lunedì 25 luglio 2011

Italiana in Algeri alla Scala: secondo cast

Procedono con successo le repliche di Italiana in Algeri, produzione che si pone in continuità col progetto di far esibire gli allievi – per fortuna quelli più meritevoli… – della scuola interna al sedicente tempio mondiale della lirica, altrimenti detto “Teatro alla Scala”. Un successo però che, a ben vedere, considerate le condizioni di preparazione del pubblico, e occasional-generalista (applausi alle stecche) e “navigato” (si “discute” in coda delle mezze voci – ? – di Domingo), ricalca in toto la sceneggiatura prevedibile delle ultime, indiscutibili vittorie (Roméo et Juliette, Attila, …). Di Pirro, chiaramente. Perché sotto la stella – fioca ma protettrice – dell’Accademia, che patrocina l’alternanza di un doppio cast di cantanti tutt’altro che novellini, almeno nelle parti di rilievo, la sera dello scorso 13 luglio si è consumata non già una commedia bensì la più truce delle tragedie. Il protagonista, un tal Gioachino Rossini.

Se – come già rilevato in occasione della prima – lo spettacolo di Ponnelle mantiene una freschezza e una genuinità fuori dal tempo, pur inficiata – con la ripresa di Lorenza Cantini – da qualche banalizzazione di grana grossa (valga a titolo d’esempio la scena del Pappataci al secondo atto, trasformata in una sorta di meneito da balera estiva), ovviamente graditissima al pubblico presente, sul versante esecutivo tutto sembra convergere all’insegna del crisma dell’ormai purtroppo celebre “Rossini Décadence”. Che non è la revisione in salsa nostrana dei pruriti di Murakami, ma la negazione programmatica dei principi fondamentali del canto rossiniano, così ben esemplificati dalla “Renaissance” intorno agli anni Ottanta.
Qui, difatti, manca tutto: la percezione dell’accento nascosto; la scansione “di forza” del vocalizzo, del tutto galleggiante sul fiato; la perfetta copertura del suono nei tre registri, così da garantire uniformità alla coloratura; e non ultima, la suggestione timbrica. Ma sono tre le pecche – così esaltate in toto dalla seconda compagnia di questa Italiana – che ancor più di altre offendono il genio del pesarese. La buona riuscita di un dramma buffo rossiniano non può prescindere innanzitutto dall’efficace risoluzione del canto sillabico – nella fattispecie non particolarmente impegnativo – e delle strette, che al Piermarini sono risultati pasticciati e sconnessi sia nei momenti d’insieme (il vertiginoso quintetto di metà secondo atto, bofonchiato e mitragliato) sia nei passaggi solistici (peregrine le semicrome, buttate fuori a colpi di gola, della sortita di Mustafà nel primo atto).
Rimane poi misterioso – ma solo a chi continua a negare lo stato dell’arte – come si possa essere arrivati al capolinea di un Rossini declamato perché mai cantato, ossia l’abiura stessa di una scrittura che trova il proprio fulcro nelle virtù esclusive del cantante. Basta infatti che la linea vocale si distacchi appena dalle strette esigenze di legato che l’emissione finisce per diventare secca, priva di proiezione, affaticata perché fuor di norma e fuor di gusto. Tant’è che a corollario diventa facile individuare una completa inadeguatezza – diciamo pure inesistenza – del recitativo e della sua comprensione, considerato che gran parte dello svolgimento drammatico e dell’azione è concentrata proprio in quei momenti di raccordo. Di sutura, quasi. Perché a chi approccia l’Italiana non si chiede certo la cavata necessaria a risolvere le “tragiche” e onerose frasi che si avranno poi col Rossini napoletano (quello di Ermione o di Maometto II, per intenderci). È inaccettabile insomma ascoltare una declamazione costante in formato “vettura in riserva” e un recitativo sempre stimbrato e vociato, che vien dritto dal teatro di prosa!
Da rilevare infine come la concezione dello spettacolo mutui dagli anni ’50 giusto la tendenza al siparietto tutto esteriore – non certo la preparazione tecnica – che esalta l’usura del birignao e delle “caccolette” sapientemente inserite nei passaggi più ostici, a mo’ di salvagente. Censurabile in questo senso l’ultimo intervento di Mustafà (“Di veder e non veder”) sul ritmo di barcarola nel rapido finale secondo, sguaiato e caricato all’inverosimile, quasi che il bercio rientri tra le diverse opportunità di accentazione. Per non parlare di quel che succede nella stretta del finale primo, le cui onomatopee (“crà crà”, “bum, bum”) dovrebbero creare una bolla astratta di puro impeto musicale, mentre qui invece si trasformano in sferzate cacofoniche di pura gola, senza il minimo controllo della timbratura e soprattutto del gusto.
Nel progetto Accademia non rientrano solo i solisti ma anche la compagine strumentale. Ebbene, l’unica nota a favore di questa orchestra riguarda l’abilità di non far sembrare migliore quella titolare. Ed è detto tutto. In particolare, mediocrissimi gli assoli: pur soprassedendo alla stecca di una tromba nel duetto Mustafà-Isabella nel primo atto, lasciano di sale le spernacchiate e le svirgolate degli ottoni, la mancanza di vigore e la conseguente fiacchezza del corno che introduce la sortita di Lindoro, il flauto che presenta il cantabile dell’aria di Isabella nel secondo atto (“Per lui che adoro”), flebile e fisso. Lo stesso Antonello Allemandi, che in patrio suolo fu fischiato nell’ultima Lucia bolognese, riconferma la più totale estraneità al belcanto. Basterebbe soltanto osservarne il molle gesto per intuire cosa si stia producendo in buca. Ovvero una direzione senza mordente, che alterna con piglio manicheo momenti di eccessivo fulgore (le strette) ad altri di debolezza inaudita (inspiegabilmente lenta e metronomica nei due duetti di apertura). A conti fatti, una costruzione orchestrale priva della necessaria sicurezza ritmica e della coesione precisa tra palco e buca. Condizioni essenziali in linea generale, ma tanto più doverose per chi decide di approcciare il corpus rossiniano.
Rimangono i cantanti. Sarebbero già sufficienti i pochi elementi distintivi cui ho accennato poco sopra per tirare le dovute conclusioni, ma… vediamo in ogni caso qualche dettaglio. Silvia Tro Santafè (Isabella) è l’unica presenza nel cast a vantare una carriera internazionale. Presupposto che, considerata la resa nella serata in questione, rappresenta più un’aggravante che un elemento di eccellenza. Se l’interpolazione di alcuni acuti a piena voce risultano discreti per la stabilità dell’emissione, i difetti vengono a galla non appena la tessitura la costringe a gestire il legato e i pochi passi di canto spianato. Ne vien fuori un “Per lui ch’adoro” difettoso del necessario appoggio, con suoni pesanti in zona grave e una modulazione del fiato tutt’altro che adamantina. Imprecise le agilità, poco rifinite già dall’Allegro vivace in coda al duetto con Taddeo nel primo atto, fino al picchettato (“Del io colpo son sicura”) nel duettino con Mustafà in apertura di finale primo – quando il canto si fa matematica – raffazzonato fin da impedire la comprensione di quali note stia eseguendo. Del Mustafà di Simon Lim ho già detto come il declamato e il ricorso alla tradizione dei cachinni ne comprometta la regolare definizione del personaggio. Non aiuta poi certo l’intonazione ballerina, in particolare nei momenti d’insieme. Con ogni probabilità, le schiere di “cuorcontenti” della rete e della stampa si sperticheranno per far passare la fola del Lindoro “nervoso”. In realtà, Enrico Iviglia tratteggia invece il nadir dell’amoroso romantico. Prima ancora a livello scenico che vocale. Il tremolio, lo scatto febbrile, la dinamica isterica del corpo e della testa che accompagnano l’esecuzione della coloratura rimanda facilmente a un immaginario collettivo ben definito: il saggio di fine anno. Il coté tecnico, poi, è quello che è. Un timbro piuttosto frigido di natura; una gestione approssimata della linea vocale, sempre spigolosa e poco omogenea; recitativi parlati; suono spettrale nei – pur svariati – tentativi di smorzare e variare il fraseggio, riconfermando l’impossibilità oggigiorno di ascoltare un’autentica mezzavoce in ambito rossiniano. La memoria discografica - è vero - manca poi restituirci Taddei di particolare rilievo, ma quello costantemente “marcato” da Filippo Fontana segna senza dubbio un punto di non ritorno: l’opera (ben) recitata ma non cantata. Scordando i due acuti sparacchiati nel finale, posso dire di aver scoperto un buon attore di prosa. Tra i comprimari emerge però la sonora e garbata Zulma di Kleopatra Papatheologou, senza dubbio superiore alla media delle schiave delle stagioni ufficiali.
Lascio ai nostri lettori le conclusioni di rito...

4 commenti:

domenico ha detto...

Questa ripresa di Italiana non merita neppure una critica. Vocalmente NON da Scala ma semmai da teatro di provincia. Ma la delusione maggiore è stata la Contini. Non esisteva piu' lo spettacolo di Ponnelle che ricordo con estremo piacere. Luci mal date. movimenti scenici assolutamente diversi dalla perfezione intelligente che Ponnelle aveva creato. Routine? Puo' essere. Vista una recita non ho trovato lo stimolo per una seconda volta. Problemi di età? Forse , ma piu' probabilmente l'inutilità di rivedere uno spettacolo appunto di routne.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Anche io ho visto solo il secondo cast...e devo dire che parlare di routine è fare un complimento. A parte la questione di principio (liberissima la Scala di fare dei saggi di fine anno per la propria Accademia...ma almeno dovrebbe avere il buon gusto di offrirli a prezzi fortemente ribassati o gratuitamente), questo spettacolo era indecente anche per un teatro di provincia. Non mi soffermo sui cantanti, ma effettivamente la regia è stata un insulto all'intelligenza di Ponnelle...se si riprende una regia storica bisognerebbe avere maggior cura e rispetto...e non trasformarla in una farsa volgare in stile Bagaglino...

aurelio ha detto...

La regia di questa Italiana in Algeri mi ha lasciato in effetti abbastanza perplesso; ero convinto fosse la regia originale di Ponnelle e l'avevo giudicata molto inferiore a quella del Barbiere di Siviglia dell'anno scorso, che mi aveva davvero preso per ispirazione, movimenti, vitalità. Andrò un giorno a cercare una versione originale di qualche decennio fa, sapete se ne esiste un video?

Sono d'accordo sulla questione di principio, e penso che la Scala dovrebbe avere l'ulteriore buon gusto di indicare il cast effettivo delle recite già al momento della apertura delle vendite dei biglietti (comprato un cast... visto il suo complementare!). Questa è una cosa che considero una presa in giro nei confronti dello spettatore.

Durante la recita che ho visto (sabato 9 luglio) Silvia Santafé è stata decisamente la migliore, nonostante un deludente duettino con Mustafà (come nella vostra recensione). Il resto invece abbastanza deludente, in certe parti dello spettacolo non riuscivo a percepire le voci né del basso basso né del tenore!

justsmile ha detto...

Già la prima compagnia lasciava fintroppo da desiderare,
posso solo immaginare la "seconda" (mi è bastato andare al concerto (saggio) finale degli allievi "solisti" in teatro con l'orchestra)!!
Per quanto riguarda Cantini e regia.... sono due cose che non vanno mai bene insieme!