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venerdì 25 giugno 2010

Faust: il terzetto finale

Cari amici ,
lo sciopero continua ed il Faust a Milano è ancora sospeso.
Poco male: eccovi una consolazione per voi che siete rimasti fuori dal teatro col biglietto in mano. E per noi che lo abbiamo visto! Una Antologia di straordinari terzetti finali, esecutori leggendari in prove maestre.

Apprezzerete qui i grandi bassi della tradizione francese, Plancon e Journet in particolare, come pure quelli russi, Reizen e Kipnis, quindi la nostra tradizione italiana, con Pinza e Siepi.
Grandi Margherite, sia liriche, lirico- spinte sino ai drammatici, che leggere, dalla Melba alla Taschemacher, dalla Kurz alla Eames, alla stupenda Heldy, alla Destinn sino alle più recenti Steber, Kirsten o Albanese. Quindi una sfilata di tenori che ben illustra la tradizione interpretativa di Faust, dai tenori lirici e lirici leggeri alla McCormack e Kozlowsky, ai tenori drammatici di scuola tedesca alla Jorn e Urlus o di scuola francese alla Dalmorès.
Esecuzioni più o meno affini a quelle moderne, alcune di un tasso drammatico cui non siamo certo più abituati, come i monumentali Teschemacher Rosvaenge e Hann, o il trio Jorn, Destinn e Knupfer, o gli intensissimi Ansseau, Heldy, Journet.
A voi il successivo confronto con la modernità più o meno recente.
Buona consolazione!

Gli ascolti

Charles Gounod

Faust

Atto V - Scena II

Alerte, alerte...Anges purs, anges radieux

1906 - John McCormack, Nellie Melba & Mario Sammarco
1907 - Charles Dalmores, Emma Eames & Pol Plançon
1908 - Karl Jorn, Emmy Destinn & Paul Knupfer
1910 - Enrico Caruso, Geraldine Farrar & Marcel Journet
1912 - Jacques Urlus, Melanie Kurt & Paul Knupfer
1930 - Cesar Vézzani, Mireille Berthon & Marcel Journet
1931 - Fernand Ansseau, Fanny Heldy & Marcel Journet
1937 - Jussi Bjorling, Esther Rethy & Alexander Kipnis
1937 - Helge Rosvaenge, Margarethe Teschemacher & Georg Hann
1943 - Raoul Jobin, Licia Albanese & Ezio Pinza
1948 - Ivan Kozlovsky, Elizaveta Shumskaya & Mark Reizen
1949 - Giuseppe Di Stefano, Dorothy Kirsten & Italo Tajo
1951 - Eugene Conley, Eleanor Steber & Cesare Siepi
1953 - Richard Tucker, Victoria de los Angeles & Nicola Moscona
1965 - John Alexander, Montserrat Caballè & Justino Diaz
1968 - Michele Molese, Beverly Sills & Norman Treigle
1973 - Alfredo Kraus, Renata Scotto & Nicolai Ghiaurov
1977 - Alfredo Kraus, Mirella Freni & Nicolai Ghiaurov
1996 - Marcello Giordani, Renée Fleming & Willard White
1996 - Giuseppe Sabbatini, Cristina Gallardo-Domas & Samuel Ramey
2003 - Giuseppe Filianoti, Darina Takova & Roberto Scandiuzzi

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domenica 10 gennaio 2010

Il mito della tragédienne: Salomè, principessa di Giudea

Alcuni giorni fa, in chat, un lettore riportava la frase che segue, tratta dalle note introduttive al dvd della Rodelinda glyndebournense con Anna Caterina Antonacci, spettacolo ambientato in epoca littoria:

"A registi siffatti viene regolarmente indirizzata, da noi che in fatto di teatro lirico siamo all'avanguardia della retroguardia, la puntuale accusa di stravolgimento, bruttura, leso barocco. Si lede sempre qualcosa, per tali accusatrici anime belle: e mai che sospettino di essere loro quelli lesi e handicappati nella percezione di quanto sta accadendo nella viva realtà teatrale contemporanea, di prosa o lirica poco importa, giacché sempre più stanno, per fortuna, avvicinandosi."

L'estensore di siffatte note si qualifica come persona alquanto sprovveduta o deliberatamente ignara. Non già l'avvicinamento, ma la perfetta fusione di musica e teatro è fenomeno che ha origini ben più remote dell'epoca dei registi cosiddetti provocatori, iconoclasti ed enfant prodige, che nulla hanno inventato, malgrado lo zelo dei loro sostenitori. Per convincersene basta leggere le cronache e ascoltare i documenti risalenti ad anni in cui perduravano in grembo a Giove dvd, dirette in alta definizione e operazioni di "lifting" culturale di varia risma.

Il mito della cantante attrice è antico quanto l'opera e ad essa consustanziale. Ma è alla fine dell'Ottocento che questo mito assunse proporzioni inedite, complici da un lato l'affermazione del repertorio postromantico e liberty, che aveva i suoi esponenti di punta in Puccini e Strauss, dall'altro l'invenzione del grammofono e il conseguente avvento del Divo discografico. Naturalmente poteva assurgere al titolo di Divo discografico solo il cantante che avesse una solida carriera alle spalle nei massimi teatri del mondo. Ai nostri giorni il rapporto appare invertito, ovvero si ritiene che il cantante che disponga dell'appoggio di una solida casa discografica sia, di conseguenza, in grado di cantare nei massimi teatri del mondo, e anzi che questi debbano inchinarsi a lui e all'etichetta che lo sostiene. La realtà dei fatti suole smentire questo assunto.
Uno dei grandi titoli da Diva, se non il supremo, fu ed è Salome. E non è singolare, se si considera che l'opera deriva da un dramma di Wilde destinato alla Diva per eccellenza, Sarah Bernhardt. Vuole la tradizione che Strauss sognasse, per la sua protagonista, una voce da Isotta nel corpo di una sedicenne. Le cronache narrano che la creatrice della parte, Marie Wittich, avesse una bella e robusta voce, ma ben poco dell'adolescente perversa. Facile, vedendola in scena, scambiarla per Erodiade. Ma le cose erano destinate a cambiare.
L'opera calamitò fin dai primi anni l'attenzione di primedonne celebri per la superba presenza scenica, da Gemma Bellincioni, che a Torino fu la prima Salomè italiana, battendo di poche ore Salomea Krusceniski impegnata alla Scala, e riprese più volte il ruolo a Napoli, Roma, Venezia, Bologna e infine a Parigi, a Mary Garden, che cantò l'opera a Manhattan e poi all'Opéra di Parigi, da Emmy Destinn, prima interprete a Berlino e allo Châtelet, e Maria Jeritza, regina della parte alla Staatsoper viennese per quindici anni, a Giulia Tess, Carmen Melis e Franca Somigli, egualmente generose, seppur internazionalmente meno rinomate. Nonostante il grande successo e le numerose produzioni in tutta Europa, l'opera costituì per il Met, dove fu proposta una sola sera nel 1907, protagonista Olive Fremstad, un autentico shock e dovette affrontare un lungo oblio, da cui riemerse a metà degli anni Trenta. Certo dovettero influire anche ragioni legate alla moralità, o assenza di moralità, del titolo, ed è notorio, ad esempio, che Kirsten Flagstad giudicasse indegno di una donna onesta interpretare in scena una creatura così sfrenata e sensuale. Analoghe remore aveva a suo tempo manifestato la Wittich, o come la chiamava bonariamente l'autore, "Nonna Wittich".

Certo accanto alle difficoltà poste dalla morale e dal comune senso del pudore ci sono quelle previste dalla partitura. Che sono molte, variegate e difficili da sormontare.
La tessitura, innanzi tutto. Salomè canta per buona parte della serata in zona centrale (fa3-sol4), con ampie frasi che mettono a dura prova la resistenza polmonare della cantante, ma non mancano improvvise e fulminanti escursioni in zona acuta: nella scena con il Battista, la principessa di Giudea tocca più volte il la, il si bemolle e il si naturale, in coincidenza con i momenti di maggiore intensità delle blasfeme profferte. In basso il limite estremo è dato da due sol bem 2, rispettivamente nella prima scena (al momento in cui Salomè si affaccia alla cisterna, cercando di contemplare per la prima volta l'inviato di Dio) e al termine della prima sezione del monologo conclusivo. Si tratta di una tessitura che può convenire tanto a un soprano drammatico quanto a un mezzosoprano con acuti sicuri, se non saldi e svettanti. E se si possono tollerare suoni un poco tirati e malsicuri sui rari acuti, la perfetta fusione dei registri, ottenuta da una corretta esecuzione del primo passaggio, è cruciale. E' possibile verificare l'assunto ascoltando, in sequenza, Grace Bumbry e Catherine Malfitano.
Si potrà obiettare che, ove si consideri la tessitura e null'altro, la parte di Salomè può essere adeguatamente affrontata anche da un soprano lirico spinto, la cui vocalità, tradizionalmente ritenuta più giovanile di quella del soprano drammatico, meglio risponde alle esigenze del personaggio. Purtroppo fra le suddette esigenze, e non certo all'ultimo posto, va compresa la necessità di passare senza fatica l'orchestra, ed è questo lo scoglio contro cui puntualmente s'infrangono le numerose voci di soprano lirico, anche e soprattutto non spinto, che si avventurano nell'opera. Perché non sarà inutile ribadire che gran parte dei nominali mezzosoprani che hanno affrontato e tuttora affrontano il titolo sono in realtà soprani lirici in difetto di tecnica nella zona del primo passaggio di registro, e di conseguenza assai limitati in acuto. Ma soprani lirici restano, per quanto tentino di gonfiare le gote e scurire artificiosamente la voce, riuscendo solo ad ingolfare ulteriormente l'emissione. E che il timbro scuro o bitumato serva poco o nulla lo rammenta Ljuba Welitsch, forse la più completa declinazione della Salome liliale, voce argentina ma di autentico soprano drammatico, insuperata nel rendere l'estasi erotica e l'osceno abbandono della scena finale. Il gusto appare più datato, invece, nei passi concitati, con i centri che risultano a volte un po' troppo aperti, ma nulla in confronto a quello che combina, nelle medesime pagine, il nominale mezzosoprano Maria Ewing, rinomata Salomè senza veli.
Per capire quali conseguenze produca la mancanza di omogeneità fra primi acuti, centri e gravi, è sufficiente considerare la scena in cui Salomè, dopo avere danzato per il Tetrarca, esige la propria mercede. La frase "Den Kopf des Jochanaan", che attacca sul si3, sale al re#4 e poi al sol#4 per scendere poi lungo l'arpeggio di mi maggiore fino al mi3, è sede privilegiata per la manifestazione del proverbiale "scalino", ossia la frattura dei registri. La relativa contiguità delle note toccate rende la suddetta frattura ben più evidente dei tanti passaggi costruiti su ampi intervalli, nei quali all'interprete risulta più agevole contrabbandare per magnifico ed eloquente chiaroscuro quello che è in effetti mero "buco" vocale. Frase altrettanto perigliosa è quella, di poco successiva, "Ich fordre den Kopf des Jochanaan", con i suoi la naturali sotto il rigo ribattuti e poi la salita al mib3, fa3 e sol3. Un passaggio apparentemente banale, ma sufficiente a verificare se l'interprete disponga di uno strumento che le consenta, per l'appunto, di essere interprete.

Altro momento topico è il finale. Il delirio di Salomè che attende il ritorno del carnefice attacca in zona medio-grave e trapassa, con sempre maggiore veemenza, all'acuto, mentre le frasi rivolte alla testa mozzata di Jochanaan segnano, nell'arco della serata, il momento in cui la tessitura del soprano è in assoluto più alta, malgrado la nota estrema sia un si bemolle. Dopo una sera passata a cantare al centro, in un'opera che vede il soprano protagonista assoluta dell'azione per nove decimi della sua durata, questi venti minuti conclusivi, con sovrabbondanza di frasi di monumentale lunghezza, da cantarsi con grande passione ma senza che vengano meno la purezza d'accento e la qualità del legato, essenziali per ritrarre l'estasi irrecuperabile del personaggio, sono un vero e proprio "cazzaccio" paragonabile alle grandi scene di follia del melodramma romantico. E come in quelle, solo una voce tecnicamente sicura potrà sortirne un effetto che non sia velleitario o fiacco. Come del resto solo un'interprete che padroneggi perfettamente il proprio strumento potrà essere, di volta in volta, seduttiva, insinuante, manipolatrice, furtiva e sognante come può e deve essere Salomè.

Una riflessione peculiare merita Anja Silja, voce di soprano leggero ritenuta, da alcuni, capofila delle cosiddette declamatrici, che gridacchia e stride su un banale fa#4 (conclusione della scena con Narraboth: ascoltare, per comparazione, il filato esibito nel medesimo punto da Grace Bumbry) e che, smessi i panni di Salomè, ha poi con eguale mancanza di proprietà rivestito quelli di Erodiade. Tale madre tale figlia, come suol dirsi.
Anche qui è il caso di intendersi: ove si consideri la declamazione un'alternativa al canto professionale, la designazione della signora Silja come portabandiera della categoria non manca di fondamento. Certo che poi basta sentire quel che resta (in tutti i sensi) di due grandi cantanti attrici, Emmy Destinn e Maria Jeritza, per capire che la declamazione, la scansione bruciante del testo e (almeno in parte) della musica non sono riducibili a un campionario di farfugliamenti e smancerie di quart'ordine. E sì che tanto la Destinn quanto la Jeritza escono proprio male dagli ascolti proposti: in conflitto con l'intonazione, spesso in debito d'ossigeno, con i gravi ovattati (Jeritza, che peraltro negli estratti proposti contava già più di vent'anni di onorata e onerosa carriera) e gli acuti fissi (Destinn), riescono tuttavia entrambe a essere più espressive e appropriate delle loro sventurate epigone, anche solo per la banale ragione che le voci risultano meglio proiettate e di conseguenza possono piegarsi al piano e al pianissimo senza sconfinare nella prosa. A volte basta poco, ma veramente poco!!!

E... i celebri e celebrati exploit scenici - su cui così volentieri s'intrattengono i critici, forse perché così facendo evitano di parlare di musica... - di tante Salome, comprese quelle che scambiano la danza dei sette veli per un numero usurpato alle Folies Bergère?

"Ciò che attrici esotiche, degne di un varietà di infimo ordine, si sono permesse di fare in rappresentazioni posteriori muovendosi come serpenti e facendo volteggiare per aria la testa di Jochanaan, ha spesso superato ogni limite di decenza e gusto! Chi è stato in Oriente e ha osservato il decoro delle donne di laggiù capirà che Salome, giovinetta casta e principessa orientale, deve essere rappresentata con la massima semplicità e nobiltà di gesti; altrimenti, incapace com'è di fronteggiare il miracolo del mondo straordinario, ostile che si trova davanti, invece di pietà susciterà solo raccapriccio e orrore".

Chi è mai l'ottuso reazionario, responsabile di queste righe grondanti disprezzo per la viva realtà teatrale? Il dottor Richard Strauss (Ricordi delle prime rappresentazioni delle mie opere, in Note di passaggio, Torino 1991, p. 130).



Gli ascolti

Strauss - Salome


Ich will nicht bleiben!...Du wirst das für mich tun, Narraboth - Maria Cebotari (con Marko Rothmuller & Karl Friedrich - 1947), Anja Silja (con Gerd Nienstedt & Glade Peterson - 1970), Grace Bumbry (con Norman Bailey & Frank Little - 1978)

Jochanaan! Ich bin verliebt in deinen Leib - Emmy Destinn (1907), Maria Jeritza (1933)

Dein Leib ist grauenvoll...In dein Haar bin ich verliebt - Maria Cebotari (1947), Ljuba Welitsch (1949)

Dein Haar ist gräßlich...Deinen Mund begehre ich, Jochanaan - Emmy Destinn (1907), Catherine Malfitano (1992)

Sieh diesen Mann nicht an...Ich will deinen Mund küssen - Maria Jeritza (con Emil Schipper & Georg Maikl - 1933), Göta Ljungberg (con Friedrich Schorr & Hans Clemens - 1934)

Ah! Herrlich! Wundervoll, wundervoll! - Göta Ljungberg (con Max Lorenz & Dorothee Manski - 1934), Ljuba Welitsch (con Frederick Jagel & Kerstin Thorborg - 1949), Anja Silja (con Ragnar Ulfung & Sona Cervená - 1970), Karita Mattila (con Siegfried Jerusalem & Larissa Diadkova - 2004)

Es ist kein Laut zu vernehmen - Ljuba Welitsch (1949), Anja Silja (1970), Maria Ewing (1988), Catherine Malfitano (1992)

Ah! Du wolltest mich nicht deinen Mund küssen lassen, Jochanaan! - Göta Ljungberg (1929), Maria Jeritza (1933), Maria Cebotari (1941), Ljuba Welitsch (1949), Grace Bumbry (1978), Maria Ewing (1988), Karita Mattila (2004)



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giovedì 24 aprile 2008

Ma una bella Carmen..... deve per forza cantare in francese?

Da una trentina d’anni non si può immaginare una rappresentazione della Carmen di Bizet, che non sia in lingua francese e, il più delle volte, non vanti fedeltà assoluta allo spirito dell’Opéra-comique, il teatro di circa 800 posti dove il capolavoro ebbe la sua prima rappresentazione il 3 marzo 1875, proponendo parlati e sonorità orchestrali e vocali attutite.
E’ un diffuso assillo di chi oggi metta in scene un lavoro melodrammatico offrire al pubblico uno spettacolo che sia primo spettacolo con ciò credendo di rispettare la volontà dell’autore. Autore il cui compito, magari, fu quello di sistemare e risistemare un certo lavoro musicale per compiacere ora un cantante, ora un teatro e le prassi esecutive e che, magari, diresse e concertò più volte la versione rivista e corretta.
I rifacimenti erano il destino obbligato per opéra comique ed opéra lyrique, che per varcare i confini di Francia dovevano essere tradotte (il più delle volte in Italiano, talora in tedesco) e musicate nei parlati, tipici solo di quel teatro.
Le versioni di Fra' Diavolo, Faust o Mignon ampliate e rimaneggiate, fiorite, munite di balli, il più delle volte da Londra, presero a girare per l’Europa e le Americhe e divennero le versioni a tutti note ed ovunque rappresentate.
Soprattutto per i melodrammi nati all’Opéra comique l’operazione di make up teneva conto sempre sia delle maggiori capacità canore dei cantanti prescelti fuori del teatro d’origine sia delle orchestre costituite di più elementi. Celestine Galli-Marie, prima Mignon, era cantante di mezzi tecnici e vocali tutt’altro che eccelsi ed unici.
Per completezza: la traduzione e l’inserimento di altri numeri fu riservato anche ai grand-opéra. In primis il caso noto a tutti degli Ugonotti, rimpolpati per la rappresentazione londinese del 1848 o il Profeta per quella dell’anno successivo dove il ruolo della protagonista femminile passò da Pauline Viardot, mezzosoprano-contralto a Giulia Grisi, soprano di agilità.
Quindi non vi è in linea di principio nessuno scandalo, nessuna violazione di sacri dogmi per una Carmen, che tradotta venisse rappresentata con i dialoghi musicati e debito raggiusto vocale ed orchestrale. Perchè se scandalo ha da essere, dovrebbe investire anche Faust o Mignon o Pescatori di Perle.
Se, poi, l’autore del rimaneggiamento non è Bizet, nessuno scandalo, perché, purtroppo, il maestro morì pochi mesi dopo la prima e anteriormente ogni rappresentazione fuori dell’Opéra-Comique.
Il problema, se mai, è che Carmen dal passaggio da Parigi ai vari teatri del mondo, italiani più di tutto, subì nel volgere di un trentennio un ben più radicale riesame e modifica della vocalità e della modalità esecutiva. Divenne il prototipo di opera verista o naturalista in contrasto con il melodramma romantico ed aulico.
Credo, però, che la colpa non sia solo o affatto degli esecutori del primo trentennio (e aggiungiamo che, pure, il famosissimo saggio di Nietzsche ha offerto il suo vasto contributo) e di quello a seguire, ma che la stortura, se di stortura si può parlare, nasca dall’opera stessa.
Da una storia, quella di Carmen che, seppure addolcita rispetto al testo letterario, di Mérimée, ha un tasso drammatico e di vero sconosciuto agli altri esemplari di opéra comique, il cui paradigma può essere Mignon, con lieto finale, mentre in Carmen scorre sangue e molto. Ma prima del sangue e sino al sangue era scorsa una carica erotica ed una sensualità nell’incontro-scontro fra il brigadiere e la zingara-sigaraia, fra quest’ultima ed il bel torero e fra i due rivali, assolutamente ignoti alla tradizione precedente.
Non che l’opera non conoscesse sesso e seduzione, omicidi e gelosia: mai, però, erano state portate in scena le passioni e le delinquenze del popolo. Per la prima volta, complice la fonte letteraria prescelta, nell’opera tragica si abbandonano personaggi e luoghi della Storia per rappresentare quelli della cronaca, del quotidiano. Insomma dal Louvre ai valichi dei Pirenei. Dalla dama di rango, magari falsamente ritrosa, come la convenienza sociale imponeva, ad una zingara, sigaraia e spinta dalla sensualità, non certo rosa da tremendi conflitti interni nelle proprie scelte di vita.
Solo Traviata aveva avuto un impatto così forte, anche questa nonostante il pesante addolcimento dei primi allestimenti. Non per nulla nei primi anni di rappresentazioni spesso famose Violette vestirono i panni di Carmen. Per questo proponiamo la scena delle carte di Gemma Bellincioni, prima Santuzza, ma celebrata Violetta. Difficile crederlo dopo l'ascolto.
E a questo aggiungiamo la strada che il melodramma come scelta di argomenti, e la vocalità, per conseguenza, presero - è scontato - a parlare di Carmen come archetipo dell’opera e della vocalità verista.
Però ci vogliono i distinguo. Nella semplificazione si è voluto far credere sempre verificata l’equazione Carmen in italiano volgare, urlata, con acuti tenuti a perdifiato e la forzata, costante ricerca del colore spagnolo, per contraltare la Carmen in francese, raffinata, introversa, rispettosa della prima rappresentazione (anche se siamo al Met o alla Scala), con linea di canto immacolata. Alla Carmen da marciapiede contrapponiamo quella da famosa e raffinata casa di piacere parigina.
Anche questo falso. Basta sentire la Carmen di Agnes Baltsa in francese o quella della Supervía in italiano, piuttosto che il don José di Domingo in gallico idioma contrapposto a quello in tedesco di Jörn o di Tauber per trovare linea di canto quanto meno castigata e rispetto dei segni di espressione nei cantanti che non eseguono l’originale francese.
Questo in linea di principio perché i metodi di canto e gusto di una Bellincioni, ovviamente, o anche di Emmy Destinn molto riportano a Santuzza, quelli della opulentissima voce di Armida Parsi Pettinella ad una Ulrica (volutamente abbiamo evitato la Saloon Carmen paradigmatica di Maria Gay) dai mezzi volutamente doviziosi.
La Destinn e la Parsi Pettinella, oltre tutto, ci ricordano che Carmen, per la sua scrittura vocale non certo particolarmente impegnativa, conviene sia a soprani lirico spinti quanto a mezzosoprani-contralti. Preciso che soprattutto negli Stati Uniti è amplissima e documentata la tradizione della Carmen soprano a partire da Lilli Lehmann sino a Leontyne Price, passando per la Jeritza e la Ponselle.
Però… però Gianna Pederzini e Conchita Supervía (quest’ultima, benché accompagnata dalla taccia di essere voce da zarzuela, era in realtà un soprano lirico) sono insinuanti, piccanti e sensuali come sarà trent’anni dopo Teresa Berganza, la più completa Carmen in stile Opéra-comique.
E quanto ad Ebe Stignani, che del ruolo non fu certo ritenuta interprete, ma al più esecutrice di mezzi straordinari e di linea di canto controllatissima non possiamo non ammirare la compostezza vocale esente, persino, nel finale da ogni caduta di gusto. In questo la Stignani è modernissima, poi possiamo discutere se sia o meno Carmen.
Osservazione analoga per la Carmen della Cossotto, che ha sempre esibito il proprio opulento mezzo vocale. E lo possiamo dire a prescindere dalla lingua in cui cantava, atteso che la Cossotto, come la Simionato, affrontò entrambe le versioni dell’opera. La Simionato, però, salvo che non cadesse in eccessi di gusto (ed è documentato capitassero più in italiano che in francese) era, comunque, sorvegliata e castigata rispetto al gusto imperante e regge il confronto con accreditate Carmen come Grace Bumbry e la prima Verrett.
Il caso si presenta analogo, anzi accentuato, con il protagonista maschile. Che Gigli ecceda è scontato (fra l’altro non era più freschissimo all’epoca della registrazione) anche se il legato al fiore è esemplare.
Certo che l’aria diviene un interessante luogo di confronto della tradizione interpretativa e del mutare del gusto.
Chi esaminasse i numerosi ascolti tenorili potrebbe facilmente rilevare come il verismo in senso negativo di Carmen sia completo e dimostrato negli ultimi anni della tradizione della rappresentazione dell’opera tradotta.
Fernando de Lucia, che all’epoca era un considerato antesignano del canto nuovo, canta un fiore elegante e raffinato, e come lui Karl Jörn, che per giunta sfoggia un facilissimo e francesissimo misto sul si bem di “libero schiavo amor mi fe”. Nota prevista in spartito pp, indicazione che credo sia mancata da almeno una quarantina d'anni, ossia dalle ultime performance di Franco Corelli.
Rispetto ai don José che non legano, che spacciano per interpretazione suoni artificiosamente gonfiati ed una linea di canto limitata a forte e mezzo forte, de Lucia e Jörn sono un altro pianeta.
Tenuto conto della tecnica primordiale di registrazione del disco di Jörn la differenza emerge anche nel raffronto fra Del Monaco e il tenore lettone, protagonista della prima registrazione in lingua tedesca.
Alle prese, poi, con la stessa aria tenori come Patzak, Pertile e Fleta sono sfumatissimi, rispettano i segni di espressione previsti dall’autore ed in alto emettono suoni squillanti e timbrati. Possiamo, poi, rilevare che la linea di canto di Fleta sia molto più ricercata di quella del coetaneo Pertile; entrambi, però, rendono il conflitto interiore di don José. Entrambi sono, a differenza di quanti oggi affrontano il ruolo del giovane scriteriato brigadiere, interpreti. A prescindere dalla lingua in cui cantano.

Bizet - Carmen

Atto I

Habanera - Elena Theodorini, Conchita Supervía, Ebe Stignani, Irina Arkhipova
Votre mère avec moi sortait de la chapelle - Elisabeth Rethberg & Richard Tauber
Séguedille - Giulietta Simionato, Irina Arkhipova, Fiorenza Cossotto

Atto II

Les tringles des sistres tintaient - Armida Parsi-Pettinella, Giulietta Simionato, Irina Arkhipova
Votre toast je peux vous le rendre - José Mardones, Antonio Magini-Coletti, Titta Ruffo
Je vais danser en votre honneur - Armida Parsi-Pettinella
La fleur que tu m'avais jetée - Fernando De Lucia, Karl Jörn, Jacques Urlus, John McCormack, Hipólito Lázaro, Julius Patzak, Aureliano Pertile
Non, tu ne m'aimes pas - Giulietta Simionato & Franco Corelli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco

Atto III

En vain, pour éviter les réponses amères - Gemma Bellincioni, Gianna Pederzini, Ebe Stignani
Je dis que rien ne m'épouvante - Elisabeth Rethberg, Mirella Freni, Renata Scotto

Atto IV

C'est toi?...C'est moi! - Emmy Destinn & Karl Jörn, Gianna Pederzini & Renato Zanelli, Ebe Stignani & Beniamino Gigli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco

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