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venerdì 24 ottobre 2008

L'arte della primadonna: Romeo Montecchi di Bellini

Son note le ragioni per cui ho dovuto ridurre un antico mio melodramma, intitolato Giulietta e Romeo, non so se più bene o più male, nella forma in cui viene adesso rappresentato. Una sola io ne dirò, forse da pochi avvertita, e si è quella ch’io dovea tor di mezzo tutto ciò che avrebbe potuto dar luogo a con­fronti fra la vecchia e la recente musica; confronti a cui certamente avrebbe ripugnato la modestia del giovine Compositore. Chi sa quanto costi camminare su tracce di già segnate, e sostituire nuovi concetti ai già scritti, che pur sempre ricorrono al pensiere, scuserà di leggieri i difetti di cui di certo abbonderà il mio lavoro. Co­stretti dall’angustia del tempo, tanto io che il Maestro, ad un’estrema brevità, e persuasi ad omettere parecchie scene di recitativi che avrebbero giustificato l’andamento del Dramma, abbiam diviso l’Azione in quattro parti, perché negli intervalli che passano fra le une e le altre la mente dello spettatore supplisce a quello che non appare: nulla dimeno le due prime si fanno di seguito per servire all’usanza d’oggidì, e alla terza soltanto si cala il Sipario per agevolare la decorazione. Mi sia perdonato cotesto arbitrio, se non per altro perché non prolunga lo spettacolo.

Felice Romani

Così spiegava Felice Romani in testa al libretto dei Capuleti e Montecchi di Vincenzo Bellini, opera nata reimpiegando le parole già scritte per il Giulietta e Romeo di Vaccaj.

L’incipit del grande librettista tradisce ancor oggi l’ottocentesca vicarianza di testi e poi di musiche tra le due opere, una vicarianza legata alle consuete prassi di intervento sugli spartiti per mano dei grandi artisti ma, in questo caso, anche da veri e propri giudizi di valore sull’opera belliniana.
Distillato della poetica romantica, Romeo incarna l’amore giovanile, irrazionale ed incosciente, nobilmente eroico ed appassionato. Le rappresentazioni ideali ed idealiste tipiche della poetica rossiniana lasciano spazio in Romeo ad un personaggio meno aulico ma pienamente…romantico. Il lato guerriero è smorzato, perché in primo piano vi è sempre la passione per Giulietta. Il melomane del belcanto è oggi appagato dalla sequenza di numeri di cui consta la parte, che passa dal canto lirico della sortita Se Romeo t’uccise un figlio seguito dalla marziale Tremenda ultrice spada, dove l’eroe da subito sfida i nemici Capuleti; il grande duetto d’amore, ove si alternano un canto di slancio nel recitativo di incontro e quello amoroso della sezione centrale, connotato dal contrasto tra progetto di fuga e dovere filiale; di nuovo l’ardimento e la sfida di Romeo prima del concertato di chiusura d’atto; il desolato e malinconico recitativo accompagnato dal clarinetto che precede la sfida con Tebaldo; lo struggente e patetico finale della morte, luogo di elezione della primadonna fraseggiatrice. Il brevissimo tempo a disposizione per la composizione ( dal 19 gennaio a 5 marzo 1830 ) costrinse Felice Romani al remake del libretto scritto per Vaccaj e Bellini al riuso di parecchi numeri della sua Zaira, oltre che l’aria di Nelly dall’Adelson e Salvini. Condizioni difficili, dunque, per lavorare ad un’opera che, grazie al soggetto celeberrimo, li metteva direttamente in confronto con il Giulietta e Romeo di Zingarelli, ( opera del 1796 per la coppia Grassini – Crescentini, poi riportato in auge da Velluti e dalla Pasta ) e con quello di Vaccaj.

La storia delle rappresentazioni ottocentesche dei Capuleti di fatto coincide con la storia delle trasformazioni operate sul testo originario, in primissima battuta da Bellini, ma e soprattutto dalle primedonne celebri, interpreti di Romeo. Alla prima rappresentazione l’opera ebbe un grandissimo successo di pubblico e critica: alcuni da subito non mancarono di sottolineare l’evidenza del modello belliniano per il finale, ispirato a quello di Zingarelli ed impostato sull’alternanza recitativo – cantabile – recitativo – cantabile. Del tutto unica, ma anticipatrice del destino futuro dell’opera, una critica che sottolineava la freddezza del finale di Bellini rispetto sia a Zingarelli che al finale di Vaccaj, a sua volta strutturato diversamente in due numeri chiusi e separati ( il primo di Romeo e l’ultimo di Giulietta ) secondo tradizione. Quello di Bellini venne giudicato toccante ma meno commovente, e questo nonostante la grande interpretazione fornita dalla primadonna, Giuditta Grisi. E sempre con la Grisi ebbe luogo la prima ripresa dell’opera fuori da Venezia, a Senigallia, con grande successo, tanto che poi l’impresario Crivelli organizzò la ripresa dell’opera in Scala. Nonostante la Grisi avesse già domandato un rifacimento di parole e musica per la cavatina di sortita, che riteneva inadatta al suo peso vocale, a Milano andò in scena una revisione per due mezzosoprani, con la trasposizione della parte di Giulietta. E non è un caso che le variazioni di Rossini per La tremenda ultrice spada, siano datate proprio al 1830 e, dunque, riconducibili per datazione alle pretese della Grisi. Per la Scala Bellini non fece alcun mutamento per la parte di Romeo, a meno dell’abbassamento di mezzo tono del duetto del primo atto, pur non gradendo i cambiamenti imposti dall’impresario: il successo fu grande ma non convincente come a Venezia. E lo spettro dell’opera di Vaccaj si delineò in quell’occasione con tutta evidenza anche nella critica, che iniziò ad indicarne chiaramente la superiorità dell’intera opera rispetto a quella di Bellini. La filolologia moderna ha ampliamente dimostrato come la sostituzione del finale di Bellini con quello di Vaccaj, prassi inaugurata dalla Ferlotti nel 1831 alla Pergola di Firenze e poi ripresa l’anno dopo,dalla Malibran a Bologna ( Romeo anche nel ’33 a Napoli, poi nel ’34 e nel ’36 alla Scala di Milano ), sia stata effettiva risposta al gusto del pubblico, forse ancora molto legato ai modelli rossiniani. La prassi divenne talmente solida che anche altre parti dell’opera di Vaccaj vennero innestate in quella belliniana. Le inserzioni si ampliarono anche ad altre partiture con la stessa Maria Malibran, notoriamente liberissima nell’adattamento degli spartiti, che vi inserì un duetto di Mercadante ed un brano del Celli. Il cambiamento del finale operato da una diva celeberrima di certo contribuì a dare autorevolezza all’operazione, ripetuta numerose volte da altre cantanti più o meno famose, tanto che il brano venne addirittura inserito nelle edizioni a stampa dello spartito al posto di quello di Bellini. Così accadde di nuovo al Théatre des Italiens a Parigi nel 1833, artefice ancora Giuditta Grisi, dove l’opera non aveva riscosso un pieno successo, e di nuovo a Torino 3 anni dopo, sempre con la stessa cantante. A Parigi gli inserti importarono mutamenti robusti operati da un altro musicista, Antonio Marliani, che scrisse una sinfonia e una nuova cavatina per Giulietta ( in quell’occasione interpretata per la prima volta da Giulia Grisi ), e la sostituzione del duetto d’amore del primo atto con un duetto di Marc’Antonio Viviani. Le critiche, ciò nonostante, continuarono anche in terra francese, come pure in Inghilterra ed Germania. Romeo Montecchi trovò grandi e rinomate interpreti in Wilhemine Schroeder Devrient a Dresda, poi a Francoforte, Kassel, Weimar, Lipsia...; a Londra nel ‘33 con Giuditta Pasta e nel ’48, con Pauline Viardot. Anche Caroline Unger fu un celebrato Romeo.

Controcorrente rispetto alla prassi della manomissione del testo autografo, nel '34 andò, forse per prima, la Ronzi, al teatro alla Pergola di Firenze, ripristinando il finale di Bellini. La Ronzi fu Romeo numerose volte, solo al San Carlo di Napoli nel 31, ’32, ’34, ’37. Sostenne la fedeltà a Bellini che addirittura Romani propugnò apertamente sulla stampa, nel ’36 a Torino, contro la Grisi, rea di perseverare in una ”amputazione” che, a dire della primadonna, derivava dallo scarso apprezzamento del pubblico per il brano. Soltanto la critica tedesca, sebbene giudicasse l’opera piuttosto povera di invenzione musicale e di originalità, dimostrò una aperta preferenza per il finale di Bellini, ritenendo quello di Vaccaj uno stile ormai superato ed arcaico, mentre quella inglese, ad onta del successo di pubblico, continuò a manifestare riserve per Bellini, e per i Capuleti, ritenuti “persino” peggiori di Norma!!

Le alterne fortune di questa opera, che si eclissò chiaramente dai cartelloni della seconda metà del XIX secolo ( nemmeno Barbara Marchisio, ultima praticante del belcanto protoromantico, risulta interprete del titolo …, solo la Borghi Mamo e la Biancolini, ma sporadicamente ) provano l’eterogeneità del gusto che caratterizzava il teatro d’opera italiano alle prese con le produzioni post rossiniane. Tradizione di modello rossiniano ed innovazione si confrontarono e scontrarono tra pubblico come tra i solisti e nella critica. Alla ricerca del successo la primadonna ben sapeva che questo era legato alle qualità esecutive ed interpretative, ma anche a quelle musicali dello spartito, alle cui carenze era lecito che una grande artista supplisse operando su di esso in prima persona….ad libitum. Il Romeo dei Capuleti belliniani, sebbene sempre al centro di discussioni e critiche, restò comunque un ruolo di moda, ambito per almeno 15-20 anni dai grandi contralti en travestì. Era evidentemente la poetica del personaggio che spingeva le primedonne a superare ogni riserva di altro genere: spada, mantello, canto amoroso, duello e scena di tomba erano un mix comunque vincente ed attraente per l’interprete in pantaloni.

Dopo un silenzio di mezzo secolo, rotto da episodiche riprese legate ad una cantante di repertorio belcantista ma ormai contaminata, nel gusto, dal verismo, cioè Guerrina Fabbri ( quasi certamente interprete del finale Vaccaj... ), Romeo è rientrato nel repertorio mezzosopranile solo con la belcanto renaissance. Dapprima la Simionato e la Cossotto, poi le virtuose pure come la Horne e soprattutto la celebratissima Dupuy interpretarono il ruolo. A riprova del fascino esercitato nei tempi moderni come nell’Ottocento a questo personaggio, anche cantanti di diversa estrazione, come Tatiana Troyanos, e persino belcantiste improvvisate quanto improbabili come Agnes Baltsa lo hanno interpretato.

La cronologia delle principali rappresentazioni moderne dell'opera annovera riprese in teatri americani ed italiani. Alla Carnegie Hall, con Giulietta Simionato e Laurel Hurley nel 1958, quindi nel 1964 con Mary Costa; nel 1971 con Marilyn Horne e Patricia Brooks; a Dallas nel 1977 sempre con la Horne che in quella occasione eseguì il finale di Vaccaj. In Italia, nel 1958, alla RAI di Milano con la giovanissima Fiorenza Cossotto, quindi a Catania, nel 1959, con Rosanna Carteri ed Irene Companeez .
Per la prima volta alla Scala di Milano, nel 1968, sotto la direzione di Claudio Abbado l'opera venne antistoricamente riproposta con Romeo in versione tenorile, protagonista Jaime Aragall, in compagnia di Renata Scotto e Luciano Pavarotti. Si instaurò in quella circostanza una sorta di piccola tradizione, perchè altre produzioni con il tenore protagonista si ebbe anche per una successiva tournée della Scala a Montreal, nelle produzioni di L'Aja, nel 1970 a Catania (Renzo Casellato) e alla Fenice di Venezia nel 1973 (Luchetti in compagnia di Katia Ricciarelli come Giulietta). Nel 1975 l'opera viene incisa da Janet Baker con Beverly Sills, che aveva debuttato Giulietta lo stesso anno a Boston, in compagnia di Tatiana Troyanos. Nel 1977 viene rappresentata anche alla Wiener Staatsoper con Agnes Baltsa e Sona Ghazarian. Numerose le riprese italiane: a Palermo nel 1976 con Maria Luisa Nave e Maria Chiara, a Catania nel 1978 con Salvatore Fisichella e Margherita Guglielmi e nel 1986 con Helga Mueller-Molinari e Nelly Miricioiu. Altra interprete non proprio aderente ai principi e ai modelli ideali del Belcanto fu Anna Caterina Antonacci.
Fu Martine Dupuy il Romeo più acclamato della Belcanto renaissance, che ne vestì i panni in numerosissime occasioni tra cui Verona 1978, Roma e Napoli 1979, Martina Franca 1980, Reggio Emilia 1981, Palermo 1982, Verona e Brescia 1983, Bologna 1989, Torino 1994 e all'estero Caracas 1982, Marseille 1985, Utrecht e Bruxelles 1986, Londra 1986-88, Ginevra 1990, Amsterdam 1994.
Oggi Romeo Montecchi è intepretato sui principali palcoscenici da Sonia Ganassi, Daniela Barcellona, Vesselina Kasarova, Joyce Di Donato ed Elina Garanca, sebbene con un tasso vocale e stilistico non pienamente aderente agli stilemi del belcanto.

Un suggerimento per gli ascolti, volutamente provocatorio da parte mia, è quello di confrontare l'esecuzione della Tremenda ultrice spada, interpreti una contestatissima, in quanto verista, Agnes Baltsa scaligera ed una trionfante Joyce Di Donato, nella recente esecuzione parigina. A riprova che gli ultimi vent'anni hanno di fatto sdoganato, presso il pubblico, un gusto retrò per il canto sguaiato, inammissibile sino alla fine degli anni '80, e che talora suona come unareminiscenza del canto paraverista della Fabbri.
Vi proponiamo anche il finale Vaccaj, che ben si capisce perchè fosse preferito a quello belliniano da talune grandi primedonne del tempo. L'omaggio è anche alla "filologia pratica e applicata" della Horne, cui và tutto il nostro plauso.

Gli ascolti

Bellini - I Capuleti e i Montecchi

Atto I
Se Romeo t'uccise un figlio...La tremenda, ultrice spada - Guerrina Fabbri, Marilyn Horne, Martine Dupuy, Agnes Baltsa, Joyce Di Donato (solo la cabaletta)
Sì fuggire, a noi non resta - Tatiana Troyanos & Beverly Sills, Martine Dupuy & Lella Cuberli

Atto II
Deserto è il loco...Stolto! A un sol mio grido - Fiorenza Cossotto & Renato Gavarini, Veriano Luchetti & Giorgio Merighi, Martine Dupuy & Vincenzo La Scola
Ecco la tomba...Deh, tu bell'anima - Giulietta Simionato, Jaime Aragall, Tatiana Troyanos, Martine Dupuy

Finale alternativo di Nicola Vaccai - Marilyn Horne & Linda Zoghby

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mercoledì 11 giugno 2008

Meyerbeer e la sua Fidès, la voce protagonista.


Frutto di 6 anni di lavoro intenso Le prophète fu opera per lungo tempo al centro dell'attenzione del mondo musicale. La prima rappresentazione all'Opéra di Parigi nell'aprile del 1849 e quella di poco successiva a Londra (in italiano), con Pauline Viardot come Fidès e nel ruolo di Jean di Leyda Gustave Roger a Parigi e a Londra il celebre Mario, furono enormi successi che guadagnarono a Meyerbeer ammirazione ed onore, in Italia quella di Giuseppe Verdi per esempio, che terrà sempre in grande considerazione questo lavoro, mentre le rappresentazioni in Germania scatenarono reazioni opposte, ossia lo sdegno di Schumann e Wagner, che di lì a poco pubblicò il libello Il giudaismo in musica in cui inveiva contro Meyerbeer.

L'opera rimase stabilmente in repertorio fino ad almeno gli anni 20, meno riproposta forse de Les Huguenots, ma ugualmente adatta ad essere veicolo per riunire una grande compagnia di canto, un grande direttore d'orchestra, insomma per creare un grande allestimento, nella migliore tradizione del Grand-Opéra francese.
Fra le prime parti, la vera protagonista dell'opera possiamo dire sia Fidès, la madre del profeta del titolo, Jean de Leyda. Si tratta di una figura dalle molte sfaccettature, madre benevola, figura patetica nei primi atti, negli ultimi due invece imponente e maestosa. Non è difficile vedere in Fidès i tratti che possono aver ispirato a Verdi l'Azucena del Trovatore, che Verdi appunto voleva come vera protagonista della sua opera, come lo è Fidès nel Prophète. A lei Meyerbeer affida molti momenti pregevoli nella partitura, dal primo duetto con Berthe all'arioso Ah, mon fils, dall'invettiva del finale IV a tutto il V atto composto da una grande scena di bravura per Fidès, un duetto madre-figlio, un terzetto con Berthe e il finale all'unisono con Jean de Leyda. Parte dalle grandi richieste e possibilità, da grandi primedonne, cui è richiesto non solo di reggere la lunghezza dell'opera, ma soprattutto di affrontare una tessitura non agevole (due ottave e mezza, dal la grave toccato con frequenza a si naturali e do) e di dover affrontare l'ampio orchestrale meyerbeeriano. Una parte insomma solo per grandissime cantanti, come era appunto Pauline Viardot, la prima interprete, e come altre grandi detentrici del ruolo quali Adelaide Borghi-Mamo, Marie Delna, Marianne Brandt, Ernestine Schumann-Heink, Louise Homer, Margarethe Matzenauer, Marilyn Horne e che sarebbe stata perfetta anche per altri grandissime cantanti come Ebe Stignani, Fiorenza Cossotto, Grace Bumbry.

La grande scena di Fidès, O prêtres de Baal, che segue il classico schema recitativo - aria - cabaletta, scritta e pensata per le doti virtuosistiche di Pauline Viardot, richiede alla primadonna tutte le sue doti interpretative e canore, spaziando con facilità dal grave estremo all'acuto e viceversa, con ovvie richieste di dinamica, una notevole quantità di agilità, volatine ecc, ossia l'arsenale della grande scena virtuosistica della Primadonna. Vale la pena notare che, forse conscio di avere a sua disposizione una primadonna non comune, Meyerbeer stesso inserisce numerose varianti all'interno della scena, che lui stesso marca come facilitations pour les personnes pour lesquelles les vocalises ci-après seraient trop difficiles.

La prima testimonianza discografica della scena in questione è lasciata da Louise Homer, che fu interprete del ruolo anche al Metropolitan di New York accanto a Caruso e alla Muzio, e che era solita inserire spesso nei propri concerti la grande scena di Fidès. Nonostante qualche acuto fisso abbiamo una prova pregevolissima, in cui si apprezza soprattutto il registro grave ben timbrato e si nota una notevole facilità in zona acuta, come testimonia l'esecuzione della cabaletta. Un limite della Homer probabilmente è il confronto con le illustri colleghe come Ernestine Schumann-Heink della quale non aveva il gusto e la rifinitezza tecnica e di stile, nella Homer un po' troppo tendente al romantico.

Grandissima Fidès invece è stata soprattutto Ernestine Schumann-Heink, come testimonia l'ascolto, in cui la voce risulta bella, morbida, i gravi perfettamente timbrati e saldati al resto della voce senza soluzione di continuità, la Schumann-Heink è esimia vocalista e lo dimastronano i suoi trilli perfetti e il legato d'alta scuola, vale la pena notare anche l'espressione dolce e nobile e la grandissima attenzione ai segni d'espressione, puntualmente rispettati, come nel recitativo in cui il tono irato ed inciviso lascia subito il posto a piani di dolcezza veramente materna che si ritrovano intatti nell'aria, dove ogni singolo accento o indicazione dinamica di Meyerbeer sono rispettati alla perfezione. Gli unici difetti che potremmo trovare sono la fissità in qualche passo del registro acuto e il mezzo di incisione difficoltoso, ma dall'ascolto è facile riconoscere in Ernestine Schumann-Heink un sicuro modello per Marilyn Horne.

Di un decennio successive l' incisione ad opera di Jacqueline Royer, voce che si percepisce ampia, dalla zona medio-bassa sicura, ancorchè un po' generica, che esegue tra l'altro solo la sezione centrale, O toi qui m'abandonne.

Interessantissimo è l'ascolto di Sabine Kalter, esimia wagneriana e celebre Brangaene accanto a Kirsten Flagstad, qui alle prese con Meyerbeer e il Belcanto. La voce non bellissima ma decisamente solida, si piega senza difficoltà a sfumature e al virtuosismo della cabaletta, nonostante qualche semplificazione, mostrando acuti sicurissimi e lucenti e registri molto omogenei. Decisamente una wagneriana poco declamante e molto adusa alle regole del Bel Canto.


Del 1929 è poi la testimonianza di Sigrid Onégin, insieme alla Schumann-Heink e alla Horne, la più grande Fidès preservata dal disco (col vantaggio, rispetto alla Horne, di una voce di grande qualità timbrica e singolare ampiezza), ed una eccezionale cantante nella storia dell'Opera. In lei possiamo ravvisare una sorta di Ebe Stignani ante litteram tanta è la maestria della tecnica di canto unita a mezzi eccezionali. Nella Onegin la voce è sempre morbida e timbrata, il suono omogeneo e facile in tutti i registri, sia negli estremi acuti che nelle discese al grave, tutta la tessitura è dominata con facilità irrisoria. Ne abbiamo prova nell'aria dove le discese al la grave delle prime frasi sono omogenee al resto della voce, stesso dicasi per la facilità con cui la Onegin sale ai do nella cabaletta, privi di alcuna fissità ravvisabile in altre colleghe del periodo, anzi lucenti e morbidi, come tutta la zona acuta. Una prova storica che ci mostra una grandissima belcantista.

Nella seconda metà del 900, persa l'occasione di sentire la Fidès di Ebe Stignani, è Marilyn Horne a riportare in auge il titolo meyerbeeriano, cui ha sempre dedicato grande attenzione, avendo inciso le arie negli anni 60 per la Decca, presentato l'opera intera alla RAI nel 1970, avendola incisa per la CBs nel 1976 e avendola riportata al Metropolitan dopo quasi 50 anni con una nuova produzione nel 1977 e nel 1979. Alle prese col ruolo di Fidès, che richiede una voce che la Natura non le aveva fornito, soprattutto per ampiezza, la Horne agisce con la consueta maestria ed intelligenza, riuscendo ad "inventarsi" ogni suono per costruire una Fidès che senza esitazione si può definire storica. Allo stesso modo che nelle cantanti antiche anche nella Horne l'emissione è sempre morbida, i suoni costantemente omogenei, sfrutta poi il proprio timbro chiaro a fini espressivi lasciandosi a momenti di grande dolcezza nell'aria, preceduta da un recitativo scandito e maestoso come richiesto (Frappe, frappe, toi qui punis tous les enfants ingrats). Nella cabaletta il virtuosismo è come al solito impeccabile, eccetto qualche acuto stridulo, come i due do delle volatine, perfetto però nell'alternanza fra registro acuto e grave. Una prova monumentale alla cui riuscita partecipa anche Henry Lewis, egregio direttore e grandissimo accompagnatore, che fa cantare l'orchestra insieme alla Horne, senza esserle mai di difficoltà.

Dopo Marilyn Horne a cimentarsi con Fidès sono altre due primedonne, nel 1998 alla Wiener Staatsoper, dove viene eseguita una edizione critica dello spartito con l'aggiunta di alcuni passi originali che nulla aggiungono di sostanziale, perlomeno alla grande scena di Fidès, che rispondono al nome di Agnes Baltsa e Violeta Urmana, la prima diva DG ormai sul proprio Sunset Boulevard e la seconda promettente stella della lirica (all'epoca) ancora in vesti mezzosopranili prima di tentare il volo come soprano.
Agnes Baltsa fin dal recitativo ci catapulta nel più bieco verismo, la madre ora maestosa ora dolce lascia il passo ad una orrenda megera che sbraca i suoni in basso alla ricerca di una consistenza di suono che sostanzialmente non c'è mai stata. Nell'Andantino la voce si spezza, impossibilitata a mantenersi omogenea, l'emissione è quasi sempre di petto, l'accento forzato, i suoni in zona medio alta quasi sempre aciduli, più che cantabile l'aria diventa decisamente un passo declamato in cui ogni nota ha una voce diversa e che viene conclusa da una cadenza sbracata in basso e gridata in alto. Tagli copiosi intervengono nella cabaletta a salvare la cantante e gli ascoltatori estirpando la maggior parte delle agilità e dei vocalizzi, comprese le volatine al do, lasciando quelle che rimangono ad un'esecuzione imprecisa accompagnata dalle consuete grida aquiline.
Secondo cast di questa Fidès dicevamo era la giovane Violeta Urmana, ancora nella fase mezzo-sopranile della carriera in cui la voce era sostanzialmente fresca (non depauperata come nelle recenti esibizioni) senza comunque essere di materiale pregiato o capace di chissà quale ampiezza. Alle prese con la grande scena di Fidès alcuni difetti che poi sono andati degenerando invece che essere risolti, si sentono già tutti, come i gravi poco timbrati accompagnano una zona medio acuta fibrosa, mentre si rileva che gli acuti risultano più facili anche se a volte gridacchiati. Un peccato che i problemi tecnici non siano mai stati risolti a danno non solo della cantante ma anche del pubblico.

Appare chiaro infine che una scrittura simile non permette che si bari con essa, lasciando solo alle grandi cantanti la possibilità di servirsene come mezzo per far sfoggio della propria maestria tecnica e artistica.

Gli ascolti

Meyerbeer - Le prophète

Acte V


Scène, Cavatine et Air de Fidès

O prêtres de Baal...O toi qui m'abandonne...Comme un éclair

1903 - Louise Homer
1907 - Ernestine Schumann-Heink
1915 - Jacqueline Royer
1921 - Sabine Kalter
1929 - Sigrid Onegin
1970 - Marilyn Horne
1998 - Agnes Baltsa
1998 - Violeta Urmana

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giovedì 24 aprile 2008

Ma una bella Carmen..... deve per forza cantare in francese?

Da una trentina d’anni non si può immaginare una rappresentazione della Carmen di Bizet, che non sia in lingua francese e, il più delle volte, non vanti fedeltà assoluta allo spirito dell’Opéra-comique, il teatro di circa 800 posti dove il capolavoro ebbe la sua prima rappresentazione il 3 marzo 1875, proponendo parlati e sonorità orchestrali e vocali attutite.
E’ un diffuso assillo di chi oggi metta in scene un lavoro melodrammatico offrire al pubblico uno spettacolo che sia primo spettacolo con ciò credendo di rispettare la volontà dell’autore. Autore il cui compito, magari, fu quello di sistemare e risistemare un certo lavoro musicale per compiacere ora un cantante, ora un teatro e le prassi esecutive e che, magari, diresse e concertò più volte la versione rivista e corretta.
I rifacimenti erano il destino obbligato per opéra comique ed opéra lyrique, che per varcare i confini di Francia dovevano essere tradotte (il più delle volte in Italiano, talora in tedesco) e musicate nei parlati, tipici solo di quel teatro.
Le versioni di Fra' Diavolo, Faust o Mignon ampliate e rimaneggiate, fiorite, munite di balli, il più delle volte da Londra, presero a girare per l’Europa e le Americhe e divennero le versioni a tutti note ed ovunque rappresentate.
Soprattutto per i melodrammi nati all’Opéra comique l’operazione di make up teneva conto sempre sia delle maggiori capacità canore dei cantanti prescelti fuori del teatro d’origine sia delle orchestre costituite di più elementi. Celestine Galli-Marie, prima Mignon, era cantante di mezzi tecnici e vocali tutt’altro che eccelsi ed unici.
Per completezza: la traduzione e l’inserimento di altri numeri fu riservato anche ai grand-opéra. In primis il caso noto a tutti degli Ugonotti, rimpolpati per la rappresentazione londinese del 1848 o il Profeta per quella dell’anno successivo dove il ruolo della protagonista femminile passò da Pauline Viardot, mezzosoprano-contralto a Giulia Grisi, soprano di agilità.
Quindi non vi è in linea di principio nessuno scandalo, nessuna violazione di sacri dogmi per una Carmen, che tradotta venisse rappresentata con i dialoghi musicati e debito raggiusto vocale ed orchestrale. Perchè se scandalo ha da essere, dovrebbe investire anche Faust o Mignon o Pescatori di Perle.
Se, poi, l’autore del rimaneggiamento non è Bizet, nessuno scandalo, perché, purtroppo, il maestro morì pochi mesi dopo la prima e anteriormente ogni rappresentazione fuori dell’Opéra-Comique.
Il problema, se mai, è che Carmen dal passaggio da Parigi ai vari teatri del mondo, italiani più di tutto, subì nel volgere di un trentennio un ben più radicale riesame e modifica della vocalità e della modalità esecutiva. Divenne il prototipo di opera verista o naturalista in contrasto con il melodramma romantico ed aulico.
Credo, però, che la colpa non sia solo o affatto degli esecutori del primo trentennio (e aggiungiamo che, pure, il famosissimo saggio di Nietzsche ha offerto il suo vasto contributo) e di quello a seguire, ma che la stortura, se di stortura si può parlare, nasca dall’opera stessa.
Da una storia, quella di Carmen che, seppure addolcita rispetto al testo letterario, di Mérimée, ha un tasso drammatico e di vero sconosciuto agli altri esemplari di opéra comique, il cui paradigma può essere Mignon, con lieto finale, mentre in Carmen scorre sangue e molto. Ma prima del sangue e sino al sangue era scorsa una carica erotica ed una sensualità nell’incontro-scontro fra il brigadiere e la zingara-sigaraia, fra quest’ultima ed il bel torero e fra i due rivali, assolutamente ignoti alla tradizione precedente.
Non che l’opera non conoscesse sesso e seduzione, omicidi e gelosia: mai, però, erano state portate in scena le passioni e le delinquenze del popolo. Per la prima volta, complice la fonte letteraria prescelta, nell’opera tragica si abbandonano personaggi e luoghi della Storia per rappresentare quelli della cronaca, del quotidiano. Insomma dal Louvre ai valichi dei Pirenei. Dalla dama di rango, magari falsamente ritrosa, come la convenienza sociale imponeva, ad una zingara, sigaraia e spinta dalla sensualità, non certo rosa da tremendi conflitti interni nelle proprie scelte di vita.
Solo Traviata aveva avuto un impatto così forte, anche questa nonostante il pesante addolcimento dei primi allestimenti. Non per nulla nei primi anni di rappresentazioni spesso famose Violette vestirono i panni di Carmen. Per questo proponiamo la scena delle carte di Gemma Bellincioni, prima Santuzza, ma celebrata Violetta. Difficile crederlo dopo l'ascolto.
E a questo aggiungiamo la strada che il melodramma come scelta di argomenti, e la vocalità, per conseguenza, presero - è scontato - a parlare di Carmen come archetipo dell’opera e della vocalità verista.
Però ci vogliono i distinguo. Nella semplificazione si è voluto far credere sempre verificata l’equazione Carmen in italiano volgare, urlata, con acuti tenuti a perdifiato e la forzata, costante ricerca del colore spagnolo, per contraltare la Carmen in francese, raffinata, introversa, rispettosa della prima rappresentazione (anche se siamo al Met o alla Scala), con linea di canto immacolata. Alla Carmen da marciapiede contrapponiamo quella da famosa e raffinata casa di piacere parigina.
Anche questo falso. Basta sentire la Carmen di Agnes Baltsa in francese o quella della Supervía in italiano, piuttosto che il don José di Domingo in gallico idioma contrapposto a quello in tedesco di Jörn o di Tauber per trovare linea di canto quanto meno castigata e rispetto dei segni di espressione nei cantanti che non eseguono l’originale francese.
Questo in linea di principio perché i metodi di canto e gusto di una Bellincioni, ovviamente, o anche di Emmy Destinn molto riportano a Santuzza, quelli della opulentissima voce di Armida Parsi Pettinella ad una Ulrica (volutamente abbiamo evitato la Saloon Carmen paradigmatica di Maria Gay) dai mezzi volutamente doviziosi.
La Destinn e la Parsi Pettinella, oltre tutto, ci ricordano che Carmen, per la sua scrittura vocale non certo particolarmente impegnativa, conviene sia a soprani lirico spinti quanto a mezzosoprani-contralti. Preciso che soprattutto negli Stati Uniti è amplissima e documentata la tradizione della Carmen soprano a partire da Lilli Lehmann sino a Leontyne Price, passando per la Jeritza e la Ponselle.
Però… però Gianna Pederzini e Conchita Supervía (quest’ultima, benché accompagnata dalla taccia di essere voce da zarzuela, era in realtà un soprano lirico) sono insinuanti, piccanti e sensuali come sarà trent’anni dopo Teresa Berganza, la più completa Carmen in stile Opéra-comique.
E quanto ad Ebe Stignani, che del ruolo non fu certo ritenuta interprete, ma al più esecutrice di mezzi straordinari e di linea di canto controllatissima non possiamo non ammirare la compostezza vocale esente, persino, nel finale da ogni caduta di gusto. In questo la Stignani è modernissima, poi possiamo discutere se sia o meno Carmen.
Osservazione analoga per la Carmen della Cossotto, che ha sempre esibito il proprio opulento mezzo vocale. E lo possiamo dire a prescindere dalla lingua in cui cantava, atteso che la Cossotto, come la Simionato, affrontò entrambe le versioni dell’opera. La Simionato, però, salvo che non cadesse in eccessi di gusto (ed è documentato capitassero più in italiano che in francese) era, comunque, sorvegliata e castigata rispetto al gusto imperante e regge il confronto con accreditate Carmen come Grace Bumbry e la prima Verrett.
Il caso si presenta analogo, anzi accentuato, con il protagonista maschile. Che Gigli ecceda è scontato (fra l’altro non era più freschissimo all’epoca della registrazione) anche se il legato al fiore è esemplare.
Certo che l’aria diviene un interessante luogo di confronto della tradizione interpretativa e del mutare del gusto.
Chi esaminasse i numerosi ascolti tenorili potrebbe facilmente rilevare come il verismo in senso negativo di Carmen sia completo e dimostrato negli ultimi anni della tradizione della rappresentazione dell’opera tradotta.
Fernando de Lucia, che all’epoca era un considerato antesignano del canto nuovo, canta un fiore elegante e raffinato, e come lui Karl Jörn, che per giunta sfoggia un facilissimo e francesissimo misto sul si bem di “libero schiavo amor mi fe”. Nota prevista in spartito pp, indicazione che credo sia mancata da almeno una quarantina d'anni, ossia dalle ultime performance di Franco Corelli.
Rispetto ai don José che non legano, che spacciano per interpretazione suoni artificiosamente gonfiati ed una linea di canto limitata a forte e mezzo forte, de Lucia e Jörn sono un altro pianeta.
Tenuto conto della tecnica primordiale di registrazione del disco di Jörn la differenza emerge anche nel raffronto fra Del Monaco e il tenore lettone, protagonista della prima registrazione in lingua tedesca.
Alle prese, poi, con la stessa aria tenori come Patzak, Pertile e Fleta sono sfumatissimi, rispettano i segni di espressione previsti dall’autore ed in alto emettono suoni squillanti e timbrati. Possiamo, poi, rilevare che la linea di canto di Fleta sia molto più ricercata di quella del coetaneo Pertile; entrambi, però, rendono il conflitto interiore di don José. Entrambi sono, a differenza di quanti oggi affrontano il ruolo del giovane scriteriato brigadiere, interpreti. A prescindere dalla lingua in cui cantano.

Bizet - Carmen

Atto I

Habanera - Elena Theodorini, Conchita Supervía, Ebe Stignani, Irina Arkhipova
Votre mère avec moi sortait de la chapelle - Elisabeth Rethberg & Richard Tauber
Séguedille - Giulietta Simionato, Irina Arkhipova, Fiorenza Cossotto

Atto II

Les tringles des sistres tintaient - Armida Parsi-Pettinella, Giulietta Simionato, Irina Arkhipova
Votre toast je peux vous le rendre - José Mardones, Antonio Magini-Coletti, Titta Ruffo
Je vais danser en votre honneur - Armida Parsi-Pettinella
La fleur que tu m'avais jetée - Fernando De Lucia, Karl Jörn, Jacques Urlus, John McCormack, Hipólito Lázaro, Julius Patzak, Aureliano Pertile
Non, tu ne m'aimes pas - Giulietta Simionato & Franco Corelli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco

Atto III

En vain, pour éviter les réponses amères - Gemma Bellincioni, Gianna Pederzini, Ebe Stignani
Je dis que rien ne m'épouvante - Elisabeth Rethberg, Mirella Freni, Renata Scotto

Atto IV

C'est toi?...C'est moi! - Emmy Destinn & Karl Jörn, Gianna Pederzini & Renato Zanelli, Ebe Stignani & Beniamino Gigli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco

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