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domenica 8 maggio 2011

Trilogia (im)popolare al Regio di Torino e al Met

In epoca di mercato delle voci mal messo e magro per le bacchette le dirigenze dei teatri, con assoluto anacronismo, si attaccano al cosiddetto repertorio, animati dal sogno di così non perdere pubblico, anzi di conquistarne per il solo richiamo, che il repertorio esercita. In fondo è la soluzione più comoda e per certi versi la meno rischiosa. Ve lo immaginate oggi allestire titoli come Poliuto, Rosmonda d’Inghilterra, Loreley o Medea in Corinto?

Meglio la solida trilogia popolare verdiana o, almeno, alcuni dei titoli che la compongono. Garantiscono il tutto esaurito e abbassano il rischio contestazioni per la presenza, appunto, di quel pubblico, pago del solo presenziare ed ascoltare il brindisi della Traviata o la Pira.
L’idea è diffusa perché, a breve distanza di tempo, Traviata e Rigoletto sono stati proposti dal teatro Regio di Torino e Trovatore dal massimo teatro americano. Il più fantasioso si è dimostrato con Rigoletto il teatro torinese. Le tre produzioni sono state radiotrasmesse, copiosamente commentate in chat e, quindi, queste mie altro non sono che un riassunto delle opinioni del pubblico. Anzi, in chiusa aggiungo quanto uno dei nostri più affezionati lettori ha scritto dopo una pomeridiana di Traviata. Scelta questa fatta non per abiurare il compito, che ci siamo dati, ma per confortare i nostri detrattori che non siamo ancora pronti per la tutela del WWF.

Cast all stars il Trovatore, come avrebbe potuto essere nel 1913 quello Slezak, Gadsky, Amato, Homer o nel 1935 uno Martinelli, Rethberg, Borgioli perché quanto a fama internazionale Sondra Rodvanowsky, Marcelo Alvarez e Dimitri Hvorostovsky competono con i colleghi, ormai defunti, sopra citati. Peccato che alla fama internazionale si fermi la competizione, salvo che per l’Azucena di Dolora Zajic. Veterana, anni cinquantanove ed inspiegabilmente assente dalla prossima stagione del teatro la Zajic è un soprano Falcon e, quindi, più versata per Eboli ed Amneris. La sua Azucena, non levigatissima nella zona medio grave, brilla per vigore nel “Condotta ell’era in ceppi”, nel duetto seguente con Manrico, per lo splendore degli acuti in particolare il si bem conclusivo dell’opera ed il do del “tu la spremi”, stenta, invece, in “Stride la vampa” di tessitura più centrale e –stranamente- nel “Giorni poveri vivea”. Rimane, però, l’unica professionista schierata. Tali non sono gli altri tre ossia Sondra Radvanosky, Marcelo Alvarez e Dimitri Horovstovsky, ben rappresentanti, però, da accreditate agenzie. Al limite del grottesco e del caricaturale la prestazione del soprano, reduce da una lunga sindrome influenzale, che l’ha costretta a cancellare l’ardua parte della duchessa Elena dei Vespri torinesi. Una dilettante che imbrocca gli acuti estremi, timbro né bello né brutto, ma, prima ancora indecifrabile a cagione di un’emissione tubata ed ingolfata, che compromette l’intonazione, impedisce il legato (“D’amor sull’ali rosee”, in primis), rende fissa la voce a partire dalle note centrali, difficoltosa l’esecuzione dei pochi passi di agilità e, più ancora, compromette la possibilità di reggere la tessitura acuta principalmente alla scena in cui Leonora tenta di prendere i voti o le alate frasi in cui Leonora muore nel più puro stile donizettiano, ovvero secondo i desiderata di Rosina Penco.
Gli uomini. Hovrostovky gode, mi risulta, fama e stima presso alcune residue falangi cappuccilliane sopravvissute in Scala. Non ho dubbi: è becero, volgare e, come tutti i cantanti di imposto mentale prima che vocale verista ignora che sia la grandeur e la solennità, che toccano, per giunta in tessiture astrali, al Conte di Luna, innamorato respinto, rivale non solo in amore, ma anche in politica di un ardimentoso giovinetto. Qui con Marcelo Alvarez di ardimentoso giovane al primo amore, al primo scontro neppure l’ombra. Eppure, se avesse saputo dove collocare la risonanza della voce Marcelo Alvarez avrebbe potuto raffigurare con aderenza vocale e stilistica il protagonista. Invece la voce si è accorciata (pira abbassata e scorciata nelle frasi, che precedono la puntatura conclusiva) appesantita (nessuna smorzatura nell'"Ah si ben mio", nel finale dell’opera o nel precedente duetto con Azucena, insomma non gli importa della mamma e della amata!!) un “Deserto sulla terra” squadrato e metronomico, e frasi arroventate come “infami sgherri vibrano colpi mortali” o “l’infame amor perduto” che di rovente poco hanno, molto avendo di volgare e verista. Lo slancio ed il vigore dell’eroe romantico, perché tale è Manrico, mal sopportano emissione prossima al parlato.
Il migliore in campo è stato il direttore Marco Armilliato, che ha portato a termine una simile compagnia di canto. Non è un merito da poco perchè i limiti tecnici di tre dei protagonisti si risolvono in pesanti limiti di resa musicale ed interpretativa.
La tradizione di andar di passo spedito, che può essere censurabile nel Trovatore alla fine, ad onta di legittimi dubbi si rivela la scelta, che salva lo spettacolo.

Alla stessa conclusione e scelta, infatti, deve essere giunto in quel di Torino Patrick Fournillier che, secondato da un’orchestra, che sembra in questo momento suonare meglio di tutte le altre patrie, ha imbroccato la strada dei tempi veloci, cari al Verdi stigmatizzato dei figli di Toscanini, che senza scendere in polemica certamente elide molto dell’aspetto notturno o intimistico, ma evita figuracce a cantanti, spesso mal messi quanto a tecnica. Solo che anche queste scelte se possono aiutare per certo non possono propiziare il miracolo di far cantare professionalmente chi tale non sia. Alludo in principalità alla protagonista di Traviata: Alessandra Kurzak. Chi ha deciso di farne una star, tanta è la proterva presenza con cui la cantante polacca viene inflitta nei teatri italiani anche nella prossima stagione, ha preso un abbaglio... . e che abbaglio! La voce è chiara, bianca, anzi sbiancata, come quella delle colorature dei paesi un tempo dell’Est, aggravata da una assoluta incapacità di sostenere la voce (già dimostrata nel concerto scaligero), che rende la voce tremula in tutta la gamma, aperta nella zona medio grave, spinta in quella successiva costantemente stonata. Tralasciamo le urla del mi bem fuori ordinanza della stretta del “Sempre libera”, le stecche del do diesis (questo scritto di "giojr") o dei vari do della cabaletta, ma soffermiamoci sulla difficoltà del la bem dei “solinga nei tumulti” alle note gravi inesistenti del “Gran Dio morir si giovine”, all’impossibilità di cantare sul fiato le frasi del duetto con Germont dove la Violetta soprano leggero deve sublimare dolore e sofferenza (vedasi Hempel, Galli-Curci, Pagliughi e Devia) per arrivare a concludere che una siffatta cantante potrebbe al più essere proposta quale Annina e non già come protagonista. Un’autentica presa in giro per il pubblico pagante e per il contribuente. Davanti ad una siffatta scelta la Gilda di Irina Lungu, afflitta pure lei da problemi costanti di intonazione, derivati da un sostegno del suono peregrino, complice la scrittura elevata e ornata di staccati e picchettati,
è, comunque di ben altra qualità.
Quanto ai signori uomini, Stefano Secco rispecchia nella qualità vocale il cognome. Non comprendo la scelta di interpolare il do (un autentico urlo) alla chiusa della cabaletta di Alfredo, per altro eseguita senza il da capo. Per altro un simile acuto è il coronamento di una voce che, come si dice in gergo “non gira”. All’ascoltatore attento non sfugge che tutte le volte in cui Alfredo a chiamato a cantare in zona re3 –fa3, ossia quella, che coincide con il passaggio il suono perde colore e smalto perché il cantante non sa dove collocare la voce. E siccome Alfredo quasi tutta la serata canta in quella zone e più ancora in quella zona deve cantare affettuoso e dolce, come si compete al giovane innamorato che per amore da scandalo, il risulto è protagonista maschile che non seduce, che non sospira e che neppure sfoggia impeto e vigore alla scena della borsa, occasione che gli Alfredo di scadente scuola non si lasciano mai sfuggire per vociare.

Quanto a vociare la coppia duca buffone proposta in Rigoletto è esemplare. Entrambi sarebbero anche dotati eccome, perché il colore di voce e il timbro di Franco Vassallo sarebbe quello di autentico baritono e Terranova, che canta solo con la dote naturale, anche lui, se correttamente impostato, reggerebbe senza sforzo non solo le tessiture del Duca, ma anche altre ancor più impegnative. Invece abbiamo un duca di Mantova che, crolla alle “sfere agli angioli” perché la frase che sta fra il re bem3 e il la bem3 non può essere cantata con la voce naturale, che è volgare e sudaticcio in tutto il quartetto ed arrivato al si bem di “pene consolar” non può che urlare, così come non è in grado di smorzare e colorire l’intera aria del secondo atto, dove la gamma dei sentimento del duca impone per essere interpreti, varietà di fraseggio. E la sequela delle lamentele è la medesima con riferimento al protagonista acuti indietro, nessun colore nei lunghi monologhi dal “pari siamo” a quello sul sacco contenente –tragica beffa del destino- il corpo di Gilda morente dove frasi come “un sacco il suo lenzuolo” devono essere dette non urlate, non buttate lì. Comprendo la logorante monotonia di queste osservazioni, comprendo che sono sempre le stesse, ma il canto di questi signori è sempre lo stesso di gola, duro forzato, senza colori, senza intenzioni interpretative perché in quella zona della voce per interpretare, per fraseggiare, per dire ci vuole una capacità tecnica oggi sconosciuta, e che sarà sempre più sconosciuta perché la giovane ragazza che cento anni or sono andava in teatro in cerca di un modello ascoltava Luisa Tetrazzini, ma anche solide professioniste come Ada Sari. oggi che ascolta? Alessandra Kurzak e che impara ? Nulla perché non può imparare alcunchè, neanche a declamare la lettera del terzo atto.
Cedo la parola alle opinioni di Pasquale, compagno di sventure:

Signora Grisi.
una mia impressione sulla recita di oggi pomeriggio 3 maggio ( naturalmente teatro esaurito )
Stesso allestimento dell'anno scorso con inizio con la scena dei funerali con del blocchi di dimensione e altezza diverse a simulare le lapidi, poi trasformate nell'arredamento della casa di Violetta insieme a un paio di pareti e dei gradini di una scalinata,stessi oggetti disposti diversamente per la casa di Flora, poi ricoperti con lenzuola ritornano a fare parte dell'arredamento della casa di Violetta morente con l'aggiunta di un letto.L'unica variante la seconda scena che simulava un po di campagna con un po di verde,e una specie di collinetta.
Sinceramente non ho mai assistito a una recita della Traviata noiosa e piatta come questa,con un cast non all'altezza di un teatro come il Regio di Torino.
Il soprano Kurzak inadeguata a un ruolo complesso come quello di Violetta se la prima parte poteva ancora dire qualcosa,ma parecchio calante nel strano e strano e ai limiti nel Sempre libera,ma completamente inadeguata nella seconda parte sia nel duetto con Alfredo sia e ancora e peggio prima nel duetto con Germont padre cantare questa parte richiede ben altra voce nel centro,e questo anche nel finale,insomma una Violetta insipida senza sale,noiosa.(al confronto la scorsa edizione ottobre 2009la Mosuc era tutto un altro livello,e anche la Lungu non mi è dispiaciuta nel secondo cast).
Per Secco un discorso tipo non è l'abito che fa il monaco,come non è un grande nome a cantare un buon Alfredo,dopo il brindisi in "Un dì felice, eterea" ha iniziato con una mezza stonatura e durante tutta la recita non è stato un Alfredo convincente leggerino poi spesso portato a forzare.
Capitanucci un baritono dalla voce chiara sinceramente sembrava piu il fratello di Alfredo che non il padre,"in Provenza... ha cominciato bene poi verso la fine ha forzato,forse per dare piu enfasi a quello che diceva,ma rovinando la linea di canto,meglio la successiva cabaletta,anche per lui un finale insignificante.
ll Regio di Torino (io sono un abbonato )ultimante ha fatto delle bellissime recite che si può dire che è diventato il primo teatro di Italia,ma spero che questa recita e questo cast sia solo un incidente di percorso
Il coro mi è piaciuto molto anche la direzione con Fournillier molto attento al palco,ma d'altronte se il materiale che ha a disposizione è questo non può fare miracoli.
Naturalmemte il pubblico ha molto applaudito, ma ormai qui è diventata la prassi,si applaude tutto e tutti.

Salve
Pasquale L.



Verdi - La Traviata

Atto I

E' strano - Lina Pagliughi (con Giacinto Prandelli - 1951)


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domenica 10 aprile 2011

Verdi Edission. Il Trovatore a 78 giri... internessional!

Quando in un cantante l’elevata statura tecnica si coniuga con l’eleganza interpretativa ed il gusto ci troviamo, allora, in presenza di un artista, che trasforma il canto in poesia, in moto dell’anima. Ecco il messaggio comune a tutti i rappresentanti della scuola tedesca, che oggi chiudono la Verdi edission, dedicata al Trovatore. In un presente afflitto da soprani che nei casi migliori fraseggiano in modo marziale oppure sibilano con voce fissa, tenori abbaianti o sbadiglianti, mezzi sguaiati degni di esibirsi al circo, ecco qua il documento di un passato straordinario, direi quasi miracoloso. La lingua tedesca la fa da padrona perché i francesi hanno tradotto in misura assai inferiore, per nulla gli spagnoli che cantavano in italiano.

Quella di lingua tedesca ( con la sola eccezione di Leon Escalais, che canta in francese ) si rivela scuola di canto all’italiana, in nulla diversa da quelle che abbiamo incontrato nelle precedenti puntate. Tanto italiana che questi cantanti, certamente eccezionali, abituati al repertorio wagneriano o, comunque, pesante esibiscono con assoluta facilità non solo un fraseggio sfumato e lirico, retto da un canto perfettamente legato, una voce omogenea in tutta la gamma ed alta qualità timbrica, ma anche irreprensibile dimestichezza con i passi di scrittura fiorita, trilli in primis, e completo dominio del registro acuto. Alcuni di loro, aggiungo, si comportano come veri belcantisti, a cominciare da quella cantante quasi inumana che fu Siegrid Onegin, la sola in grado di sopravanzare la perfezione di Ebe Stignani; il baritono Heinrich Schlusnus, che canta e si esprime nel “Balen del suo sorriso” con l’eleganza, il legato, il lirismo e gli acuti squillanti di un grande amoroso romantico, per non parlare dell’aplomb esecutivo ed interpretativo del duetto del quarto atto, un modello di canto verdiano; di Frau Margarete Siems, allieva di Pauline Viardot e preziosa testimone audio della grande tecnica di canto del XIX secolo, falsamente ritenuta non documentata, che canta con assoluta facilità ed eleganza un lentissimo “D’amor sull’ali rosee”, mostrando un controllo della voce al di sopra del si bem da fare impallidire una Sutherland ( la signora amministrava contemporaneamente il Rigoletto, l’Aida, la Traviata, gli Ugonotti in entrambe le parti femminili, la Norma, il Ballo, la Lucia, la Marescialla e Zerbinetta, tanto per capire con quale fenomeno abbiamo a che fare ..); Frau Frieda Leider, wagneriana leggendaria, perfetta come nessuna dopo di lei, anzi ultima a sapere affrontare il repertorio italiano con lo stile, l’accento e la perfezione tecnica, che i passi di Leonora dimostrano. Per la Leider non esistono note acute, e nemmeno note gravi, ma solo note, tutte perfettamente identiche, emesse senza sforzo alcuno, trilli stupendi inclusi, i fiati sono di un’ampiezza, che impressiona: nessuna è mai più tornata al suo livello, a dispensare Brunhildi e Norme contemporaneamente in questo modo. La sua Leonora è strepitosa, dotata di eleganza e slancio davvero verdiani nel duetto del questo atto con Schlusnus, accento lirico e soavissimo nelle arie, dove esibisce prodigiose smorzature in tessitura acuta nell’aria finale ed un uso sapiente dei rallentando. Modalità espressiva questa che viene dall’antico perché è la medesima di Frau Siems. Nemmeno le agilità le costano fatica, il trillo poi è pari a quello delle belcantiste moderne.
Nel registro di mezzosoprano Margarete Matzenauer, versatile stella del Metropolitan negli anni ’10-’30, è un'altra cantante formidabile per mezzi e tecnica. Nel duetto con Knote ci ha lasciato una documentazione preziosa per gusto, accento e dei suoi celebri acuti in “falsetto femminile”, nella fattispecie il do5 scritto di “Perigliarti ancor languente”, probabilmente i modi dell’emissione dei leggendari re nat 5 di Rosmunda Pisaroni e che sentiamo anche nelle incisioni di Ernestine Schumann Heink. Ma c’erano anche interpreti come Barbara Kemp, soprano anni ’20, che, pur avendo calcato i maggiori palcoscenici tedeschi non uscì mai dai confini patri, ci ha lasciato un “D’amor sull’ali rosee” lunare, una sorta di “Casta diva” verdiana di grandissima suggestione cantata con voce bellissima, oppure il professionismo impeccabile, per emissione e gusto compostissimo di una Runger, che canta in compagnia del dolcissimo Julius Patzak dalla voce morbida e legata. Alle medesime conclusioni si giunge ascoltando Sabine Kalter capace congiuntamente di eleganza e compostezza, che le consente di essere alla conclusione del “Condotta ell’era in ceppi” allucinata ed espressiva al tempo stesso senza indulgere in alcuno degli effetti che rendono Azucena una caricatura. Tralasciamo poi che gli acuti e in generale la zona medio alta della voce ha una risonanza ed uno squillo di rara qualità.
Come già nella puntata sui 78 giri in lingua italiana rileviamo un cambio nel gusto tra i tenori dei primissimi anni del novecento e quelli immediatamente successivi. Tra i più arcaici Leo Slezak, tenore di forza solito praticare anche Ugonotti, Ernani e Lucia di Lammermoor, in subordine Lohengrin e Tannhauser, canta con i modi e le libertà dei tenori ottocenteschi, oltre che con una voce bellissima; Jacques Urlus, tenore spinto dalla voce forse un po’ meno “bella” di Slezak (che sia detto subito era un super dotato), ma che coniuga il canto del tenore eroico con la morbidezza, il legato, l’accento epico accompagnato ad un buon trillo e facili smorzature. Per la cronaca e la polemica il repertorio di Urlus coincide con quello dell’oggi ultra incensato Jonas! Di Heinrich Knote, il wagneriano della triade, si apprezzano le medesime qualità, il legato, lo squillo e le soluzioni espressive, come i piani e le messe di voce dell’ ”Ah si ben mio”, senza dimenticare che anche lui….trillava con facilità. Tenori come Voelker, Patzak e Roswaenge hanno già un gusto postottocentesco, secondo quell’evoluzione che abbiamo visto per i tenori della puntata scorsa. Franz Voelker, ad onta del repertorio spinto praticato, e Julius Patzak aderiscono ad una concezione più lirica di Manrico ( idea per nulla originale quella a noi contemporanea..!), di grande timbro e legato, mentre Roswaenge, al contrario del primo, canta con maggiore epica e piglio, e con un gusto ancora a mezza strada tra l’ottocento ed il tenore postcarusiano. Rimangono a noi documenti di una koinè culturale di aerea tedesca completamente estintasi col secondo dopoguerra. Giocate un po’ voi con l’immaginazione e mettete a cantare il Trovatore, nella vostra mente, le stelle della “Collina” wagneriana, soprattutto quelle recenti, ma fate attenzione perchè potreste morire di spavento!!!


Gli ascolti

Giuseppe Verdi

Il trovatore


Atto I



Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi - Irene Abendroth (1902), Barbara Kemp (1919), Frida Leider (1925), Tiana Lemnitz (1939)

Di geloso amor sprezzato - Heinrich Schlusnus, Frida Leider & Julius Huett (1925)


Atto II


Stride la vampa - Margarete Matzenauer (1910), Sigrid Onegin (1919)

Condotta ell'era in ceppi - Sabine Kalter (1926)

Mal reggendo all'aspro assalto - Julius Patzak & Gertrud Runger (1936)

Perigliarti ancor languente - Margarete Matzenauer & Heinrich Knote (1909)

Il balen del suo sorriso - Heinrich Schlusnus (1925)


Atto III


Ah sì, ben mio - Jacques Urlus (1923), Leo Slezak (1907), Heinrich Knote (1906), Leon Escalais (1906), Franz Voelker (1928), Helge Rosvaenge (1938)

Di quella pira - Tino Pattiera (1916), Leon Escalais (1906)


Atto IV


D'amor sull'ali rosee - Margarethe Siems (1908), Barbara Kemp (1919), Frida Leider (1925), Tiana Lemnitz (1939)

Miserere - Meta Seinemeyer & John Glaser (1928)

Mira d'acerbe lagrime - Frida Leider & Heinrich Schlusnus (1925)

Ai nostri monti - Julius Patzak & Getrud Runger (1936), Richard Tauber & Sabine Kalter (1926), Helge Rosvaenge & Friedel Beckmann (1943)

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domenica 27 marzo 2011

Verdi Edission: Il Trovatore a 78 giri in italiano

Quello che vi proponiamo di fare oggi con la puntata dedicata al Trovatore a 78 giri in lingua italiana è un viaggio nella quarta dimensione del canto. Dimensione che nemmeno noi pensavamo potesse esistere, ma gli ascolti effettuati di circa 150 tra brani acustici ed elettrici di uno dei titoli più popolari e maggiormente eseguito dai cantanti antichi, ci hanno posto davanti un altro mondo, un’altra lirica.

L’intento era quello di documentare il Trovatore come si può ricostruire dai microsolchi dalle origini sino al periodo tra le due guerre, dando per assodati e trattati cantanti celeberrimi, veri monumenti della storia, come la Stignani, collocati a cavallo tra quel passato remoto e l’era moderna. Documentare significava, in questo caso, scegliere in modo mirato nel mare magnum dei documenti pervenuti sino a noi di voci storiche di prima seconda e terza “classe”, in modo da mettere a disposizione materiali rappresentativi della storia della vocalità, ossia tipi di voci e prassi esecutive. Impresa rivelatasi da un lato impossibile per via della difficoltà di scegliere tra tante esecuzioni eccezionali, dall’altro a causa della rarità di alcune incisioni e il disinteresse per certe parti dell’opera rispetto ad altre, fatto anche questo assai significativo perché documento chiaro della concezione che i cantanti antichi avevano di questa opera, e di cosa fosse per loro la grandezza dell’esecuzione del ruolo in cui si cimentavano. Impossibilità di scegliere? Certamente! E’ impossibile scegliere un numero limitato di esecuzioni significative perché il numero dei grandi esecutori e dei passi tramandatici è altissimo, e non per la popolarità dell’opera quanto per il livello altissimo, per noi oggi assolutamente inconcepibile, del canto espresso. Esemplifico: non esiste un solo tenore, di serie A, B o C che non squilli negli acuti, esecuzione della Pira in particolare. Fatto eclatante per noi, che viviamo in un presente in cui nessun tenore nel ruolo di Manrico sappia, non dico, squillare, ma eseguire correttamente gli acuti. Fatto ancor più eclatante perché l’ascolto seriale di questi materiali dimostra che anche tenori come Bergonzi o Corelli avrebbero stentato a reggere il confronto, per estensione, completezza di fraseggio e timbro con i Manrico dei 78 giri. Solo Richard Tucker sembra avere avuto tali e tante armi da poter competere con loro. Ma nel complesso, il dopoguerra pare essere stata un’età di svolta per la corda di tenore ed in parte per quella di soprano, svolta verso l’assoluta rarità di esponenti completi per il ruolo protagonistico maschile, eccezionalità di grandi protagoniste femminili, oggi come oggi estinte pure loro. La constatazione che vi sottopongo non è espressa a cuor leggero o senza riflessione, ma discende dagli ascolti che pure voi invito a fare. Ascolti che saranno ulteriormente rafforzati dalla prossima puntata, quella delle esecuzioni a 78 giri in lingua straniera, che completano il quadro delle grandi scuole di canto europee, che oggi come oggi possiamo solo dichiarare estinte. Dall’altro emerge gigantesca la constatazione che a fronte di innumerevoli artisti di statura storica non sono documentati che alcuni, pochissimi, nomi di direttori d’orchestra. Questi artisti sono sé stessi da soli, e non per le bacchette anche celeberrime, con cui lavorarono, da Toscanini a Mugnone etc..Ed il pensiero istintivo di chi, melomane come me, vive il presente, và alle moderne diciture: il Trovatore di Muti, il Trovatore di Temirkanov, di Pappano…Il Trovatore dei direttori, insomma. Possiamo avere tutti i geni della bacchetta che vogliamo, ma senza grandi cantanti non si può fare un grande Trovatore, nemmeno avvicinarsi ad una buona esecuzione. E questa concezione velleitaria è una delle più grandi storture del nostro presente sulla quale dovremmo riflettere al cospetto di questi ascolti straordinari, incommensurabili ed innavicinabili da parte nostra oggi.

Gli ascolti dei brani hanno tutti o quasi un denominatore comune, che li unisce e li differenzia dalle esecuzioni del dopoguerra, ossia il tempo, nella maggioranza dei casi più lento di quelli cui noi siamo avvezzi. Le arie in particolare sono eseguite con maggior larghezza, voci piene e varietà di fraseggio, conferendo agli andanti una espressione più marcata, insomma …un sapore più netto rispetto ad oggi. Quello del protagonista è certamente il ruolo “perduto”, ossia il ruolo che l’età moderna ha maggiormente alterato nel suo carattere come nella vocalità. Tutti gli interpreti con cui siamo venuti in contatto, a cominciare da Francesco Tamagno, già ritirato all’epoca dell’incisione della sua Pira, ai De Muro e Caruso sino ai più recenti Pertile e Lauri Volpi, inclusi tenori di secondo piano come Scampini o altri di fama ancora minore che qui abbiamo omesso come Biel, Garcia o Valls, tanto per fare dei nomi, erano dotati di squillo. Non solo di perfetto dominio del registro acuto, ma di squillo vero e proprio. E tanto per intenderci sul significato che sino al dopoguerra si è attribuito alla parola squillo, abbiamo incluso una Pira dalla voce di un tenore ritenuto poco squillante e dotato in zona acuta, ossia Beniamino Gigli, per noi oggi squillantissimo. Pira per la quale non si ammetteva l’esecuzione senza puntature, con buona pace della filologia moderna, a cominciare proprio da Tamagno. L’esecuzione abbassata era prassi accettata e diffusa per i tenori, che non potessero eseguire il do come ad esempio Pertile, mentre anche altre interpolazioni venivano eseguite come quelle oggi del tutto desuete nella scena del Miserere, come udiamo ad esempio nella bellissima incisione della scena di Celestina Bonisegna e Augusto Scampini, quelle della canzone di ingresso oppure quella, bruttissima a mio avviso, in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, ancora frequente nei 78 giri, o addirittura nella scena del convento da parte di De Muro. Acuti, ma anche un canto legato, a sostegno di un fraseggio più o meno articolato, funzionale alla creazione di un personaggio indiscutibilmente eroico, nobile, in alcuni casi malinconico, sempre virile. Colpisce in tal senso il modo di gestire la canzone di ingresso, Deserto sulla terra, eseguita con tempo lento, in alcuni casi lentissimo, come tradizione che va da Tamagno a Pertile. La malinconia pare essere un tratto prevalentemente moderno, di pochi, mentre i più preferivano conferire al brano il tratto di una nenia cantata da un eroe di guerra, come del resto ci dice il personaggio stesso. Il colore della voce di Manrico non era affatto prestabilita, variando da quella scurissima e baritonaleggiante di Caruso a quella chiara ed ampia di De Muro sino a quella adolescenziale e squillantissima di Lauri Volpi. Tutti sanno legare il suono con la voce, e, fatto per noi oggi assolutamente straordinario, legano anche i tenori di forza, legano e modulano il suono con assoluta facilità, mantenendo sempre un’emissione perfettamente composta e, soprattutto stilizzata. Stupisce la completa assenza di “fibra” o di sforzo in queste voci, che suonano sempre completamente libere ed astratte. Francesco Merli un prodigio vocale e di forza fisica, che ebbe questo ruolo in repertorio per trent’anni assieme a tutti i ruoli più pesanti del repertorio, canta con voce enorme, facile, legatissima e morbida, senza portamento alcuno al contrario di molti suoi epigoni, a cominciare da Franco Corelli, che finisce per essere un tenore di gusto deteriore al confronto. La lezione di Merli e di Pertile rappresenta la lettura toscaniniana del canto di Manrico, di un canto composto, sempre diretto sulle note, mai o comunque assai meno abusato e connotato da libertà esecutive quali quelle che si riscontrano in un Paoli, ad esempio, molto ottocentesco e “marconiano” nell’emissione dei suoni centrali come ben si percepisce nell’esecuzione dell’”Ah si ben mio”, seguito, peraltro, da una delle Pire di forza più impressionati dell’intero mondo dei 78 giri. Il loro è il canto cui noi siamo maggiormente abituati, mentre Paoli suona per noi arcaico e lontanissimo per gusto nell’esecuzione degli andanti, al contrario della cabaletta. Non è Caruso, dunque, a fare da spartiacque , come già altre volte, tra il tenore antico e quello moderno nell’evoluzione del gusto, forse anche perché cantò l’opera raramente. La sua incisione dell’aria, nel 1908, pare poco “carusiana” per il gusto, particolarmente varia per i suoi standard di fraseggio, e per nulla compiaciuta di certi vezzi tipici, il portamento soprattutto, che tanto fecero scuola tra i suoi epigoni. Il timbro scurissimo, piuttosto, in parte naturale in parte voluto, vera anomalia rispetto a tutti gli altri colleghi sino al secondo dopoguerra, sembra oggi la sola componente che lo accomuna a certi (malsani) esecutori di età moderna, che bitumano artificiosamente le loro voci. La sua Pira, va detto, pare essere il primo caso di manipolazione fraudolenta, in modo da far credere che Caruso eseguisse il brano in tono. Quanto poi alla seconda linea tenorile, quella più lirica e leggera che abbiamo visto in campo subito all’epoca della composizione dell’opera, trova ancora documentazione in voci come Piccaver o Dalmorès, famoso per l’esecuzione del trillo in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, che suonano comunque assai più liriche e piene di quanto non abbiamo sentito, ad esempio, da un Pavarotti. Trovare morbidezza e lirismo in un esecutore abituale di Donizetti come Piccaver non stupisce, mentre và oltre ogni nostra aspettativa sentire una qualità di canto che noi oggi non conosciamo nemmeno nel belcanto in un tenore solito a praticare il Verismo più spinto come Bernardo De Muro, che ricorda per molti aspetti il canto spinto all’estremo delle proprie risorse di Lauri Volpi, che, ad onta della sua planetaria fama come più grande Manrico di tutti i tempi, non ci ha lasciato una esecuzione di “Ah, si ben mio” e Pira cantante con quel timbro adolescenziale che tutti conosciamo attraverso i live della sua tarda età. L’incisione Brunswick del 1923, infatti, è quella del Lauri Volpi antecedente l’incontro con Maria Ros, quando il tenore ancora imitava apertamente i modi di Caruso di scurire il suono. L’esecuzione, comunque, resta straordinaria per accento e squillo. Per quanto concerne il personaggio di Leonora, fortemente caratterizzato da una componente belcantistica e da una tragica contrapposte, i 78 giri documentano assai limitatamente la prima. O meglio, la riscontriamo nel canto di primedonne tecnicamente straordinarie, dall’emissione perfettamente astratta almeno in zona centro acuta, in grado di amministrare con scioltezza i passi di agilità, complice la precoce affermazione della prassi del taglio della cabaletta successiva al Miserere, reintrodotta in età moderna. Si tratta, comunque, di soprani eccezionali anche per il gusto sobrio, modernissimo, come la Raisa, prima, la Russ o l’Arangi Lombardi o la stessa Muzio, che portarono in teatro un titolo come la Norma senza cadere nelle contaminazioni del gusto verista. Soprani che praticavano abitualmente il repertorio spinto o drammatico, e con loro anche la Rethberg, di cui ci resta solo il finale live con Martinelli dal Met, già pubblicato nella puntata precedente, capaci di accentare in modo composto ma vario, insomma di esprimere sempre solo con il canto. E’ in questa loro arcaica perfezione di tecnica unita a strumenti privilegiati per timbro ed estensione, le prime due in particolare, che risiede la peculiarità di un canto estraneo ad ogni inflessione di tipo naturalista destinato ad estinguersi di lì a poco. Soffrono entrambe nel registro grave, l’Arangi forse un po’ meno della Raisa (che però sale con straordinaria facilità al re bemolle), mentre di loro la più perfetta anche nei gravi fu certamente la Rethberg, ma fraseggiano con un pathos ed una poesia ( la Muzio poi, laddove non arriva con il suo strumento arriva con la spontanea ricercatezza ed fantasia del suo emozionante fraseggio ) che dopo di loro solo la Callas, la Cerquetti e la Gencer hanno saputo avvicinare. E’ la sola Amelita Galli Curci a rappresentare, nel mondo dei 78 giri, il filone del belcantismo puro, dato che all’incisione delle arie la Tetrazzini ( che esegue male, fra l’altro, la scena del quarto atto ) non diede alcun seguito con l’esecuzione dell’opera in teatro. La Galli Curci con la sua ampia voce cristallina da leggero purissimo, lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di una grandissima artista diva piuttosto che di Leonora, una diva che voleva, in virtù della natura sonorissima del mezzo, cimentarsi al di là della propria natura vocale, antesignana dichiarata delle performances newyorkesi della Sutherland, ma non so in che misura aderente all’arcaico modello della più grande belcantista ottocentesca, cioè la Patti e la Grisi. Al loro fianco le voci stupende della Ponselle, più comuni, ma elegantemente amministrate di soprani spinti di secondo piano come la Spani, che esegue benissimo la cavatina, o di dive veriste al cento per cento come la Destinn, che nel Miserere offre una prova perfetta del modo sopra le righe e retorico di approcciare il passo più drammatico e di scrittura grave dell’opera. Arrivano i suoni aperti e sbiancati, le note di petto ed un fraseggio abbastanza esteriore. Meglio certe italiane, come la Bonisegna, estesissima nei gravi tanto da arrivare a cimentarsi anche con le incisioni delle scene di Azucena, oppure la Minghini Cattaneo, davvero poderosa in questa scena. Della Caniglia e della Cigna vi abbiamo già dato documentazione nella puntata precedente. La scena che, nel post Callas che ha fortemente liricizzato ed alleggerito il peso specifico del ruolo, non ha poi più trovato esecutrici in grado di amministrare la scena con la forza, a volte certamente esagerata per il nostro gusto, tipica dei soprani drammatici. Per quanto attiene il ruolo della zingara, i 78 giri in italiano documentano ancora mezzosoprani di caratura belcantistica come Eugenia Mantelli, Azucena numerose volte al Met alla fine dell’Ottocento e con Francesco Tamagno, o Ernestine Schumann-Heink, qui nella celeberrima incisione dell’ultima scena con Enrico Caruso, cui si affiancavano altre interpreti straniere che vedremo nel volume dedicato alle esecuzioni in lingua. Queste interpreti restituiscono la dimensione ottocentesca a metà tra retaggio belcantistico e nuova vocalità del mezzosoprano verdiano di cui parlammo nella prima puntata e che si perse nei primi decenni del novecento, a favore di un personaggio meno raffinato e rifinito sul piano vocale. Ne è un esempio Elvira Casazza, l’Azucena più famosa precedente “l’impero” di Ebe Stignani, che con il suo arrivò ripristinò stile, emissione perfetta ed eleganza esecutiva del personaggio. Nessuna di queste cantanti del pre Stignani si abbandona mai al canto sgangherato e volgare di Fedora Barbieri. Possono avere magari la voce con due registri non omogeneizzati, come la Casazza appunto, o cantare con ampio uso del registro di petto oltre il nostro gusto moderno come la Minghini Cattaneo, voce peraltro bellissima oltre che ampia, che canta disordinatamente il "Deh rallentate o barbari" o la Zinetti, che, al contrario, è volgare nel "Giorni poveri vivea" ma regge meglio la stretta della scena, mai si abbandonano ad una dimensione becera e volgare della zingara e che le moderne Azucene, vuoi per limiti tecnici vuoi per gusto deteriorato, sovente ci restituiscono. Quanto ai baritoni c’è assi poco da dire. Voci ampissime come pure voci di normale tonnellaggio si sono cimentati nell’incisione dell’aria del Conte di Luna, che non è esattamente un must che interessasse ai grandi cantanti incidere per documentare le proprie virtù canore. Mattia Battistini rappresenta il modo ottocentesco di eseguire il duetto con Leonora ( l’incisione dell’aria risulta perduta..), sempre composto, elegante, estraneo ad ogni truculenza moderna che da Tagliabue e MacNeil in poi ci viene regolarmente propinata ad ogni produzione di Trovatore, buona e non ultima quella parmigiana. Eppure come il re dei baritoni cantavano no solo le star, di mezzo limitato come De Luca o importante come Galeffi, ma anche, e soprattutto per noi oggi, le voci di secondo piano. Abbiamo già proposto nel leggendario video Giacomo Rimini, marito di Rosa Raisa, o una coppia più ruspante, la Poli Randaccio con Inghilleri. In questa puntata ho scelto un’esecuzione più tarda, anni ’30, di Enrico Molinari, che incise l’opera con Francesco Merli e Bianca Scacciati. Esecuzione strepitosa per il legato, la morbidezza di emissione, la facilità del canto, un canto fin troppo regale per la rozzezza del personaggio. Molinari canta porgendo ogni frase quasi si trattasse del Re di Favorita, eppure no toglie nulla al profilo drammaturgico del personaggio, che di fatto è caratterizzato da una psicologia, posticcia, falsa, come in una fiaba. Quanto al ruolo di Ferrando, si tratta di rare incisioni, quasi delle curiosità da parte di celebrità come Ezio Pinza, o Nazareno De Angelis, rari ma eccezionali interpreti della scena iniziale, la cui presenza in teatro poteva essere un lusso per produzioni particolari, ma più frequentemente una presenza legata ad altre in ruoli più rilevanti nelle tournée dei grandi teatri.

Gli ascolti Giuseppe Verdi Il trovatore
Atto I


Abietta zingara - Ezio Pinza (1923)

Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi -
Hina Spani (1919), Rosa Ponselle (1922), Maria Nemeth (1927), Claudia Muzio (1935)

Deserto sulla terra - Francesco Tamagno (1903), Bernardo De Muro (con Ernesto Badini - 1917), Augusto Scampini (1912)
Di geloso amor sprezzato - Giuseppe Pacini, Giannina Russ & Luigi Longobardi (1905)

Atto II

Stride la vampa
Armida Parsi-Pettinella (1904), Eugenia Mantelli (1905) Condotta ell'era in ceppi - Armida Parsi-Pettinella (1909)

Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente - Enrico Caruso & Louise Homer (1910), Bernardo De Muro & Elvira Casazza (1917), Aureliano Pertile & Irene Minghini-Cattaneo (1927)

Il balen del suo sorriso - Giuseppe De Luca (1907), Riccardo Stracciari (1917), Enrico Molinari (1930) E deggio e posso crederlo? - Bernardo De Muro & Janni, Badini & Bettoni (1914)

Atto III

Giorni poveri vivea - Armida Parsi-Pettinella (con Pasquale Amato & Ferruccio Corradetti - 1909), Irene Minghini-Cattaneo (con Apollo Granforte & Bruno Carmassi - 1930), Giuseppina Zinetti (con Enrico Molinari & Corrado Zambelli - 1930)

Ah sì, ben mio - Enrico Caruso (1908), Antonio Paoli (1911), Bernardo De Muro (1917), Alfredo Piccaver (1923), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Aureliano Pertile (1925), Francesco Merli (1930)

Di quella pira - Francesco Tamagno (1903), Antonio Paoli (1911), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Francesco Merli (1930), Beniamino Gigli (1940),

Atto IV

Timor di me?...D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918), Amelita Galli-Curci (1918), Giannina Arangi-Lombardi (1927)

Miserere - Celesina Boninsegna & Augusto Scampini (1907), Emmy Destinn & Giovanni Martinelli (1912), Irene Minghini-Cattaneo & Aureliano Pertile (1927)

Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo - Elvira Barbieri & Mattia Battistini (1913), Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi (1928), Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri (1929)

Ai nostri monti - Enrico Caruso & Ernestine Schumann-Heink (1910), Beniamino Gigli & Cloe Elmo (1940)

No, non m'inganna quel fioco lume - Giovanni Zenatello, Ester Mazzoleni & Elisa Bruno (1908)

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giovedì 10 febbraio 2011

Verdi Edission - Il Trovatore

Poesia e violenza, velocità e sospensione, astrazione e truculenza, amore e vendetta, raffinatezza e volgarità sono gli opposti tra i quali si muove il Trovatore verdiano. Anzi, IL Trovatore, dato che la fama di quello in prosa di Gutierrez venne subito oscurata da quello musicato da Verdi.

Quello del Trovatore è un romanticismo per nulla ricercato o intellettuale, distante dall’ “hegelismo musicale” che si stava allora imponendo in Germania, come si scrisse sull’Allgemeine Theaterzeitung all’epoca della prima rappresentazione dell’opera, un romanticismo fatto di sentimenti tanto semplici quanto immediati, dunque.... popolare.
Verdi credette nel soggetto di Gutierrez, ossia in un crogiolo di situazioni al limite del rocambolesco e dell’assurdo, di passioni e duelli fuori dalla realtà, di personaggi agitati nella cornice di una Spagna medioevale e notturna. Per Verdi poteva funzionare anche trasposta in forma di opera lirica, opportunamente modellata e riadattata da Cammarano secondo il proprio dictat, forse per quel carattere fortemente dinamico ed immaginario tipico di un po’ tutta le letteratura romantica spagnola. Genio pragmatico e diretto, Verdi acquisì per sé tutto quanto gli faceva gioco nella costruzione di un melodramma ricco di invenzione melodica, forse il più melodico tra tutti quelli di quegli anni, velocissimo nel dipanarsi delle scene tra i vari atti, anzi tra le varie parti, cui venne dato un titolo, “Il duello, La gitana, Il figlio della zingara, Il supplizio.” Scene da un’azione incredibile, rette da cinque personaggi, o meglio da un personaggio vero, Azucena, tre stereotipi, Leonora, Manrico ed il Conte di Luna, ed un narratore, Ferrando.
La storia la conoscete, ed è inutile riproporvela. Un Almodovar del XIX secolo vuole che lo spettatore si lasci trasportare da una tragedia degli assurdi, credendo all’incredibile. Vuole che creda alla storia di una zingara che, nel tentativo di vendicarsi, avrebbe per errore bruciato il proprio figlio e non quello dell’uomo che le aveva ucciso la madre; che creda ad una donna malinconica e triste, profondamente innamorata di un trovatore-condottiero, che confonde nel buio di un giardino nella sagoma di un altro, che peraltro si scoprirà poi esserne il fratello; che creda al personaggio di un Conte di Luna ( proprio di Luna, guarda caso! ), potentissimo e temutissimo, ma semplicemente ossessionato dall’amore per quella stessa donna ed accecato dal desiderio di uccidere il rivale in amore e in guerra, tanto obnubilato da non pensare ad altro per tutta l’opera; che creda che la nobildonna, ritenendo l’amante perduto, decida di prendere i voti e che l’amato le compaia davanti all’improvviso, proprio un attimo prima della monacazione, e la porti via con sé sottraendola al Conte in procinto, a sua volta, di rapirla; che creda che la madre del Trovatore, Azucena, venga arrestata proprio nel giorno delle nozze, e che perciò il figlio pianti immediatamente in asso la sua Leonora nella camera nuziale per correre a salvarla; che creda che la stessa Leonora, sin lì del tutto inerte, si rechi alla torre in cui madre e figlio sono prigionieri del Conte, e, per salvare l’amato Manrico, si baratti romanticamente per lui sopra un ponte levatoio; che il suicidio di Leonora, per sottrarsi al Conte, abbia luogo “fuori tempo”, cosicchè, nell’arco di un minuto circa, lei possa morire, Manrico venga giustiziato, e la zingara, anziché straziarsi per il figlio perduto, selvaggiamente lo indichi al Conte come suo fratello, finalmente appagata di vedere vendicata la madre. Insomma, un andare e venire senza sosta che tiene lo spettatore legato alla scena in forza di ritmo e passioni accese, perché alla fine della razionalità e della plausibilità non importa nulla a nessuno: il teatro, nel Trovatore, è più che mai oltre la realtà, nell’immaginazione onirica e fantastica.

VOCIOMANIA O STORIA DEL CANTO?

La critica musicale ha sempre ribadito per Trovatore la centralità ed il carattere innovativo della zingara Azucena, dominatrice dell’azione ed ispiratrice burattinaia degli altri personaggi, con il suo ricordare angosciato e terribile, con i suoi segreti, con la sua tenerezza un po’rude, con la sue personalità dai risvolti demoniaci ed inquietanti. Il personaggio dalla vocalità, perciò, più variegata e fantasiosa per i continui cambi di umore che la connotano e su cui Verdi avrebbe voluto incardinare l’opera, ma alla quale finì per contrapporre Leonora, una delle creature più astratte, irreali ed eleganti di tutta la sua produzione. Una donna stilnovista quasi, incarnazione dell’ideale, dell’amore come della bellezza, che si scuote improvvisamente al quarto atto, dopo la grande aria, con il tragico canto del "Miserere" ( altro momento assurdo del libretto..) e del duetto con il Conte, per poi morire ancora completamente staccata dalla realtà, come una eroina da fiaba. Come pure da fiaba è l’eroe, romanticamente ….eroico, innamorato, legato alla madre, nemmeno per un attimo screziato dall’odio, che permea, invece il suo rivale. Manrico è tutto azione, tutto sentimenti positivi, puro, ma incapace di intuire, dal racconto della zingara, il tragico passato che incombe su di lui. Poeta, eroe, amoroso ( ma senza duetto d’amore ), nostalgico, guerriero, riunisce in sé vari tratti della positività maschile nell’opera. Il Conte, invece, tutto gelosia e vendetta, innamorato assai terreno e per nulla spirituale, ha una psicologia forse ancor più elementare degli altri due protagonisti e nemmeno il rango lo stacca dai suoi sentimenti negativi. Quanto a Ferrando, creatura del librettista e non di Gutierrez, narra i precedenti all’azione cui si sta per assistere: è un “personaggio-prologo”, funzionale all’avvio del dramma, un narratore, che ci introduce alla storia della zingara. Non il solo, peraltro, in un testo dove tutti hanno la prerogativa di narrare e di raccontarsi. Nel Trovatore sono tutti…trovatori. Leonora narra, nella cavatina, come conobbe Manrico, la prima volta, quando le apparve in un torneo, combattente guerriero. Azucena è spinta da Manrico a narrare la sua ossessione, la vicenda dello scambio degli infanti. Manrico narra dello scontro con il Conte di Luna, che stranamente, per un potere arcano, non potè finire in duello. Solo il Conte non narra, non ricorda altro che il proprio amore su una delle più belle melodie di tutta l’opera. E’ il solo che non ha nulla da raccontare, nessuna memoria che non sia per sentimenti presenti, e forse non è un caso, perché è l'unica figura negativa dell’opera. La notte è la vera cornice dell’azione, più delle fantastiche architetture della moresca Ajaferia, della gotica torre di Castellor, o degli accampamenti degli zingari e dei soldati del Conte. La notte avvolge il dramma anche fuori dalle note del libretto, perché Verdi la crea con la musica.
Opera di successo incrollabile, costantemente presente in repertorio sin dalla sua prima rappresentazione, affascinante perché in parte arcaica ed in parte profondamente innovativa.
La storiografia di parte verdiana sottolinea e rimarca con gran forza la potenza dell’invenzione di Azucena, spaventosa protagonista che alterna stati di allucinazione e di sogno ad altri di lucida euforia e tenerezza. Il romanticismo lasciava allora ampio spazio allo spaventoso nell’arte: alla zingara-strega del Trovatore Verdi conferì, per la prima volta in un‘opera italiana, uno spazio da protagonista ad un personaggio femminile satanico, sino ad allora relegato a ruoli al più di colore ( non ultime le streghe verdiane del Macbeth ), creando con lei il primo grande mezzosoprano della sua produzione. Personaggio principale a tutti gli effetti, ma, soprattutto, perno di un nuovo tipo di schieramento vocale, tenore-baritono-soprano-mezzosoprano, innovativo per l’opera italiana, destinato a sostituire la triade precedente di stampo donizettiano, tenore-soprano-baritono. Il modello a quattro, con la voce femminile grave in posizione primaria, pareva rifarsi ad un tipo di origine straniera, assai di moda in quel momento, quello del Grand Operà francese, meyerbeeriano in particolare. Positività e negatività si giustapponevano in Azucena a formare un mix del tutto nuovo, che fondeva in sé dei tratti vocali ed in parte anche psicologici della monumentale Fides di Prophéte, scritta per Pauline Viardot Garcia. Un ruolo, quello di un’anziana madre rinnegata dal figlio convertito all’anabattismo, straordinariamente ampio ed oneroso, per una cantate a sua volta di eccezionali mezzi vocali e qualità tecniche. Il grande successo dell’opera, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1849 ed ininterrottamente per tutto il XIX secolo in ogni parte d’Europa, ebbe notevole risonanza all’epoca della gestazione del Trovatore, anche per il tema dei conflitto religioso che metteva in scena, caro a Meyerebeer, oltre che per la prova fornita dai protagonisti.
Verdi fu certamente ispirato, come ci assicura il Budden, dalla per noi oggi sconosciuta Giovanna, pazza protagonista della “Prigione di Edinburgo” di Ricci, ma è difficile pensare che il modello della Grand’Operà francese, ossia il genere per autonomasia della modaiolissima Parigi, allora capitale tra le capitali in Europa, non abbia influenzato il compositore italiano, che, tra l’altro, vi aveva soggiornato nell’inverno 1852-53, in occasione dei preliminari alla composizione dei Vépres Siciliennes.
Azucena non ha certo la presenza statuaria di Fidès, né complessità vocale paragonabile, né avrebbe dovuto possederla nell’ambito di una produzione di genere italiano, calibrata per un titolo italiano che Verdi voleva proseguisse nella scia del successo di Rigoletto, ossia con una dimensione drammaturgica e vocale analoga agli altri suoi grandi personaggi di quel periodo. Azucena oscilla continuamente negli stati d’animo, talora anche molto accesi, e la scrittura vocale segue puntuale ogni mutamento di umore entro una tessitura, talora anche molto acuta, fatta di passi ora puntati e fioriti ( per tutti lo "Stride la vampa", con una vera messe di trilli e messe di voce sul trillo" ), ora ampi ( come le frasi "qual per esso provo ancor" dell'andante mosso "Giorni poveri vivea ")..e concitati ( su tutti la cabaletta "Deh rallentate o barbari", tra l'altro ricca di note accentate..), ascendenti anche sino al do5, in vocalizzo, nel "Perigliarti ancor languente". Spicca sugli altri tre personaggi per la ragioni che abbiamo detto in precedenza, e non a caso Verdi cercò come prima interprete una cantante di indole “drammatica”. Una cantante di valenza tragica ma non necessariamente “nobile”, ci dice la letteratura critica, e questo è un dato importante perché corrisponde alla natura del personaggio e ne chiarisce anche le involuzioni interpretative che ne venirono da un certo momento in poi. Le tinte fosche di momenti quali "Condotta ell'era in ceppi", con le discese finali sotto il rigo, ai la bem di "drizzarsi ancor", ad esempio, necessitavano di una cantante di questo genere.
Non bastava al ruolo una mera belcantista, sebbene l’idea originaria della Gabussi corrispondesse ad un ex soprano divenuta soprano centrale, ma in grado anche di cantare ruoli belcantistici quale Isabella, anzi, fu proprio il tasso tragico insito in Azucena a consegnarla nel tempo a cantanti non molto rifinite, talora anche grezze, ma di mezzi naturali importanti.
La parte richiedeva comunque buone capacità vocali e piaceva per la sua natura protagonistica, perciò nel XIX secolo non vi fu grande belcantista che non vi si fosse cimentata. Alla Goggi, che ne fu la prima interprete, seguirono, alla prima parigina della versione francese, la virtuosa Adelaide Borghi Mamo. Vennero da subito grandi nomi come l’Alboni sin dalla stagione 1857-58 a Parigi, Barbara Marchisio ed altre del calibro di Marianne Brandt, Ernestine Schumann Heink, Siegried Oneghin, di fatto le grandi Fidés della tradizione di fine ottocento, inizi novecento. Come avremo modo di sentire nel volume sul Trovatore a 78 giri, interpreti di questa natura assicurarono per decenni una restituzione vocale elegantissima della zingara strega, lontanissima da certi stilemi volgari o plateali introdotti da certe cantanti di secondo piano o dalla vocalità corrotta dal gusto verista che vennero poi, dalla Zinetti alla Gay Zanatalello sino alla Barbieri. In buona sostanza, la parte finì ad un certo punto col vedere affievolita la componente belcantista a favore di certe modalità espressive per noi oggi lontane, che non intaccarono solo qualche rara interprete, come Ebe Stingani. Fu necessario attendere qualche decennio per vedere riabilitato un certo gusto espressivo ad opera cantanti moderne del dopoguerra di cui parleremo poi.

Diverso destino ebbe il ruolo di Manrico, parte che unisce ancora tratti della vocalità tenorile donizettiana ai nuovi stilemi di quella di Verdi, accesa di guizzi eroici e dall’accento epico. Il lirismo melodico dell’”Ah si ben mio”, con tanto di trilli scritti, come pure quello della canzone d'ingresso, "Deserto sulla terra", con le messe di voce e le smorzature scritte e che Verdi vuole cantata "a mezza voce", è un retaggio inconfondibile della vocalità antica precedente, mentre nuova è l’ampiezza di certe frasi patetiche, come nel “Miserere”, o disperate, come “Ah quell’infame amor perduto”, unita alla forza di accento richiesta da passaggi, come il terzetto del primo atto o le frasi ritmate da passi fioriti come nella “Pira”, segnata brevi sequenze di quartine e note accentate. Anche passaggi cantabili come “Mal reggendo“ chiedono al tenore un‘ampiezza ed un accento marcatamente nuovi. Il canto di Manrico è mutato anch'esso nel tempo con il mutare dei modi del canto. L’eredità del repertorio belcantistico, infatti, fece si che in un primo tempo il Trovatore fosse appannaggio sia di tenori “di grazia”, facili in acuto, dal timbro brillante ma sopratutto di accento lirico e malinconico, che di tenori ”di forza” o drammatici, dal timbro più scuro, talvolta baritonaleggiante, di grande ampiezza nel centro e dal fraseggio ora curato ora poco raffinato, taluni anche molto dotati in acuto. Al primo gruppo appartenevano i vari Mirate, Calzolari, Giuglini, Mario, cui talvolta venivano rimproverati gli eccessi di lirismo ma che in alcuni casi seppero anche trovare accenti “grandiosi” ed eroici, tali da garantire loro grandissimo successo. Del secondo facevano parte Malvezzi, Negrini, Pancani, Mongini, Fraschini, Tamberlick, talora giudicati grevi, come Pancani, altre volte straordinari per la completezza della gamma espressiva che erano in grado di rendere, come Tamberlick.
Il problema chiave della vocalità di Manrico, in realtà, fu sempre la coniugazione di una canto ampio ed eroico e lo squillo in acuto, uniti ad un fraseggio elegante, quasi una quadratura del cerchio, che, primi fra tutti, tagliò fuori i tenori corti o precocemente accorciati. Tenori alla Fancelli o alla Tamagno o alla Stagno, dotatissimo in alto, poterono mantenere a lungo in repertorio il ruolo, a differenza di altri come Caruso, Manrico solo in un paio di produzioni americane. Assenti i vari De Lucia etc.. La recente questioncella filologica del do della "Pira", nota non scritta da Verdi ma eseguita dai Manrico di ogni tempo, salvo quelli moderni, non a caso incapaci di eseguire gli acuti, appare ben poca cosa di fronte all’imprescindibile esigenza che il tenore sia dotato di un vero fraseggio e non di un canto mocorde e stentoreo. In fatto di "Pira" poi la “lectio autentica” dell’autore prevede in spartito la chiusura sul sol anziché sul do acuto, nota che Verdi non avrebbe volutamente prescritto, come afferma la filologia moderna, perché incongrua con la linea melodica e per evitare note ipertese al primo interprete, il celebre Baucardè. Lettura che ha convinto solo in parte, dato che Baucardè era certo destinato a precoce declino negli anni che immediatamente seguirono la prima dell’opera causa la sua natura temperamentosa ed istintiva, ma non per questo era un tenore già tanto accorciato all'epoca della prima, dato che aveva in repertorio ancora Favorita, Lucrezia Borgia, Puritani, Guglielmo Tell. Etc. Baucardè, tra l’altro, legò la propria fama nel Trovatore proprio all’elettrizzante esecuzione della cabaletta oltre che alle frasi finali dell’opera. Un'altra tesi, inoltre, attribuisce a Tamberlick l’invenzione della puntatura incriminata, censurata per ragioni di gusto nel 1857 da P. Scudo e la cui esecuzione avrebbe avuto luogo su assenso esplicito di Verdi. Aneddoti che accreditano la tesi di una precoce origine di questa interpolazione, analogamente alle notissime puntature di Elvira nel concertato “Ah vieni al tempio” dei Puritani, consolidatasi nel tempo al pari della scrittura autografa del compositore.
La vocalità di Manrico divenne appannaggio dei tenori “di forza” o eroici in tutte le possibili varianti, mentre la cosiddetta “liricizzazione” del ruolo, come si vedrà nella puntata sull’opera a 78 giri, è prassi interpretativa assai recente. Liricizzazione, va detto, spesso confusa con l’articolazione del fraseggio, quasi che i tenori spinti del passato non fraseggiassero affatto, un altro dei nostri luoghi comuni smentito sia dagli ascolti che qui vi proponiamo che da quanto avremo modo di ascoltare nella puntata successiva. La figura storica che costituì il punto di svolta dell’interpretazione del ruolo fu certamente quel Tamberlick cui la storiografia attribuì da subito tanta importanza. Con lui nacque il tenore drammatico post Donzelli, è noto: fu il tenore “moderno“ del suo tempo, creatore di ruoli come l’Alvaro della Forza del Destino ma anche ripropositore della grandi parti dei tenori drammatici dell’età precedente, come l’Otello o il Tell di Rossini, di Poliuto e Jean de Leyda in forza delle sue grandi doti di fraseggiatore, nei recitativi, e della facilità in acuto. La doppia vocalità del ruolo di Manrico trovò, dunque, una corrispondenza perfetta nel repertorio “antico” e “moderno” del suo più celebrato interprete ottocentesco, e non fu certo una casualità.

Il ruolo di Leonora è uno dei modelli del cosiddetto soprano drammatico d’agilità, ossia dalla vocalità estesissima in acuto e nei gravi ( frequenti le frasi scritte sotto il rigo, talora anche accentate, come "M'avrai, ma fredda esanime spoglia" ), capace di unire canto strumentale ed espressività tragica, grande ampiezza di fraseggio in certi passi spianati ed agilità, sia di grazia che di forza. Un soprano da Leonora, in poche parole, deve saper fare tutto, anche se le maggiori difficoltà risultano concentrate in passaggi ben precisi e limitati, data la ben nota concisione verdiana. L’astrazione psicologica che caratterizza il personaggio, a meno del concitato risveglio del IV atto nel "Miserere" e nella successiva scena con il Conte, ha pari ascendenza belcantistica quanto la scrittura vocale, che non rinuncia a grandi arie melodiche, cabalette dense di fiorettature abbastanza ostiche, oppure grandi passaggi aerei, come quello della scena del convento, “Sei tu dal ciel disceso”( dal re bem centrale sale sino al la bem e al si bem acuti, da cantare "con espansione e slancio" ), le ampie salite del “D’amor sull’ali rosee” ( la cui scrittura acutissima, con gli ampi passaggi finali che salgono al do e quindi al re bem viene solitamente omessa a favore dell'"oppure" che limita il passaggio alle salite si bem-do, mentre la cadenza conclusiva viene o omessa o rielaborata sopratutto nella seconda parte. Nelle recite napoletane la Callas, ad esempio, esegue il re bem tenuto, diversamente dalla scrittura verdiana, che è quella eseguita dalla Sutherland, mentre esegue interamente la cadenza di Verdi che sempre la Sutherland modifica nella sezione finale, interpolando un trillo..) o le frasi finali “Prima che d’altri vivere..”. Lo chiamano “ sacro fuoco verdiano” quello che anima Leonora nell’implorazione al Conte, “Mira d’acerbe lacrime..”, dove Verdi la fa salire con una messa di voce sino al si bem acuto in "..ma salva il trovator " e la successiva stretta, "allegro brillante molto vivace", dai suoi ritmi puntati “ Vivrà….contende il giubilo…”, momento trascinante ove si esprime forse la massima esagitazione del personaggio. La prima interprete era una grandissima cantante del suo tempo, Rosina Penco, che Adelina Patti indicò assieme alla Grisi come la più grande Semiramide che l’avesse preceduta. Basta questo per capire di quale genere di soprano si trattasse.
Tornando a Leonora, occorre osservare come, rispetto ad Anna Bolena, o Norma, o l’Elisabetta del Devereux, ma anche la stessa Semiramide, il persoanggio fosse un assai meno sviluppato ed articolato sotto il profilo psicologico e di ben minore peso tragico. Quanto al lato virtuosistico, la tradizione esecutiva instaurò presto il taglio della cabaletta del IV atto, “Tu vedrai che amore in terra”, elisa da Verdi stesso già per la versione parigina del 1857, perché si rivelò da subito di difficile esecuzione per quasi tutte le interpreti. Altrettanto precocemente si instaurò la pratica, da parte di alcuni soprani particolarmente estesi e capaci, di inserire nel "Miserere" delle puntature al re bem acuto, a contraltare dei do della Pira, pratica ascritta con certezza al soprano Therese Tjethiens. Come già per molti altri ruoli tragici del belcanto o del tardo belcanto italiano, anche Leonora divenne appannaggio di due tipi di soprano diversi, quelli drammatici in senso stretto, di voce importante e fraseggio aulico, oppure di grandi belcantiste, voci anche dal peso più lirico, in grado di amministrare il personaggio in chiave più strumentale. Forse perché in compagnia del marito Mario, la Grisi cantò Leonora varie volte, sin dal ‘57 a Parigi, e come lei subito dopo la Patti. Nella capitale francese, nello stretto arco di un decennio, si alternarono Grisi, Frezzolini, Penco, Patti, Vitali, Marchesi, Krauss. Insomma, le grandi Norme e Semiramidi del tempo cantavano la Leonora del Trovatore come praticamente tutti i grandi soprani drammatici del Verdi maturo, titolari di Aida, Forza o Ballo, praticarono la parte di Leonora dagli anni ’90 dell’del XIX secolo in poi.
Salvo eccezioni rare, come avremo modo di vedere, nominate Arangi Lombardi o Russ e così via, agli inizi del XX secolo ebbe luogo la sparizione della componente belcantista anche di questo ruolo. Il soprano drammatico o spinto approcciava Leonora in forza di una voce importante, di un accento scandito, più o meno elegantemente amministrato, allontanando la concezione del personaggio dalla sua matrice di primo ottocento. La qualità esecutiva della fiorettatura, complice il taglio della cabaletta del IV atto, risultò meno importante rispetto alla componente drammatica del personaggio che, ovviamente, perse parte della sua astrazione psicologica. Le grandi interpreti moderne, a cominciare dalla Callas sino alla Caballè ed alla Sutherland, hanno spinto per una restituzione del ruolo nella sua originaria e più completa forma, riagganciandosi anche alle prove dei documenti della preistoria discografica, che, come detto, presenteremo più avanti.

Più breve la questione inerente il Conte di Luna. La sua è una vocalità da baritono verdiano puro, acutissimo, fin tenorile nella grande aria “Il balen del suo sorriso”. Anche per lui, come già per Leonora e Manrico, Verdi scrisse un arioso di grande invenzione melodica, che procede ampliandosi con lo scorrere del brano, ascendendo lentamente alla zona più acuta della voce. La vis drammatica del personaggio, furente per la gelosia, emerge da subito nel terzetto, “Di geloso amor sprezzato”, quindi nella cabaletta che segue l’aria del II atto, “Per me ora fatale”. Brani da eseguire con slancio, al pari della stretta del duetto del IV atto con Leonora.
All’epoca di Trovatore Verdi aveva già scritto per la corda di baritono ruoli assai più articolati e complessi, di alta introspezione psicologica e sfaccettature come Nabucco, Macbeth, Don Carlo di Ernani e Rigoletto. Il Conte di Luna, dunque, per nulla facile sul piano esecutivo, soprattutto per la tessitura acuta, resta comunque un personaggio semplice e semplificato, uno sterotipo come detto, connotato da una gamma espressiva circoscritta. Il IV atto dell’opera mette in scena il trionfo momentaneo del cattivo, vicino alla vittoria sul rivale e alla cattura dell’agognata preda, ma destinato alla sconfitta finale, accomiatandosi dal pubblico con la più elementare delle esclamazioni, “Quale orror!”, che cristallizza la primitiva emotività del personaggio. Gli farà eco parecchi anni dopo uno dei più truculenti cattivi dell’opera, Barnaba di Gioconda, con quell’esclamazione “Ah!” che precede la calata del sipario.
Lo slancio che connota il suo canto, le cabalette in particolare, hanno ascendenze nel canto di agilità di forza dei baritenori “cattivi” di Rossini, ma tutto in Verdi è ormai sintetizzato e velocizzato.
Tutti i grandi baritoni verdiani del passato hanno vestito i panni del Conte di Luna, ma non necessariamente tutti i Conti di Luna, in particolare quelli di provincia, furono in grado di approcciarne i grandi title roles verdiani. L’accento nobilitato da un emissione stilizzata e composta e dall’alta qualità del canto legato, oltre che dalla capacità di governare il registro acuto senza gridare o altro, sono qualità perdute da moltissimo tempo dalla media dei baritoni. Le prerogative tecniche dei grandi baritoni che popoleranno la puntata sui 78 giri si sono ritrovate in età moderna in pochissimi esecutori, di fatto delle eccezioni nella regola di un canto il più delle volte inelegante quando non rozzo.



Giuseppe Verdi

Il trovatore


Atto I

All'erta, all'erta...Abbietta zingara (José Van Dam - von Karajan - 1977)

Che più t'arresti...Tacea la notte placida...Di tale amor (Laura Londi, Leyla Gencer - Previtali - 1957)

Bonus: Tacea la notte placida...Di tale amor (Ana Maria Feuss, Anita Cerquetti - Guadagno - 1957)

Tace la notte...Deserto sulla terra...Di geloso amor sprezzato (Mario Basiola, Jussi Bjorling & Gina Cigna - Gui - 1939)


Atto II

Vedi le fosce notturne (Chor der Wiener Staatsoper - von Karajan - 1977)

Stride la vampa (Grace Bumbry - Bartoletti - 1964)

Mesta è la tua canzon...Condotta ell'era in ceppi (Ebe Stignani, Carlo Forti & Gino Penno - Votto - 1953)

Non son tuo figlio...Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente (Franco Corelli & Grace Bumbry - Bartoletti - 1964)

Tutto è deserto...Il balen del suo sorriso...Per me ora fatale (Carlo Tagliabue, Giuseppe Modesti - Votto - 1953)

Bonus: Il balen del suo sorriso...Per me ora fatale (Cornell MacNeil, Louis Sgarro - Schick - 1966)

Ah! Se l'error t'ingombra...Perché piangete?...E deggio e posso crederlo? (Martina Arroyo, Mario Sereni, Richard Tucker, Raymond Michalski, Ivanka Myhal - Mehta - 1971)


Atto III

Or co' dadi, ma fra poco...Squilli echeggi (Chor der Wiener Staatsoper - von Karajan - 1977)

In braccio al mio rival...Giorni poveri vivea (Carlo Tagliabue, Giuseppe Modesti, Ebe Stignani - Votto - 1953)

Quale d'armi fragor...Ah! Sì, ben mio...L'onda de' suoni mistici...Di quella pira (Martina Arroyo, Richard Tucker, Charles Anthony - Mehta - 1971)

Bonus: Ah! Sì, ben mio...Di quella pira (Helge Rosvaenge, Maria Reining - Zimmermann - 1936)

Bonus: Ah! Sì, ben mio...Di quella pira (Carlo Bergonzi, Antonietta Stella - Cleva - 1960)

Bonus: Di quella pira (Mario Filippeschi - Capuana - 1957)


Atto IV

Siam giunti...D'amor sull'ali rosee (Luciano della Pergola, Maria Callas - Serafin - 1951)

Bonus: D'amor sull'ali rosee (Maria Caniglia - De Fabritiis - 1948)

Bonus: D'amor sull'ali rosee (Bennie Ray, Montserrat Caballè - Andersson - 1968)

Bonus: D'amor sull'ali rosee (Gary Burgess, Joan Sutherland - Votto - 1975)

Miserere (Maria Callas, Gino Penno - Votto - 1954)

Di te, di te...Tu vedrai che amore in terra (Martina Arroyo - Mehta - 1971)

Bonus: Tu vedrai che amore in terra (Joan Sutherland - Bonynge - 1975)

Udiste?...Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo (Aldo Protti & Antonietta Stella - Capuana - 1957)

Madre, non dormi?...Ai nostri monti (Carlo Bergonzi & Fiorenza Cossotto - Levine - 1978)

Bonus: Madre, non dormi?...Ai nostri monti (Flaviano Labò & Irina Arkhipova - Cillario - 1974)

Che? Non m'inganna...Prima che d'altri vivere (Giovanni Martinelli, Elisabeth Rethberg, Richard Bonelli, Kathryne Meisle - Papi - 1936)

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sabato 2 ottobre 2010

Verdi Festival 2010: Trovatore.

Di cosa vale la pena parlare, dopo la brutta recita cui ho assistito ieri sera?
Direi solamente della condotta professionale del due Meli – Temirkanov e del soprano Norma Fantini, attesa al rientro in Italia.
I primi per avere propiziato il disastro della serata; la seconda per essere incappata in una prova infelice. Temirkanov e Fantini, le mie sole curiosità ( deluse ) in questa produzione.

“Errare humanum est, perseverare demoniacum” dice l’adagio. Esporre per ben due volte consecutive al pubblico in antigenerale e generale l’indecente signora Tarasova, Azucena priva non solo dei connotati del cantante professionista, ma anche del minimale buon gusto oltre che del curriculum necessario ad essere scritturata in produzione di livello, ed osare pure mandarla in scena alla prima inaugurale ad onta delle aperte riprovazioni del pubblico alle prove, è stata operazione irrispettosa del pubblico come dei colleghi, costretti a lavorare tra ululati, grida, e consimila. Ogni persona accanto a cui passavo nel recarmi al mio posto prima della recita parlava dell’indegna Azucena della Tarasova, ridacchiando ed interrogandosi su quale caina si sarebbe creata in teatro, e se pure i protagonisti ce l’avrebbero fatta, date malattie, defezioni, fumi improvvisi visti alla prove, a cavarsi dai guai.
Tutto quel poco di buono che vi poteva essere nella produzione non è stato nemmeno preso in considerazione da un pubblico, quello del loggione, alterato dal comportamento della direzione artistica come della bacchetta ( continui i borbottii, i commenti e gli sfottò del pubblico del loggione ), incapaci di procedere alla doverosa protesta e persino alla moderazione degli incredibili effettacci dell'Azucena in questione. Direzioni artistiche e bacchette odierne paiono incapaci del minimo suggerimento in questi frangenti, procedendo incauti ed indifferenti verso il disastro, in questo caso anche a detrimento del resto della compagnia: un esempio per tutti, il caso della signora Smirnova nella recente Aida scaligera, fatte le debite proporzioni tra le cantanti.
Il maestro Temirkanov, non contento della propria assenza di rigore, si è pure esibito in una direzione insignificante, non certo all’altezza del nome che porta: direzione accesasi solo a tratti, nei cori o in qualche punto qua e là, ma caratterizzata da accompagnamenti perlopiù fiacchi, senza suggestione, dall’ingresso di Ferrando, al duetto Manrico Azucena, sino a quello finale Leonora Conte, ad onta del bel suono dell’orchestra. Per giunta l’affiatamento tra buca e coro, in particolare, non è parso sempre ineccepibile, come pure certi scollamenti con i solisti.
Il pubblico ha perciò riprovato apertamente, in corso di serata come alla fine, direzione artistica e bacchetta, accolta da un’enorme salve di bu alla singola.Sacrosanti.

La prova deludente di Norma Fantini non giunge inattesa per questo blog ( le mie perplessità ve le esternai in giugno, allorquando commentai il cartellone del Verdi festival ), e non per disistima della cantante, o perchè ormai mi stia trasformando nel polpo Paul, quanto perché …..”il canto non è l’arte della cabala”, ma scienza parecchio esatta.
Due sono le prerogative necessarie che la difficilissima scrittura di donna Leonora richiede al soprano: confidenza assoluta con la parte alta della voce, dal passaggio in sù, dove questa deve aver ampiezza ma anche assoluto galleggiamento sul fiato, e bella affinità con un certo canto di agilità, trilli e staccati in primis ( sui gravi del Miserere si può anche transigere, a patto di barcamenarsi con gusto, perché quelle sono note che quasi nessun soprano ha mai avuto…).
Leonora è personaggio dalla componente belcantistica assai accentuata, psicologicamente astratto nei cantabili delle arie, nella scena del convento sino alle ultime altissime battute del ”Prima che d’altri vivere”, ora acceso dal “sacro fuoco” della primadonna verdiana nelle cabalette, nelle strette di terzetto e duetto come nel Miserere. Le arie, in particolare il terribile “D’amor sull’ali rosee”, non tollerano lo sforzo, la stimbratura, la durezza della voce: se si canta a piena voce, servono o un timbro straordinario alla Arroyo, o la brillantezza di una Sutherland; oppure se si sfuma, come di prammatica, occorrono o i piani, non dico della Caballè ma quelli sicurissimi e fascinosi alla Gencer; al limite i falsettini di chi bara, stile Ricciarelli o ultima Cedolins, perché anche così si può vincere la partita. Di qui non si scappa.
E qui la signora Fantini non poteva prendere partito alcuno: i suoi sono gli acuti di un soprano che spinge oltre il passaggio, vuoi per scuola vuoi perché appensantita da più di un decennio di opere spinte, amministrate bene ma senza avere la vera voce del soprano spinto. Le note possono arrivare da una certa altezza in su solo forte e dure, anche vibrate, completamente fuori luogo nel canto del IV atto. Ha lottato negli atti che precedono, cercando i piani e le nuances, che pure le costano fatica, riuscendovi bene sino ad un certo punto dell’opera. Poi tutto è cessato, il canto si è fatto difficile e macchinoso. Né la Fantini è cantante che sa barare, vuoi per carattere vuoi per modo di cantare.
Quanto al canto di agilità, avrebbe anche potuto mancare di leggerezza e di slancio nelle cabalette, perché sarebbe stato normale data la carriera che si porta sulle spalle, ma non eseguire del tutto i trilli o mancare parte della cadenza in fondo al “Tu vedrai che amore in terra” è stato un po’ eccessivo per il pubblico. Di qui l’esito poco felice di una prova che la Fantini ha preparato avendo cura delle intenzioni e del fraseggio, dalla sortita a tutte le battute rivolte a Conte e Manrico, sino al finale della prigione, ove, stringendo i denti, è riuscita a cantare ancora con gusto e lirismo. Lo sforzo profuso, però, non è bastato per convincere, né per piacere a me come a gran parte del pubblico che, và anche detto, ieri sera è stato in grado di udire i difetti oggettivi di questa cantante pur avendo sorvolato, in passato recente, su prove orribili come quelle della Theodossiou nel Nabucco, o la Dalla Benetta nel Corsaro ed altre. Prove ove erano mancate oltre alle note anche il gusto e le intenzioni musicali. Ecco perchè ieri sera più che mai, di fronte alla completa sordità per il non -canto di Nucci o la faticosissima prova di Alvarez, mi sono convinta che il pubblico di Parma sia difficile non perchè effettivamente selettivo come quello scaligero, ma perché alterno, talora umorale, di fronte ai cantanti. Se ti amano vai sempre e comunque, se non ti amano o non ti conoscono…dipende dalla sera.
Detto questo, però, non comprendo le ragioni per cui una cantante esperta, professionalissima ed oculata come la signora Fantini abbia deciso improvvisamente ( o chi per lei ) di cimentarsi in una parte altissima ed in punta di forchetta, essendo abituata da lungo tempo a tessiture più centrali come Aida, Valois, Chenier e Tosca. Una nota spinta in Aida non è una nota spinta in Trovatore, i vociomani lo sanno bene.
Spiace, perché dopo la vergognosa vicenda scaligera, questa cantante avrebbe meritato una riparazione italiana diversa, un ‘occasione per provare i cambiamenti effettuati sul proprio canto in questi anni trascorsi all’estero, ma il Trovatore non era proprio il titolo giusto.

Quanto al resto, vi ho in parte detto.
Il basso, signor Deyan Vatchkov, è uscito indenne da una serata nata male per tutti, cantando senza gloria o meriti speciali. La voce non è da basso vero, ma da baritono che la pecia e la ingola, more solito.
L’ennesimo Manrico del signor Alvarez ha deluso, come già all’Arena questa estate. Di questo tenore abbiamo parlato già altre volte. Ha cantato con monotonia e piattezza, di fibra ( seppure bella….bellissima fibra!). Ha avuto voce vera solo nei primi due atti, dato che dalla pausa è rientrato con volume ridotto, fiato cortissimo nell’ ”Ah si ben mio” ( con tanto di imbarazzanti tentativi di eseguire i quasi mai cantati trilli scritti ), una Pira faticosissima, ed il quarto atto senza benzina. Ha deluso parecchio i suoi numerosi fans parmigiani.
Nucci si è prodotto in una recita last minute per sostituire l’indisposto Sgura. Ha riscosso il solo vero successo della sera, lui solo, come al solito. Il suo canto ha deluso anche parecchi dei suoi fans, perché la voce non ha più legato, timbro né morbidezza alcuna, recitativi inclusi. Per me, inascoltabile. Ma a Parma per Nucci va così.
Produzione senza infamia e senza lode, gradevole da vedere, ma senza alcunché di nuovo o di particolarmente suggestivo. Regia quasi assente, se non banale, ma niente di grave o di dannoso ad una produzione nata male e ancor peggio gestita.

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venerdì 1 ottobre 2010

Cantare Verdi con la Voce verdiana: Ebe Stignani

Ebe Stignani, in gergo scaligero “la signora Ebe”, caso unico e prodigioso di perfezione assoluta del canto verdiano nella corda del mezzosoprano.
Nessuna voce è stata più, dopo di lei, tanto bella, corposa, ricca di armonici, omogenea, morbida ed ampia in ogni registro, oltre che straordinariamente longeva, e nessuno dopo di lei ha più saputo manovrare il proprio mezzo con tanta perfezione tecnica e sapienza musicale.

Una compagna di Aide, Trovatori, Don Carli e Balli in Maschera impegnativissima, una montagna immobile ed inavvicinabile per quasi tutti/e i/le colleghi/e, salvo forse l’Arangi Lombardi, a lei molto simile per qualità naturali, capacità tecniche e modalità espressive, Francesco Merli o Beniamino Gigli, altro cantante altrettanto fenomenale, anche se forse meno perfetto, o Tancredi Pasero.
La signora Ebe non conosce cedimenti negli audio live che documentano, innumerevoli, la sua eccezionale carriera, caratterizzata, al di là delle performances in sé per sé, da un ritmo di lavoro altissimo, per noi oggi insostenibile da chicchessia.
Cantante aulica, di un gusto che oggi si tende a classificare come arcaico, è forse l’ultima rappresentante di quel canto strumentale, scevro da ogni benché minima inflessione “naturalista”, che ritroviamo documentato nei mezzosoprani in Sigrid Onegin o Ernestine Schumann Heink. Un canto in cui l’espressione è delegata al mero suono, al virtuosismo tecnico che consente alla voce di flettersi a comando in ogni zona del pentagramma, ad ogni nota di essere amministrata e governata secondo l’intento dell’interprete, con un dominio tecnico assoluto. Dalla scuola del Lamperti trasse l‘arte del canto sul fiato, e soprattutto quel modo a lei peculiare nella sua epoca, di cantare sulle vocali a ed e aperte, sonore ma perfettamente immascherate, altissime. La discesa ai gravi, sino alle ultime Ulriche fiorentine, scevra da ogni artificioso scurimento della voce, mai bitumata o ingolfata in alcun momento. Nessun mezzosoprano ha mai più legato frasi come “o mia regina io t’involai al folle amor” di Eboli oppure “Ah vieni, vieni amor mio m’inebria” di Amneris.
Il canto della Stignani, che l’età riuscì solo a scalfire forse nei fiati, lievemente ( e dico… lievemente! ) accorciatisi dopo quasi trent’anni di carriera, ricorda un po’quei casi di assoluta ed inumana perfezione artistica di Raffaello, o Bernini, o Picasso, insomma quei mostri sacri cui il destino ha dona tutto, compresa l’intelligenza per amministrare il proprio dono e piegarlo al servizio dell’arte.
Il suo Verdi è fatto di un fraseggio ampio, composto, mai esteriore o concitato; i personaggi sempre nobilitati nell’accento, retto da una dizione chiarissima e scandita, chiaramente ancorati agli stilemi espressivi, talora anche retorici, del XIX secolo, puri da ogni vezzo verista.
A volerle trovare difetti, possiamo sottolineare la debolezza notoria dell’attrice, secondo chi la vide in scena inesistente, ma sempre ferma e nobile; oppure il fatto che nell’esecuzione dello “Stride la Vampa” non eseguisse i trilli scritti, unico vero tributo pagato al gusto della sua epoca.
Ma sono inezie, prove del suo essere pure lei…umana, a fronte del suo essere cantante ed artista praticamente perfetta.



Giuseppe Verdi

Oberto, conte di San Bonifacio

Atto II

Un giorno dolce al core...Oh, chi torna l'ardente pensiero - Ebe Stignani (1952)


Rigoletto

Atto III

Bella figlia dell'amore - Maria Gentile, Alessandro Granda, Carlo
Galeffi & Ebe Stignani
(1928)


Il trovatore

Atto II

Condotta ell'era in ceppi - Ebe Stignani (con Gino Penno - 1953)

Atto III

Giorni poveri vivea - Ebe Stignani (con Carlo Tagliabue & Giuseppe Modesti - 1953)

Atto IV

Madre, non dormi?...Ai nostri monti - Ebe Stignani & Gino Penno (1953)


Un ballo in maschera

Atto I

Re dell'abisso - Ebe Stignani (1957)

Che v'agita così...Della città all'occaso - Ebe Stignani, Anita Cerquetti & Gianni Poggi (1957)


La forza del destino

Atto I

Viva la guerra!...Al suon del tamburo - Ebe Stignani (1941)

Atto II

La Vergine degli angeli - Ebe Stignani (1938)

Atto III

Rataplan - Ebe Stignani (1927)


Don Carlos

Atto II

Nel giardin del bello - Ebe Stignani (1950)

Atto III

Sei tu...Ed io che tremava al suo aspetto - Ebe Signani, Dino Borgioli & Richard Bonelli (1938)

Atto IV

O don fatale - Ebe Stignani (1951)


Aida

Atto I

Alta cagion v'aduna - Gina Cigna, Beniamino Gigli, Ebe Stignani, Tancredi Pasero (1937)

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Gina Cigna & Ebe Stignani (1937), Renata Tebaldi & Ebe Stignani (1953)

Atto IV

L'aborrita rivale...Già i sacerdoti...Ohimè, morir mi sento - Ebe Stignani (con Beniamino Gigli - 1939)


Falstaff

Atto II

Buongiorno buona donna...Reverenza! - Giuseppe Taddei & Ebe Stignani (1956)


Requiem

Recordare - Ebe Stignani & Maria Caniglia (1940)

Liber scriptus - Ebe Stignani (1940)


Il trovatore

Atto IV

Ai nostri monti - Ernestine Schumann-Heink & Enrico Caruso (1913), Sigrid Onegin & Mario Chamlee (1924)



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