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domenica 27 marzo 2011

Verdi Edission: Il Trovatore a 78 giri in italiano

Quello che vi proponiamo di fare oggi con la puntata dedicata al Trovatore a 78 giri in lingua italiana è un viaggio nella quarta dimensione del canto. Dimensione che nemmeno noi pensavamo potesse esistere, ma gli ascolti effettuati di circa 150 tra brani acustici ed elettrici di uno dei titoli più popolari e maggiormente eseguito dai cantanti antichi, ci hanno posto davanti un altro mondo, un’altra lirica.

L’intento era quello di documentare il Trovatore come si può ricostruire dai microsolchi dalle origini sino al periodo tra le due guerre, dando per assodati e trattati cantanti celeberrimi, veri monumenti della storia, come la Stignani, collocati a cavallo tra quel passato remoto e l’era moderna. Documentare significava, in questo caso, scegliere in modo mirato nel mare magnum dei documenti pervenuti sino a noi di voci storiche di prima seconda e terza “classe”, in modo da mettere a disposizione materiali rappresentativi della storia della vocalità, ossia tipi di voci e prassi esecutive. Impresa rivelatasi da un lato impossibile per via della difficoltà di scegliere tra tante esecuzioni eccezionali, dall’altro a causa della rarità di alcune incisioni e il disinteresse per certe parti dell’opera rispetto ad altre, fatto anche questo assai significativo perché documento chiaro della concezione che i cantanti antichi avevano di questa opera, e di cosa fosse per loro la grandezza dell’esecuzione del ruolo in cui si cimentavano. Impossibilità di scegliere? Certamente! E’ impossibile scegliere un numero limitato di esecuzioni significative perché il numero dei grandi esecutori e dei passi tramandatici è altissimo, e non per la popolarità dell’opera quanto per il livello altissimo, per noi oggi assolutamente inconcepibile, del canto espresso. Esemplifico: non esiste un solo tenore, di serie A, B o C che non squilli negli acuti, esecuzione della Pira in particolare. Fatto eclatante per noi, che viviamo in un presente in cui nessun tenore nel ruolo di Manrico sappia, non dico, squillare, ma eseguire correttamente gli acuti. Fatto ancor più eclatante perché l’ascolto seriale di questi materiali dimostra che anche tenori come Bergonzi o Corelli avrebbero stentato a reggere il confronto, per estensione, completezza di fraseggio e timbro con i Manrico dei 78 giri. Solo Richard Tucker sembra avere avuto tali e tante armi da poter competere con loro. Ma nel complesso, il dopoguerra pare essere stata un’età di svolta per la corda di tenore ed in parte per quella di soprano, svolta verso l’assoluta rarità di esponenti completi per il ruolo protagonistico maschile, eccezionalità di grandi protagoniste femminili, oggi come oggi estinte pure loro. La constatazione che vi sottopongo non è espressa a cuor leggero o senza riflessione, ma discende dagli ascolti che pure voi invito a fare. Ascolti che saranno ulteriormente rafforzati dalla prossima puntata, quella delle esecuzioni a 78 giri in lingua straniera, che completano il quadro delle grandi scuole di canto europee, che oggi come oggi possiamo solo dichiarare estinte. Dall’altro emerge gigantesca la constatazione che a fronte di innumerevoli artisti di statura storica non sono documentati che alcuni, pochissimi, nomi di direttori d’orchestra. Questi artisti sono sé stessi da soli, e non per le bacchette anche celeberrime, con cui lavorarono, da Toscanini a Mugnone etc..Ed il pensiero istintivo di chi, melomane come me, vive il presente, và alle moderne diciture: il Trovatore di Muti, il Trovatore di Temirkanov, di Pappano…Il Trovatore dei direttori, insomma. Possiamo avere tutti i geni della bacchetta che vogliamo, ma senza grandi cantanti non si può fare un grande Trovatore, nemmeno avvicinarsi ad una buona esecuzione. E questa concezione velleitaria è una delle più grandi storture del nostro presente sulla quale dovremmo riflettere al cospetto di questi ascolti straordinari, incommensurabili ed innavicinabili da parte nostra oggi.

Gli ascolti dei brani hanno tutti o quasi un denominatore comune, che li unisce e li differenzia dalle esecuzioni del dopoguerra, ossia il tempo, nella maggioranza dei casi più lento di quelli cui noi siamo avvezzi. Le arie in particolare sono eseguite con maggior larghezza, voci piene e varietà di fraseggio, conferendo agli andanti una espressione più marcata, insomma …un sapore più netto rispetto ad oggi. Quello del protagonista è certamente il ruolo “perduto”, ossia il ruolo che l’età moderna ha maggiormente alterato nel suo carattere come nella vocalità. Tutti gli interpreti con cui siamo venuti in contatto, a cominciare da Francesco Tamagno, già ritirato all’epoca dell’incisione della sua Pira, ai De Muro e Caruso sino ai più recenti Pertile e Lauri Volpi, inclusi tenori di secondo piano come Scampini o altri di fama ancora minore che qui abbiamo omesso come Biel, Garcia o Valls, tanto per fare dei nomi, erano dotati di squillo. Non solo di perfetto dominio del registro acuto, ma di squillo vero e proprio. E tanto per intenderci sul significato che sino al dopoguerra si è attribuito alla parola squillo, abbiamo incluso una Pira dalla voce di un tenore ritenuto poco squillante e dotato in zona acuta, ossia Beniamino Gigli, per noi oggi squillantissimo. Pira per la quale non si ammetteva l’esecuzione senza puntature, con buona pace della filologia moderna, a cominciare proprio da Tamagno. L’esecuzione abbassata era prassi accettata e diffusa per i tenori, che non potessero eseguire il do come ad esempio Pertile, mentre anche altre interpolazioni venivano eseguite come quelle oggi del tutto desuete nella scena del Miserere, come udiamo ad esempio nella bellissima incisione della scena di Celestina Bonisegna e Augusto Scampini, quelle della canzone di ingresso oppure quella, bruttissima a mio avviso, in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, ancora frequente nei 78 giri, o addirittura nella scena del convento da parte di De Muro. Acuti, ma anche un canto legato, a sostegno di un fraseggio più o meno articolato, funzionale alla creazione di un personaggio indiscutibilmente eroico, nobile, in alcuni casi malinconico, sempre virile. Colpisce in tal senso il modo di gestire la canzone di ingresso, Deserto sulla terra, eseguita con tempo lento, in alcuni casi lentissimo, come tradizione che va da Tamagno a Pertile. La malinconia pare essere un tratto prevalentemente moderno, di pochi, mentre i più preferivano conferire al brano il tratto di una nenia cantata da un eroe di guerra, come del resto ci dice il personaggio stesso. Il colore della voce di Manrico non era affatto prestabilita, variando da quella scurissima e baritonaleggiante di Caruso a quella chiara ed ampia di De Muro sino a quella adolescenziale e squillantissima di Lauri Volpi. Tutti sanno legare il suono con la voce, e, fatto per noi oggi assolutamente straordinario, legano anche i tenori di forza, legano e modulano il suono con assoluta facilità, mantenendo sempre un’emissione perfettamente composta e, soprattutto stilizzata. Stupisce la completa assenza di “fibra” o di sforzo in queste voci, che suonano sempre completamente libere ed astratte. Francesco Merli un prodigio vocale e di forza fisica, che ebbe questo ruolo in repertorio per trent’anni assieme a tutti i ruoli più pesanti del repertorio, canta con voce enorme, facile, legatissima e morbida, senza portamento alcuno al contrario di molti suoi epigoni, a cominciare da Franco Corelli, che finisce per essere un tenore di gusto deteriore al confronto. La lezione di Merli e di Pertile rappresenta la lettura toscaniniana del canto di Manrico, di un canto composto, sempre diretto sulle note, mai o comunque assai meno abusato e connotato da libertà esecutive quali quelle che si riscontrano in un Paoli, ad esempio, molto ottocentesco e “marconiano” nell’emissione dei suoni centrali come ben si percepisce nell’esecuzione dell’”Ah si ben mio”, seguito, peraltro, da una delle Pire di forza più impressionati dell’intero mondo dei 78 giri. Il loro è il canto cui noi siamo maggiormente abituati, mentre Paoli suona per noi arcaico e lontanissimo per gusto nell’esecuzione degli andanti, al contrario della cabaletta. Non è Caruso, dunque, a fare da spartiacque , come già altre volte, tra il tenore antico e quello moderno nell’evoluzione del gusto, forse anche perché cantò l’opera raramente. La sua incisione dell’aria, nel 1908, pare poco “carusiana” per il gusto, particolarmente varia per i suoi standard di fraseggio, e per nulla compiaciuta di certi vezzi tipici, il portamento soprattutto, che tanto fecero scuola tra i suoi epigoni. Il timbro scurissimo, piuttosto, in parte naturale in parte voluto, vera anomalia rispetto a tutti gli altri colleghi sino al secondo dopoguerra, sembra oggi la sola componente che lo accomuna a certi (malsani) esecutori di età moderna, che bitumano artificiosamente le loro voci. La sua Pira, va detto, pare essere il primo caso di manipolazione fraudolenta, in modo da far credere che Caruso eseguisse il brano in tono. Quanto poi alla seconda linea tenorile, quella più lirica e leggera che abbiamo visto in campo subito all’epoca della composizione dell’opera, trova ancora documentazione in voci come Piccaver o Dalmorès, famoso per l’esecuzione del trillo in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, che suonano comunque assai più liriche e piene di quanto non abbiamo sentito, ad esempio, da un Pavarotti. Trovare morbidezza e lirismo in un esecutore abituale di Donizetti come Piccaver non stupisce, mentre và oltre ogni nostra aspettativa sentire una qualità di canto che noi oggi non conosciamo nemmeno nel belcanto in un tenore solito a praticare il Verismo più spinto come Bernardo De Muro, che ricorda per molti aspetti il canto spinto all’estremo delle proprie risorse di Lauri Volpi, che, ad onta della sua planetaria fama come più grande Manrico di tutti i tempi, non ci ha lasciato una esecuzione di “Ah, si ben mio” e Pira cantante con quel timbro adolescenziale che tutti conosciamo attraverso i live della sua tarda età. L’incisione Brunswick del 1923, infatti, è quella del Lauri Volpi antecedente l’incontro con Maria Ros, quando il tenore ancora imitava apertamente i modi di Caruso di scurire il suono. L’esecuzione, comunque, resta straordinaria per accento e squillo. Per quanto concerne il personaggio di Leonora, fortemente caratterizzato da una componente belcantistica e da una tragica contrapposte, i 78 giri documentano assai limitatamente la prima. O meglio, la riscontriamo nel canto di primedonne tecnicamente straordinarie, dall’emissione perfettamente astratta almeno in zona centro acuta, in grado di amministrare con scioltezza i passi di agilità, complice la precoce affermazione della prassi del taglio della cabaletta successiva al Miserere, reintrodotta in età moderna. Si tratta, comunque, di soprani eccezionali anche per il gusto sobrio, modernissimo, come la Raisa, prima, la Russ o l’Arangi Lombardi o la stessa Muzio, che portarono in teatro un titolo come la Norma senza cadere nelle contaminazioni del gusto verista. Soprani che praticavano abitualmente il repertorio spinto o drammatico, e con loro anche la Rethberg, di cui ci resta solo il finale live con Martinelli dal Met, già pubblicato nella puntata precedente, capaci di accentare in modo composto ma vario, insomma di esprimere sempre solo con il canto. E’ in questa loro arcaica perfezione di tecnica unita a strumenti privilegiati per timbro ed estensione, le prime due in particolare, che risiede la peculiarità di un canto estraneo ad ogni inflessione di tipo naturalista destinato ad estinguersi di lì a poco. Soffrono entrambe nel registro grave, l’Arangi forse un po’ meno della Raisa (che però sale con straordinaria facilità al re bemolle), mentre di loro la più perfetta anche nei gravi fu certamente la Rethberg, ma fraseggiano con un pathos ed una poesia ( la Muzio poi, laddove non arriva con il suo strumento arriva con la spontanea ricercatezza ed fantasia del suo emozionante fraseggio ) che dopo di loro solo la Callas, la Cerquetti e la Gencer hanno saputo avvicinare. E’ la sola Amelita Galli Curci a rappresentare, nel mondo dei 78 giri, il filone del belcantismo puro, dato che all’incisione delle arie la Tetrazzini ( che esegue male, fra l’altro, la scena del quarto atto ) non diede alcun seguito con l’esecuzione dell’opera in teatro. La Galli Curci con la sua ampia voce cristallina da leggero purissimo, lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di una grandissima artista diva piuttosto che di Leonora, una diva che voleva, in virtù della natura sonorissima del mezzo, cimentarsi al di là della propria natura vocale, antesignana dichiarata delle performances newyorkesi della Sutherland, ma non so in che misura aderente all’arcaico modello della più grande belcantista ottocentesca, cioè la Patti e la Grisi. Al loro fianco le voci stupende della Ponselle, più comuni, ma elegantemente amministrate di soprani spinti di secondo piano come la Spani, che esegue benissimo la cavatina, o di dive veriste al cento per cento come la Destinn, che nel Miserere offre una prova perfetta del modo sopra le righe e retorico di approcciare il passo più drammatico e di scrittura grave dell’opera. Arrivano i suoni aperti e sbiancati, le note di petto ed un fraseggio abbastanza esteriore. Meglio certe italiane, come la Bonisegna, estesissima nei gravi tanto da arrivare a cimentarsi anche con le incisioni delle scene di Azucena, oppure la Minghini Cattaneo, davvero poderosa in questa scena. Della Caniglia e della Cigna vi abbiamo già dato documentazione nella puntata precedente. La scena che, nel post Callas che ha fortemente liricizzato ed alleggerito il peso specifico del ruolo, non ha poi più trovato esecutrici in grado di amministrare la scena con la forza, a volte certamente esagerata per il nostro gusto, tipica dei soprani drammatici. Per quanto attiene il ruolo della zingara, i 78 giri in italiano documentano ancora mezzosoprani di caratura belcantistica come Eugenia Mantelli, Azucena numerose volte al Met alla fine dell’Ottocento e con Francesco Tamagno, o Ernestine Schumann-Heink, qui nella celeberrima incisione dell’ultima scena con Enrico Caruso, cui si affiancavano altre interpreti straniere che vedremo nel volume dedicato alle esecuzioni in lingua. Queste interpreti restituiscono la dimensione ottocentesca a metà tra retaggio belcantistico e nuova vocalità del mezzosoprano verdiano di cui parlammo nella prima puntata e che si perse nei primi decenni del novecento, a favore di un personaggio meno raffinato e rifinito sul piano vocale. Ne è un esempio Elvira Casazza, l’Azucena più famosa precedente “l’impero” di Ebe Stignani, che con il suo arrivò ripristinò stile, emissione perfetta ed eleganza esecutiva del personaggio. Nessuna di queste cantanti del pre Stignani si abbandona mai al canto sgangherato e volgare di Fedora Barbieri. Possono avere magari la voce con due registri non omogeneizzati, come la Casazza appunto, o cantare con ampio uso del registro di petto oltre il nostro gusto moderno come la Minghini Cattaneo, voce peraltro bellissima oltre che ampia, che canta disordinatamente il "Deh rallentate o barbari" o la Zinetti, che, al contrario, è volgare nel "Giorni poveri vivea" ma regge meglio la stretta della scena, mai si abbandonano ad una dimensione becera e volgare della zingara e che le moderne Azucene, vuoi per limiti tecnici vuoi per gusto deteriorato, sovente ci restituiscono. Quanto ai baritoni c’è assi poco da dire. Voci ampissime come pure voci di normale tonnellaggio si sono cimentati nell’incisione dell’aria del Conte di Luna, che non è esattamente un must che interessasse ai grandi cantanti incidere per documentare le proprie virtù canore. Mattia Battistini rappresenta il modo ottocentesco di eseguire il duetto con Leonora ( l’incisione dell’aria risulta perduta..), sempre composto, elegante, estraneo ad ogni truculenza moderna che da Tagliabue e MacNeil in poi ci viene regolarmente propinata ad ogni produzione di Trovatore, buona e non ultima quella parmigiana. Eppure come il re dei baritoni cantavano no solo le star, di mezzo limitato come De Luca o importante come Galeffi, ma anche, e soprattutto per noi oggi, le voci di secondo piano. Abbiamo già proposto nel leggendario video Giacomo Rimini, marito di Rosa Raisa, o una coppia più ruspante, la Poli Randaccio con Inghilleri. In questa puntata ho scelto un’esecuzione più tarda, anni ’30, di Enrico Molinari, che incise l’opera con Francesco Merli e Bianca Scacciati. Esecuzione strepitosa per il legato, la morbidezza di emissione, la facilità del canto, un canto fin troppo regale per la rozzezza del personaggio. Molinari canta porgendo ogni frase quasi si trattasse del Re di Favorita, eppure no toglie nulla al profilo drammaturgico del personaggio, che di fatto è caratterizzato da una psicologia, posticcia, falsa, come in una fiaba. Quanto al ruolo di Ferrando, si tratta di rare incisioni, quasi delle curiosità da parte di celebrità come Ezio Pinza, o Nazareno De Angelis, rari ma eccezionali interpreti della scena iniziale, la cui presenza in teatro poteva essere un lusso per produzioni particolari, ma più frequentemente una presenza legata ad altre in ruoli più rilevanti nelle tournée dei grandi teatri.

Gli ascolti Giuseppe Verdi Il trovatore
Atto I


Abietta zingara - Ezio Pinza (1923)

Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi -
Hina Spani (1919), Rosa Ponselle (1922), Maria Nemeth (1927), Claudia Muzio (1935)

Deserto sulla terra - Francesco Tamagno (1903), Bernardo De Muro (con Ernesto Badini - 1917), Augusto Scampini (1912)
Di geloso amor sprezzato - Giuseppe Pacini, Giannina Russ & Luigi Longobardi (1905)

Atto II

Stride la vampa
Armida Parsi-Pettinella (1904), Eugenia Mantelli (1905) Condotta ell'era in ceppi - Armida Parsi-Pettinella (1909)

Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente - Enrico Caruso & Louise Homer (1910), Bernardo De Muro & Elvira Casazza (1917), Aureliano Pertile & Irene Minghini-Cattaneo (1927)

Il balen del suo sorriso - Giuseppe De Luca (1907), Riccardo Stracciari (1917), Enrico Molinari (1930) E deggio e posso crederlo? - Bernardo De Muro & Janni, Badini & Bettoni (1914)

Atto III

Giorni poveri vivea - Armida Parsi-Pettinella (con Pasquale Amato & Ferruccio Corradetti - 1909), Irene Minghini-Cattaneo (con Apollo Granforte & Bruno Carmassi - 1930), Giuseppina Zinetti (con Enrico Molinari & Corrado Zambelli - 1930)

Ah sì, ben mio - Enrico Caruso (1908), Antonio Paoli (1911), Bernardo De Muro (1917), Alfredo Piccaver (1923), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Aureliano Pertile (1925), Francesco Merli (1930)

Di quella pira - Francesco Tamagno (1903), Antonio Paoli (1911), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Francesco Merli (1930), Beniamino Gigli (1940),

Atto IV

Timor di me?...D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918), Amelita Galli-Curci (1918), Giannina Arangi-Lombardi (1927)

Miserere - Celesina Boninsegna & Augusto Scampini (1907), Emmy Destinn & Giovanni Martinelli (1912), Irene Minghini-Cattaneo & Aureliano Pertile (1927)

Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo - Elvira Barbieri & Mattia Battistini (1913), Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi (1928), Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri (1929)

Ai nostri monti - Enrico Caruso & Ernestine Schumann-Heink (1910), Beniamino Gigli & Cloe Elmo (1940)

No, non m'inganna quel fioco lume - Giovanni Zenatello, Ester Mazzoleni & Elisa Bruno (1908)

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lunedì 9 novembre 2009

Mese verdiano XV - L'accento verdiano, parte quarta: "Eri tu che macchiavi quell'anima"

L'aria di Renato al terzo atto del Ballo in maschera può essere esaminata sotto varie angolazioni: le difficoltà vocali, ad esempio, visto che Verdi dedica al baritono una serie di scomode frasi, che impegnano la zona dal mi acuto al sol; quale più compiuta definzione del baritono verdiano da un lato quale evoluzione dei baritenori di marca rossiniana, ossia dei bassi baritoni alla Tamburini, atteso che Renato nella tessitura, soprattutto dell'aria del terzo atto, ci ricorda e non poco le ultime esperienze del tenore baritonale alla Donzelli.

Ma il problema é ben altro, ossia come cantare l'aria se si vuole essere un interprete ovvero dare senso alla dolorosa lamentazione di un marito, che si crede tradito, anche se il tradimento che lo angustia di più, è quello dell'amico, colpevole di non lecite attenzioni alla propria consorte, che sembra essere molto maschilisticamente l'oggetto del tradimento.
Aulico, ampolloso, nobile, solenne forse anche distaccato, sussiegoso ed altezzoso. Questi sono gli aggettivi per il baritono verdiano, anche in situazioni di grande tensione emotiva, come quella in cui si trova Renato.
Banditi, dunque, per lo status del personaggio, accenti plebei ed espressioni estranee al canto. Renato non è parente dei cornuti veristi quali Canio, Ciaciotto o Compare Alfio, piuttosto di Chalais della Rohan e di don Alfonso d'Este.
Per capire il personaggio Renato e le problematiche vocali ed interpretative, che coincidono con quelle dell'esatta definizione dell'accento verdiano basta leggere Lauri Volpi su Battistini Renato: "Il divino e l'umano si fondevano in quella voce quando egli sussurrava con il più lieve, ma percettibilissimo timbro "oh dolcezze perdute o memorie d'un amplesso che l'essere india!" frase che oggi si falseggia o si grida".
In buona sostanza Verdi chiede all'ultore marito tradito di essere solenne ed oratorio nel proclamare il tradimento amicale, accorato e profondamente ferito nella rimembranza dell'amore, vindice, in nome dell'amicizia tradita e della infranta purezza d'Amelia, alla sezione conclusiva.
Carlo Galeffi e Mario Ancona rispondono con il canto e la tecnica alle richieste verdiane. Entrambi hanno voce dal colore chiaro tenoreggiante (all'epoca di Rossini sarebbero stati baritenori, Galeffi soprattutto), nella limitata indicazione di segni di espressione di Verdi lungo le sezioni dell'aria, differenziano il mutamento dello stato d'animo di Renato, sono costantemente nobili nel fraseggio. Tutti gli acuti di cui la parte è disseminata precisamente i fa di "che compensi in tal guiSA...","che l'esSEre india" e "sul mio seNO brillava d'amor" non mostrano segni di tensione. E lo stesso accade con il sol acuto di "...sul mio seno brilLAva d'amor", che richiede massima eleganza e dolcezza e nessuna evocazione "rusticana", visto il momento della vita di coppia, che va a ricordare e con il SOL bem di "...non siede che l'odio, non SIEde che l'odio, che l'odio e la morte", dove il bercio verista è in agguato.
Per la precisione a partire dal mi acuto per la voce di bariono siamo in zona acuta e solo il baritono, che concluda sul do diesis o al massimo sul re, l'operazione di passaggio di registro potrà emettere i suoni estremi facili e timbrati, smorzati e rinforzati alla bisogna espressiva.
In difetto si canta come Piero Cappuccilli o Thomas Hampson. E, quel che peggio non si è nobili o non si accenta. Si falseggia o si grida, come diceva Giacomo Lauri-Volpi. Con l'attenuante che Cappuccilli era dotatissimo in natura e pertanto non era nobile, non era aulico, anzi era volgare e plebeo, ma almeno emetteva suoni facili, anche se interpretativamente accettabili per l'arrapamento di Tonio. Renato è vendicativo, ma niente bava alla bocca, niente arrapamento nella memoria dell'amore. Sentire cosa accade sulle "dolcezze perdute" o "sul seno brillava d'amor" non tanto per il bercio della nota acuta in sé, ma per la mancanza di qualsiasi nobiltà nel dire la frase e la palese difficoltà nella zona acuta della voce, nonostante la natura generosa.
Quanto a Thomas Hampson le mende sono le stesse, ossia un cattiva esecuzione del passaggi in un baritono tenoreggiante, che compensa il limite tecnico con suoni oscurati artificiosamente e non calibrati dalla respirazione corretta. Hampson si sforza, a differenza di Cappuccilli di essere più elegante e meno trucido, ma il risultato è solo affetazione e maniera.
Affettazione e maniera, che non sono eleganza e nobiltà.
Pare che di affettazione e maniera lo stesso Verdi tacciasse Battistini. In realtà era solo un cantante di gusto ed impianto vocale donizettiano, che reggeva le tessiture acute di Verdi. Non solo Lauri Volpi, ma anche Giuseppe de Luca, nelle interviste americane del 1917, parlano di Battistini in termini agiografici. Nessuno aveva del commendator Battistini la fluidità di emissione, la rotondità e la morbidezza del suono ed un controllo tecnico, che gli consentisse di fare quello che voleva in ogni pagina musicale, anche quelle disseminate di difficoltà come l'aria di Renato. Davanti all'esecuzione di Battistini, Galeffi ed Ancona gli risultano inferiori per eleganza e nobiltà. A differenza dei suoi successori Battistini è accorato ed aulico sin dall'invettiva iniziale, ma il passo rimane invettiva per la straordinaria espansione e squillo, che emergono nonostante la registrazione primordiale ed i quasi trent'anni di carriera del cinquantenne baritono reatino. Quando poi Battistini-Renato rimembra l'amore nessun cantante, ad onta del giudizio di Verdi (che ha un suo inossidabile fondamento), secondo il nostro gusto offre la più esauriente rappresentazione dell'eroe romantico, anzi del cattivo e vindice, nel dramma di cappa e spada.

Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera


Atto III

Eri tu che macchiavi quell'anima

1906 - Mattia Battistini

1907 - Mario Ancona

1926 - Carlo Galeffi

1978 - Piero Cappuccilli

2005 - Thomas Hampson


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sabato 24 ottobre 2009

Mese verdiano X - L'accento verdiano parte seconda: "Calpesta il mio cadavere, ma salva il Trovator"

Verdi ed i suoi librettisti ci misero del loro per dar sapore all’incontro tra donna Leonora ed il conte di Luna nelle sale del palazzo di Aljaferia. Pare, infatti, che nel dramma di Gutiérrez, il Conte non si scaldasse gran chè davanti alla “proposta indecente” della dama disperata, mentre nell’opera di Verdi …beh…si scalda eccome! Mai prima di allora una primadonna aveva offerto il proprio corpo in cambio della vita dell’amato in modo così dichiarato e plateale.

I piccanti accordi non finirono lì, perché, si sa, che una volta aperta la via, l’emulazione dilaga. Con maggiore o minor ipocrisia svariate altre primedonne faranno, poi, mercato di sé per l’amato, ma sarà sempre salva la regola che chi ha virtù trionfa e chi non ne ha perde. Barnaba resterà con un palmo di naso davanti al cadavere di Gioconda, mentre morirà l’opportunista Manon; Tosca verrà rincorsa da Scarpia, che riuscirà solo a rovesciarla su un canapè prima di finire accoltellato mentre Minnie, maestrina scaltra, barerà per vincere alle carte e non cedere allo sceriffo.
Leonora è ancora una donna idealizzata, astratta nel suo aplomb dal sapore stilnovista: si prometterà al cattivo ben sapendo che non cederà e che dovrà morire per sfuggire all’orrendo patto. Incarna purezza e candore, un mix psicologico perfetto perchè semplice, come quello dei protagonisti del favole. Anche il cattivo conte di Luna è uno stereotipo: lo agitano la gelosia per Manrico ed un profondo desiderio di vendetta…..oltre che di possedere la bella dama.
Come sempre in Verdi, soprattutto questo, alla fine della sua “galera”, tutto è estremo, verace, esplicito ed immediato, in breve, decisamente sopra le righe rispetto agli operisti precedenti ma incredibilmente cogente.
Leonora si para davanti al Conte all’improvviso, come un fantasma, proprio mentre il conte la pensa scomparsa chissà dove. All’iniziale sorpresa segue la supplica della donna disperata, che implora pietà con vero slancio. L’andante è con moto, perché Verdi dà rilievo drammaturgico al momento concitato, all’agitazione interore di Leonora, che sa che il tempo stringe per Manrico, ed alla risposta sdegnosa del conte, furente. Il canto del conte è continuamente accentato, perché il canto deve trasudare rabbia, anche se composta; quello di Leonora accentato ma, soprattutto, ricco di forcelle, ampie messe di voce, perché accorata ed estrema deve suonare la sua profferta al conte: “ Calpesta il mio cadavere ma salva il Trovator”. Poi la musica si arresta ed il patto si fa velocemente, in due battute. Per il conte la grazia non ha prezzo, e Leonora rilancia con la più alta delle poste; sbalordito il conte accetta, dunque Manrico vivrà. Una felicità un po’isterica percorre i due: “Vivrà!Contende il giubilo..”, allegro brillante, addirittura. Lei, morendo, potrà dire a Manrico che è salvo grazie al suo amore; il conte, incredulo e felice, potrà finalmente possedere Leonora, che in effetti alla fine avrà, ma….“ fredda, esanime spoglia!”.
Una sintesi incredibile di azione e successione rapida di stati d’animo, peculiari di tutto il Trovatore del resto. E sarà un grande successo anche a Parigi, ove Verdi aveva incontrato tanta resistenza nella critica e nel pubblico, tanto che vi sarà anche una versione in francese dell’opera. Il nuovo modo di fare teatro lirico iniziava a passare anche nella roccaforte del belcantismo d’élite.

Qui, come altrove, l’accento verdiano sta nel dar senso ad ogni sfumatura del testo, nel rispetto dei segni di espressione che costellano lo spartito ed indicano inequivocabilmente la via da seguire ma…nella misura. L’enfasi che Verdi richiede al canto non scade nell’eccesso o nell’esagerazione, anche quando a queste offre il fianco, come può accadere in questa celebre scena.

Vi sono alcune leggendarie incisioni di questo duetto nel nostro ripostiglio di anticaglie.
Di una addirittura è conservato il video, del 1928. Il soprano Rosa Raisa, prima interprete di Turandot, donna elegante e bellissima, che, se non avesse calcato le tavole del palcoscenico, avrebbe fatto la diva del cinema muto, alle cui primedonne si ispira con tutta evidenza come attrice. Canta con una perfezione ed una purezza di emissione derivata dalla scuola assolutamente belcantista di Barbara Marchisio. E’ anche una interprete straordinaria, viva, misurata ed intensa, soprattutto…moderna. Con lei è il signor Giacomo Rimini, visivamente anche lui da cinema muto…ma da comica. Vocalmente, invece, bravissimo. La voce è piuttosto scura, soprattutto per me, che amo baritoni di colore chiaro, ma questo è affare di gusti. Canta sobriamente, con mordente ed un gusto che nei baritoni sparirà di lì ad un paio di decenni.

Pari suggestione per me hanno Frida Leider e Heinrich Schlunsnus ( 1925 ), che documentano un Verdi rappresentato in contesti diversi da quello italiano. Lei, la wagneriana della leggenda, ci ha lasciato delle incisioni di brani del Trovatore con cui possono competere forse un paio di signore dell’intero universo discografico ( il suo “D’amor sull’ali rosee” è eccezionale ). Esegue tutto, accenti, forcelle, coloratura della cabaletta inclusa, con una facilità disarmante, dando rilievo a tutto, ad ogni segno, ogni nota. Il suo conte di Luna le assomiglia alquanto, per qualità del mezzo vocale, bellezza di emissione, compostezza ed eleganza di accento. A voci ampie che cantano perfettamente, dominando ogni passo dello spartito con facilità, basta poco per accentare. Quella leggera enfasi di cui si parlava anche altrove basta ed avanza.

Terza proposta, il duo italianissimo Arangi Lombardi – Galeffi ( 1928 ) in un incisione che è documento perfetto della più italiana delle tradizioni verdiane. Forse meno perfetta vocalmente l’Arangi Lombardi rispetto alle altre due ( in basso la voce non suona perfettamente come già altre volte abbiamo rilevato, ma parliamo di una cantante assolutamente straordinaria ), strepitoso e perfetto Galeffi. Entrambi sono grandi fraseggiatori,composti ma intensi e vivi. E moderni. I tempi adottati per l’esecuzione, poi, sono a noi più familiari rispetto alla coppia precedente: è possibile che l’audio documenti i modi di Toscanini, perché i due furono gli esecutori da lui prescelti in più occasioni, anche per altre opere di Verdi. E’ inutile descrivere il loro modo di fraseggiare e dire come e perché costituiscano un modello di accento verdiano. Basta ascoltarli perché tutte le definizioni si chiariscano subito: loro passano da soli!


Gli ascolti

Verdi - Il trovatore

Atto IV

Udiste...Mira, d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo

1920 - Rosa Ponselle & Riccardo Stracciari

1925 - Frida Leider & Heinrich Schlusnus

1928 - Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi

1929 - Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri



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venerdì 31 ottobre 2008

Simone Boccanegra, "empio corsaro incoronato".

Simone Boccanegra è, nella produzione di Verdi uno strano lavoro.
Nato, ultima fra le opere del Verdi “a cabaletta” nel 1857 subì, dopo Aida e Don Carlos, ampia revisione, che l’ha fatta ritenere presagio, piuttosto consistente, di Otello.
Ossia del dramma musicale .
Possiamo esagerare dicendo che passiamo dal Verdi “a cabaletta” al dramma musicale, attraverso una sovrabbondante dose di grand-opéra?.
Credo di no per la storia compositiva dell’opera, e soprattutto per quello che Verdi pratica fra la prima e la seconda del Boccanegra. Seconda versione nella quale l’opera viene abitualmente rappresentata..
E senza essere opera popolare nel senso di una Traviata o di un Trovatore è stata sempre rappresentata nei teatri, conoscendo spesso esecuzioni esemplari come le coeve del Met (1932) Tibbett, Pinza, Martinelli, Müller (Elisabeth Rethberg nelle riprese) e della Scala (1933) Galeffi, De Angelis, Caniglia .
Opera di difficile collocazione, opera di difficile esecuzione. Naturalmente.
Ha attirato, specie negli ultimi cinquat’anni, per la parentela con il dramma musicale grandi direttori d’orchestra. Notissimi i nomi Abbado, Solti, Chailly.
Purtroppo come per tutte le opere, Wagner e Strauss compresi, il grande direttore non basta. E non può bastare per un’opera come questa , anche se il compito di direzione e concertazione è gravoso.
Il colore e clima più forte, che si percepisce nel Boccanegra è quello del grand-opéra. Le atmosfere della Genova del prologo o della Genova dell’inizio del terzo atto, le congiure, che secondo al visione ottocentesca della storia si snodano dal prologo alla fine, tradendo la verità storica per creare il componimento misto di invenzione e storia, la grande scena del palazzo degli Abati, con la lezione di storia contenuta sono tutti ingredienti tipici del grand-opéra.
Ovvero di un tipo di melodramma, assolutamente sconosciuto ed ignoto ai direttori di orchestra ed anche ai cantanti oggi in carriera.
I richiami alle vie di Parigi della strage degli Ugonotti, piuttosto che l’atmosfera delle congiure occulte nel palazzo saint Bris o del ritrovo della religione bandita nella bottega dell’orefice ebreo, le apparizioni, quasi infernali, degli anabattisti sono speculari alle immagini di questo Verdi.
Il compito essenziale del direttore del grand-opéra d’orchestra è quello di creare l’atmosfera nella quale i personaggi agiscono.
In genere è già problematico gestire cori in scena ed interni, campane, banda, orchestre interne sono di difficile gestione che sono la grammatica di base, poi arrivano sintassi ossia l’essenziale problema di creare il colore e l’atmosfera, preparare la serie di colpi di scena che in Simone sovrabbondano.
Senza sostegno contorno non avremo mai il sapore della storia che di Simone è la più autentica caratteristica.
In questo senso la direzione di Mitropoulos al Met 1960 è esemplare. Esemplare perché rende l’atmosfera delle congiure della lotta per il potere, ed anche, altra e concorrente componente, del grand-opéra, la vicenda d’amore che, poi, nel Boccanegra è anche quella dell'amore paterno, sofferto osteggiato e tormentato del doge.
La resa di Mitropoulos è superiore a quella di altri direttori perché si rende perfettamente conto delle forze in alcuni casi esauste (una cinquantacinquenne Milanov) limitate per tecnica (Guerrera e Tozzi) ovvero eccezionali (Bergonzi).
Allora in primo luogo il grande affresco storico con ben evidenziati i presagi del dopo ossia Otello, l’accompagnamento sinistro ad ogni apparizione di Fiesco sia nel prologo, che nel primo atto con Gabriele Adorno che nel finale con Simone, le esplosioni ad ogni colpo di scena (Simone che scopre Maria cadavere), la concitazione del finale primo, la misura, direi essenzialità nei rallentando e nella dinamica sfumata allorchè è in scena la Milanov (o quel che ne resta) e un’aria di Gabriele che, complice un tenore che può fare tutto o quasi a tutte le dinamiche ed a tutte le altezze è dimostrazione di che risultato possa sortire la collaborazione fra un grande direttore ed un cantante nel pieno possesso di mezzi tecnici e vocali.
Va detto che non ci sono le raffinetezze e la potenza vocale ed espressiva che, al tempo stesso, si intuiscono dagli acetati del Met 1935 ed anche 1939 ad opera di Tibbet e Pinza e per molti versi anche da Elisabeth Rethberg , neppure le esibizioni vocali assolute in Fiesco di De Angelis e di Alexander Kipnis. Non c’è neppure la difficile coesione fra palcoscenico e buca che connota tutte le edizioni di Simone successive. Ed osannate aggiungo, anzi storiche.
Spiace dirlo, ma e soprattutto con riferimento alle reiterate esecuzioni scaligere che il rapporto Mitropoulos cantanti appare esemplare, a differenza di quello di Claudio Abbado. Tozzi e Guerrara non avevano le qualità vocali di Cappuccilli e Ghiaurov, ma erano tecnicamente più ortodossi rispetto alla tradizione, non esibivano i suoni bitumosi e le difficoltà nelle note medio-alte di Cappuccili o i suoni indietro e nello stomaco, che impedivano qualsiasi possibilità di dinamica con cui Ghiaurov ha connotato il nobile genovese. Che di nobile nulla aveva e poteva avere.
Anche se, premesso che mala tempora currunt, almeno aveva la vera voce da basso qualcuno potrebbe obiettare. Però la registrazione 1935 e 1939 del Met ci ricorda per voce di Ezio Pinza che Fiesco può anche essere chiaro come basso con un vago sapore baritonale, ma assolutamente deve essere elegante, stilizzato e nobile, come consono al personaggio da grand-opéra.

Gli ascolti

Prologo

A te l'estremo addio...Il lacerato spirito - Alexander Kipnis, Ezio Pinza, Nicolai Ghiaurov

Atto I

Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? - Mirella Freni & Piero Cappuccilli

Messeri, il Re di Tartaria - Tibbett-Rethberg/Panizza, Cappuccilli-Freni/Abbado, Bruson-Dimitrova/Guingal

Atto II

O inferno...Pieotos cielo - Carlo Bergonzi, Richard Tucker

Atto III

M'ardon le tempie - Lawrence Tibbett & Ezio Pinza, Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov

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lunedì 29 settembre 2008

Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Prima puntata: Rodrigo, Marchese di Posa

Inauguriamo con questo intervento una serie di riflessioni sul Don Carlo verdiano e i suoi personaggi, riflessioni che ci accompagneranno, con cadenza periodica (o quasi), lungo le prossime settimane fino alla vigilia di Sant’Ambrogio. È infatti con Don Carlo, nella tradizionale versione in quattro atti e in lingua italiana, che si aprirà la stagione scaligera 2008-09 e ci sembrerebbe di fare torto al capolavoro verdiano e al massimo teatro italiano, che torna ad allestirlo dopo sedici anni di prudente silenzio, se non cogliessimo questa occasione per ripassare un titolo che, mai stato di grande repertorio, pare in questi ultimi tempi quasi svanito nel nulla, tanto sporadiche ne sono le riprese sulle scene liriche. Ed è un peccato, se si considera che, fra le opere di Verdi, Don Carlo è una di quelle che maggiori soddisfazioni offrono tanto ai cantanti quanto al direttore d’orchestra ed al regista, posto ovviamente che i suddetti sappiano e vogliano essere all’altezza della situazione.

E partiamo, quindi, con il primo dei sei personaggi in cerca di cantanti (e, se possibile, interpreti!), ovvero il marchese di Posa. Il primo interprete, Jean-Baptiste Faure, aveva in repertorio Favorita e Ugonotti ed avrebbe, poco dopo la prima parigina del 1867, creato la parte di Amleto nell’opera di Thomas. Rodrigo s’inserisce senza esitazioni sulla scia dei grandi personaggi baritonali dell’opera francese (certo Donizetti compreso), per i quali è necessaria non tanto una voce potente e dal timbro sontuoso, quanto un interprete scafato e attento alle mille indicazioni espressive del dettato verdiano, sicuro nei fa e sol acuti scritti come nell’esecuzione di trilli e appoggiature.
Superfluo aggiungere che il marchese di Posa, come ogni Grande di Spagna che si rispetti, non grida mai, neppure quando affronta una nemica pericolosa come la principessa d’Eboli, e in nessun caso potrebbe discendere a tanta scortesia al cospetto del suo Re. La famigerata parola scenica, per essere veramente tale, deve essere cantata, e non recitata. Del resto basta dare un’occhiata a quelli che furono i più frequenti Marchesi di Posa sulle scene italiane (e non solo) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo per accorgersi di come, al personaggio, sia necessario in primo luogo un grande cantante (o almeno un cantante tecnicamente a posto) e non un ossesso che digrigna i denti dipingendo così una pace dei sepolcri che evoca piuttosto gli eterni tormenti. Se in Italia, accanto alla curiosità di un Paul Lhérie (già primo Don José, passato dalla corda di tenore a quella di baritono) alla Scala nel 1884, i pionieri furono due divi del calibro di Antonio Cotogni (che Verdi volle accompagnare al pianoforte nella morte di Posa, e al cui canto il Maestro si commosse fino alle lacrime) e Virgilio Collini, presto ebbe inizio il regno di Giuseppe Kaschmann, che contese a Carlo Galeffi la palma di Rodrigo più longevo sui nostri palcoscenici.
Il baritono istriano, dotato di voce morbida e possente, si rivela interprete raffinato e modernissimo, attento a cesellare la parola ma non per questo dimentico degli abbellimenti e della dinamica, come dimostra l’ascolto proposto della romanza del secondo (primo nella versione italiana) atto, di fronte alla quale un cantante di generosa natura e peregrina raffinatezza quale Milnes fa la figura, a voler essere buoni, del principiante.
E quanto a Cotogni, non sarà inutile riascoltare, nella grande scena della morte, uno dei suoi più illustri allievi, Mattia Battistini, che abbiamo appositamente selezionato in due ascolti registrati a undici anni di distanza, e comunque quando il Commendatore della lirica italiana aveva abbondantemente superato l’età sinodale dei cinquanta e si trovava in quella che doveva essere, giocoforza, la fase calante della carriera. Ebbene, Battistini non solo non emette un solo suono che sia brutto o tecnicamente reprensibile, ma attraverso un canto nobile e composto, fatto di mille sfumature, pianissimi e rubati (forse persino eccessivi per il gusto moderno, complice in questo anche la difficoltà corrente d’imbattersi in simili finezze), risulta sommamente espressivo, donando alla registrazione una forza teatrale che la gran parte delle esecuzioni live non si sogna neppure di sfiorare.
E se al Metropolitan l’opera debuttò solo nel 1920 ed ebbe fino agli anni Cinquanta meno di quindici recite in totale (il duetto Martinelli-De Luca, che proponiamo in apertura degli ascolti, è proprio un omaggio alla prima del Met, cui parteciparono anche la Ponselle, la Matzenauer e Didur), la gestione di Rudolf Bing incrementò la frequenza del titolo, ma non la qualità media delle esecuzioni. Ardua impresa sarebbe stata, del resto.


Gli ascolti - Don Carlos

Acte II
Dieu: tu semas dans nos âmes - Giuseppe De Luca & Giovanni Martinelli (1921 - link alternativo), Renato Bruson & Jaime Aragall (1987 - link alternativo)
L'Infant Carlos, notre espérance - Giuseppe Kaschmann (1903 - link alternativo), Sherrill Milnes (1971 - link alternativo)
Restez! Auprès de ma personne - Paolo Silveri & Nicola Rossi-Lemeni (1951 - link alternativo), Ettore Bastianini & Boris Christoff (1960 - link alternativo), Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov (1968 - link alternativo)

Acte IV
Oui Carlos! C'est mon jour suprême - Mattia Battistini (1913 - link alternativo), Tito Gobbi (1964 - link alternativo), Titta Ruffo (1905 - link alternativo)
Carlos, écoute - Mattia Battistini (1924 - link alternativo), Riccardo Stracciari (1916 - link alternativo), Dmitri Hvorostovsky (2006 - link alternativo)

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