martedì 19 luglio 2011

Seduzione al convento. Prima puntata: lacerti di seduzione.

Dopo il prologo donzelliano, abbiamo scelto di affidare la prima puntata di "Seduzione al convento", dedicata alle Manon più "antiche", a un affezionato lettore del nostro Corriere, che per l'occasione depone i panni dell'acuto e intransigente polemista per iniziare a rivestire quelli del critico e studioso della vocalità. Non meno acuto e altrettanto intransigente. E' con gioia che cediamo la parola a Giambattista Mancini.

La prima rappresentazione di Manon, all’Opéra-Comique nel gennaio del 1884, vide nei panni della protagonista il soprano belga Marie Heilbron (1851-1886), allieva di Duprez, voce lirica con buone qualità sceniche ed attoriali. La cantante, che nel ’67 aveva creato all’Opéra-Comique un altro ruolo massenettiano ne La grand’tante, si trovava ora, tornata sulle scene dopo un temporaneo ritiro, a fare da rimpiazzo alla prima scelta di Massenet, impedita all’ultimo momento da alcuni intralci contrattuali. Nondimeno, la fisionomia definitiva di Manon si sarebbe delineata solo di lì a qualche anno, quando, già morta la giovane Heilbron, il compositore incontrò il soprano californiano Sybil Sanderson (1864-1903), per cui la parte subì alcune alterazioni poi incorporate nell’edizione definitiva. La collaborazione tra i due fu proficua, e proseguì con la creazione dei title roles in Esclarmonde e Thaïs. Formatasi nella prestigiosa scuola parigina di Mathilde Marchesi, la Sanderson possedeva una voce cristallina, ben versata nell’agilità e fornita di una grandissima estensione, unita ad intense doti d’interprete.
A questo modello originale di soprano massenettiano pre-verista, si riferisce l’ascolto qui proposto della svedese Sigrid Arnoldson (1861-1943), che incide la scena della seduzione di Saint-Sulpice nel 1910, anno in cui, imminente il ritiro, la voce attraversava già un certo declino. Come la Sanderson, anche la Arnoldson – istruita inizialmente a Stoccolma dal padre tenore - si perfezionò a Parigi con Mathilde Marchesi, studiando anche con il pianista ed impresario Moritz Strakosch (colui che trent’anni prima aveva lanciato la carriera della giovanissima allieva nonché cognata Adelina Patti, in America). La Marchesi, allieva del Garcia, come insegnante si era fatta portavoce in tempi romantici della tecnica di canto classica, licenziando allievi in grado di affrontare i repertori più disparati. Soprano d’agilità tendente al lirico, soprannominata dalla critica “the new Swedish Nightingale” per la somiglianza con la grande Jenny Lind (altra famosa allieva del Garcia), la Arnoldson cantava abitualmente opere come Barbiere, Don Giovanni (Zerlina), Lakmé, Ugonotti (Margherita di Valois), Mignon, Traviata, Faust, Roméo. L’assolo di Manon nel duetto di Saint-Sulpice, brano di carattere lirico, fa risaltare non solo l’impeccabile e virtuosa esecutrice, ma anche le qualità dell’interprete, evidenziando come il cantare secondo le regole non comporti affatto l’appiattimento dell’espressione ad un freddo accademismo, e dimostrando anzi come solo nel rispetto delle buone maniere vocali possa pienamente realizzarsi quanto scritto sullo spartito e voluto dal compositore. Le frasi larghe ed appassionate che introducono il “N’est-ce plus ma main”, imperniate su di una tessitura centrale in cui emergono le parabole in zona medio acuta (sentire la metafora del volo dell’augel), sono scandite con suono intenso ma sempre controllato, accento partecipe pur senza eccessi, colori appropriati, oltreché con minuzioso rispetto delle forcelle e dei rallentando, rappresentando in modo convincente e sfaccettato il rimorso di una giovane donna che chiede perdono con costernazione quasi pletorica, probabilmente già intuendo che l’amante non potrà resistere alla tentazione di tanta seduzione. La voce, che all’epoca dell’incisione non possedeva più l’estensione e la freschezza timbrica giovanili, conserva ancora un colore molto morbido, appare sicura al centro e ben timbrata in zona grave (la discesa al re in prima ottava, nota di puro petto, è vellutata, senza crepe), facile nella salita agli acuti, pur viziati da un principio di fissità (sicuramente accentuata dalla tecnica primitiva della riproduzione). La seduzione vera e propria è cantata con un uso accorto e strumentale dei portamenti a discendere, sfruttati a fini espressivi ove le legature di frase lo consentono, onde suggerire un maggior richiamo sensuale; l’articolazione fluida e sul fiato della parola (in un francese impeccabile, scioltissimo) le consente un legato di qualità strumentale che disegna una linea di canto molto pulita, in cui il gioco delle pause, dei rallentando e delle note ritenute, dei continui crescendo e diminuendo, degli accenti e dei respiri, si sviluppa con infallibile quadratura musicale. Molto efficace, e senza una minima ombra di caricatura, è l’uso dei diversi registri e dell’effetto “chiaro-scuro” nello sbalzo dalla zona medio-acuta ai fa centrali ribattuti (sulle parole “Rappelle toi…” ed “Ecoute moi”) mentre si ravvisa la pregevole abilità della virtuosa quando il climax della seduzione giunge al culmine, sull’attacco scoperto del SI bemolle di “N’est-ce plus ma voix”, fatto precedere da un mezzo respiro come scritto in partitura, e preso senza portamento o acciaccatura, con un suono di testa precisissimo, dolce e cristallino. Quella della Arnoldson, senza essere un’interpretazione di quelle che fanno la storia, è prima di tutto una lezione esemplare di stile sobrio e fedeltà al testo, scevra da manierismi, effettacci e bamboleggiamenti vari. Avremmo gradito solo un impiego di tempi più insinuanti e carezzevoli, ed un ricorso più marcato al rubato, il che sarebbe bastato a fare di questa Manon una più sensuale adescatrice, meno gentildonna compita.
Con i primi decenni del Novecento verrà tuttavia a delinearsi un approccio interpretativo – nel dramma musicale verista in primis, e al contempo nel repertorio lyrique e pucciniano – diverso rispetto allo stile che caratterizzò i primissimi esecutori di quei repertori, legati ancora ai principi tecnici e stilistici ottocenteschi. Il modello che fece scuola fu quello di Emma Carelli - che a sua volta si inseriva sul solco tracciato dalla vessillifera Bellincioni – mentre cantanti come Hariclea Darclée (erede delle prime donne ottocentesche, accostatasi al repertorio lirico e verista ma sempre lontana dalle realizzazioni impetuose delle autentiche veriste) non segnarono nessuna tendenza.

Troviamo tutti gli stilemi di questa nuova vocalità nell’incisione di Giuseppina Baldassarre-Tedeschi (1881-1961), appartenente a quella schiera di soprani lirici e lirico-spinti che si specializzarono in un repertorio misto tra il Verismo, Puccini e l’opéra lyrique, seguendo ed esasperando le formule interpretative venute in auge con la Carelli. Sentiamo quindi la scansione incisiva della parola e l’accentazione marcata (con conseguente depauperamento del legato), il fraseggio aggressivo, tagliente ed insinuante (con frequenti sconfinamenti nell’effetto plateale, come ad esempio sulle parole “non mi scacciar, non mi scordar”, in cui la ricerca esasperata di un suono e di un accento realisti produce un effetto quasi caricaturale), le inflessioni aperte e bamboleggianti nel registro grave e centrale, l’abuso dei suoni di petto (sentire la voce poitrinée nella discesa al RE su “ai vetri del verone”), l’emissione costantemente tesa, forzata e talvolta sguaiata, i martellamenti sui primi acuti (il SI bemolle è ghermito con veemenza quasi brutale), il piglio generalmente aggressivo. E’ una Manon assatanata, esageratamente sensuale, tanto da risultare rozza e plateale, soprattutto nel confronto con il Des Grieux del tenore Manfredi Polverosi, stilisticamente e vocalmente assai più garbato. Una Manon unidimensionale, che con la sua violenta concitazione e la sua immediata passionalità esprime un amore di natura esclusivamente carnale, privo di dolcezza e di sentimentalità. E’ bene però precisare che pur nel sovvertimento, per ragioni stilistiche ed espressive, delle buone maniere vocali, il canto della Baldassarre-Tedeschi è comunque retto da una salda preparazione di fondo, tale da consentirle talune efficaci effusioni belcantistiche (il LA acuto in pianissimo di “negli occhi miei sì pieni un dì d’incanto”, oppure i brevi vocalizzi, snocciolati con perfetto slancio e mordente).

Sulla medesima falsariga si pone la versione di Florica Cristoforeanu (1887-1960), soprano romeno che prima di passare al registro mezzosopranile affrontò il repertorio del soprano lirico-spinto (Tosca, Butterfly, Fedora, Adriana ecc.). L’incisione si segnala soprattutto per la presenza dell’ottimo Des Grieux del giovane Giovanni Malipiero, un rappresentante della scuola vocale pre-verista, in grado di reggere senza sforzo il peso orchestrale, la tessitura tesa e il carattere veemente del quadro di Saint-Sulpice. La Cristoforeanu mostra suoni aperti e sguaiati in basso (soprattutto sulla vocale “a”), un suono vibrante, intensissimo, tagliente, soprattutto negli scatti repentini verso la zona acuta (assordante la salita al la bemolle acuto ritenuto di “con ala disperata”), un fraseggio ansimante e singhiozzante che non rispetta i respiri scritti sullo spartito ma almeno evita le esagerazioni plateali della Baldassarre-Tedeschi.

Tutt’altro tipo di Verismo è quello della cagliaritana Carmen Melis (1885-1967), oggi ricordata quasi esclusivamente per essere stata la maestra di Renata Tebaldi, ma in effetti autentica belcantista per formazione tecnica (era stata allieva di Cotogni e di J. de Reszke), cantante-attrice dalla voce tendente al lirico o lirico-spinto, specialista del repertorio pucciniano e della giovane scuola. Il suo è un Verismo che guarda più al sentimentalismo larmoyant di una Rosina Storchio, anziché alla concitazione ansante di una Carelli, un verismo languido ed elegante, in cui si esprime benissimo la vena intimistica del dramma borghese massenettiano. La sua incisione dell’acme della scena di St-Sulpice si pone a nostro giudizio quale assoluto paradigma di espressività, gusto e stile. La dizione è scanditissima ma non intacca la bellezza della linea di canto e la naturale dolcezza di un timbro capace di flettersi a squisite colorazioni chiaroscurali da pastello; l’accento ed il fraseggio, pur commossi e partecipi e talvolta addirittura brucianti, sono sempre pertinenti e non sfociano mai nella forzatura plateale, risultando pertanto assai credibili e variegati. Il tempo indugiante, il marcato ricorso al rubato, gli stessi silenzi nelle pause e nei respiri tentennanti, sprigionano una forte carica di erotismo e sensualità. Perfetto è il gioco dei pianissimi e dei rinforzamenti, dei portamenti strascicati e delle legature, in una linea essenziale, pulita ed intrinsecamente espressiva poiché scevra da qualsiasi forzatura di suono o d’accento. Tra quelle qui proposte, questa è l’unica interpretazione di Manon che riesca ad esprimere in modo del tutto compiuto sia il carattere voluttuoso, raffinato ed insinuante della giovane cortigiana, sia la sentimentalità della donna innamorata, sinceramente triste e pentita. Qui davvero è il caso di dire, utilizzando quella frase altrove così abusata, che sembra di sentire cantare la parte per la prima volta.

Giambattista Mancini


Gli ascolti

Massenet - Manon


Atto III

Toi! Vous!...N'est-ce plus ma main

Sigrid Arnoldson (1910)

Giuseppina Baldassarre Tedeschi & Manfredi Polverosi (1922)

Carmen Melis (1926)

Florica Cristoforeanu & Giovanni Malipiero (1930)

8 commenti:

Giulia Grisi ha detto...

Caro Mancini,
mi complimento per la sua detagliatissima ed affidabile presentazione delle arcaiche Manon.
divinamente.

Giambattista Mancini ha detto...

Grazie Divina.

pasquale ha detto...

non lo sò se il nostro Mancini alias belcanto sia il nostro Cesco
nel caso mi fa piacere che le "pulci" crescono...
bravo Mancini un ottimo post l'ho letto con vero piacere
comunque la Melis almeno per me non è ricordata solo perchè è stata la maestra della Tebaldi anche perchè ha lasciato una sua impronta nel suo modo di cantare,come tu giustamente scrivi
complimenti Mancini per il tuo primo post.

Giambattista Mancini ha detto...

Grazie Pasquale, molto gentile.

silvio ha detto...

ma che ne pensi Mancini della registrazione di Germaine Feraldy? E di quell'altra, quasi completa, dei primi anni venti? Trovo la Arnoldson molto notevole, anche se a livello interpretativo manca sempre qualche cosa...

silvio ha detto...

e soprattutto Polverosi era un tenore immenso! Ho due sole incisioni sue, difficili da reperire, e quest'altra mi arricchisce molto. Grazie

Domenico Donzelli ha detto...

la registrazione della heldy con polverosi confesso di non conoscerla ma la heldy con ansseau è assolutamente splendida. tanto per essere ovvi ci sarà anche la puntata per lei e per la vallin le grandi manon francesi

silvio ha detto...

questo speravo di sentire da te! E, ripeto, la Feraldy no? perchè eliminarla così? Certo, la Heldi è più grande, ma....