Visualizzazione post con etichetta firenze. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta firenze. Mostra tutti i post

lunedì 4 luglio 2011

Sorella Radio. Mariella Devia, l'arma del canto.

Che sia ancora oggi possibile vivere del controllo del fiato e del suono lo dimostra la signora Mariella Devia, che a Firenze per la chiusura del Maggio musicale ha offerto ad un pubblico plaudente e pien di giubilo le scene finali delle regine donizettiane.

Premetto che la natura vocale di Mariella Devia (e per essere onesti anche dell’altra sempiterna frau Gruberova) e quella delle regine donizettiane non ci sono corrispondenze a meno di non mettere pesante mano allo spartito per accomodare senza troppo scrupolo o con la sola legge del “io primadonna”, scelte che Mariella Devia ha sempre praticato, a differenza di una Sutherland, con inutile parsimonia. I personaggi regali sia ai piedi del patibolo sia nel delirio erotico della vecchiaia richiedono un timbro più pieno e brunito di quello della Devia, un accento più largo e scandito e cantano in una zona ben poco propizia alla cantante, che è e rimane un soprano leggero, in grado di cantare con un controllo della voce, una distribuzione del fiato da farci credere che il personaggio tragico di ascendenza rossiniana possa avere coloro e timbro da Lakmè o Margherita di Navarra.
Ciò nonostante ed è già un bel nonostante, cui si debbono aggiungere i normali, fisiologici acciacchi dell’età Mariella Devia riesce a trascinare il pubblico dalla sua e quel che ulteriormente meraviglia è che lo trascina con l’unica arma che ha sorretto quarant’anni di carriera: IL CANTO.
Prendiamo la scena finale del Devereux, proposta quale antipasto dell’imminente debutto marsigliese del prossimo novembre. La scrittura è molto centrale con qualche scomoda discesa in basso sia nel recitativo che nel cantabile e esigenza di slancio nei primi acuti. Tutto ciò che non è le mai rientrato nelle doti naturali di Mariella Devia, che riesce, poerò a proporre con misura il recitativo , ossia non si scalda troppo e non cerca di fare la tragica su frasi come “io sono donna alfine”, ma che all’ostica frase conclusiva “ohi cruda orrenda” canta anziché urlare e declamare. Canta pure sul mezzo forte il cantabile, mostrando come gli anni nella zona centrale compromettano il legato e, pertanto, sconsiglino preziosismi interpretativi stile Sills e non consentano – questo oggi come ieri – le esibizioni di bel suono stile Caballè. Poi arriva la sezione finale (che pur in tempo lento è tecnicamente una cabaletta) con una lezione di canto unica quando la Devia scende al si grave di “spietato cor” facendo sentire un vero suono di petto e dimostrando, come accade anche nei 78 giri, che un soprano leggero li può emettere facili e timoratissimi. E nel finale esplode la prima donna che finalmente lega con facilità, colorisce e smorza e riesce nel contempo ad essere intensa e composta, senza la voce di soprano spinto. Ovazioni da stadio in teatro, conseguenti organizzazioni di pulmann da pellegrinaggio a Notre Dame de la Guerison per il debutto foceo del prossimo novembre. E con ragione perché la sessantatrenne signora di Chiusavecchia rievoca unica o quasi immagini non già di arte sublime,ma di professionismo solido e di coerenza con i propri mezzi . Poi aggiungo il finale più che la scena tragica di Elisabetta Tudor era l’aria alternativa per la Ines de Castro, aggiunta per Fanny Tacchinardi Persiani. Ma questo conta poco o nulla!



Read More...

sabato 25 giugno 2011

Firenze: la sindrome "filologica" di Poppea

Poppea viene incoronata all’interno del Teatro della Pergola, delizia architettonica barocca più “giovane” dell’opera monteverdiana di soli quindici anni.
E per rimanere in tema di “filologia”, probabilmente per farci sentire sulla pelle l’atmosfera della Firenze secentesca o di quella Venezia del Teatro dei SS Giovanni e Paolo dove ebbe la sua prima assoluta, la dirigenza del teatro si è premunito di non riparare l’impianto di areazione e di non acquistare acqua fresca a sufficienza per l’arsura del povero pubblico convenuto, trasformando così la sala in un enorme forno di marmo e legno, forse più adatto a chi si diletta di cannibalismo visto che le persone stipate sulle calde poltrone di velluto hanno subito letteralmente una lenta cottura di oltre tre ore neanche fossimo costolette di maiale o arrosti di vitello.
Ringrazio l’eccellenza (?) della macchina organizzativa del Maggio Musicale Fiorentino a nome di tutto il pubblico pagante.

Ho evitato accuratamente, dopo aver assistito ad una sciaguratissima ripresa di “Tosca” che non meritava commenti, gli spettacoli successivi proposti nel Teatro Comunale; i quali, come dimostrano le cronache e gli ascolti radiofonici, non hanno avuto un grande riscontro in termini di commenti lusinghieri da parte del pubblico (se si esclude l’incoraggiante prova di Hui He in “Aida”); dunque tornavo al Maggio Musicale per due ragioni: assistere ad un’opera di Monteverdi, “L’incoronazione di Poppea” per le cure del direttore Alan Curtis, in una edizione che si preannunciava “innovativa”, e per ascoltare dal vivo il mezzosoprano Susan Graham, interessante e non banale star internazionale.
Il direttore e musicologo Alan Curtis è partito dalla sua edizione critica pubblicata nel 1989 e basata sulle varie e differenti edizioni dei libretti (almeno una decina), e, per quanto attiene il basso continuo e la linea vocale, sugli studi effettuati sui due manoscritti, quello veneziano ritrovato nel 1888 e datato 1650, curato da Francesco Cavalli e conservato nella Biblioteca Marciana il quale si differenzia in alcune linee dal manoscritto napoletano risalente al 1651 utilizzato per una ripresa e ritenuto da Curtis più autentico.
Curtis opta per un organico ridotto all’osso, una ventina di elementi in tutto, così suddivisi: a destra gli archi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ed un cembalo; a sinistra il secondo cembalo suonato dallo stesso direttore, violone, lirone, le tiorbe, l’arpa, rigorosamente d’epoca, de “Il complesso barocco”, creato da Curtis stesso, a formare l’accompagnamento del basso continuo. Non tutto è “filologico” e integrale come ci si aspetterebbe in effetti: ad esempio, Curtis si aspettava di trovare tra le file dell’orchestra fiorentina archi antichi e flauti dolci, come si fa in Europa, cosa che già con Bolton nella “Poppea” del 2000 era stato impossibile da realizzare; dunque, taglio drastico dei fiati e degli ottoni; soppressione di due personaggi: Mercurio, nella scena del secondo annuncio di morte a Seneca, e Venere, con il coro che segue, nel tripudio che anticipa il finale; qualche piccolo taglio di frasi e ripetizioni di alcuni momenti comici e corali, cosa però già presente in alcune edizioni critiche.

Più problematica la scelta della vocalità dei protagonisti qui sottoposta ad alcune modifiche: Nerone, composto per voce di soprano-castrato e cantato più volte da soprani e mezzosoprani (come nell’edizione discografica di Curtis), qui è interpretato da un tenore, strada già intrapresa ad esempio da Harnoncourt; in questo caso scellerato l’affidare ad un cantante di dubbia classificazione e gusto (tenore corto? Controtenore? Attore di prosa?) un ruolo dalla tessitura contraltile e creato per un castrato come quello di Ottone; per le anziane nutrici la filologia è chiara: possono essere interpretate sia da voci contraltili, sia da voci tenorili, in questo caso un tenore (Arnalta) ed un controtenore (Nutrice di Ottavia); mentre nessun dubbio su Fortuna/Valletto, alla prima interpretato da un castrato-soprano e dunque accessibile sia per voce bianca che da una voce femminile.



Cosa ascoltiamo allora? Curtis riduce al minimo gli interventi degli archi “moderni” ad una manciata di note udibili brevemente in alcune sporadiche introduzioni e all’inizio di qualche momento solistico, mentre tutta l’opera è retta dal basso continuo; il quale non suona male, ma nemmeno tanto bene; le note ci sono tutte, sono ben scandite nell’agogica dilatatissima fino alla stasi impressa dal direttore: ma sono note bianche e tendenzialmente stridule, tipiche dei complessi barocchi, prive di qualunque morbidezza, prive del minimo spessore nella loro secchezza alla varecchina, eseguite in un grigiore cromatico esasperante; come esasperante nella totale incapacità di fraseggi, di colori, di sensualità, di accenti risulta la direzione di Curtis. Un suono, in breve, nella sua monotonia interpretativa, che pian piano sparisce, diventando nebuloso durante gli accompagnamenti, tanto che dopo essersi abituati, in pratica sembra di assistere ad un’opera “a cappella” per soli voci accompagnate da una nota ribattuta in perpetuo. Lettura scientifica? Lettura intimista? Interpretazione analitica? NO! Noiosa, narcolettica, testimoniata dalla moltitudine di persone cadute tra le braccia di Morfeo durante il primo e secondo atto, o da coloro che, a un quarto d’ora dall’inizio del terzo, hanno abbandonato il Teatro, vuoi per l’afa insostenibile, vuoi perché è meglio dormire in un letto con il condizionatore, che in una scomoda poltrona di caldo velluto dentro una sauna.



Una breve parentesi la meritano le “voci”.
Gli albori dell’opera, il “recitar cantando”, non c’era ancora il Garcia con il suo manuale: e quindi?
Tra la “Dafne” di Peri (1598), storicamente riconosciuta come “la prima opera” e la “Poppea” di Monteverdi (1642) c’è una differenza di ben quarantacinque anni! Un periodo in cui si arriva al “cantar recitando”, in cui l’evoluzione della tecnica era andata avanti, in cui il canto dei castrati era diventato paradigmatico e avrebbe gettato le basi per la scuola stessa dei cantanti contemporanei e futuri (sette e ottocento) e oggetto di studio dei grandi insegnanti, i quali, a loro volta scriveranno fior di trattati, di cui il Garcia è solo la summa applicata ad un’altra epoca e ad un altro stile! Un’epoca talmente vivace che fece nascere il mito della “primadonna” incarnata nel soprano Anna Renzi: carriera ventennale, applaudita ed idolatrata, prima Ottavia e dedicataria di odi, poesie, sonetti, uno dei quali trovato in un libretto della “Poppea”, e protagonista di opere brillanti e tragiche!
Con questa premessa come giudicare “questi” cantanti?
Cosa dire di Serena Malfi, sostituta della prevista Marina Comparato, nei ruoli di Fortuna e Valletto, di Anna Kasyan (Virtù/Pallade), di Francesca Lombardi Mazzulli (Amore), di Ana Quintans (Drusilla), Maria Laura Martorana (Damigella) di fronte a timbri tanto pallenti e filiformi, ad un registro grave parlato ed acuti che fanno rimpiangere il suono di un trapano e ad un conglomerato così evidente di fissità, tanto da far passare, ad esempio, inosservato, dunque inutile, il bellissimo duettino tra il Valletto e la Damigella?
Cosa dire delle pur scenicamente godibili Nutrici: il fragile e non molto intonato tenore Krystian Adam, costretto a cantare la nenia in un terrificante falsetto, e del controtenore (categoria che faccio fatica ad ascoltare) Nicola Marchesini?
Come definire la vocalità ruvida, “digestiva” e secca del Seneca monocromatico di Matthew Brook?
Soprattutto come definire quella “cosa” grottesca rappresentata da Anders Dahlin, la cui interpretazione è lamentosa oltre ogni umana idea arrivando a superare in noia persino Curtis? “Tenore” (sic!) sulla carta, Dahlin, ma attore di prosa nei fatti, che “parla” con la sua voce afonoide emettendo gli acuti in un delirante falsetto calante o crescente.
Non sarebbe stato meglio abbassare la parte, allora, o usare un mezzosoprano onde evitare inutili e imbarazzanti “rumori” stilisticamente molto dubbi ed evitare le molte sofferenze uditive?
Un supplizio “filologico”!
Meglio allora l’Ottavia piena di aristocratico temperamento di José Maria Lo Monaco, dotata di una buona proiezione e di un timbro suadente nonostante pecchi e faccia penare con la fissità, che potrebbe facilmente evitare, negli acuti e nei portamenti; ma ha cantato con proprietà, compostezza e giusto accento entrambi i “lamenti”, ritagliandosi un buon successo personale.
Meglio allora il tenore Jeremy Ovenden, Nerone: non trascendentale quanto a vocalità e tecnica, tanto da arrivare stanco alla fine del primo e del terzo atto, incontrando qualche svarione nell’intonazione soprattutto durante il “processo” a Drusilla e nel duetto conclusivo; eppure gradevole timbricamente e duttile nelle agilità, riuscendo ad evitare, quando può, i suoni fissi, e regalandoci una interpretazione dell’imperatore tutta incentrata su una ironica ambiguità sensuale e sessuale in cui la morte di Seneca é solo il perfido capriccio di un bambino perverso; molto riusciti i duetti con Poppea ed il sorprendente duetto, qui omoerotico e ad alto tasso di erotismo, con Lucano, l’agile e languido Nicholas Phan.

Migliore tra tutti Susan Graham, grazie al cielo! La Graham ha principalmente due difetti: una percettibile ingolatura nel registro centrale, che si manifesta all’inizio di ogni attacco, ed il timbro da soprano lirico, probabilmente corto, più che da mezzosoprano, categoria in cui si è maggiormente identificata in questi anni. Ha quasi del miracoloso, ai giorni nostri e con cantanti che si sfasciano nel giro di cinque o dieci anni, il fatto che questa cantante, in carriera da vent’anni, abbia mantenuto la voce timbricamente inalterata senza quei segni d’usura che affliggono cantanti più giovani di lei o a lei contemporanei. Non è una grande virtuosa nell’utilizzo della veloce coloratura monteverdiana, che la mette un po’ a disagio, ma nulla di preoccupante né di scandaloso, nonostante nel secondo atto si lasci trascinare dall’azione interpolando gemiti e gridolini; ma il resto è cantato con serietà e dignità che riescono a isolarla, per fortuna, dal mediocre panorama attuale dei cantanti “baroccari” vuoti e intercambiabili.
Timbro sopranile, quindi, che corre senza sforzo nella sala della Pergola, ambrato quel tanto che serve per renderlo naturalmente sensuale, ma mai monotono, né tantomeno algido, al contrario estremamente femminile. L’emissione è morbida, controllata, così la voce si presenta omogenea, il che ci risparmia, ed è l’unica in questo, da suoni stridenti o fissi sostituiti da piani e pianissimi molto suggestivi. L’interprete disegna una Poppea, consapevole del proprio potere di seduzione e manipolazione, che rivendica la propria libertà e la propria posizione politica più con l’egocentrismo e la determinazione che con il cinismo. Un’abile e irresistibile doppiogiochista, una Venere dorata, resa fragile solo dalla acerba passionalità di Ottone, presto cancellato dal sorriso per la vittoria ottenuta.
Senza essere la Sutherland o la Horne, si può cantare bene questo repertorio evitando i vezzi, le caccole e le incrostazioni "baroccare" dure a morire o a evolversi.

Pierluigi Pizzi colloca l’azione su una pedana circolare che, ruotando, mostra i tre ambienti principali in stile black-neoclassico: un doppio ordine di colonne per le sale nella reggia di Nerone; una facciata stilizzata e marmorea per gli appartamenti di Poppea; un muro dotato di biblioteca per la casa di Seneca. Quando vuole Pizzi, ispirato anche da Carsen invero e dai movimenti coreografici di Roberto Maria Pizzuto, crea un’azione che per fortuna non conosce momenti di stanchezza, i cui intenti sono l’esaltazione dell’eleganza formale delle scene e degli splendidi costumi, e movimenti appropriati per far muovere i singoli ed i loro sentimenti allo scopo di differenziarli e renderli coerenti. Non manca un tocco di ironia maliziosa nel delineare, oltre che i protagonisti, anche i gustosi e numerosi comprimari, le due Nutrici su tutti; quella di Ottavia quasi una monaca con la passione per il ballo, quella di Poppea, più smaliziata, dalle pose plastiche e “divine” e dai vestiti sgargianti da drag-queen nel finale. Qualche licenza al contemporaneo solo nei costumi di Ottone e in alcuni famigliari. Le luci di Sergio Rossi sono praticamente fisse con qualche cono di luce o tagli argentei a isolare qualche duetto o qualche momento solitario.

Quando l’opera termina, il pubblico dormiente si risveglia applaudendo un po’ a casaccio tutto il cast e non decretando i soliti dieci minuti di applausi stavolta, nonostante il trionfo per la Graham e Ovenden, il buon successo per la Lo Monaco, quello di simpatia per le due Nutrici (soprattutto l’Arnalta di Adam) e quello realmente inspiegabile per Dahlin, forse applaudito per l’avvenenza più che per la bravura; ma si sa, oggi conta più questo del canto o della filologia probabilmente!



Gli ascolti

Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea


Atto I

Disprezzata Regina - Teresa Berganza (1961)

Atto III

Addio Roma - Leyla Gencer (1967)

Idolo del cor mio - Maria Vitale & Carlo Bergonzi (1954)





Read More...

lunedì 18 ottobre 2010

Firenze: la violenta catarsi di "Salome"

“Venghino, signori, venghino!”

Il nostro menù di stasera vi offre decadenti prelibatezze, voluttuose leccornie, sadiche raffinatezze d’altri tempi … i nostri in questo caso, disposte per voi su un cesellato vassoio d’argento dal nostro provocatorio, ma, fidatevi, eccellente chef: Robert Carsen.

Prego non temete, accomodatevi pure alla opulenta tavola del Tetrarca Herodes, nostro e vostro ospitale padrone di casa, e ricordatevi: non lesinate in perversioni! Dopotutto è una piacevole serata mondana tra galantuomini d’oggi, che l’esperienza della contemporaneità ha reso smaliziati, assuefatti ormai all’ingordigia sessuale, alla politica dell’apparire e dell’apparenza, alla facile marchetta, al vizio, che con sottigliezza, ne conveniamo, si confonde con la virtù.

E pazienza se ci scappa il morto: fa parte del gioco e potremo sempre dire che, in fondo, si è divertito anche lui. Sorridiamo lascivi, tutti quanti, in questo “Maelstrom” sfolgorante, trionfo del pacchiano e del gelido, del “Kitsch” e del luccichio, che ha le forme così specchianti e spigolose del Caveau di un imprecisato Casinò di Las Vegas (scene e costumi rispettivamente di Radu e Miruna Boruzescu).

La realtà? Per voi stasera sarà questa la realtà: forse l’incubo di un’adolescente precocemente corrotta da qualcosa di sinistro pericolosamente simile all’amore; oppure l’inferno privato di un patrigno particolarmente debosciato; oppure le dorate immagini moltiplicate da un impianto televisivo a circuito chiuso (video di Dario Cioni) di un mondo fatto di roulette e carte da gioco, di soldi facili e gioielli volgari da cui timidamente fa capolino una Luna solitaria che si specchia nel corpo di una candida principessa.

Pazienza se termina l’alcool; possiamo offrirvi dell’ottima droga!

E pazienza se finisce anche quella; avete dato un’occhiata ai nostri giovani e aitanti camerieri d’ambo i sessi, ammiccanti nelle loro vesti succinte (simil greche, romane, egizie; che importa!) pronti a soddisfare ogni vostro più intimo capriccio?

Ah, non badate al petulante predicatore, fratello minore senza sciabola di Kabir Bedi, che dal deserto muove verso di noi per tediarci con ridicole profezie messianiche, insulti alla nostra amabile e “vivace” padrona di casa, madame Herodias, incesti e catechismi: di lui si occuperà la nostra annoiata Salome, la quale più tardi ha promesso di danzare per voi al solo scopo di prolungare il vostro piacere… ed il suo.

Complesso, cinico, osceno, dunque magnifico lo spettacolo concepito da Robert Carsen per questa “Salome”, e non le manda certo a dire, tutt’altro; quello che intelligentemente propone è lo specchio fedele di questa nostra società, “fatta” di buffoni arricchiti e fanciulle che, avendo compreso le regole del gioco, danno loro ciò che bramano. Carne da macello, pornograficamente esibita e incarnata nelle sembianze sfatte e mostruose di Herodias, parodiata da Salome stessa in una delirante “Danza dei sette veli” (o meglio sette “vegli”, coreografia di Philippe Giraudeau) in cui la ragazza si concederà all’occhio della telecamera di Herodes ed ai corpi dei viscidi invitati. Senza speranza questa società lo è di sicuro, ma Carsen non colpevolizza Salome, tutt’altro; la farà uscire di scena proprio in quel deserto da cui proviene Jochanaan, forse per una redenzione, forse perché è “diversa”, lasciando a Herodias il compito di morire per mano di quegli stessi invitati che poco prima si erano palleggiati la testa del Battista. C’è molto de Sade, molto Carmelo Bene, molto Ken Russell, molto Michael Haneke nella crudezza tutta psicologica di questo spettacolo, e Carsen è riuscito a rendere propri e leggibili i linguaggi di questi artisti.

Poche le punte di un cast tutto sommato dignitoso, ma non ideale a dare lustro alla sontuosa scrittura straussiana.

Protagonista scenicamente implacabile e assoluta è la sorprendente Janice Baird.

Intendiamoci, è lontana dall’essere un esempio vocale a causa di una emissione tutta di gola; un passaggio di registro dall’intonazione che oscilla pericolosamente quando ricorre ai piani, soprattutto nel monologo finale e con più di un sospetto di essere a rischio rottura soprattutto quando Strauss prevede il sostegno di note lunghe come il Sol o il Fa; un registro grave carente di smalto e di armonici così da compromettere l’effetto morboso e misterioso dei vari Sol, La, Si, sotto il rigo, ridotti a sbuffi d’aria. Così la sua Salome inizia veramente a cantare dal duetto con Jochanaan in cui può proiettare con maggiore controllo le frasi dei registri centrale e acuto con voce chiara, potente, sfacciata addirittura ed un buon controllo delle frasi legate. Robusta questa voce, malgrado i difetti, lo è sicuramente come la proiezione del suono che corre agilmente nella sala. Si sente poi dal fraseggio che la Baird ha maturato e di molto la caratterizzazione del personaggio in questi anni scavando nel suo timbro così particolare ed evitando facili trucchetti per camuffare una voce ed un corpo da teenager che non possiede.

La sua Salome è sempre rigorosamente donna e ben poco virginale: conosce bene il desiderio della carne, conosce bene la facile seduzione dei sensi e la debolezza degli uomini e sa perfettamente come utilizzarli per appagare il proprio egoismo, mutandoli in ridicoli strumenti del suo volere; ma sa anche che la salvezza è fuori da quel mondo e l’imitazione infantile dei gesti del Battista e tutto il finale, tradiscono il suo anelare verso la catarsi.

Ad un livello simile si staglia l’Herodes di Kim Begley.

Ottimo Loge con Dohnànyi prima e Sinopoli poi, il tenore sfrutta con grande intelligenza e sensibilità la mercurialità del suo canto. Voce non enorme, da caratterista, ma agile, duttile, penetrante, ben emessa, oltre a possedere sia un senso sfumatissimo della dinamica della parola tedesca, accentando con dovizia ogni sillaba e trasformando ogni suono in specchio del personaggio, possiede un discreto legato ed una buona respirazione, che gli permettono di affrontrare con sicurezza i lunghi monologhi di Herodes, non evitando però certe sbavature e fissità del registro acuto. Ne consegue che il personaggio riesce, oltre a possedere una sua grottesca grandezza, ad avere una sua coerente evoluzione: da magnaccia greve e alcolizzato, a piccolo uomo consapevole del proprio vizio e schiacciato dal peso delle sue azioni.

Attrice stupenda la Mishura, con il suo fare dinoccolato e sfacciato di chi va bellamente a braccetto con il brindisi e con uomini, rosa dal vizio e dal sesso, inguainata in un vestito lamé con stola verde e parruccone rosso fuoco; ma appunto solo attrice! La voce, o quel che ne resta, è circoscritta all’alternanza di rantoli sguaiati e falsetti dalla dubbia intonazione, appesa com’è ad un filo sottilissimo con la prosa. E non mi si venga a dire che il ruolo di Herodias vada “cantato” in tali condizioni, perché anche cantanti ben più anziane della Mishura continuavano ad usare il valore delle note con maggior costrutto e non quello dei sussurri e delle grida.

Pessimo Jochanaan a Bologna, il giovane e aitante Mark S. Doss si riprende di poco a Firenze, senza fare urlare al miracolo: la voce ha acquisito maggior volume e supera senza troppa fatica il muro orchestrale, il timbro è piacevolmente scuro da bass-baritono; ma la fatica si sente quando la tessitura sale, e Jochanaan ha momenti molto acuti, ma non impossibili, in cui l’emissione si inchioda in fastidiosi gorgoglii perdendo così l’elasticità del registro centrale una volta che la frase torna più bassa. Registro centrale velato, indietro bloccato nella gola, mentre nel registro grave è degno compagno della Mishura quanto a prosa nonostante le contingenti divergenze religiose e morali. La solennità del profeta di Dio viene perduta in un fraseggio spiritato che vorrebbe essere altisonante invece è solo lontanamente imparentato con i proclami di un telepredicatore da TV privata. Scenicamente, almeno, convince nonostante abbia lo stesso “problema” di Simon Estes nella videoregistrazione berlinese, per essere totalmente credibile. Il profeta ritratto da Doss e Carsen non è altri che una contratta marionetta della religione che, dismesse le vesti da viandante del deserto (mantello e turbante, voluttuosamente tolte da Salome stessa), rimane in impeccabile completo da sera, che quasi nasconde tra i gesti meccanici, vergognandosene. Questo Jochanaan non disdegna con così tanta convinzione le carezze impudiche della principessa, lasciando alla fantasia dello spettatore un pizzico di ambiguità in più.

Tenorino con voce piccina, carina e tremula, Mark Milhofer veste i panni del tragico Narraboth facendosi quasi inghiottire dall’orchestra, seguito dal praticamente inudibile Paggio di Jennifer Holloway. Un plauso ai cinque giudei interpretati con affiatamento e sottilissima autoironia da Gianluca Floris (che si impone sugli altri per virtù di una gustosa voce da caratterista timbrata e dalle sulfuree inflessioni), Saverio Fiore, Antonio Feltracco, Cristiano Olivieri e Carlo di Cristofaro interprete anche del Cappadiciano.

Sonori e solenni, anche se tendenzialmente gutturali, i due Nazzareni interpretati da Roberto Abbondanza e Uwe Griem; migliori i due Soldati di Gabriele Ribis e Francesco Musinu e, con il doppio della voce di Milhofer, lo Schiavo di Fernando Cordeiro Opa.

Danza macabra anche sul podio: si attendeva questa “Salome” da anni e, oltre alla lunga gestazione per l’allestimento, altrettanto difficoltosa è risultata la lista dei nomi per la sua direzione.

Si era favoleggiato il nome di Mehta, in principio, che conosce la partitura anche capovolta; successivamente, dopo il grande successo della sua “Elektra” fiorentina, il nome di Ozawa sembrava essere quello più accreditato; alla presentazione del cartellone ecco spuntare il nome di Carignani, rinunciatario per ragioni di salute legati ad un intervento alla spalla (si rimetta presto Maestro Carignani!). Ed ecco arrivare l’austriaco Ralf Weikert, debuttante nel Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

Weikert predilige un’agogica lenta fondata sulla bellezza delle singole parti e dei singoli tempi; possiede il pregio di dare all’orchestra un suono ovunque di splendido impasto come nel duetto Salome-Jochanaan, l’interludio, l’intervento dei cinque giudei, la Danza dei sette veli o il monologo finale; ma è una bellezza fine a se stessa, estenuante e priva di spina dorsale, glaciale nella sua totale inespressività. Bellezza che il volume dell’orchestra rende spigolosa oltre il consueto alternando momenti di assordanti fortissimi a assottigliamenti sonori di carta velina.

Un vero peccato, giacchè il franco successo che ha arriso alla produzione, con entusiasmi nei confronti della Baird, non ha coinvolto la direzione orchestrale, fatta segno di applausi di cortesia e un paio di contestazioni.


Gli ascolti

Strauss

Salome


Jochanaan! Ich bin verliebt in deinen Leib - Emmy Destinn (1907)

Dein Haar ist gräßlich - Emmy Destinn (1907)



Read More...

lunedì 1 marzo 2010

Adriana Lecouvreur a Firenze: "Chiedo in bontà di ritirarmi!"

A conclusione della Stagione il Teatro Comunale di Firenze ha deciso di riproporre un titolo non più apparso sul palcoscenico da ben 29 anni: “Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea.

L’ultima volta, nei primi anni ’80, agiva un cast che ancora oggi i fiorentini ricordano come leggendario, in cui troneggiavano il carisma di Raina Kabaivanska, la potenza vocale di Fiorenza Cossotto, la voce schietta di Gianfranco Cecchele e l’inossidabile Rolando Panerai; dirigeva il tutto un Maestro della caratura di Gianandrea Gavazzeni.
Prima di quelle forunate recite, soltanto due volte “Adriana” era approdata a Firenze ed in entrambi i casi, a oltre 20 anni di distanza, un'unica protagonista: Magda Olivero, ça va sans dire!
Questa edizione avrebbe visto alla direzione il gradito ritorno del Maestro Bruno Bartoletti, lontano dal Teatro Comunale dal 2004, in cui aveva trionfato con le premiate recite del dittico di Dallapiccola, “Prigioniero” e “Volo di notte”.
Purtroppo, a causa di problemi di salute (Le auguriamo una pronta guarigione Maestro), al suo posto le maestranze hanno chiamato il direttore Patrick Fournillier, che i fiorentini hanno già avuto modo di conoscere lo scorso anno quando ebbe l’occasione di dirigere “Pagliacci”.
Defezioni che si sono estese anche a due componenti del cast proposto:
per Maurizio di Sassonia era previsto il tenore Marco Berti, poi sostituito da Fabio Sartori e Warren Mok, mentre il veterano Juan Pons avrebbe vestito i panni di Michonnet, successivamente indossati da Stefano Antonucci.
Per fare le cose in grande il Teatro Comunale ha proposto ben due cast, ma andiamo con ordine.

Founillier in una intervista a Radio Tre ha evidenziato come lo stile di Cilea sia stato influenzato da tutta quella ventata culturale, musicale e creativa che invase letteralmente l’Europa dopo la morte di Wagner.
Coerentemente il direttore sottolinea, esalta ogni preziosismo sinfonico, ogni componente sonora, ogni tema, che avvicini Cilea ad altri compositori a lui coevi.
Abbiamo, dunque, un I atto molto vicino all’esotismo brillante della “Butterfly” pucciniana, un II che sembra voler ricordare certe ambientazioni decadenti di Massenet, un III che intende ricordare la Venezia di Ponchielli ed un IV sospeso tra l’essenzialità di Debussy e certe soffuse albe wagneriane.
Sarebbe stata una lettura interessantissima, filtrare Cilea attraverso l’ottica dei suoi contemporanei europei, e probabilmente il direttore avrebbe potuto osare di più sviluppando meglio la questione sempre aperta dei “Temi” collegati ai personaggi, oppure avrebbe potuto infondere una energia più moderna.
Purtroppo Fournillier, troppo preso dal sottolineare questo o quel particolare, finisce per alternare sonorità massicce, che finiscono per coprire le voci (duetto Adriana-Maurizio), ad assottigliamenti che fanno sparire totalmente l’orchestra (duetto Adriana-Maurizio al II atto), o ancora, velocità eccessive, (l’accompagnamento dei comprimari) alternate a lentezze macignose (“L’anima ho stanca”, il balletto).
Fournillier ha anche pregevoli intuizioni, come tutta la musica che accompagna Michonnet, il quale ne viene avvolto fino, quasi, ad isolarlo; l’Intermezzo del II atto, il cui il languore stavolta solo orchestrale de “La dolcissime effigie” è espresso con maggiore abbandono; il preludio al IV che possiede una agogica morbidissima molto aderente al clima sensuale che si respira; il sottofondo tutto strappi appassionati e nervosi di “Acerba voluttà” o la vibrante ambiguità del duetto che segue.
Una direzione abbastanza frammentaria, dunque poco coerente, che avrei preferito più omogenea.


Adina Nitescu, la protagonista, emerge per una certa vaghezza timbrica e per il volume dello strumento.
Ed è tutto!
Il soprano possiede delle belle intenzioni, soprattutto nello smorzare i suoni o nei pianissimi, ma a causa di una dizione poco rifinita ed un accento avarissimo di colori e di qualsiasi sfumatura, dimostra di sentire poco il personaggio.
Sicuramente, essendo un debutto, ha tutte le attenuanti in merito, ma non si può tacere di una resa vocale poco rifinita e fallosa.
“Io son l’umile ancella” la vede fin troppo cauta nell’emissione e nella gestione dei propri mezzi, poiché la voce, appena la tessitura si solleva oltre il Fa, si irrigidisce, va indietro, inizia a traballare pericolosamente perdendo così quella preziosità timbrica esibita nei centri, mentre i gravi sono totalmente assenti o “parlati”.
Riesce ad azzeccare il piano su “Un soffio è la mia voce”, ma non riesce a mascherare una linea di canto disordinata ed una pronuncia superficiale, così i brani recitati risultano sgraziati e troppo marcatamente ridondanti per essere esempio di semplicità e naturalezza.
Se qualche tentativo di fraseggiare lo si può intuire nel duetto con Maurizio, totalmente assente sarà l’interprete nel prosieguo, in cui la Nitescu, ad una emissione sempre più incapace di stare ferma, unirà una mancanza di coinvolgimento sia nei duetti con la Principessa, sia con Michonnet, accompagnati tra l’altro da suoni fissi e falsettanti, per concludersi in un IV atto in cui la voce risulta completamente ridotta, svuotata ed esangue, mentre la cantante in debito d’ossigeno, compromette la buona riuscita di “Poveri fiori” e di tutto il delirio finale.
Dignitosa invece la prova di Annalisa Raspagliosi.
Ricordavo una voce diversa però, dalle prove discografiche e dal doppiaggio delle parti cantate della brutta fiction “Callas e Onassis”, e un timbro più scuro, come impastato.
Oggi la voce è più chiara, lirica, meno potente rispetto alla sua collega, ma ben emessa e senza problemi a passare l’orchestra di fronte ai molti muri sonori che talvolta la bacchetta di Fournillier le para dinnanzi.
Problematico, tuttavia, il registro grave, che il soprano è costretto ad “inventarsi” ingolando la voce, mentre penetrante risulta il registro acuto nonostante il vibrato largo le porti qualche problema di intonazione soprattutto nei fortissimi.
Parte in sordina la Raspagliosi nell’aria di ingresso, sempre molto cauta, ignorando i piani ed i pianissimi, ma già dal dialogo con Michonnet, il soprano sfodera una bella grinta, riuscendo a dosare con buona partecipazione l’ironia e la semplicità, ma anche la malinconica sensualità dell’incontro con Maurizio in cui non ha problemi a coprire il suo partner.
La dizione, che scava a fondo nella parola, la trova vincente nell’incontro con la Principessa in cui ogni frase è scandita con il giusto accento di sfida e più contenuta e coinvolta risulta nelle parti recitate nonostante certa polverosa aulicità, che ben si adatta al clima registico.
Nel IV atto la voce ha ancora frecce al proprio arco, riuscendo a cesellare un “Poveri fiori” rispettando tutte le prescrizioni di smorzature del suono e di legato, e coronato da intenzioni “veriste” che le provocano qualche sbandamento d’intonazione nella zona Fa-La, ma che arricchiscono l’espressività del brano, esattamente come nel delirio tutto virato al pianissimo.
In definitiva, una prova sicuramente da approfondire, una Adriana giovane e fragile, insicura del proprio fascino, ma volitiva nei sentimenti, e che potrebbe portare la Raspagliosi ad abbandonare i ruoli verdiani per una netta virata, a parer mio più proficua, verso il repertorio “Verista” (Lodoletta o Nedda ad esempio).
Al fianco della prima canta Fabio Sartori, il quale ce la mette tutta per non essere un Maurizio credibile.
“La dolcissima effigie” richiede squillo, morbidezza di emissione, oltre ad un fraseggio ovunque languido e soffuso: Sartori non ha squillo, poiché il timbro risulta vagamente morchioso e non appena la scrittura supera il passaggio Mi-Sol, oppure le note gravi, ecco che la voce o va indietro o finisce in gola perdendo completamente smalto.
Inerte e senza palpito nel fraseggio, Sartori cerca di smorzare il suono, come nel caso de “L’anima ho stanca”, diventando solo lagnoso, e la cui centralità dovrebbe favorirlo nella ricerca di colori, invece di adagiarsi su una generica piattezza che si riproporrà identica sia nel racconto del III atto che in uno smunto IV.
Ma siamo in presenza di un Enrico Caruso risorto se paragoniamo Sartori a ciò che ci fa udire Warren Mok!
La dizione ignora completamente l’uso delle consonanti, quando abbozza un tentativo di pronunciarle, le fa accartocciare su se stesse con un effetto singhiozzante che lascia perplessi. Voce legnosa, sguaiata, bloccata in un perenne fortissimo, dall’emissione dubbia visto l’invadente vibrato, e in più non riesce né a superare l’orchestra, né a fondersi con la voce del soprano, da cui è completamente sovrastato.


In simili condizioni parlare di fraseggio o di accento è assolutamente fantascienza!
Note più liete da parte della Principessa di Marianne Cornetti, ma con qualche distinguo;
la Cornetti è un mezzosoprano acuto dalla voce potente, timbrata, robusta, dal centro pieno e morbido, affetta, però, da vibrato largo, che irrigidisce il registro acuto, molto sollecitato nel II atto e tende ad ostentare ed aprire troppo il suono quando scende al grave, cosa di cui non avrebbe bisogno vista la pienezza dei gravi già esibiti in Santuzza e Azucena ad esempio.
Problemi questi causati forse dalla voglia di cimentarsi in parti sopranili (Abigaille e Lady Macbeth), moda funestissima, che ha già fatto illustri vittime come dimostrato da Violeta Urmana e Nadja Michael.
La Cornetti sarebbe dunque perfetta per la Bouillon, ma è un’interprete che marca troppo la forza del personaggio e non la sua sensualità esacerbata e fatale, e, a parte la protervia, il fraseggio non mette in evidenza null’altro, risultando dunque personaggio a senso unico e poco coinvolgente.
Nel secondo cast invece della Principessa abbiamo la sua sguattera; già, perché Elena Bocharova non ha nulla di principesco e nulla per essere interprete di riferimento del ruolo.
Non una, ma ben tre voci separate: registro grave sbracato e gorgogliante, registro centrale esile e genericamente scuro, registro acuto fragile e leggero perennemente su un filo teso e traballante.
Ma se la Cornetti almeno qualche sfaccettatura del personaggio la lasciava, qua e la, trasparire, con la Bocharova non abbiamo nulla che possa attirare la nostra attenzione o quella di Maurizio, tranne quello di Mok, di cui è degna compagna vocalmente parlando.
Michonnet trova nel fraseggio e nelle doti attoriali di Stefano Antonucci il giusto protagonismo scenico e la giusta rilevanza soprattutto nei colori ovunque malinconici e decadenti con cui scandisce i due monologhi al I atto, o nell’amara ironia in cui la sua caratterizzazione è avvolta.
Dispiace dunque ascoltare tale varietà di accenti associati ad una voce ruvida, che si opacizza già nel passaggio e diventa sovente fissa e rigida come nei molti duetti con Adriana.
Il resto del cast è professionale scenicamente, ma non si distingue per grossi meriti vocali in quanto Francesco Palmieri, Il principe di Bouillon, risulta sonoro, ma gutturale; Mario Bolognesi, Abate di Chazeuil, è petulante e opaco; il quartetto formato da Alessandro Battiato, Quinault, Anicio Zorzi Giustiniani, Poisson, Oriana Kurteshi, Madamigella Jouvenot, Luisa Francesconi, Madamigella Dangeville, è spigliato e divertente, ma a parte il "quartetto" del IV atto, tutto il resto è cantato con timbri leggermente queruli e leziosi.
Per una volta il coro, preparato come sempre dal bravissimo Piero Monti, è sembrato più impegnato a fare solo il proprio mestiere, che a partecipare con maggior convinzione all’azione.


L’allestimento di Ivan Stefanutti, varato nel 2002 per l’As.Li.Co, ma visto anche in Giappone e Las Palmas, che ha curato la regia ed ha disegnato scene e costumi, vuole evocare con il suo impianto fisso, costituito da essenziali citazioni da architetture e decori di Hector Guimard, Victor Horta e Henry van de Velde, quell’atmosfera sospesa tra Verismo e Decadentismo dannunziano di certo cinema muto dei primi del ‘900, gli stessi anni che videro la nascita dell’opera, in cui a dominare erano personaggi tormentati, dalle caratteristiche “divine” e dai grandi gesti.
Adriana ed i suoi colleghi si muovono, appunto, come la grande Lyda Borelli, omaggiata apertamente dal regista nel finale, o come certi caratteristi dei primi cortometraggi comici, mentre molta superficialità è data a Maurizio ed alla Principessa, che limitano la propria gestualità al passeggiare; il solo Michonnet ha giustamente un’ efficace recitazione più moderna e “vera”, in netto contrasto con la finzione del palcoscenico che quasi confonde la vita degli altri.
Interessanti le luci “bianche e nere”, che volutamente evocano i primi film muti, di Eduardo Bravo Fernández e Gianni Paolo Mirenda, noiosa invece la coreografia di Luca Veggetti, ripresa da Angela Rosselli, che vorrebbe, molto lontanamente, omaggiare il balletto “L'Après-midi d'un faune” di Debussy- Nijinsky.
Sala semi vuota alla recita del 20 Febbraio, e pubblico caloroso solo nei confronti della Raspagliosi, mentre più nutrito e partecipe quello accorso il 23, almeno da quanto era udibile in radio.
Non credo che i fiorentini ricorderanno queste recite, attribuendo loro la parola “Leggendarie”…


Cronaca della recita del 20 Febbraio e della diretta radiofonica del 23





Read More...

mercoledì 4 febbraio 2009

Lucia di Lammermoor fiorentina, primo cast


Come anticipato in sede di recensione del secondo cast abbiamo anche visto la Lucia fiorentina con la prima compagnia. Una recita nel complesso grigia e spenta, con qualche aspetto positivo e molti punti che ci hanno destato perplessità.

Lo spettacolo di Vick non inventa nulla e cammina a tratti sul filo del ridicolo involontario (la prima scena, in cui il coro fa capolino da quello che nell'avanspettacolo si chiamava siparietto, l'entrata di Edgardo nella scena della festa, costretto a farsi largo tra la calca come nelle "vasche" delle grandi occasioni, e il maldestro cozzare di spade durante le rampogne di Raimondo, il quale Raimondo, visto che non ha da officiare messa, si affretta a cavarsi cotta e stola), ma si fa apprezzare per l'essenzialità di elementi scenici e light design e la sobrietà dei costumi, e soprattutto per la capacità di creare un terzo atto che, funerale di Lucia a parte (che richiama chiaramente quello di Ofelia nel film di Zeffirelli), funziona a meraviglia e ha momenti di vera poesia (la pazzia nella brughiera in cui fioriscono i papaveri).

Assai meno bene funzionano i cantanti, tutti, chi più chi meno, non all'altezza dei ruoli.

Eglise Gutiérrez canta un primo atto tutto sul piano e pianissimo, ha belle intenzioni, si sforza di essere dolente e poetica ma con una voce piccola perché fatalmente in bocca, non di rado stonacchiante soprattutto nella zona del secondo passaggio (impietose le scale ascendenti della cabaletta dell'aria di sortita, che appunto in quella fascia insistono), è difficile essere Lucia. L'ottava bassa è molto poco consistente, i sovracuti sono suoni ora ghermiti ora flautati e, benché intonati, comunicano un senso di precarietà assai poco piacevole. L'assenza di cavata si avverte soprattutto al duetto con Enrico, mentre il concertato del finale secondo, che Lucia dovrebbe "tirare", passa quasi inosservato. La scena della pazzia, ancora una volta risolta tutta nei toni della mestizia e quasi ripiegata su se stessa, vede la Gutiérrez lottare (non sempre vittoriosamente) con l'intonazione soprattutto nella cadenza del cantabile. Nel tempo di mezzo la cantante, ormai afona, sfodera suoni di petto grotteschi di per sé, ma soprattutto in questo personaggio e in un simile momento, chiudendo la grande scena con una cabaletta scolastica, condotta peraltro da Ranzani a un tempo letargico. Un bel dilemma, in effetti: staccare un tempo rapido, che permetta di concludere il tutto alla svelta, ma anche con il rischio di compromettere ulteriormente la tenuta delle agilità, o rallentare il più possibile, dando così modo alla cantante di riprendere, spesso anche rumorosamente, fiato? Il direttore ha scelto la seconda opzione.

Stefano Secco, la cui agenda farebbe pensare a uno strumento a metà strada, come qualità e potenza, fra il lirico e il lirico spinto (quindi, tanto per non far nomi, Aragall o Pavarotti), canta tutto di gola, senza preoccuparsi di vetusti ammennicoli quali maschera o proiezione. E', in questo, degno seguace di certa tradizione che negli ultimi anni sembra avere rimpiazzato, nei nostri teatri, altre modalità esecutive per il repertorio romantico, e non solo. Purtroppo, a differenza di altri colleghi nella stessa corda, la dote di natura è più vicina a Tonio della Fille, se non a Paolino del Matrimonio, e quindi i problemi vocali sono molto più evidenti. In debito d'ossigeno fin dalla sortita (tutto spoggiato l'attacco di Verranno a te sull'aure), ha urlacchiato alla maledizione e cantato di strozza, ma senza voce, la scena finale.

Alberto Gazale ha sfoggiato voce grossa (ma presto ridimensionata, come spesso avviene a chi tenti di urlare per l'intera serata), scarso senso del fraseggio donizettiano e "svirgolate" notevoli (la prima alle parole "Pria che d'amor sì perfido" nell'aria di sortita). Un po' meglio Giovanni Battista Parodi, che, spento e fiacco nell'aria del sorbetto (davvero orrenda e meritevole di ripristino del taglio e discesa nell'oblio, in assenza di un basso capace di sfumare e variare con eloquenza e nobiltà), ha dato prova, nel racconto della pazzia di Lucia, se non della necessaria ampiezza, almeno di un tono composto e una voce certo poco duttile, ma meno dura e sgraziata della media (ultimamente bassina) dei cantanti di questa corda.

A lui quindi il nostro applauso, ma... se in una Lucia il migliore è Raimondo... signori, c'è da preoccuparsi!!!


Lord Enrico Ashton
Alberto Gazale

Miss Lucia
Eglise Gutiérrez

Sir Edgardo di Ravenswood
Stefano Secco

Raimondo Bidebent
Giovanni Battista Parodi

Alisa
Antonella Trevisan

Lord Arturo Bucklaw
Saverio Fiore

Normanno
Enrico Cossutta

Orchestra e Coro del Maggio
Musicale Fiorentino
Piero Monti maestro del coro
Stefano Ranzani direttore

Graham Vick regia
ripresa da Marina Bianchi
Paul Brown scene e costumi
Nick Chelton luci

Allestimento del Maggio
Musicale Fiorentino

Read More...

martedì 3 febbraio 2009

Lucia di Lammermoor a Firenze, secondo cast.

Proprio nel giorno in cui il Corriere della Sera pubblicava un trafiletto sull’imprescindibilità dell’avvenenza per un soprano del giorno d’oggi, siamo partiti alla volta di Firenze per assistere alla donizettiana Lucia di Lammermoor, interprete Jessica Pratt, soprano di cui più volte vi abbiamo parlato in questo blog quale eccellente promessa del belcanto presente. E come piace a questo sito, miss Pratt, a differenza di tutte le new entry di agenzia, ha cantato e non... sfilato, raccogliendo un altro grande successo di pubblico, e dimostrando, nella vasta sala del Maggio, che il canto premia ancora chi lo pratica nella pienezza dei mezzi vocali, dell’impostazione sana e robusta “ di tradizione”, ossia quella delle voci manovrate nella maschera, alla ricerca del suono pulito, proiettato ed ampio. E tutto ciò lasciando veline e pin-up nelle loro più opportune sedi.

In quel di Firenze la Pratt, in carriera da meno di due anni, era anche chiamata a rispondere di alcune critiche ricevute, a mio avviso ingiuste, per la prova fornita nei Puritani bergamaschi, assai condizionata dalle condizioni schizofreniche in cui si era trovata a lavorare. Critiche alla sua capacità di legare, soprattutto, e di essere interprete vera e non solo un fenomeno del registro acuto e sopracuto.
Nuovamente nei panni di miss Lucia Ashton, la giovane australiana ci ha regalato un grande sabato sera di canto, dimostrando di meritare la stima tributatale dai suoi sostenitori della prima ora. Ha cantato e, soprattutto, ha interpretato come aveva promesso di fare al tempo della sua prima Lucia dell’Aslico e di Bologna l’anno passato e, facendo tesoro delle critiche, ci ha reso un personaggio costruito su un canto legato di primissima qualità, unito ad una dinamica sfumata ed intensa, ove smorzature, messe di voce e piani-pianissimi sono arrivati con continuità e puntualità di vera interprete.
Qualche imprecisione-incertezza, due-tre nella serata, in parte dovute anche ad imperfette sincronie palco-buca ( la Pratt era secondo cast..), non hanno inficiato per nulla una prova convincente ed anche emozionante: facilissimo il canto di agilità, anche quello di forza ( duetto Lucia–Enrico soprattutto ); acuti e sopracuti davvero impressionanti, cristallini e proiettati secondo le prassi tradizionali australiane ( ! ) come nel sestetto; una vera e personale dinamica espressiva anche in momenti consumati dalla tradizione esecutiva, quali la cadenza di Paoloantonio; accento intenso in passi come il duetto col fratello, sono stati i pilastri su cui si è fondata la prova della Pratt l’altra sera. La voce è stata usata forse un paio di volte sul forte, dosata regolarmente tra il piano ed il mezzoforte, dando volume solo... all'occorrenza drammatica. Il Maggio si è sciolto in una grande ovazione alla scena della pazzia, a provare e ricordare a tutti, agenti e giornalisti in primis, che quando il canto funziona il fisico matronale poco importa, mentre se il canto non gira si può anche essere carine ma la sala non risponde.
L’opera è spesso adrenalina, emozione melomaniaca pura: ma l’adrenalina scorre e la tensione si palpa nell’aria della sala solo se le voci viaggiano nel vuoto come dovrebbero, ampie, intense, sonore, proiettate, sostenute. Ed usate con pertinenza espressiva. Ci spiace per le mille soubrettine che ogni giorno affliggono i palcoscenici dell’opera lirica, ma le loro voci fiacche, vuote, prive di corpo, non possono suscitare questo medesimo effetto sul pubblico.
Miss Pratt si solleva teneramente il vestitone bianco mentre attraversa la brughiera di Vick; spara sopracuti enormi stando seduta sul seggiolone della scena delle nozze come un soprano anni ’50; fa qualche balzo in scena come in passato, allorquando qualcuno rimproverò proprio per questo il suo augusto modello australiano ( ricordate il “salto del canguro” della Borgia romana???)... è vero, ma canta!
E fatela cantare! In primo cast, perchè qui a Firenze meritava lei, a mani basse, il posto lasciato da Elena Mosuc. Se si vuole criticare miss Pratt lo si può anche fare colpendo certe ingenuità, a mio avviso normali, nella cantante di breve corso. E' però certo che il suo canto non si compara con niente del nostro magro presente: le sue pietra di paragone stanno indietro, nella grande tradizione delle Lucie di alta scuola, dal più recente duo Devia - Gruberova, alle Anderson, su su sino....alla Grande Australiana. E basta un giretto su You Tube, cominciando dalle recenti performance del Met, per rendersene conto.Lasciamo alle veline i loro spazi, se proprio non se ne vuol fare a meno ( causa anche la carestia del mercato delle voci..), ma lasciamo anche alle cantanti vere gli spazi e , soprattutto, i ruoli che loro spettano là dove è imprescindibile IL CANTO.

Quanto agli altri interpreti, siamo stati nella media del giorno d’oggi. Diciamo che per questo cast maschile i tagli di tradizione sarebbero stati opportuni. Un tenore con la voce non sfogata, ma corretto; un baritono volgare anzi che no; un basso da dimenticare.
Quanto al direttore, Stefano Ranzani, non ha fatto suonare bene l’orchestra, spesso pesante e pestacchiona, di brutto suono. Ha però staccato dei tempi, a mio avviso, efficaci, ora lenti ora svelti, sempre pertinenti all’azione drammatica, risparmiandoci quelle larghezze fintamente estatiche e piuttosto mollicce che oggi van tanto di moda. Efficace il vecchio allestimento di Vick che già conoscevamo, con il solo primo atto veramente bello e convincente.

Cast:

Lord Enrico Ashton
Juan Jesús Rodriguez

Miss Lucia
Jessica Pratt

Sir Edgardo di Ravenswood
Gianluca Terranova

Raimondo Bidebent
Paolo Battaglia

Alisa
Antonella Trevisan

Lord Arturo Bucklaw
Cristiano Olivieri

Normanno
Enrico Cossutta

Orchestra e Coro del Maggio
Musicale Fiorentino

Piero Monti maestro del coro
Stefano Ranzani direttore
Graham Vick regia
ripresa da Marina Bianchi
Paul Brown
scene e costumi
Nick Chelton luci

Gli ascolti

Atto II


Soffriva nel pianto

Chi mi frena in tal momento

Atto III

Scena della pazzia - Cadenza


Read More...

domenica 8 giugno 2008

Stagioni prossime venture: L'Italia (prima puntata)

Le prime stagioni 2008-2009 annunciate dai teatri italiani, primi in Italia, ultimi nel mondo confermano che fantasia e cultura o quanto meno cognizioni del repertorio latitano.
Non che i tempi per disponibilità di cantanti e di bacchette, anche in considerazione dei recenti spettacoli scaligeri, siano propizi ma la carenza di fantasia e cultura fa il resto. Il tutto aggravato dalla circostanza che i sei - otto titoli che ciascun teatro propone accrescono ed evidenziano i limiti.

Un esempio: Trieste propone Italiana in Algeri, che propone pure Torino e che a Bologna era stata offerta nella stagione 2006-’07. Quasi a dimostrare che Rossini comico si limiti ai soliti tre titoli Barbiere, Italiana e Cenerentola. Pietra del paragone, capolavoro assoluto o Equivoco sono titoli assolutamente dimenticati E, fra l’altro, la loro proposizione, in quanto non ci sono molte differenze fra i cantanti richiesti dai titoli prescelti eviterebbe poco edificanti confronti con esecuzioni non lontanissime nel tempo, attese le peculiarità punto positive delle due protagoniste scelte. Isabella deve disporre di quell’avvenenza vocale, tecnica e stilistica che è peculiare della prima donna rossiniana, se contralto sia armata di ventaglio che di spada.
La scelta di Italiana, ossia di un titolo giocoso conferma che da tempo i teatri italiani hanno rinunciato a proporre quelli tragici, demandano il compito a quello che si crede essere il luogo artistico monopolista nel proporre i titoli seri. Certo che scorrendo il cast che Bologna propone per Gazza Ladra, titolo semiserio, con schieramento vocale da opera seria si potrebbe plaudire a questa diffusa scelta.
L’idea oggi a Bologna, ieri a Pesaro riflette la perniciosa abitudine di scegliere prima i titoli e, poi, i cantanti.
L’idea è sbagliata in assoluto, deleteria in un periodo come l’attuale di penuria di cantanti.

Sono, temo, irrimediabilmente trascorsi i tempi in cui gli addetti ai lavori dopo un bel successo si premuravano di confermare il trionfante protagonista in titolo analogo. Basta a conferma sentire i racconti di alcuni dei sopravvissuti a quell’epoca.
Un magistrale esempio di questa scelta è l’idea torinese di inaugurare con Medea. Non serve, anzi è inutile, agitare il fantasma di Maria Callas, obbligatorio quando si tratta di un titolo come Medea, basta semplicemente, essere informati dei recenti forfait e avere ascoltato le trasmissioni radiofoniche per dubitare della scelta della protagonista. E nessun melodramma più di questo si regge sulle spalle della protagonista che devono essere robuste e solide sotto il profilo tecnico ed espressivo. I nomi delle protagoniste di successo, oltre la più famosa costituisce un indizio ed un suggerimento. A demordere dalla scelta. Crediamo.
Riconosco buona dose di fantasia e coraggio hanno soccorso gli addetti ai lavori triestini (ignoro se gli attuali in carica od i pregressi) che inaugurano con Francesca da Rimini e propongono la Norma.
Francesca è uno di quei titoli di rara proposizione per la difficoltà che i ruoli protagonistici prevedono. Paolo il bello più di Francesca. E tralascio le esigenze vocali degli altri due fratelli Malatesta e della bacchetta e della pletora di comprimari.
Quanto a Norma la scommessa sta nel titolo, divenuto negli ultimi trent’anni un tabù (la stagione scaligera insegna). La Anderson sentita di recente ad Aix en Provence può essere una scelta più pertinente rispetto alle altre ad oggi avanzate.

Anche a Bologna si prova a proporre Bellini con i Puritani. Pacifica la natura di capolavoro dell’ultima opera del maestro catanese, come pure ci sembra pacifico che il teatro ne abbia affidato l’esecuzione ad una coppia protagonistica in primo cast, ottima per Il matrimonio segreto. Che è anche lui un capolavoro assoluto e valeva la pena di proporre. Meglio una buona edizione di Matrimonio segreto che una periclitante di Puritani.
Scelta coraggiosa o, almeno, fuori dal coro deve quella torinese di proporre Thais, opera francese un po’ desueta, anche se non sconosciuta vista la proposizione a Venezia ed in alcuni teatri stranieri ove Renée Fleming è di casa. Però è una sorta di unicum, quasi che i teatri italiani siano assolutamente sodali nel dimenticare che esiste il repertorio francese. Va anche rilevato che anche senza ricorrere alla versione ed alle varianti di Sybil Sanderson, il ruolo protagonistico sia al di sopra delle qualità vocali esibite dalla signora Frittoli nell’ultima sua faticosa performance milanese.

Nelle scelte generali dei teatri italiani quindi le opere francesi latitano e stento a comprenderne il motivo, atteso che molti titoli del repertorio francese erano sino a trent’anni fa largamente diffusi e che, salvo poche eccezioni, non presentano le difficoltà di quello italiano.
Come pure è inspiegabile la limitatezza nel proporre il repertorio post verdiano. Mefistofele, Wally, Loreley, Gioconda sono divenute opere tabù unitamente a Mascagni e Giordano. E parliamo anche qui di titoli e di autori di larghissima diffusione. Rimane Puccini e la Lecouvreur, titolo che se non si dispone di una grande, rodata, sicura cantante attrice è meglio, per nostra opinione, lasciar perdere.
Nel chiedere questi titoli vuoi dell’opera francese, vuoi della stagione post verdiana è opportuno precisare che la loro riproposizione regolare serve solo ad adempiere, e lo avevamo già detto riferiti alla stagione scaligera, l’obbligo di proposizione della più vasta gamma (sia pur nell’esiguità dei sei – otto titoli di prassi) di titoli.

Poi, esaminando le stagioni anche negli autori più frequentati come Puccini la fantasia è ristretta. Boheme e Tosca imperano, addirittura in coppia a Firenze, solo Boheme a Torino. Il catalogo pucciniano non è sterminato, alcuni titoli sono difficili e costosi, come il Trittico, ma non ci si può sistematicamente limitare alla triade Boheme, Tosca, Butterfly, sull’esempio del Barbiere, Cenerentola, Italiana per Rossini.
Vero è che poi se guardiamo alle scelte di opere tedesche il rarissimo e particolare Vampyr è una sorta di rara avis in cartelloni che ignorano Weber, Wagner e Strass. In vena di nostalgia avrei voglia di un bel Lohengrin in italiano, magari con un Francesco Meli nel ruolo del titolo.

Gli ascolti

V. Bellini - I Puritani - Atto III - Nel mirarti un solo istante - Alfredo Kraus & Margherita Rinaldi

G. Puccini - La Bohème - Atto III - Donde lieta uscì - Bidù Sayao

R. Zandonai - Francesca da Rimini - Atto III - Paolo, datemi pace - Ilva Ligabue & Mirto Picchi

(1 - segue)

Read More...

giovedì 1 maggio 2008

Carmen a Firenze: La burletta di Siviglia

Ieri sera, prima di Carmen al Maggio Musicale Fiorentino con il seguente cast:

Carmen - Julia Gertseva
Don José - Marcelo Alvarez
Micaëla - Inva Mula
Escamillo - Ildebrando D'Arcangelo
Frasquita - Gemma Bertagnolli
Mercédès - Bracha Kol
Le Dancaïre - Alessandro Battiato
Le Remendado - Carlo Bosi
Zuniga - Maurizio Lo Piccolo
Moralès - Enrico Marrucci

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Maestro del coro - Piero Monti
Direttore - Zubin Mehta
Regia - Carlos Saura

Fin dal Preludio l'orchestra si rivela in tutta la pesantezza prescritta da Mehta. Il fracasso è peraltro assai disordinato (vedi le spernacchiate degli ottoni), anche se l'orchestra suona mediamente bene. Il direttore opta per tempi estremamente stringati, che gli crano non pochi problemi nei cori, nel quintetto del secondo atto, un po' ovunque nelle strette e soprattutto nel finale dell'opera. La notte, il mistero, la sensualità della Spagna fittizia immaginata da Bizet e dai suoi librettisti restano sulla carta (con quale pregiudizio per pagine come gli Entr'acte numero 1 e 2 è facile immaginare). La regia, finto-moderna con questi pannelli di plastica retroilluminati, è un clone dello zeffirellismo più becero, condito da caccole "moderne" tutte da gustare (nella folla del quarto atto fa capolino un cardinale tutto di rosso vestito scortato da un bimbo parato alla stessa maniera: un evidente omaggio ad Almodóvar).

Inva Mula, un sopranino di volume minimo, denuncia fin dal suo ingresso i danni di un'emissione aperta e verista, tanto da non riuscire a legare i suoni nel duettino con lo stinto Moralès di turno.
Dopo i cori di prammatica (pesante e metronomico quello dei fanciulli, assai stonatelli, e incolore e privo di sensualità quello di oziosi e sigaraie, peraltro con i tagli riaperti) entra Carmen: è Julia Gertseva, un soprano con la prima ottava aperta e soprattutto tubata che non sa che cosa sia il canto sul fiato, come dimostra il fallito tentativo di cantare piano, con civetteria, la seconda strofa dell'Habanera. La voce ci sarebbe anche, ma non c'è nessun accento, nessuna insinuazione à la opéra-comique e neppure la sensualità magari volgare delle Carmen all’italiana (sensualità che risiede semmai, per la signora, nel gesto anche troppo frequente di scoprire le gambe). In alto è piuttosto ballante e ingolata. Il tempo assai rapido, del resto, toglie sensualità al brano.
Nessuna carica demoniaca ha la riproposizione del tema "del destino" che prepara il lancio del fiore stregato.
Al duetto Alvarez attacca sgraziato: i suoni in zona centro-alta sono spinti grossi, la voce è inspessita ed inscurita, nessuno squillo, tante contrazioni di gola per salire in centro. Al “Tout cela, n’est–ce pas, mignonne” emette anche suoni buoni, in grazia della scrittura molto centrale. Quando sale - “Ma mère, je la vois” - si strozza miseramente, modello Carreras, e grida un “Souvenir chéri” che spiega il taglio di una buona metà del duetto (in sostanza la prima comparsa del motivo cantabile "Ma mère, je la vois": si passa quindi dal bacio di Micaëla alla frase "Qui sait de quel démom"... taglio filologico o pietoso rammendo per evitare al tenore una doppia, improba fatica?). La Mula grida o emette falsettini. Falsetti pure lui alla chiusa, con un poco di catarro in guisa di corona.
Clangori orchestrali da Wagner durante la rissa delle sigaraie (che sembrano piuttosto valchirie alquanto stridule e in affanno) e all'arresto di Carmen.
Carmen attacca i “Tra la la la” con suoni ora aperti ora ingolati e poitriné, sempre fibrosi: nessuna insinuazione, nessuna volgarità e ovviamente nessuna eleganza. Ogni tanti udiamo suoni degni della miglior scuola russa (Obratzsova). Zuniga non pervenuto.
Seguédille e finale: ancora suoni ingolati, aperti in basso, per una Carmen trasferita dalle rive del Guadalquivir a quelle della Moscova. In alto suona opaca e stimbrata, pessimi i tentativi di cantare piano "Je l’aimerai". Lui replica con un "Carmen, tu m'aimeras?" parimenti strozzato. Nessuna variazione o puntatura alla ripresa finale della Seguédille, eccezion fatta per i suoni nasali sul passaggio superiore.

Arrivati al secondo atto, dopo un preludio assai poco onirico, la Chanson bohémienne, staccata a tempo lento, non vede l'orchestra progredire dionisiacamente strofa per strofa così come previsto dalla partitura. Per Carmen il discorso non cambia: la tessitura bassa evidenzia suoni opachi. Non è insinuante e non è volgare. Sue degne comari le zingarelle: timbro e voci da comprimariato Frasquita e Mercedes. I "montait" della gitana sono uno più gridato dell’altro e l'acuto finale uno strillo. Assai greve la coda orchestrale.
L'assolo di Escamillo è una trombonata e Metha ci va a nozze, ma esagera. Ildebrando d’Arcangelo ha voce dura, stimbrata, bitumata al centro anche in un ruolo di baritono: in alto grida. Non gli riesce neppure l’attacco in piano di Toréador
Il “regarde”, un mi, è un urlo, "l'amour t'attend" praticamente parlato. Manca il cantante da opéra-comique dall’accento spaccone e di gran classe. Pesantissimo l’accompagnamento della ripresa. Pessima la stridula Frasquita.
Quintetto da comprimariato di bassa lega. Mercedes ha emissione sgangherata, Frasquita grida con voce bianca e tutti emettono suoni duri. Siccome le scritture sono elementari gradiremmo almeno un po’ di accento e colori. Tempo velocissimo, generalmente riservato alla ripetizione del quintetto, sfoggiato invece dal primo enunciato. Mehta deve essere convinto di stare dirigendo il Falstaff. Anche qui è pieno giorno su una assolata piazza di Siviglia. Carmen emette pianissimi stimbrati ed indietro.
La voce di Alvarez è bellissima in natura quando canta la canzone del Dragone d'Alcala. L’interprete non esiste: canta solo forte. Al primo acuto si strozza.
Carmen è nasale sulle note di passaggio. Canta piano la prima strofa poi ritorna in riva alla Moscova con difficoltà di legato e diffusa piattezza (non differenzia i vari “La la la”). Quando la scrittura richiede un po’ di mordente, grida. Lui è piattissimo, incapace di rendere il senso di quel che canta.
Arrivati al Fiore l'attacco è incerto, i suoni indietro, aperti ed opachi nel tentativo di addolcire il canto. Nella sezione centrale declama, al "seul désir" sono urla scomposte, il legato è avventuroso e frammentario. Al “Ma Carmen” compare il singhiozzo. Calante e urlato il si bem che l'autore avrebbe voluto in pianissimo.
Anche scenicamente il buon Marcelo si adegua ai canoni vigenti: il lancio della seggiola è da manuale.
In finale d'atto lei emette suoni in basso da riva della Moscova: compare un falsettino maschile alla chiusa della sezione "a due". Poi cominciano a cantare Sansone e Dalila senza, ovvio, la grandeur dell’opera di Saint-Saëns. All'arrivo degli zingari nessuna ironia, l’orchestra pesta. Pesantissimo il concertato condito dalle urla di Frasquita.

L’introduzione al terzo atto non ha la necessaria atmosfera notturna e la levità che pur nel mistero deve possedere la scena per non sembrare un clone delle scene di congiura tipo Ugonotti.
Nella scena delle carte è difficile dire chi delle due zingarelle sia la più scalcinata, stimbrata, urlante. Carmen crede di cantare la profezia di Marfa, suoni di petto e nasali del miglior pessimo gusto. Con tanti saluti al ritorno a quanto previsto dell'autore. Scontata la piattezza dell'interpretazione.
Rientra in campo la Mula e sfoggia voce da megera, dura in prima ottava, un po’ meglio in alto dove le sonorità risultano però attutite. Nella sezione centrale espone impietosamente suoni non sostenuti. Il si naturale è spinto e forzato, i fiati assai corti. Quando i soprani non eseguono correttamente il primo passaggio cantano come Inva Mula, e le filature si spezzano. Nonostante tutto la signora guadagna il primo vero applauso della serata.
Al duetto con José, Escamillo vuole dimostrare di non essere da meno del rivale e lo imita nel vociare. Resta il fatto che Alvarez ha il doppio della voce. Un la naturale di Alvarez è un suonaccio stimbrato in chiusa della sfida. Gli acuti di d’Arcangelo sono sistematicamente “indietro”, quelli di Alvarez duri e spinti e la scrittura centrale acuisce il vizio del cantare aperto a centro. Anche qui megataglio di tradizione (tutta la sezione centrale, in cui Escamillo atterra il rivale e gli risparmia la vita prima del secondo assalto: viva la filologia).
In chiusura d'atto la Mula stenta nel “Moi je viens te chercher”, non lega i suoni e gli acuti sono ghermiti e le cose non vanno certo meglio a “Une parole encore”. Alvarez scade al più bieco parlato verista alle ultime battute: man mano che l'opera si allontana dal modello dell'opéra-comique e tende al "vero", i cantanti scivolano o meglio si buttano a capofitto verso la retorica di stampo verista.

Quarto atto: preludio e coro d'introduzione fragorosi, ma per una volta è quello che richiede la circostanza. Resta il fatto che entrano i toreri e non i Maestri cantori. L'emissione assai plebea dei cantanti rende impossibile la giusta e opportuna civetteria del duettino Escamillo/Carmen.
Al duetto finale lui è gemebondo all’inizio poi comincia a schiumar rabbia e allora grida, bercia, vocifera, il tutto a maggior gloria dell'opéra-comique, mentre lei passa con acuti gridati e calanti, suoni bassi tubati e alla fine autentici schiamazzi da cortile. Con simili cantanti, il finale tragico assume il sapore di una comica finale, specie quando Alvarez, gettata a terra Carmen, le si avvinghia quasi a mimare un amplesso more ferarum. Entrambi i contendenti arrochiscono sensibilmente, tanto che il tema del Toréador esposto dal coro fuori scena appare per contrasto un celeste canto di purificazione. Finale veramente da Politeama Garibaldi, che il pubblico fiorentino accoglie con battimani e grida di giubilo, a dimostrazione del fatto che il malcanto continuerà a imperare nei nostri teatri finché ci sarà un pubblico che così apertamente lo ama, lo brama e lo reclama.

E ora, qualche Carmen per rifarci la bocca:

Atto I
Habanera - Emma Calvé
Parle-moi da ma mère - Veriano Luchetti & Mirella Freni

Atto II
Les tringles des sistres tintaient - Shirley Verrett, Marilyn Horne
Votre toast je peux vous le rendre - Samuel Ramey
La fleur que tu m'avais jetée - Giovanni Martinelli

Atto III
Terzetto delle carte - Christa Ludwig (con Lucia Popp e Margarita Lilowa)

Atto IV
Mais moi, Carmen, je t'aime encore - Giovanni Martinelli & Geraldine Farrar

Read More...