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mercoledì 23 giugno 2010

Le recensioni di Semolino: La Donna del Lago a Parigi

Cari amici,
eccovi il fedele resoconto del nostro Semolino sulla recita di Donna del Lago del Parigi di venerdì ultimo scorso.Spettacolo di punta della stagione parigina e non solo, cui non potevamo mancare per soddsfare la vostra curiosità.


Molto attesa qui a Parigi questa nuova produzione di Donna del lago, una sorta di agitazione intorno a questo spettacolo, sia per il titolo, molto raro, che per i cantanti, in primis Joyce DiDonato e Juan Diego Florez, beniamini del pubblico francese. Dico subito che a me lo spettacolo proprio non è piaciuto. Scene, regia e costumi sono stati contestati alla prima, e con ragione a mio parere. Una produzione in forma di concerto sarebbe stata addirittura più opportuna: i protagonisti vestiti sempre allo stesso modo; ridicola la trovata di fare uscire il coro dall'armadio a muro; oggetti che scendono dal soffitto, dal cielo o che sorgono da sottoterra per illustrare ogni scena, per non parlare di quei ballerini che si danno un gran da fare per mimare quello che i quattro cantanti non sanno realizzare, peraltro buati anche alla recita di venerdi cui ho assistito. L'architettura di fondo era pesante e pacchiana, l'atmosfera romantica della Scozia di Scott completamente assente: non dico che la si debba riprodurre in maniera descrittiva od olegrafica, ma almeno rievocarla simbolicamente, o con atmosfere variamente costruite. Al contrario, una proiezione luminosa tutta blu quasi di tipo psichedelico, allusione al colore del lago, distruggeva ogni pathos: la medesima scena era al contempo un palazzo, un prato, un lago, una rocca e non so che altro. Ho avuto l'impressione che nessuno, nè regista, nè scenografo, nè costumista, nè coreografo, insomma nessuno, avesse una concezione precisa ed esatta di questa opera: assenza di un obbiettivo unitario, tanto che ognuno ha buttato lì a caso la propria idea e ne è risultato un guazzabuglio che non portava a niente.

Mi aspettavo, ed avrei voluto, che almeno il direttore riuscisse a mettere in rilievo i fremiti romantici che percorrono quest'opera. Roberto Abbado, invece, è stato completamente inoperante: se avessero messo al suo posto un metronomo sul leggio sono convinto che il risultato sarebbe stato lo stesso. Fin dall'introduzione l'orchestra è apparsa svogliata, con un suono arido e tendenzialmente fisso negli archi, gli accompagnamenti meccanici, i concertati alquanto grezzi. Non appena il coro ha attaccato "Del dì la messaggera" ci è poi resi conto di quanto il livello del canto sia caduto in basso anche nelle sezioni corali: mancavano compattezza, omogeneità e pienezza di cavata,imprescindibili ad un coro degno di questo nome. Le voci suonavano fibrose, stimbracchiate ed ingolate un po' in tutti i reparti.
Sul libretto, peraltro, è scritto che questo composto da pastori e pastorelle, ed i versi recitano "ai nostri riedasi lavori usati.........così a' sudori del buon pastore". In scena, al contrario,v’era gente vestita come ad un ricevimento di gala, con tanto di coppe di spumante in mano! Mi spiace ma gradirei che ci fosse una coerenza fra quello che è il libretto e quello che viene allestito in scena, altrimenti non ha senso. "Già un raggio forier" è per me una delle più belle pagine non solo di quest'opera ma di tutta la storia dell'opera in generale. A causa di questa compagine e dell'inerzia di Roberto Abbado, il brano è passato via inosservato, come si fosse trattato di una lagna qualunque.

Mi chiedo se qualcuno abbia mai detto a Joyce Di Donato che il belcanto è basato sulla soavità dell'emissione e sull'omogeneità della voce. Sin dalla cavatina di ingresso, "Oh mattutini albori", la voce era già spoggiata e vuota, sintomo di una disorganizzazione vocale che è andata sempre più accentuandosi nel corso della serata. Il registro grave è senza sostegno, grottescamente pompato e pochissimo sonoro, quindi senza autentica proiezione: quando non si è dotati in natura si deve supplire con la tecnica per proiettare la voce; diversamente occorre essere dei superdotati, come la signora Barcellona.
Anche nel centro la voce della signora Di Donato suona vuota, aspramente rimasticata in bocca. La dote vocale emerge nelle salite all'acuto,ma piena voce, perché questo è il registro naturale del soprano lirico e non del mezzosoprano acuto, quale la Di Donato è. Purtroppo la Signora ha la brutta abitudine di ghermire i suoni, risultando così isterica e inutilmente aggressiva, tanto che il fraseggio e la linea di canto perdono le due caratteristiche fondamentali del personaggio, nobiltà e la dolcezza. Ne risulta una Elena becera, volgare, affetta da concitazione esteriore nei momenti più drammatici, lagnosa in quelli più elegiaci, tutta mossette e ammiccamenti. Dopo avere udito tali suonacci da parte della protagonista sentire Uberto commentare "di quegli accenti il dolce suon" viene solo da ridere. Gli acuti, inoltre, sono stati quasi sempre crescenti e fissi, come fisse sono state le rare messe di voce. Le agilità di grazia erano rimasticate in bocca, nè nitide nè precise, una sorta di tartagliamento inintelleggibile; quelle di forza, per utilizzare un termine caro al Mancini, sgallinacciate, sia per l’abuso del colpo di glottide che per via del suo modi di ghermire i suoni in modo sgraziato. Così il personaggio è stato così tradito e sfasato, il canto rossiniano travisato nelle sue caratteristiche più fondamentali. Per completezza di cronaca, Joyce Di Donato ha toccato il fondo nel rondò finale : le variazioni sono state una vera e propria riscrittura della melodia rossiniana, da lei infarcita senza gusto di trilli, peraltro pasticciati nell'esecuzione e aspri nel suono, con picchettati flautati fuori stile. Fossero almeno stati il vero flautato ( che aveva ad esempio una June Anderson o una Aliberti )! Si è trattato invece di suoni ora sbiancati ora smunti, completamente inadatti al canto rossiniano.

La signora Daniela Barcellona può, all’ingresso in scena, destare una certa impressione ed illudere un pubblico sprovveduto, dall'orecchio poco purgato e poco avvezzo al canto autentico, perchè la dote è alquanto cospicua. Non appena comincia a cantare davvero i nodi vengono al pettine: l'aria d'entrata è stata pesante, con un legato molto approssimativo, percorsa da un affanno inutile, non so se causato da una cattiva respirazione o da una concezione interpretativa precisa, mirata ad esprimere l'affanno del personaggio. Il che sarebbe una trovata fuori posto, perchè espediente di stampo naturalista, ed il naturalismo, si sa, con Rossini c'entra ben poco. Nell'interpretazione della signora Barcellona non sono poi emersi nè la nobile fierezza d'animo nè l'eroismo di Malcolm, complice un modo di stare in scena molto goffo e impacciato che la linea di canto troppo affannosa e scomposta.
Gli acuti sono suonati tutti fibrosi e duri nella sala, quello nella ripresa della cabaletta della seconda aria un vero urlo. Il registro grave connotato da gutturalità continue, mentre il centro è parso più compatto ma comunque incravattato, con agilità pesanti e meccaniche. Nelle cabalette, in particolare nelle sezioni variate, quando l'agilità si fa più fitta e minuta, ha fatto ricorso alle aspirate: al canto di gola si è aggiunta l’aria fra una nota e l'altra, con un effetto di meccanicità a tratti addirittura esilarante, non consoni ad una professionista del suo livello. A mio modo di sentire, questo Malcolm non è stato poi di molto superiore a quello dell'Arsace di Barbara di Castri, della famigerata Semiramide al Théâtre des Champs-Elysées qualche annetto fa'.

Simon Orfila ha cantato con una voce compatta e omogenea, ma di una omogeneità dovuta al fatto che tutte le note sono state emesse con un solo ed unico registro, quello di stomaco: dopo quella del muggito eccoci giunti alla scuola del vomito, mai sentita voce tanto dura e aspra! Di legato poi non se ne è parlato per nulla; zero sfumature; tutto ugualmente sbraitato in modo sforzato e meccanico, tanto che il ruolo di Douglas si è trasformato in quello di un basso sgangherato e parlante. Una interpretazione inesistente, perché mancando il canto viene di conseguenza a mancare il personaggio, fatto assai normale dato che il personaggio in Rossini sempre si realizza attraverso il canto. Scenicamente, poi, era sgraziato come se fosse stato preoccupato solo dalla sua vociferazione.

Colin Lee potrebbe anche dare l'impressione di essere un baritenore, ma è una voce emessa a casaccio. Ha improvvisato ogni tre note un metodo di emissione diversa e tutti l'uno più strampalato dell'altro. Così procedendo ha alternato suoni ora opachi ora legnosi, gli estremi acuti aspri e strozzati, le agilità ora aspirate o a colpo di glottide. Quando ha cercato di cantare frasi a mezzavoce, non avendone la tecnica, ha ottenuto solo di mandare la voce indietro, stimbrando paurosamente il suono. Un Rodrigo esageratamente grezzo ed aggressivo, perché l'aggressività risiede nella scrittura vocale, tutta di forza e di sbalzo. Scrittura che occorreva realizzare in modo esemplare, come sapeva fare Chris Merritt, mentre in questo modo Colin Lee ne ha finito, travisando il canto, per realizzarne la caricatura, tutta fondata sulla concitazione.

Juan Diego Florez è stato l'unico della serata a dar prova di un canto, almeno nei grandi parametri, professionale. Certo, per tipologia vocale, è una voce adatta a Lindoro e non al Rossini serio, per il quale occorre una voce più nutrita nei centri, maggiore ampiezza di cavata, più estro interpretativo. Nel signor Florez si percepisce l’assenza di colori, perchè non ha la vera mezza voce; però, almeno lui, non ha cercato di eseguirla stimbrando il suono o strozzandosi. Come al suo solito si è giovato solo di variazioni di intensità, che forse alla fine lo rendono piuttosto monotono, ma almeno non ha emesso suoni brutti. Nelle variazioni e nell'ornamentazione non ha mai usato il trillo, come d'altronde la Barcellona, e questo semplicemente perchè ne l'uno ne l'altra non lo sanno eseguire, mancanza grave da parte di cantanti incensati e dichiarati dal pubblico orecchiante e dalla critica odierna come "rossiniani".
Gli estremi acuti a piena voce di Florez sono suonati timbrati e squillanti ma anche alquanto tesi,mai completamente liberi da sforzo, fatto rilevabile anche scenicamente: il tenore stava in scena tutto teso in avanti, senza la naturalezza e la spontaneità della recitazione scenica e, soprattutto, del canto facile a corpo rilassato. Ciò nonostante il suono non è mai stato veramente sforzato. Il signor Florez, infatti, non canta aperto, non è ingolato, ma non ha nemmeno quella rotondità di suono che deriva dell'immascheramento perfetto. Se questo fosse migliore la sua voce se ne gioverebbe in smalto ed in incisività,e potrebbe conferire al suo fraseggio maggiore autorevolezza. Il suo Giacomo V, infatti, sconta il limite tecnico laddove stenta ad essere credibile nei momenti più concitati come la sfida, dove era davvero alla frusta. Florez ha saputo convincere solo nei momenti dolenti e amorosi, cioè nei duetti con Elena e nell'aria "O fiamma soave".
Comunque,in confronto ai suoi colleghi Florez ha cantato bene perchè ha cantato con buon legato, agilità ben eseguite, nitide e precise, con tutte le note distintamente percepibili ed al contempo legate l'una all'altra (come si suol dire "sul fiato"). Non direi però che abbia rivelato "gli accenti nascosti" del personaggio, conferendo a Giacomo V i colori di un Blake, artefice di una girandola di sfumature realmente espressive.
Di Florez colpisce sempre l'agitarsi con moto ondulatorio del corpo durante la vocalizzazione, soprattutto quelle di forza. E’ certo che il suo canto di agilità sia servito da pietra di paragone per quelle degli altri, gettando su di loro un ombra. In poche parole è sempre la solita storia : Florez sembra un fuoriclasse del canto solo se paragonato al livello generale di cui oggi siamo vittime. Passa per un fuoriclasse solo per mancanza di una vera ed autentica concorrenza.
Semolino





Gli ascolti

Rossini - La donna del lago

Atto II

O fiamma soave - Chris Merritt (1985), Rockwell Blake (1986)

Alla ragion, deh rieda - Lella Cuberli, Rockwell Blake & Chris Merritt (1986)

Tanti affetti - Angeles Gulin (1974), Lucia Aliberti (1990)


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mercoledì 6 gennaio 2010

Joyce Di Donato canta "Colbran-The Muse"

E così, dopo il Rubini di J.D.Florez e Maria (Malibran) di C. Bartoli, eccoci al recital dedicato ad un’altra figura mitica del belcanto italiano, (Isabella) Colbran, la Musa, di J. Di Donato. Di nuovo restiamo delusi ancor prima di aver ascoltato il disco dato che il programma è dedicato a ruoli composti per lei esclusivamente da Rossini, dimenticando la Di Donato di attingere brani dal nutrito gruppo di opere che altri e diversi musicisti di primo e secondo piano composero per la Diva spagnola.

Il programma del disco ci restituisce, dunque, una visione parziale della vocalità del cosiddetto “soprano Colbran”, ossia quella di cui si è tanto parlato in questi anni di penombra della Rossini renaissance, in cui si è giunti a far coincidere inopinatamente la vocalità della mitica cantante con quella del “mezzo acuto”( peraltro regolarmente incarnato da soprani lirici dalla voce indietro… ), dimenticando tutti che la signora, tra il 1811 ed il 1822, oltre alle 10 opere per lei composte da Rossini, diede voce alle protagoniste di Vestale di Spontini, Medea in Corinto di Mayr, Donna Caritea Regina di Spagna di Farinelli, la Donzella di Raab di Garcia, Arianna a Nasso e Alonso e Cora di Mayr, Il Califfo di Bagdad di Garcia; la Morte di Semiramide di Nasolini; Ginevra di Scozia di Mayr; Il Sogno di Partenope di Mayr; Gabriella di Vergy di Carafa; Aganadeca di Saccenti; Paul e Virginie di Guglielmi; Mennone e Zemira di Mayr; Ifigenia in Tauride di Carafa; Boadicea Regina delle Amazzoni di Morlacchi; Solimano II e Adelaide di Baviera di Carlini; Sofonisba di Paer; l’Apoteosi di Ercole di Mercadante ( in compagnia della Pisaroni, David e Nozzari ); Valmiro e Zaida di Zampieri, naturalmente inframezzate da titoli rossiniani anche diversi da quelli per lei notoriamente composti, quali Tancredi ( nel title role, presso teatro del Fondo ); Torvaldo e Dorliska; Gazza Ladra etc..Il tutto ad un ritmo di serate che a cavallo del 1816-1818 era nell’ordine di circa 100-120 serate l’anno presso il solo Teatro di San Carlo di Napoli, palcoscenico principale della sua carriera.
Insomma, sarebbe bastato alla signora Di Donato un pomeriggio napoletano in quel luogo straordinario che è la Biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, ove giace la più parte degli spartiti rappresentati al Teatro San Carlo, oppure sottotitolare più correttamente il disco “The Muse of Rossini” per evitare almeno la topica filologica del titolo del disco.
Detto questo, entriamo nel merito della voce e dell’esecuzione offertaci dalla signora Di Donato, che nessuna ridefinizione del sottotitolo può salvare dalle critiche.

Tralasciando di contestare per la milionesima volta l’equivalenza indimostrata dai guru del ROF Colbran = mezzosoprano acuto, o meglio Colbran = mezzosoprani acuti attuali, alla signora Di Donato fa difetto, nel tentativo di assurgere se stessa al ruolo di moderna Colbran, una tecnica di canto di tradizione italiana ( quella di scuola Horne – Callas - Sutherland tanto per intenderci ) ed un gusto schiettamente rossiniano.
Sul lato tecnico, la signora Di Donato è carente sia sul passaggio grave, ove la voce resta vuota oppure di petto, che su quello alto, caratterizzato da evidenti fissità, mi-fa in particolare. Le note acute ( la nat e si bem.) sono sottili rispetto al centro, mentre i gravi non si prestano ad una emissione stilizzata. Ne soffre anche l’agilità, in particolare l’esecuzione delle quartine, che risulta priva di vigore, sfarfalleggiata e poco fluida, sia nel canto di forza che in quello di grazia.
Per quanto il mezzo naturale si sia impoverito negli armonici come nella pienezza del suono che, al contrario, possedeva nei primi anni di carriera, la Di Donato può convincere soltanto laddove il canto rossiniano non richieda qualità di legato per la presenza di frasi declamate ed aggressive, ossia nel finale di Armida. Anche quando il carattere del personaggio è lirico, come nella preghiera di Desdemona, la signora Di Donato tende a cantare secondo l’odierno modo “baroccaro”, privando Rossini della sua imprescindibile connotazione classica, metaforica ed aulica, che solo l’emissione belcantista di tradizione italiana può restituire. L’accento, infatti, si fa “mignardise”, arrivano puntuali i sospiretti e le pause non previste che tolgono nobiltà alla linea di canto ( si veda la scena di Desdemona di Otello, ad esempio ). Rievocare la Colbran significa implicitamente eccellere sia nello stile tragico sia in quello grazioso grazie all’accento aulico ed allo slancio nel virtuosismo. La Di Donato, invece, ci fa sentire agilità “bartolesche”, insopportabili ed inadeguate allo stile di Rossini ( si vedano l’aria di Armida ed il rondò di Donna del Lago ), segno della barocchizzazione in atto del compositore ed opportunamente abbracciata anche da questa cantante. Dato che nel canto “baroccaro” gli interpreti finiscono per essere tutti uguali per modalità e risorse espressive, tanto che persino i timbri si fanno così smunti da rassomigliarsi l’un con l’altro, i brani finiscono per perdere le loro specificità drammaturgiche, perchè risolti nell’antinomia lento-velocissimo, pianino – forte, con le agilità senza mordente e slancio drammatico, mitragliate nevroticamente “Bartoli style”.
Il genio di Rossini è rispettato limitatamente, perché la diva americana inciampa inaspettatamente in passi come il rondò di Elena e la cavatina di Elisabetta Regina d’Inghilterra, mentre il mito di Isabella Colbran è inspiegabile, poiché nulla di ciò che venne grandiosamente scritto per lei può essere stato concepito per il modo di cantare esibito dalla Di Donato in questo disco.

Tanto per esemplificare sperando di non essere noiosi ripetitivi, atteso che i vizi dell’esecutrice e dell’interprete ricompaiono precisi e puntuali in ogni brano.

“D’amore al dolce impero”; “ Se il mio crudel..”, Armida
Alle prese con la maga Armida, che pare fosse una delle realizzazioni più complete di Isabella Colbran (la di Donato propone sia la famosa aria con variazioni che il grandioso finale), la novella Colbran esibisce voce vuota e fioca nella zona grave, difficoltà a scandire ed accentare le agilità, con particolare riferimento alle quartine vocalizzate, sicchè le agilità di forza divengono agilità di grazie, accennate secondo al miglior scuola del “farfuglio” messa in onda dalle Caballé e Ricciarelli e diventata la peculiarità della attuali cantanti.
Le cose vanno leggermente meglio con il grandioso finale, forse il passo migliore dell’intero recital. Abbastanza facile perché il passo non richiede mai canto legato, come accade nella sezione centrale.
Buono l’attacco del recitativo, sempre in difficoltà nelle quartine di “L’alma tua nudrita” .
L’altro guaio e limite piuttosto evidente sono le note tenute che suonano fisse. E se la sezione centrale, che non richiede canto legato non prevede neppure inutili sospetti, al più consoni a personaggi di mezzo carattere, ma non ai soprani tragici. N più nel canto spianato la cantante suona fissa nella zona, che sarebbe del passaggio, secondo il dettato baroccaro e gli acuti (vedi i si nat scoperto di “vieni” o i si bem estremi delle quartine) suonano piccoli e senza ampiezza. Caratteristiche che sono il risultato del cantare senza adeguato sostegno del fiato.
Una postilla per la direzione bandistica e pesante, che fa assurgere ad direttore di rango persino il vituperato Tullio Serafin, che riscoprì l’opera in compagnia di Maria Callas.

“Tanti affetti”, La Donna del Lago
Quando affronta il finale di donna del lago ossia il famoso “Tanti affetti”, brano brillante, ma non strettamente di genere grande agitato come il finale di Armida la di Donato ricorre prevalentemente ad emissioni flautate ( e, poi, prive di appoggio); la tessitura non propriamente acuta, ma nella zona del passaggio porta a suoni spesso stonati ( vedasi il “tronco accento”) o a patteggiamenti di sonorità ed ampiezza come i suonini di “tu sapessi a me donar”. Non che la circostanza sia una novità, perché alcuni soprani alle prese con Elena d’Angus hanno sfarfalleggiato ed alleggerito, ma in un recital che si proporrebbe di celebrare la grandiosa vocalità di Isabella Colbran, la cantante che Rossini, pur sentite la Pasta, la Malibran, la Sontag e la Grisi, continuò a ritenere la più grande è proprio stridente.
La perla è rappresenta dalle variazioni “neo liberty”, non autografe ( e sì che l’edizione critica del titolo gronda varianti d’autori o coeve) , come gli staccati inseriti nelle ripetizioni. E poi abbiamo scritto dell’antirossinianità di molte esecutrici e del Barbiere e della Semiramide ree di avere interpolato picchettati e staccati.

“Quanto è grata all’alma mia”, Elisabetta Regina d’Inghilterra
Se Armida è il pezzo migliore la cavatina di sortita di Elisabetta, che fu il primo ruolo di Rossini per Isabelita è il peggiore. Non andremo a tirare fuori i difetti vocali, che sono gli usati, ma l’ingresso di una regina che sembra una pastorella dell’Arcadia…o Almirena di Rinaldo!!!!
Rossini non è mai stato slavato; l’insignificante contrasto piano-forte, lento-veloce non è la dinamica ed agogica libera e staccata dal metronomo, che era risaputo essere un punto di forza degli esecutori del bel canto, ma una acritica e noiosa adesione alla moda baroccara. Per altro non potrebbe che essere così, in quanto il canto non di scuola ed immascherato non consente di sfumare e modificare in maniera continua ed impercettibile, ma solo di procedere a strappi e balzelloni, senza autentico legato e dinamica

“Bel raggio lusinghier”, Semiramide
Qui si confronta con il Gotha del belcanto.... e volano i fendenti che le arrivano dal passato prossimo come da quello remoto! Una cosuccia questo Bel raggio di fronte a certe dame dei 78 o alla Sutherland o ad alcune sue dirette ed autentiche eredi…..!
Buono l'accento del tempo d'attacco, ma sempre con gli acuti sottili e le agilità “sorvolate” e senza peso, con le quali non può competere con le grandi esecutrici di questa aria. Arriva poi una interpolazione-non interpolazione (!) tra la prima e la seconda strofa del “Dolce pensiero”, ossia una nota tenuta pergiunta fissa, negazione in termini del significato che queste aggiunte ricoprono da che esiste il belcanto, tanto che l'ascoltatore resta in attesa che arrivi qualcosa....che non si sente.
Prosegue scopiazzando malamente la Horne nella prima sezione del da capo, abortendo completamente la sezione finale dell’aria dove, non potendo interpolare verso l’alto da soprano vero, né inabissarsi nel pentagramma come un mezzo vero, decide di restare sul centro, impantanandosi tra due strilletti e tre coccodè che non dicono nulla. Non trova una soluzione musicale di effetto e slancio idonea alla chiusa di un pezzo che va in crescendo, e non ammosciandosi, senza, peraltro, farci sentire, del soprano centrale o mezzo che dir si voglia, una voce piena e corposa.
Insomma un insoluto perfetto, cui peraltro ormai siamo avvezzi al giorno d’oggi, privo anche della presupposta sensualità del personaggio di Semiramide.



Insomma, questi dischi intitolati alle figure mitiche del belcanto continuano ad essere iniziative di natura commerciale, finalizzate alla pubblicizzazione di eventi teatrali impellenti, e non di natura culturale, come invece si vorrebbe far credere. Le prerogative vocali del cantante ottocentesco, prescelto perché privo di testimonianze audio, quindi, più facilmente mistificabili, non vengono né ricostruite sulla base di indagini accurate sul corpus degli spartiti per questo composte, né riproposte in modo adeguato alle prassi vocali che la tradizione ci ha tramandato. E regolarmente le prerogative che li resero famosi non appartengono ai cantanti che pretendono rievocarli! Salta agli occhi la differenza di stile e contenuti che intercorre tra le brevi note che accompagnano le scelte mirate ed oculatissime di un Bonynge per i due volumi dell’Art of Primadonna di Joan Sutherland o quelli dei recitals rossiniani o dei Souvenirs of a Golden Age di una Horne che, intrisi di conoscenze e riflessioni accurate, mai proponevano la completa assimilazione dell’esecutore moderno ad una figura del passato, non foss’altro perché quelle signore erano certe che avrebbero posto anche il loro, di nome, nella storia del canto. Per loro il canto era un'arte solidamente fondata sulla cultura, la conoscenza del passato, la perizia vocale, l'onestà intellettuale. Per noi è solo ......business!



Gli ascolti

Rossini

Otello


Atto III

Assisa a piè d'un salice - Marilyn Horne (1971)

La donna del lago

Atto II

Tanti affetti - Martine Dupuy (1992)

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