguaiata della Ganassi e della Antonacci, più solida della Gasdia e infinitamente migliore della Caballè (la Giannattasio, a differenza della diva catalana, non farfuglia la coloratura, non spiana l’ornamentazione, non strilla gli acuti, né si rifugia in comodi ed inutili “filatini”, per non parlare del registro basso e centrale, sonoro e non traballente, al contrario della “roba” che usciva dalla bocca della Caballè). Emblematica la Gran Scena (anche se resta insuperata quella interpretata dalla Cuberli in un vecchio recital): anche se, purtroppo, viene accompagnata in modo semi dilettantesco da Parry (sentire la bandaccia fuori scena nella sezione centrale), la Giannattasio ben scolpisce il recitativo iniziale, mostra qualche difficoltà nel successivo arioso (soprattutto nella discesa ai bassi, molto sollecitati nel brano), ma la voce non perde mai di consistenza e di messa a fuoco; supera senza troppi problemi il diluvio di coloratura del cantabile, traccia con accento attendibile i continui sbalzi d'umore della principessa sino all'esplosione finale (dove tuttavia qualche affaticamento nell'estremo acuto è percepibile). Un ultimo accenno alla qualità dell'incisione, che è decisamente al di sotto degli standard Opera Rara (con evidenti problemi di bilanciamento e di equalizzazione: soprattutto nelle alte frequenze). Alla fine un'occasione sprecata: un'incisione che avrebbe potuto essere di qualche interesse (almeno per la protagonista) è stata compromessa da una direzione inadeguata e da scelte di cast incomprensibili (qualcuno migliore di Nilon, non penso fosse impossibile trovare: persino l'usurato Kunde, in studio e nella comodità della sala d'incisione, avrebbe potuto far meglio).



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lunedì 13 settembre 2010

Sonia Ganassi in concerto alla Scala

Il canale 416 di Sky, Casa Alice manda in onda quasi ogni sera alle 23 una trasmissione intitolata “Il club delle cuoche”, dove la simpatica signora Luisanna Messeri, di opulenta conformazione fisica, propone, in compagnia di qualche ospite, piatti semplici, di tradizione toscana popolare quando non ispirati dal mitico Pellegrino Artusi, nume tutelare della cucina italiana.
La signora Rosetta Cucchi, eclettica operatrice del teatro odierno, assomiglia, e parecchio, alla Messeri, tanto che è difficile non sentirsi nella cucina della Messeri nel vederla seduta al pianoforte. Il duo Ganassi-Cucchi ieri sera di cucina ce ne ha dispensata, purtroppo, solo di bassa, perlopiù piatti scongelati senza sapore, qualcuno pure andato a male. Programma - menù elegante, restituito al pubblico malissimo, oltre ogni peggiore aspettativa nutrita dai sottoscritti, certo completi disistimatori della tecnica canora del mezzo italiano oltre che dell’arte pianistica della Cucchi, ma convinti assertori della musicalità, del buon gusto e dell’intelligenza interpretativa della Ganassi.
E l’antipasto ci è stato servito ancor prima dell’inizio del concerto, con il bellissimo svarione che troneggiava nel cartellone in piazza, e rimbalzato poi nel programma di sala, ove si annunciava erroneamente Regata Veneziana di Rossini come serie di brani appartenente alle Soirées Musicales, anziché dai Péchés de Vieillesse.

La recensione potrebbe ridursi a qualche riga sintetica, perché l’eccesso di analisi nella recensione, brano per brano, sarebbe impietosa.
Mettiamo subito da parte il pianismo “economico” della signora Cucchi ( suonare in concerto è qualcosa di più che accompagnare un cantante che ripassa uno spartito), che in alcuni momenti ha sfiorato il grottesco, come nella meccanica Habanera o nella pasticciata scena della seduzione di Dalila: accompagna male, talora anche meccanicamente ripeto, senza tocco, senza creare atmosfera alcuna, ma e soprattutto senza rendere il senso dei brani, differenziare tra loro gli autori, restituendone la specificità. Non parliamo poi del coadiuvare il cantante, perché saremmo nell’empireo delle pretese….Davvero male, ma veniamo alla vera protagonista.
La signora Ganassi ha allestito un bellissimo programma, inadeguato in gran parte alle sue condizioni vocali. La tecnica è quella di sempre, ma il mezzo naturale è consunto. Il suo canto non conosce l’uso del fiato, i gravi sono inchiodati nella strozza e tubati, continuamente spinti a produrre note “chiuse”, gutturali, senza sonorità, impossibilitate a liberarsi nell’aria; un centro senza sostegno tra la gola e la bocca, ove si collocano tutti gli acuti ( i primi, beninteso, chè altri non ve ne erano da emettere…. ), falsettini senza peso e volume, slegati dal resto della voce. Gola –bocca; bocca –gola è la continua macchinazione che la signora Ganassi compie con una fatica palpabile a vederla oltre che a sentirla, a suon di contorsioni del corpo e del viso, ottenendo modulazioni del suono appena accennate o eseguite con vera fatica, incertezza ed esiti alterni, perché se il fiato non regge la voce, questa non ha “il giro”. Voce che, peraltro, ha avuto corpo ieri solo quando la cantante ha spinto con forza, esibendo la fibra ed indurendo la linea di canto, che non ha mai trovato un attimo di vera morbidezza, ma solo la ridicolaggine dei pianini in falsetto. Dizione incomprensibile o pasticciata in ogni lingua, perché in queste condizioni non si può articolare la parola.
Quasi irriconoscibile Rossini, da “no comment” per una rossiniana doc come questa cantante pretende di essere. Fissità e cali di intonazione sparsi, da Berlioz (catastrofiche le note tenute gravi immodulabili e monotone allo sfinimento, di brani che battono una tessitura troppo grave) a De Falla, dove ci sono stati momenti di canto anche sguaiato ed ordinario. Mi spiace usare questi termini, ma non ne conosco altri per una delle più grottesche esecuzioni mai udite di questi brani: si compri un disco di Teresa Berganza per capire come si canti De Falla con l’eleganza e lo stile appropriati, perché che Sonia Ganassi manchi anche nelle sue prerogative musicali e stilistiche mi pare fatto grave. Un filo meglio è andato forse Brahms, di tessitura meno bassa delle Nuits d’Eté, anche se non è normale che la voce solista in concerto sia coperta dagli strumenti... almeno credo.
Se poi mi addentro nell’analisi dei bis, i brani più applauditi, anche perché più noti e graditi, debbo rilevare la durezza della voce nell’Habanera, bisbigliata e con esecuzione maldestra dei melismi bizetiani; le continue fratture della linea di canto della seduzione di Dalila, prototipo di aria da cantare sul fiato, priva della necessaria armonizzazione tra i registri grave e centrale, della necessaria cavata oltre che….della voce, che fino a prova del contrario caratterizza Dalila. Meglio alle prese con i singhiozzetti della Perichole, recitata con ostentata confidenza con il pubblico, ma in realtà assai affettata.
Insomma, un concerto velleitario ove il mezzo italiano non si è dimostrata all’altezza del bel programma scelto ma nemmeno di se stessa. Una vera delusione, che ha fatto scappare al primo tempo qualche amico notoriamente tollerante, ricordatosi che la finale di Flushing Meadows in tv era imminente ed assai più interessante.



Gioachino Rossini: da Péchés de vieillesse, album n°1 italiano
9. La regata veneziana

Hector Berlioz
Les Nuits d’été op. 7
1. Villanelle
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes
4. Absence
5. Au cimetière, “clair de lune”
6. L’île inconnue

Johannes Brahms
Zwei Gesänge op. 91
per mezzosoprano, viola e pianoforte
1. Gestillte Sehnsucht
2. Geistliches Wiegenlied

Manuel de Falla
Siete canciones populares españolas
El paño moruno
Seguidilla murciana
Asturiana
Jota
Nana
Canción
Polo







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sabato 11 settembre 2010

Stagioni 2010-11. Berlino, Dresda, Monaco di Baviera

Scorrendo i programmi delle nuove stagioni dei teatri lirici di Berlino, Monaco di Baviera e Dresda, il melomane passatista si pone alcune questioni, il cui peso è direttamente proporzionale all'importanza e al valore del melomane stesso. Peso nullo, quindi, o almeno così ci sentiamo rammentare ogni giorno da svariati pulpiti.

Tanto per cominciare, i titoli allestiti sono sempre e invariabilmente gli stessi, con rare eccezioni. Senza pretendere chissà quali azzardi di programmazione (Weber o altre opere “esotiche”), per un Mitridate (naturalmente in salsa baroccara e contorno di controtenore, oltre che insaporito dall’Aspasia di Patricia Petibon) bisogna attendere il Münchner Opernfestspiele, dato che il resto della stagione bavarese non conosce altro Mozart che quello della trilogia italiana e dei Singspiel. Le cose vanno un poco meglio per il repertorio italiano, a condizione che si tratti di opere verdiane o pucciniane (sempre nell'ambito della "trilogia" Bohème/Tosca/Butterfly), perché a dir poco latitanti risultano Bellini (salvo i Capuleti, allestiti a Monaco con il tramontato Romeo di Vesselina Kasarova, e la Norma, proposta ancora alla Bayerische Staatsoper con l’immarcescibile Gruberova), il Donizetti serio extra Lucia (con l’eccezione della Borgia sempre a Monaco e sempre con Frau Edita, e della Bolena, stavolta a Dresda ma sempre con la Gruberova, forse l’ultima diva, per quanto acciaccata, a poter imporre questo autore nei teatri tedeschi) e più ancora Rossini, la cui sopravvivenza in cartellone è legata essenzialmente alla trilogia buffa e a qualche sporadico esperimento (Gazza ladra a Dresda, affidata alla pertinace bacchetta di Michele Mariotti e con il Giannetto di Michael Spyres, alle prese con un ruolo sulla carta a lui ben più adatto del Rodrigo di Donna del lago, pure presente a breve scadenza nel suo calendario, o ancora Turco in Italia a Berlino, peraltro affidato a una coppia di assai discutibile tenuta, Alexandrina Pendatchanska e Lorenzo Regazzo, e alla bacchetta non esattamente lieve di Antonello Allemandi) che comunque non intacca il serbatoio delle opere napoletane, vera e propria rara avis della programmazione moderna. E forse, anche in considerazione di quello che si è in tempi recenti uditi nell'adriatico penetral più sacro della musica rossiniana, la scelta non è poi priva di fondamento. Questa impressione si alimenta e sostenta, allorché si consideri il cast schierato per un’opera in potenza (e per cast) già pienamente rossiniana, quale la Medea in Corinto di Mayr, allestita appunto in Monaco con Iano Tamar (già periclitante Semiramide una ventina d’anni fa proprio in Pesaro) quale novella Colbran e il ruolo Nozzari consegnato alle cure di Ramón Vargas, antico tenore contraltino che, perso lo smalto degli acuti, ha ancora qualche carta da giocare al centro della voce, sia pure gestita con una fatica sempre più evidente (ricordiamo la Manon viennese di alcuni mesi fa).
Quanto poi al verismo, occorre che siano i Divi ad imporre il titolo, o meglio, che le case discografiche, che i suddetti Divi costruiscono, appoggiano e sostengono, sempre e comunque, impongano il titolo ai teatri. È con ogni verosimiglianza il caso dell’Adriana Lecouvreur allestita alla Deutsche Oper berlinese, che schiera nel cast, accanto alla Principessa di Anna Smirnova (che saprà approfittare dell’occasione e della scrittura decisamente contraltile della parte per offrirci l’ennesimo saggio di rigore stilistico e fraseggio ammaliatore, così come imperdibile appare fin d’ora la sua Lady Macbeth verdiana nello stesso teatro), i celebrati – da altre penne – Angela Gheorghiu e Jonas Kaufmann. Di quest’ultimo è peraltro in arrivo nei migliori negozi di dischi un album, dedicato ai grandi ruoli della Giovine Scuola. Album che, ne siamo certi, susciterà in certa critica e in certo pubblico rapimenti mistici paragonabili solo a quelli di Teresa di Lisieux. Chi avesse seguito la nostra chat nelle ultime settimane, avrà registrato, a proposito delle preview di questo bel disco, ben altre reazioni.
Kaufmann si produrrà, fra l’altro, anche in un nuovo Fidelio, allestito a Monaco dall’iconoclasta (o presunto tale) Calixto Bieito con la direzione di Daniele Gatti (la cui Leonore beethoveniana non suscitò certo entusiasmi, anni fa, in Bologna) e, per alcune repliche, Fabio Luisi. Non dubitiamo che il regista spagnolo, sempre attentissimo alla fisicità dei cantanti, saprà trarre conveniente partito dalla presenza del tenore bavarese (ultimamente un poco in disarmo sotto il profilo scenico, vedi la recente Tosca sempre da Monaco), ma ci domandiamo come il medesimo tenore potrà risolvere il ruolo, vista la recente e tutt'altro che brillante prova di Lucerna. È pur vero che Kaufmann sarà affiancato da Anja Kampe, ma una Leonora d’intonazione sistematicamente calante non giustifica di per sé un Florestano afonoide e fibroso, anzi. Assolutamente da non perdere, sempre a Monaco, la Carmen che vedrà l’incontro/scontro del Don José di Kaufmann (di cui ben ricordiamo la claudicante performance scaligera) e della Carmen di Kate Aldrich, che dopo avere cancellato la prevista Cenerentola pesarese è stata duramente riprovata in Arena (non proprio un teatro incline al fischio, almeno oggi) per l'appunto nei panni della fatale gitana. La Aldrich è poi attesa a Berlino quale Didone dei Troiani di Berlioz, opera in cui sarà affiancata da Ian Storey e, in alcune repliche, da Anna Caterina Antonacci nel ruolo di Cassandra.
E l’opera contemporanea? Tramontato o quasi l’astro di Janácek (del resto le platee tedesche non necessitano certo delle campagne kulturali di cui è dedicatario così frequente il pubblico italiano), sorge quello di Poulenc, ovviamente nel suo titolo più complesso ed esigente in fatto di cast. I Dialoghi delle Carmelitane saranno allestiti alla Deutsche Oper con la bacchetta di Yves Abel e un cast in cui spiccano (si fa per dire) Rachel Harnisch, Julia Juon, Michaela Kaune e Ulrike Helzel, mentre a Monaco Kent Nagano dirigerà nei medesimi ruoli Susan Gritton, Felicity Palmer, Soile Isokoski e Kristine Jepson. Sempre Nagano dirigerà l’altro must novecentesco della stagione, il Saint François di Messiaen (c’è qualche anniversario incombente? lo chiediamo perché lo stesso titolo verrà proposto, come notato da Donzelli, a Madrid), con Paul Gay nel ruolo del titolo e Christine Schäfer in quello dell’Angelo. Il direttore sarà, ancora una volta, Nagano.
Per rimanere a Monaco, e sempre nell’ambito del prestigiosissimo teatro di regia, va segnalata la ripresa del Lohengrin “di” Richard Jones, che tanti consensi – e qualche dissenso – ha suscitato l’anno scorso e anche di recente, stante la pubblicazione di un dvd. Tale e tanta è stata la riuscita musicale di quella mitica produzione, che il cast risulta radicalmente mutato, a Kaufmann e Anja Harteros subentrando rispettivamente Ben Heppner (sic) e Peter Seiffert e Elza van den Heever (?) e Adrianne Pieczonka. Come Ortruda, in luogo di Michaela Schuster, il pubblico bavarese potrà applaudire, a scelta, Janine Baechle o la mai doma Waltraud Meier, mentre Telramondo sarà Evgeny Nikitin. Confermata in sostanza solo la bacchetta di Kent Nagano, ma va bene così: il pubblico che accorre a frotte per assaporare la sceltissima regia poco si cura, in fondo, dei cantanti. Quanto alle opere del repertorio italiano, dovremmo trovarci, salvo errori, in una fase di rinnovamento del parco voci in dotazione nei teatri tedeschi, visti l’alto numero di ruoli in condominio fra cantanti diversi nel medesimo teatro (caso limite la Deutsche Oper, che affida otto recite di Tosca a cinque soprani, cinque baritoni e ben sei tenori) e la comparsa in cartellone di nomi ignoti o quasi al melomane di provincia (ma siamo certi che basteranno un paio di stagioni per rendere tali nomi universalmente noti, accettati e necessari per qualunque programmazione operistica, a Berlino come a Milano). Se resiste Anja Harteros (Traviata a Dresda e Monaco e Mimì sempre a Monaco), se alquanto ridimensionate appaiono Marina Poplavskaja (Traviata alla Staatsoper di Berlino, in alternanza con Anna Samuil), Micaela Carosi (Aida a Monaco, in alternanza con Norma Fantini) e Krassimira Stoyanova (Luisa Miller a Monaco), se morde il freno l’emergente Oksana Dyka (Tosca a Dresda, prossimamente in Scala con ben due titoli, e non solo, visto che la biografia pubblicata sul sito della Semperoper cita un prossimo debutto meneghino quale Abigaille), se l’Abigaille bavarese di Alessandra Rezza fa pensare a un errore di stampa o a uno scherzo di cattivo gusto, così come la rinnovata Maddalena di Coigny di Maria Guleghina (Deutsche Oper), sono le Tosche a suscitare la maggiore perplessità, perché fatta salva (almeno in parte) Hui He, nessuna delle alternative schierata dalla Deutsche Oper, dall’evanescente Sunnegardh (già censurabile Salome a Bologna), alle scomposte Serjan (impegnata anche a Monaco nella ripresa dello spettacolo di Luc Bondy, con Marcello Giordani e Juha Uusitalo) e Urmana, alla fine dicitrice Pieczonka, sembra sulla carta in grado di risultare non dico plausibile, ma non interamente censurabile. E lo stesso dicasi per i Cavaradossi, che spaziano dal tenero Riccardo Massi (già cover di Kaufmann nella “primina” della Carmen scaligera), al futuro Siegmund ambrosiano Simon O’ Neill, al poker composto da Roberto Aronica, Thiago Arancam, Salvatore Licitra e Massimo Giordano, e lo stesso ribadiscasi per gli Scarpia, capitanati sempre alla Deutsche Oper da George Gagnidze, che si alternerà a Franz Grundheber (!), Carlos Almaguer, Greer Grimsley e nientemeno che Samuel Ramey. Quanto poi alla Staatsoper unter den Linden, sarà Amanda Echalaz a incarnare Tosca, accanto a Riccardo Massi e Andrzej Dobber, sotto la bacchetta di Omer Meir Wellber, pupillo di Daniel Barenboim, che dirigerà il medesimo titolo in Scala. La signora Echalaz sarà poi, sempre nella sala berlinese, Elisabetta di Valois (accanto a Sartori, Pape, Krasteva e Daza, direttore Zanetti). Da citare quindi per esteso il cast dell’Aida di Monaco, diretta da Paolo Carignani e Ascher Fisch: oltre alle già menzionate protagoniste, Amneris sarà Luciana d’Intino, come Radames si alterneranno Carlo Ventre e Walter Fraccaro, mentre le voci gravi saranno quelle di Anatoli Kotscherga (sic), Kwangchul Youn, Lado Ataneli e Michael Volle.
Ben più numerose sarebbero le osservazioni da fare su queste stagioni, assai più “in difesa” e caute, seppur sempre spregiudicatissime, rispetto a precedenti edizioni, ma il timore di annoiare, o peggio, ci induce a concludere qui. Naturalmente, con qualche ascolto.



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