venerdì 8 aprile 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione quarta: Parigi

La quarta stazione della via crucis per i cartelloni della nuova stagione operistica internazionale è dedicata a Parigi, palcoscenico che da qualche anno non trova eguali per quantità di titoli allestiti e attenzione alla rappresentanza dei vari repertori. Non possiamo tuttavia riconfermare una certa continuità di inventiva anche per il programma venturo, che salvo alcune, solite eccezioni – l’Opéra-comique e in parte il Théâtre des Champs-Élysées – si allinea ai consueti sentieri, marcati in primis dalle direzioni artistiche nostrane. Insomma, non andiamo oltre l’opera prêt-à-porter di cui si fa regolarmente orrendo scempio.

L’offerta dello Champs-Élysées – solo quattro titoli in forma scenica, tra opere e oratori in concerto – è dedicata per la metà al repertorio barocco, che la Francia ha accolto senza troppi indugi e ne ha fatto una solida variante del pop nazionale, un po’ tra Chauvin e certo “falsettismo” d’accatto (Petibon, Jaroussky, etc). Lo specialista haendeliano Laurence Cummings (direttore della London Haendel Orchestra) dirigerà il Messia con il controtenore Timothy Mead, mentre l’organista, pianista, cantante e direttore Diego Fasolis sarà la bacchetta di un Farnace vivaldiano con Max Emanuel Cencic nel title role. Ancora Haendel (Giulio Cesare) con l’’”esperienza” di Alan Curtis e ancora Vivaldi (Giustino) con la direzione di Stefano Molardi e l’Anastasio della factotum José-Maria Lo Monaco, mezzosoprano che alterna regolarmente Rossini e Donizetti con Cherubini, Jommelli e Monteverdi. Si prosegue con Le stagioni di Haydn dirette da Paul McCreesh e la Didone di Cavalli, opera di non proprio semplice approccio, almeno all’ascolto: l’incognita(?) rimane William Christie, che è solito alternare esecuzioni interessanti ad altre improbabili – sua è la direzione di quell’inverecondo Ratto del serraglio con Ian Bostridge e Patricia Petibon – e la Didone di Anna Bonitatibus, sentita solo qualche settimana fa nelle Nozze di Figaro viennesi come Cherubino (così giovane e già così sgraziato…).
Se poi preoccupa la mancanza di legato di una Marlis Petersen nella Missa Solemnis di Beethoven diretta da Herreweghe, il dubbio si fa certezza quando sul podio della Clemenza di Tito troviamo Philippe Langrée, lo zenit della degenerazione più cruda del Mozart baroccaro (ultimi Don Giovanni a Milano e ad Aix-en-Provence). Il cast prevede la veterana mozartiana Malin Hartelius quale Vitellia, l’eccellenza del divismo (mezzo)sopranile Elina Garança (Sesto) e il Tito di Michael Schade, tenore meno “slavato” di quanto tanta prassi esecutiva del repertorio in questione possa far presagire. La stagione prosegue con altre due opere del salisburghese. E i titoli scelti sono tra i più celebri del compositore: Così fan tutte diretto da Jérémie Rhorer (Camilla Tilling, Anna Gravelius, Claire Debono, Bernard Richter, Markus Werba, Pietro Spagnoli) e Il flauto magico diretto da Jean-Christophe Spinosi, altro “esperto” del Mozart anticato con l’ammorbidente ammorbante. Poco entusiasmante anche l’ensemble vocale, tra cui compare il Papageno del flebile Markus Werba, il Pamino di Topi Lehtipuu - già diretto da Spinosi – e la Pamina del soprano barocco Sandrine Piau.
L’Ottocento italiano figura con due opere di largo consumo ma raramente rese alla dignità della loro statura musicale: un Don Pasquale nazionalpopolare in trasferta, concertato da Enrique Mazzola con un cast che prevede Lorenzo Regazzo, Gabriele Viviani – recente Belcore in Scala – i cocci di Alessandro Corbelli, la “canna” da musica leggera di Francesco Demuro e quel che resta dello strumento di Desirée Rancatore, che pare aver abbandonato ruoli fuori portata (Amina, Lucia) e buona parte dei palcoscenici italiani, fatto salvo qualche concerto in odor di agiografia (il recital a Pesaro, diventato tristemente noto per le “Ranca t-shirt”); e dei Capuleti e Montecchi che meritano considerazione, almeno nelle intenzioni: sorvolando sulla bacchetta interlocutoria di Pidò, avremo Olga Peretyatko nei panni di Giulietta e Juan Francisco Gatell in quelli, piuttosto concisi, di Tibaldo. Sono invece meno ottimista sul Romeo di Anna Caterina Antonacci…
Non mancano comunque all’appello Verdi e Puccini, il primo con la curiosa scelta dell’Oberto, su cui la direzione artistica pare voler scommettere considerata la rosa “prestigiosa” degli esecutori (dirige Rizzi; cantano Pertusi, Guleghina, Sartori e la più che discreta Gubanova), l’altro con la sempreverde Tosca, diretta dal buon Noseda – fresco dalla bella orchestrazione dei Vespri torinesi – e cantata da Svetla Vassileva – desaparecida dai teatri italiani – il tenore spinto (di gola) Riccardo Massi e il baritenore (diciamo così…) Lado Ataneli.

Di particolare interesse “archeologico” è invece il cartellone dell’Opéra-comique. Inaugura la stagione Amadis de Gaule – ultima opera di Johann Christian Bach – tragédie lyrique che venne presentata all’Opéra di Parigi nel 1779 e mai più ripresa in Francia. Dirige, ancora, Jérémie Rhorer. A febbraio, un omaggio all’arte declamatoria di provenienza italiana con Egisto di Cavalli, mentre a marzo, sull’onda del successo riscosso nel 2008, William Christie – più affidabile in repertori diversi da quello mozartiano – e il suo discusso complesso barocco “Les Arts Florissants” riproporranno la celebre Didone ed Enea di Purcell. La mise en scène è affidata alla brava Deborah Warner. Primo degli ultimi due titoli allestiti, La muta di Portici di Auber in aprile, diretta da Patrick Davin con l’Elvire di Eglise Gutiérrez – mai troppo a suo agio con la coloratura – e la regia di Emma Dante, sempre in testa quando il libretto prevede location sotto Roma. La stagione si chiude in giugno con i più rappresentati Pescatori di perle di Bizet: sul podio Leo Hussain e sul palco Sonya Yoncheva, Dmitry Korchak, André Heyboer e Nicolas Testé.

Veniamo ora alla programmazione di maggior visibilità, ossia i diciannove titoli messi in scena al Palais Garnier e all’Opéra-Bastille. Come accennato in capo al pezzo, la selezione appare piuttosto varia per quanto riguarda i compositori, meno per le opere scelte, denigrate da un’inflazione insensata, inversamente proporzionale alla qualità della loro esecuzione. Qualche esempio. Rossini è relegato ai soliti Cenerentola e Barbiere di Siviglia, quando solo la scorsa stagione pareva in germe la proposta di allestimenti tratti dal corpus tragico del pesarese. La direzione della prima è affidata a Bruno Campanella, che normalmente sa(prebbe?) garantire una buona dinamica orchestrale, almeno in Rossini. Destano però non poche perplessità le scritture dei cantanti, tra cui “spiccano” le presenze di Javier Camarena – per cui prevedo difficoltà a districarsi col passaggio superiore, in una parte qui secondaria ma particolarmente acuta – come Don Ramiro e di Karine Deshayes – soprano baroccò che passa dal Cherubino a Elena della Donna del lago (secondo cast al Garnier la scorsa stagione): una maledizione per le orecchie! – come Angelina (completano il cast Alex Esposito, Riccardo Novaro, Carlos Chausson, Jannette Fischer e Anna Wall). Ancora la Deshayes come Rosina nel Barbiere, al fianco del leggero Almaviva di Antonino Siragusa, al Bartolo di Maurizio Muraro (!) e al Figaro di Tassis Christoyannis. La bacchetta è di Marco Armiliato, direttore che mi sembra trovi maggior ispirazione nel melodramma di primo Novecento.
Inquietante la sorte che toccherà a Verdi, con due opere divenute oramai irrappresentabili per moria di esecutori, anche appena sufficienti: una Forza del destino che pare arrabattata alla bell’e meglio tra Firenze e Parma – Urmana, Alvarez, Stoyanov, Luperi, Krasteva e il Padre Guardiano di Kwanchul Youn, quasi sempre più a suo agio però con repertori extraitaliani – se non fosse per la direzione di Philippe Jordan, sempre di un certo interesse. E poi, manco a dirlo, Rigoletto. Non desta preoccupazioni il Duca di Piotr Beczala, visto e sentito nello stesso titolo in una fortunata produzione zurighese un lustro fa. Inquieta invece l’ennesima scrittura – nel title role – del greve Zeljko Lucic e della sempre metallica Nino Machaidze nel ruolo della di lui figlia.
L’ultima doppietta è dedicata a Strauss, con la Salome di Angela Denoke diretta da un interessante Pinchas Steinberg (sua la recente Butterfly torinese), mentre ancora Jordan sarà sul podio di Arabella – col peregrino ritorno di Renée Fleming dopo cinque anni di assenza dal ruolo – e di Pelléas et Mélisande, in cui “emerge” una Geneviève in versione senior a firma Ann Sophie von Otter. Il Novecento continua con La cerisaie di Fénelon, il raro Amore delle tre melarance di Prokofiev e la Lulu “di” Laura Aikin, che ha dichiarato di sentirsi cucito addosso il ruolo dell’ambigua antieroina berghiana. Ho tuttavia l’impressione che da qualche anno qualche punto sia saltato…
Fuori tempo massimo – dopo tanti, troppi Canio, Don Josè, Paolo il Bello – il ritorno di Roberto Alagna nel Faust di Gounod, di tessitura più consona a un medium che bene avrebbe fatto a tutelare anziché sforzarlo in ruoli che cozzavano con la sua anatomia. Paul Gay (Mefistofele) e quel che rimane di Inva Mula (Margherita) completano il cast, diretto da Alain Lombard. La stagione prosegue con Ippolito e Aricia di Rameau – diretta dalla fin troppo nota clavicembalista Emmanuelle Haïm – e con una Manon – da spedizione punitiva – alla cui testa figura Evelino Pidò. Cantano Natalie Dessay, Franck Ferrari e Giuseppe Filianoti, che si alterna però con quel Jean-François Borras da me apprezzato in parte nella scorsa Traviata dell’Aslico. L’allestimento di un’altra Clemenza di Tito a Parigi, oltre quella allo Champs-Elysées, testimonia invece come la ripresa di certi titoli segua mode difficili da prevedere e spiegare, come successe due anni or sono con Idomeneo, rappresentato a ogni latitudine europea. È poi la volta della Dama di picche, mentre l’unica rappresentanza wagneriana dopo il Ring – diretto da Jordan nelle due stagioni precedenti – sarà Tannhäuser, con il podio riempito da Mark Elder, il direttore stabile di Manchester che ha recentemente affossato a Londra un’Adriana già di per sé insalvabile. Tra i cantanti, preoccupa più la Venere di Sophie Koch – già mediocre Carlotta nel Werther “di” Kaufmann – che l’Elisabetta di Nina Stemme. Nella parte del cantore romantico, Christofer Ventris. Nulla di nuovo invece per il verismo italiano: dopo l’inaspettata Francesca di Zandonai della stagione corrente, ecco ritornare il dittico leoncaval-mascagnano Cavalleria rusticana e Pagliacci, quest’ultimo con il classico cast da casa di riposo (Marcello Giordani, Violeta Urmana, Stefania Toczyska, Franck Ferrari, Nicole Piccolomini). Capobanda: Daniel Oren.
Vorrei infine far notare che l’unico punto di interesse, o di curiosità, dell’intera stagione lirica sia una regia. Sto parlando del Don Giovanni che verrà messo in scena da Michael Haneke, apprezzabilissimo cineasta austriaco che ha prodotto alcuni dei suoi capolavori proprio nella capitale francese. Inutile non aspettarsi qualche “eccesso”. Verificheremo se, almeno per una volta, in continuità con il senso drammaturgico e musicale del capolavoro mozartiano. Nulla da dire sul cast, che pare un’autentica beffa: Patricia Petibon, Peter Mattei, Paata Burchuladze, Saimir Pirgu, Véronique Gens e David Bizic. Dirige però Jordan…



Gli ascolti

Auber - La Muette de Portici


Atto I - Plaisir du rang suprême...O moment enchanté - Frieda Hempel (1910)


Rossini - La Cenerentola

Atto I - Sprezzo quei don - Martine Dupuy (1990)


Verdi - Rigoletto

Atto II - Ella mi fu rapita...Parmi veder le lagrime - Alain Vanzo (1982)














1 commenti:

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Stagioni interlocutorie: certo che - abitassi a Parigi - non avrei dubbi su cosa scegliere. Per mio conto non metterei neppure piede alla Bastille... Le altre, invece, le trovo molto apprezzabili...