giovedì 10 febbraio 2011

Verdi Edission - Il Trovatore

Poesia e violenza, velocità e sospensione, astrazione e truculenza, amore e vendetta, raffinatezza e volgarità sono gli opposti tra i quali si muove il Trovatore verdiano. Anzi, IL Trovatore, dato che la fama di quello in prosa di Gutierrez venne subito oscurata da quello musicato da Verdi.

Quello del Trovatore è un romanticismo per nulla ricercato o intellettuale, distante dall’ “hegelismo musicale” che si stava allora imponendo in Germania, come si scrisse sull’Allgemeine Theaterzeitung all’epoca della prima rappresentazione dell’opera, un romanticismo fatto di sentimenti tanto semplici quanto immediati, dunque.... popolare.
Verdi credette nel soggetto di Gutierrez, ossia in un crogiolo di situazioni al limite del rocambolesco e dell’assurdo, di passioni e duelli fuori dalla realtà, di personaggi agitati nella cornice di una Spagna medioevale e notturna. Per Verdi poteva funzionare anche trasposta in forma di opera lirica, opportunamente modellata e riadattata da Cammarano secondo il proprio dictat, forse per quel carattere fortemente dinamico ed immaginario tipico di un po’ tutta le letteratura romantica spagnola. Genio pragmatico e diretto, Verdi acquisì per sé tutto quanto gli faceva gioco nella costruzione di un melodramma ricco di invenzione melodica, forse il più melodico tra tutti quelli di quegli anni, velocissimo nel dipanarsi delle scene tra i vari atti, anzi tra le varie parti, cui venne dato un titolo, “Il duello, La gitana, Il figlio della zingara, Il supplizio.” Scene da un’azione incredibile, rette da cinque personaggi, o meglio da un personaggio vero, Azucena, tre stereotipi, Leonora, Manrico ed il Conte di Luna, ed un narratore, Ferrando.
La storia la conoscete, ed è inutile riproporvela. Un Almodovar del XIX secolo vuole che lo spettatore si lasci trasportare da una tragedia degli assurdi, credendo all’incredibile. Vuole che creda alla storia di una zingara che, nel tentativo di vendicarsi, avrebbe per errore bruciato il proprio figlio e non quello dell’uomo che le aveva ucciso la madre; che creda ad una donna malinconica e triste, profondamente innamorata di un trovatore-condottiero, che confonde nel buio di un giardino nella sagoma di un altro, che peraltro si scoprirà poi esserne il fratello; che creda al personaggio di un Conte di Luna ( proprio di Luna, guarda caso! ), potentissimo e temutissimo, ma semplicemente ossessionato dall’amore per quella stessa donna ed accecato dal desiderio di uccidere il rivale in amore e in guerra, tanto obnubilato da non pensare ad altro per tutta l’opera; che creda che la nobildonna, ritenendo l’amante perduto, decida di prendere i voti e che l’amato le compaia davanti all’improvviso, proprio un attimo prima della monacazione, e la porti via con sé sottraendola al Conte in procinto, a sua volta, di rapirla; che creda che la madre del Trovatore, Azucena, venga arrestata proprio nel giorno delle nozze, e che perciò il figlio pianti immediatamente in asso la sua Leonora nella camera nuziale per correre a salvarla; che creda che la stessa Leonora, sin lì del tutto inerte, si rechi alla torre in cui madre e figlio sono prigionieri del Conte, e, per salvare l’amato Manrico, si baratti romanticamente per lui sopra un ponte levatoio; che il suicidio di Leonora, per sottrarsi al Conte, abbia luogo “fuori tempo”, cosicchè, nell’arco di un minuto circa, lei possa morire, Manrico venga giustiziato, e la zingara, anziché straziarsi per il figlio perduto, selvaggiamente lo indichi al Conte come suo fratello, finalmente appagata di vedere vendicata la madre. Insomma, un andare e venire senza sosta che tiene lo spettatore legato alla scena in forza di ritmo e passioni accese, perché alla fine della razionalità e della plausibilità non importa nulla a nessuno: il teatro, nel Trovatore, è più che mai oltre la realtà, nell’immaginazione onirica e fantastica.

VOCIOMANIA O STORIA DEL CANTO?

La critica musicale ha sempre ribadito per Trovatore la centralità ed il carattere innovativo della zingara Azucena, dominatrice dell’azione ed ispiratrice burattinaia degli altri personaggi, con il suo ricordare angosciato e terribile, con i suoi segreti, con la sua tenerezza un po’rude, con la sue personalità dai risvolti demoniaci ed inquietanti. Il personaggio dalla vocalità, perciò, più variegata e fantasiosa per i continui cambi di umore che la connotano e su cui Verdi avrebbe voluto incardinare l’opera, ma alla quale finì per contrapporre Leonora, una delle creature più astratte, irreali ed eleganti di tutta la sua produzione. Una donna stilnovista quasi, incarnazione dell’ideale, dell’amore come della bellezza, che si scuote improvvisamente al quarto atto, dopo la grande aria, con il tragico canto del "Miserere" ( altro momento assurdo del libretto..) e del duetto con il Conte, per poi morire ancora completamente staccata dalla realtà, come una eroina da fiaba. Come pure da fiaba è l’eroe, romanticamente ….eroico, innamorato, legato alla madre, nemmeno per un attimo screziato dall’odio, che permea, invece il suo rivale. Manrico è tutto azione, tutto sentimenti positivi, puro, ma incapace di intuire, dal racconto della zingara, il tragico passato che incombe su di lui. Poeta, eroe, amoroso ( ma senza duetto d’amore ), nostalgico, guerriero, riunisce in sé vari tratti della positività maschile nell’opera. Il Conte, invece, tutto gelosia e vendetta, innamorato assai terreno e per nulla spirituale, ha una psicologia forse ancor più elementare degli altri due protagonisti e nemmeno il rango lo stacca dai suoi sentimenti negativi. Quanto a Ferrando, creatura del librettista e non di Gutierrez, narra i precedenti all’azione cui si sta per assistere: è un “personaggio-prologo”, funzionale all’avvio del dramma, un narratore, che ci introduce alla storia della zingara. Non il solo, peraltro, in un testo dove tutti hanno la prerogativa di narrare e di raccontarsi. Nel Trovatore sono tutti…trovatori. Leonora narra, nella cavatina, come conobbe Manrico, la prima volta, quando le apparve in un torneo, combattente guerriero. Azucena è spinta da Manrico a narrare la sua ossessione, la vicenda dello scambio degli infanti. Manrico narra dello scontro con il Conte di Luna, che stranamente, per un potere arcano, non potè finire in duello. Solo il Conte non narra, non ricorda altro che il proprio amore su una delle più belle melodie di tutta l’opera. E’ il solo che non ha nulla da raccontare, nessuna memoria che non sia per sentimenti presenti, e forse non è un caso, perché è l'unica figura negativa dell’opera. La notte è la vera cornice dell’azione, più delle fantastiche architetture della moresca Ajaferia, della gotica torre di Castellor, o degli accampamenti degli zingari e dei soldati del Conte. La notte avvolge il dramma anche fuori dalle note del libretto, perché Verdi la crea con la musica.
Opera di successo incrollabile, costantemente presente in repertorio sin dalla sua prima rappresentazione, affascinante perché in parte arcaica ed in parte profondamente innovativa.
La storiografia di parte verdiana sottolinea e rimarca con gran forza la potenza dell’invenzione di Azucena, spaventosa protagonista che alterna stati di allucinazione e di sogno ad altri di lucida euforia e tenerezza. Il romanticismo lasciava allora ampio spazio allo spaventoso nell’arte: alla zingara-strega del Trovatore Verdi conferì, per la prima volta in un‘opera italiana, uno spazio da protagonista ad un personaggio femminile satanico, sino ad allora relegato a ruoli al più di colore ( non ultime le streghe verdiane del Macbeth ), creando con lei il primo grande mezzosoprano della sua produzione. Personaggio principale a tutti gli effetti, ma, soprattutto, perno di un nuovo tipo di schieramento vocale, tenore-baritono-soprano-mezzosoprano, innovativo per l’opera italiana, destinato a sostituire la triade precedente di stampo donizettiano, tenore-soprano-baritono. Il modello a quattro, con la voce femminile grave in posizione primaria, pareva rifarsi ad un tipo di origine straniera, assai di moda in quel momento, quello del Grand Operà francese, meyerbeeriano in particolare. Positività e negatività si giustapponevano in Azucena a formare un mix del tutto nuovo, che fondeva in sé dei tratti vocali ed in parte anche psicologici della monumentale Fides di Prophéte, scritta per Pauline Viardot Garcia. Un ruolo, quello di un’anziana madre rinnegata dal figlio convertito all’anabattismo, straordinariamente ampio ed oneroso, per una cantate a sua volta di eccezionali mezzi vocali e qualità tecniche. Il grande successo dell’opera, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1849 ed ininterrottamente per tutto il XIX secolo in ogni parte d’Europa, ebbe notevole risonanza all’epoca della gestazione del Trovatore, anche per il tema dei conflitto religioso che metteva in scena, caro a Meyerebeer, oltre che per la prova fornita dai protagonisti.
Verdi fu certamente ispirato, come ci assicura il Budden, dalla per noi oggi sconosciuta Giovanna, pazza protagonista della “Prigione di Edinburgo” di Ricci, ma è difficile pensare che il modello della Grand’Operà francese, ossia il genere per autonomasia della modaiolissima Parigi, allora capitale tra le capitali in Europa, non abbia influenzato il compositore italiano, che, tra l’altro, vi aveva soggiornato nell’inverno 1852-53, in occasione dei preliminari alla composizione dei Vépres Siciliennes.
Azucena non ha certo la presenza statuaria di Fidès, né complessità vocale paragonabile, né avrebbe dovuto possederla nell’ambito di una produzione di genere italiano, calibrata per un titolo italiano che Verdi voleva proseguisse nella scia del successo di Rigoletto, ossia con una dimensione drammaturgica e vocale analoga agli altri suoi grandi personaggi di quel periodo. Azucena oscilla continuamente negli stati d’animo, talora anche molto accesi, e la scrittura vocale segue puntuale ogni mutamento di umore entro una tessitura, talora anche molto acuta, fatta di passi ora puntati e fioriti ( per tutti lo "Stride la vampa", con una vera messe di trilli e messe di voce sul trillo" ), ora ampi ( come le frasi "qual per esso provo ancor" dell'andante mosso "Giorni poveri vivea ")..e concitati ( su tutti la cabaletta "Deh rallentate o barbari", tra l'altro ricca di note accentate..), ascendenti anche sino al do5, in vocalizzo, nel "Perigliarti ancor languente". Spicca sugli altri tre personaggi per la ragioni che abbiamo detto in precedenza, e non a caso Verdi cercò come prima interprete una cantante di indole “drammatica”. Una cantante di valenza tragica ma non necessariamente “nobile”, ci dice la letteratura critica, e questo è un dato importante perché corrisponde alla natura del personaggio e ne chiarisce anche le involuzioni interpretative che ne venirono da un certo momento in poi. Le tinte fosche di momenti quali "Condotta ell'era in ceppi", con le discese finali sotto il rigo, ai la bem di "drizzarsi ancor", ad esempio, necessitavano di una cantante di questo genere.
Non bastava al ruolo una mera belcantista, sebbene l’idea originaria della Gabussi corrispondesse ad un ex soprano divenuta soprano centrale, ma in grado anche di cantare ruoli belcantistici quale Isabella, anzi, fu proprio il tasso tragico insito in Azucena a consegnarla nel tempo a cantanti non molto rifinite, talora anche grezze, ma di mezzi naturali importanti.
La parte richiedeva comunque buone capacità vocali e piaceva per la sua natura protagonistica, perciò nel XIX secolo non vi fu grande belcantista che non vi si fosse cimentata. Alla Goggi, che ne fu la prima interprete, seguirono, alla prima parigina della versione francese, la virtuosa Adelaide Borghi Mamo. Vennero da subito grandi nomi come l’Alboni sin dalla stagione 1857-58 a Parigi, Barbara Marchisio ed altre del calibro di Marianne Brandt, Ernestine Schumann Heink, Siegried Oneghin, di fatto le grandi Fidés della tradizione di fine ottocento, inizi novecento. Come avremo modo di sentire nel volume sul Trovatore a 78 giri, interpreti di questa natura assicurarono per decenni una restituzione vocale elegantissima della zingara strega, lontanissima da certi stilemi volgari o plateali introdotti da certe cantanti di secondo piano o dalla vocalità corrotta dal gusto verista che vennero poi, dalla Zinetti alla Gay Zanatalello sino alla Barbieri. In buona sostanza, la parte finì ad un certo punto col vedere affievolita la componente belcantista a favore di certe modalità espressive per noi oggi lontane, che non intaccarono solo qualche rara interprete, come Ebe Stingani. Fu necessario attendere qualche decennio per vedere riabilitato un certo gusto espressivo ad opera cantanti moderne del dopoguerra di cui parleremo poi.

Diverso destino ebbe il ruolo di Manrico, parte che unisce ancora tratti della vocalità tenorile donizettiana ai nuovi stilemi di quella di Verdi, accesa di guizzi eroici e dall’accento epico. Il lirismo melodico dell’”Ah si ben mio”, con tanto di trilli scritti, come pure quello della canzone d'ingresso, "Deserto sulla terra", con le messe di voce e le smorzature scritte e che Verdi vuole cantata "a mezza voce", è un retaggio inconfondibile della vocalità antica precedente, mentre nuova è l’ampiezza di certe frasi patetiche, come nel “Miserere”, o disperate, come “Ah quell’infame amor perduto”, unita alla forza di accento richiesta da passaggi, come il terzetto del primo atto o le frasi ritmate da passi fioriti come nella “Pira”, segnata brevi sequenze di quartine e note accentate. Anche passaggi cantabili come “Mal reggendo“ chiedono al tenore un‘ampiezza ed un accento marcatamente nuovi. Il canto di Manrico è mutato anch'esso nel tempo con il mutare dei modi del canto. L’eredità del repertorio belcantistico, infatti, fece si che in un primo tempo il Trovatore fosse appannaggio sia di tenori “di grazia”, facili in acuto, dal timbro brillante ma sopratutto di accento lirico e malinconico, che di tenori ”di forza” o drammatici, dal timbro più scuro, talvolta baritonaleggiante, di grande ampiezza nel centro e dal fraseggio ora curato ora poco raffinato, taluni anche molto dotati in acuto. Al primo gruppo appartenevano i vari Mirate, Calzolari, Giuglini, Mario, cui talvolta venivano rimproverati gli eccessi di lirismo ma che in alcuni casi seppero anche trovare accenti “grandiosi” ed eroici, tali da garantire loro grandissimo successo. Del secondo facevano parte Malvezzi, Negrini, Pancani, Mongini, Fraschini, Tamberlick, talora giudicati grevi, come Pancani, altre volte straordinari per la completezza della gamma espressiva che erano in grado di rendere, come Tamberlick.
Il problema chiave della vocalità di Manrico, in realtà, fu sempre la coniugazione di una canto ampio ed eroico e lo squillo in acuto, uniti ad un fraseggio elegante, quasi una quadratura del cerchio, che, primi fra tutti, tagliò fuori i tenori corti o precocemente accorciati. Tenori alla Fancelli o alla Tamagno o alla Stagno, dotatissimo in alto, poterono mantenere a lungo in repertorio il ruolo, a differenza di altri come Caruso, Manrico solo in un paio di produzioni americane. Assenti i vari De Lucia etc.. La recente questioncella filologica del do della "Pira", nota non scritta da Verdi ma eseguita dai Manrico di ogni tempo, salvo quelli moderni, non a caso incapaci di eseguire gli acuti, appare ben poca cosa di fronte all’imprescindibile esigenza che il tenore sia dotato di un vero fraseggio e non di un canto mocorde e stentoreo. In fatto di "Pira" poi la “lectio autentica” dell’autore prevede in spartito la chiusura sul sol anziché sul do acuto, nota che Verdi non avrebbe volutamente prescritto, come afferma la filologia moderna, perché incongrua con la linea melodica e per evitare note ipertese al primo interprete, il celebre Baucardè. Lettura che ha convinto solo in parte, dato che Baucardè era certo destinato a precoce declino negli anni che immediatamente seguirono la prima dell’opera causa la sua natura temperamentosa ed istintiva, ma non per questo era un tenore già tanto accorciato all'epoca della prima, dato che aveva in repertorio ancora Favorita, Lucrezia Borgia, Puritani, Guglielmo Tell. Etc. Baucardè, tra l’altro, legò la propria fama nel Trovatore proprio all’elettrizzante esecuzione della cabaletta oltre che alle frasi finali dell’opera. Un'altra tesi, inoltre, attribuisce a Tamberlick l’invenzione della puntatura incriminata, censurata per ragioni di gusto nel 1857 da P. Scudo e la cui esecuzione avrebbe avuto luogo su assenso esplicito di Verdi. Aneddoti che accreditano la tesi di una precoce origine di questa interpolazione, analogamente alle notissime puntature di Elvira nel concertato “Ah vieni al tempio” dei Puritani, consolidatasi nel tempo al pari della scrittura autografa del compositore.
La vocalità di Manrico divenne appannaggio dei tenori “di forza” o eroici in tutte le possibili varianti, mentre la cosiddetta “liricizzazione” del ruolo, come si vedrà nella puntata sull’opera a 78 giri, è prassi interpretativa assai recente. Liricizzazione, va detto, spesso confusa con l’articolazione del fraseggio, quasi che i tenori spinti del passato non fraseggiassero affatto, un altro dei nostri luoghi comuni smentito sia dagli ascolti che qui vi proponiamo che da quanto avremo modo di ascoltare nella puntata successiva. La figura storica che costituì il punto di svolta dell’interpretazione del ruolo fu certamente quel Tamberlick cui la storiografia attribuì da subito tanta importanza. Con lui nacque il tenore drammatico post Donzelli, è noto: fu il tenore “moderno“ del suo tempo, creatore di ruoli come l’Alvaro della Forza del Destino ma anche ripropositore della grandi parti dei tenori drammatici dell’età precedente, come l’Otello o il Tell di Rossini, di Poliuto e Jean de Leyda in forza delle sue grandi doti di fraseggiatore, nei recitativi, e della facilità in acuto. La doppia vocalità del ruolo di Manrico trovò, dunque, una corrispondenza perfetta nel repertorio “antico” e “moderno” del suo più celebrato interprete ottocentesco, e non fu certo una casualità.

Il ruolo di Leonora è uno dei modelli del cosiddetto soprano drammatico d’agilità, ossia dalla vocalità estesissima in acuto e nei gravi ( frequenti le frasi scritte sotto il rigo, talora anche accentate, come "M'avrai, ma fredda esanime spoglia" ), capace di unire canto strumentale ed espressività tragica, grande ampiezza di fraseggio in certi passi spianati ed agilità, sia di grazia che di forza. Un soprano da Leonora, in poche parole, deve saper fare tutto, anche se le maggiori difficoltà risultano concentrate in passaggi ben precisi e limitati, data la ben nota concisione verdiana. L’astrazione psicologica che caratterizza il personaggio, a meno del concitato risveglio del IV atto nel "Miserere" e nella successiva scena con il Conte, ha pari ascendenza belcantistica quanto la scrittura vocale, che non rinuncia a grandi arie melodiche, cabalette dense di fiorettature abbastanza ostiche, oppure grandi passaggi aerei, come quello della scena del convento, “Sei tu dal ciel disceso”( dal re bem centrale sale sino al la bem e al si bem acuti, da cantare "con espansione e slancio" ), le ampie salite del “D’amor sull’ali rosee” ( la cui scrittura acutissima, con gli ampi passaggi finali che salgono al do e quindi al re bem viene solitamente omessa a favore dell'"oppure" che limita il passaggio alle salite si bem-do, mentre la cadenza conclusiva viene o omessa o rielaborata sopratutto nella seconda parte. Nelle recite napoletane la Callas, ad esempio, esegue il re bem tenuto, diversamente dalla scrittura verdiana, che è quella eseguita dalla Sutherland, mentre esegue interamente la cadenza di Verdi che sempre la Sutherland modifica nella sezione finale, interpolando un trillo..) o le frasi finali “Prima che d’altri vivere..”. Lo chiamano “ sacro fuoco verdiano” quello che anima Leonora nell’implorazione al Conte, “Mira d’acerbe lacrime..”, dove Verdi la fa salire con una messa di voce sino al si bem acuto in "..ma salva il trovator " e la successiva stretta, "allegro brillante molto vivace", dai suoi ritmi puntati “ Vivrà….contende il giubilo…”, momento trascinante ove si esprime forse la massima esagitazione del personaggio. La prima interprete era una grandissima cantante del suo tempo, Rosina Penco, che Adelina Patti indicò assieme alla Grisi come la più grande Semiramide che l’avesse preceduta. Basta questo per capire di quale genere di soprano si trattasse.
Tornando a Leonora, occorre osservare come, rispetto ad Anna Bolena, o Norma, o l’Elisabetta del Devereux, ma anche la stessa Semiramide, il persoanggio fosse un assai meno sviluppato ed articolato sotto il profilo psicologico e di ben minore peso tragico. Quanto al lato virtuosistico, la tradizione esecutiva instaurò presto il taglio della cabaletta del IV atto, “Tu vedrai che amore in terra”, elisa da Verdi stesso già per la versione parigina del 1857, perché si rivelò da subito di difficile esecuzione per quasi tutte le interpreti. Altrettanto precocemente si instaurò la pratica, da parte di alcuni soprani particolarmente estesi e capaci, di inserire nel "Miserere" delle puntature al re bem acuto, a contraltare dei do della Pira, pratica ascritta con certezza al soprano Therese Tjethiens. Come già per molti altri ruoli tragici del belcanto o del tardo belcanto italiano, anche Leonora divenne appannaggio di due tipi di soprano diversi, quelli drammatici in senso stretto, di voce importante e fraseggio aulico, oppure di grandi belcantiste, voci anche dal peso più lirico, in grado di amministrare il personaggio in chiave più strumentale. Forse perché in compagnia del marito Mario, la Grisi cantò Leonora varie volte, sin dal ‘57 a Parigi, e come lei subito dopo la Patti. Nella capitale francese, nello stretto arco di un decennio, si alternarono Grisi, Frezzolini, Penco, Patti, Vitali, Marchesi, Krauss. Insomma, le grandi Norme e Semiramidi del tempo cantavano la Leonora del Trovatore come praticamente tutti i grandi soprani drammatici del Verdi maturo, titolari di Aida, Forza o Ballo, praticarono la parte di Leonora dagli anni ’90 dell’del XIX secolo in poi.
Salvo eccezioni rare, come avremo modo di vedere, nominate Arangi Lombardi o Russ e così via, agli inizi del XX secolo ebbe luogo la sparizione della componente belcantista anche di questo ruolo. Il soprano drammatico o spinto approcciava Leonora in forza di una voce importante, di un accento scandito, più o meno elegantemente amministrato, allontanando la concezione del personaggio dalla sua matrice di primo ottocento. La qualità esecutiva della fiorettatura, complice il taglio della cabaletta del IV atto, risultò meno importante rispetto alla componente drammatica del personaggio che, ovviamente, perse parte della sua astrazione psicologica. Le grandi interpreti moderne, a cominciare dalla Callas sino alla Caballè ed alla Sutherland, hanno spinto per una restituzione del ruolo nella sua originaria e più completa forma, riagganciandosi anche alle prove dei documenti della preistoria discografica, che, come detto, presenteremo più avanti.

Più breve la questione inerente il Conte di Luna. La sua è una vocalità da baritono verdiano puro, acutissimo, fin tenorile nella grande aria “Il balen del suo sorriso”. Anche per lui, come già per Leonora e Manrico, Verdi scrisse un arioso di grande invenzione melodica, che procede ampliandosi con lo scorrere del brano, ascendendo lentamente alla zona più acuta della voce. La vis drammatica del personaggio, furente per la gelosia, emerge da subito nel terzetto, “Di geloso amor sprezzato”, quindi nella cabaletta che segue l’aria del II atto, “Per me ora fatale”. Brani da eseguire con slancio, al pari della stretta del duetto del IV atto con Leonora.
All’epoca di Trovatore Verdi aveva già scritto per la corda di baritono ruoli assai più articolati e complessi, di alta introspezione psicologica e sfaccettature come Nabucco, Macbeth, Don Carlo di Ernani e Rigoletto. Il Conte di Luna, dunque, per nulla facile sul piano esecutivo, soprattutto per la tessitura acuta, resta comunque un personaggio semplice e semplificato, uno sterotipo come detto, connotato da una gamma espressiva circoscritta. Il IV atto dell’opera mette in scena il trionfo momentaneo del cattivo, vicino alla vittoria sul rivale e alla cattura dell’agognata preda, ma destinato alla sconfitta finale, accomiatandosi dal pubblico con la più elementare delle esclamazioni, “Quale orror!”, che cristallizza la primitiva emotività del personaggio. Gli farà eco parecchi anni dopo uno dei più truculenti cattivi dell’opera, Barnaba di Gioconda, con quell’esclamazione “Ah!” che precede la calata del sipario.
Lo slancio che connota il suo canto, le cabalette in particolare, hanno ascendenze nel canto di agilità di forza dei baritenori “cattivi” di Rossini, ma tutto in Verdi è ormai sintetizzato e velocizzato.
Tutti i grandi baritoni verdiani del passato hanno vestito i panni del Conte di Luna, ma non necessariamente tutti i Conti di Luna, in particolare quelli di provincia, furono in grado di approcciarne i grandi title roles verdiani. L’accento nobilitato da un emissione stilizzata e composta e dall’alta qualità del canto legato, oltre che dalla capacità di governare il registro acuto senza gridare o altro, sono qualità perdute da moltissimo tempo dalla media dei baritoni. Le prerogative tecniche dei grandi baritoni che popoleranno la puntata sui 78 giri si sono ritrovate in età moderna in pochissimi esecutori, di fatto delle eccezioni nella regola di un canto il più delle volte inelegante quando non rozzo.



Giuseppe Verdi

Il trovatore


Atto I

All'erta, all'erta...Abbietta zingara (José Van Dam - von Karajan - 1977)

Che più t'arresti...Tacea la notte placida...Di tale amor (Laura Londi, Leyla Gencer - Previtali - 1957)

Bonus: Tacea la notte placida...Di tale amor (Ana Maria Feuss, Anita Cerquetti - Guadagno - 1957)

Tace la notte...Deserto sulla terra...Di geloso amor sprezzato (Mario Basiola, Jussi Bjorling & Gina Cigna - Gui - 1939)


Atto II

Vedi le fosce notturne (Chor der Wiener Staatsoper - von Karajan - 1977)

Stride la vampa (Grace Bumbry - Bartoletti - 1964)

Mesta è la tua canzon...Condotta ell'era in ceppi (Ebe Stignani, Carlo Forti & Gino Penno - Votto - 1953)

Non son tuo figlio...Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente (Franco Corelli & Grace Bumbry - Bartoletti - 1964)

Tutto è deserto...Il balen del suo sorriso...Per me ora fatale (Carlo Tagliabue, Giuseppe Modesti - Votto - 1953)

Bonus: Il balen del suo sorriso...Per me ora fatale (Cornell MacNeil, Louis Sgarro - Schick - 1966)

Ah! Se l'error t'ingombra...Perché piangete?...E deggio e posso crederlo? (Martina Arroyo, Mario Sereni, Richard Tucker, Raymond Michalski, Ivanka Myhal - Mehta - 1971)


Atto III

Or co' dadi, ma fra poco...Squilli echeggi (Chor der Wiener Staatsoper - von Karajan - 1977)

In braccio al mio rival...Giorni poveri vivea (Carlo Tagliabue, Giuseppe Modesti, Ebe Stignani - Votto - 1953)

Quale d'armi fragor...Ah! Sì, ben mio...L'onda de' suoni mistici...Di quella pira (Martina Arroyo, Richard Tucker, Charles Anthony - Mehta - 1971)

Bonus: Ah! Sì, ben mio...Di quella pira (Helge Rosvaenge, Maria Reining - Zimmermann - 1936)

Bonus: Ah! Sì, ben mio...Di quella pira (Carlo Bergonzi, Antonietta Stella - Cleva - 1960)

Bonus: Di quella pira (Mario Filippeschi - Capuana - 1957)


Atto IV

Siam giunti...D'amor sull'ali rosee (Luciano della Pergola, Maria Callas - Serafin - 1951)

Bonus: D'amor sull'ali rosee (Maria Caniglia - De Fabritiis - 1948)

Bonus: D'amor sull'ali rosee (Bennie Ray, Montserrat Caballè - Andersson - 1968)

Bonus: D'amor sull'ali rosee (Gary Burgess, Joan Sutherland - Votto - 1975)

Miserere (Maria Callas, Gino Penno - Votto - 1954)

Di te, di te...Tu vedrai che amore in terra (Martina Arroyo - Mehta - 1971)

Bonus: Tu vedrai che amore in terra (Joan Sutherland - Bonynge - 1975)

Udiste?...Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo (Aldo Protti & Antonietta Stella - Capuana - 1957)

Madre, non dormi?...Ai nostri monti (Carlo Bergonzi & Fiorenza Cossotto - Levine - 1978)

Bonus: Madre, non dormi?...Ai nostri monti (Flaviano Labò & Irina Arkhipova - Cillario - 1974)

Che? Non m'inganna...Prima che d'altri vivere (Giovanni Martinelli, Elisabeth Rethberg, Richard Bonelli, Kathryne Meisle - Papi - 1936)

5 commenti:

Willi Birrenkoven ha detto...

Scelta magnifica, per nulla scontata, preziosa nell'offrire ascolti relativamente vicini eppure non sempre facilmente reperibili. Bello anche il pezzo, esaustivo senza essere sommario, interessante e di agevole lettura. Mein Kompliment!

maometto II ha detto...

bellissimo!! molto interessante il post e gli ascolti davvero preziosi.. ma.. Leontyne Price??? comunque... Anita FOREVER! e ho trovato paradisiaco Bjoerling. Maometto II

pasquale ha detto...

grazie per gli ascolti veramente belli come il post..

scattare ha detto...

Ah... Il Trovatore.
Un'opera che ha vissuto una bellissima storia ma ormai non si può più metter insieme una VERA compagnia di canto degna di tal nome, di tale opera E di tale Compositore.
Il post è bellissimo e gli ascolti sono sempre piacevoli riascoltare specialmente quando "confrontato" l'uno con l'altro.
Tante grazie!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Una riflessione sulla "questioncella filologica" - che peraltro non ritengo sia tale - del famigerato DO della "pira". Su di esso si sono sprecate pagine d'inchiostro, si sono aperte infinite discussioni, si sono evocati fantasmi ed ectoplasmi, si sono giocati tonfi o trionfi. Io credo innanzitutto che non si possa e non si debba giudicare un Trovatore o un Manrico da questa sola nota: né si può attribuire patenti di "correttezza filologica" per il sol fatto di omettere la puntatura. Il problema, poi, non è quel DO - che non è scritto, non aggiunge nulla, è goffo e c'entra poco con il brano (così come tutte le chiuse in acuto, posticce e forzate) - il problema è quel che si paga per emettere quel DO: per soddisfare l'ego tenorile o la brama del pubblico, si è sentito di tutto. A volte si abbassa tutto di un tono, a volte di un tono e mezzo addirittura...per eseguire quello che l'orecchio percepisce come DO (e magari è un SI bemolle...); talvolta si elimina il da capo e il "pertichino" solo per far raggiungere al tenore la nota senza stancarlo troppo; altre volte ancor si taglia la coda (per tener lunga la nota ed evitare dissonanze armoniche); oppure il cantante si risparmia in "Ah sì ben mio" (tirata via senza sforzi, magari con qualche aggiusto e facilitazione), solo per arrivare fresco alla cabaletta. Ecco io credo che non valga il prezzo. Poi penso che ben altri siano i problemi filologici insiti nel Trovatore (ben evidenziati da Giulia): la difficile identificazione della vocalità di Manrico (non in virtù della tradizione successiva, ma della parte così come scritta); l'involgarimento del ruolo di Azucena (resa strega verista, con spianamento della linea vocale ed eliminazione di ornamentazione); il travisamento del Conte. E soprattutto certi arbitri tradizionali che non solo compromettono la scrittura verdiana, ma risultano francamente brutti da sentire (oltre ad essere spesso dei non-sense): esempio tra tutti, a parte le cadenze verdiane (quasi sempre colpevolmente omesse), la ripetizione della frase "sei tu dal ciel disceso" non dalla sola Leonora (come scritto), ma, incongruamente, anche da Manrico. Questa aggiunta "di tradizione" compromette totalmente un preciso effetto e banalizza alquanto il brano. Ecco, io ritengo che sia doveroso oggi rispettare la lezione originale, e il solo porsi l'alternativa appare ingiustificabile.