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lunedì 1 febbraio 2010

Puritani alla Staatsoper di Vienna

Vienna s’inginocchia al cospetto di Edita Gruberova, tributandole al termine della recita un autentico trionfo “old style”, con tanto di lancio di bouquet, striscioni inneggianti alla “voce soave” della cantante e più di dieci minuti di applausi, che si sommano a quelli a scena aperta raccolti dopo l’Ah vieni al tempio, la scena della pazzia e il duetto con il tenore. Trionfo scontato, si potrà dire, per la prossimità geografica rispetto alla città natale della diva e, più ancora, per il rapporto pluridecennale e davvero storico con il teatro viennese, che contende al Liceu di Barcelona il titolo di feudo supremo della Gruberova. Per essere chiari e netti, la Staatsoper è anche, sempre assieme al Liceu, il solo teatro in cui la signora possa, oggi, affrontare un titolo del repertorio belcantista senza suscitare, oltre alla doverosa ammirazione per le sue vitalissime 63 primavere, qualche giustificata perplessità.

Fin dalle prime battute, con l’inno dietro le quinte, la Gruberova ci ricorda che sa ancora dove e come mettere la voce, alta di posizione, proiettatissima, dal timbro cristallino e senza tracce di senescenza. Il duetto con lo zio mette però in evidenzia un’ottava bassa notevolmente meno sonora di quanto ricordassimo, l’incapacità di eseguire le agilità di forza nel tempo di attacco e la fatica ad esempio nelle scale discendenti su “in quell’istante di dolor” e nei trilli su “morirò”. Il sovracuto interpolato al termine della scena con Giorgio è attaccato stonato, poi la cantante riesce ad “aggiustarlo” in corsa, procedimento peraltro per lei abituale, ma che stavolta è più evidentemente percepibile che in passato. Identici limiti, sia pure smorzati dal contesto, decisamente più incline al grazioso, presenta la polacca, peraltro eseguita in versione ridotta e passata senza un solo applauso.
La diva si prende la rivincita nel finale del primo atto, col quale dimostra che, almeno nel canto spianato, teme oggi ben poche rivali, se non fra le coetanee. Prodigiosa la capacità di smorzare i suoni, massime in alto, e di risultare, anche e soprattutto nei pianissimi, brillante e sonora. Per inciso il soprano acquista punti quando canta a mezzavoce, perché a voce piena i suoni risultano non di rado spinti e un poco striduli, come ad esempio avviene nelle puntature di tradizione dell’Ah vieni al tempio.
Cantabile della pazzia: in prima ottava i suoni sono gonfi e tubati e l’interprete alquanto manierata, ma non appena la tessitura sale, la signora dimostra che sa ancora che cosa siano le messe di voce (una bellissima anche nel primo atto, sul la naturale acuto durante la sortita di Arturo). Bene anche la cabaletta, le cui variazioni, decisamente “antiche” per gusto e quantità, richiedono alla cantante vistose e udibili riprese di fiato, che però il soprano gestisce al meglio, controllando la colonna d’aria con invidiabile sicurezza. La precisione delle agilità manda in visibilio il pubblico, anche se in scena non c’è Elvira, ma semmai la Fiakermilli travestita da Elvira.
La stanchezza si fa sentire nel terzo atto, in cui la voce risulta meno sonora (se non nel sovracuto interpolato nel duetto, peraltro calante) e anche l’interprete appare in affanno, anche se il taglio di una parte della stretta del duetto le permette una più celere conclusione dello stesso. Per inciso non è stata eseguita la cabaletta Ah sento o mio bell’angiolo, tradizionale Bravour-Szene delle Elvire grandi virtuose del post Sutherland. Ciò premesso, e pur auspicando che questi siano gli ultimi Puritani della signora (anche perché il motto "meglio rimpianti che compianti" vale anche per lei), non possiamo fare a meno di ammirare, ancora una volta, la tenuta di una cantante che in età matura e alle prese con un repertorio in cui non ha mai brillato, neppure in anni più felici (perché la sua Elvira e la sua Lucia, per tacere di esperimenti più arditi, non sono neppure paragonabili alla sua Zerbinetta), impartisce, con tutti i limiti del caso, una lezione di canto. E mai come oggi ne avvertiamo il bisogno!
Il successo della Gruberova è stato condiviso dal suo Arturo, Shalva Mukeria, che ha avuto il merito di non sfigurare non solo al cospetto della collega, ma soprattutto rispetto al ruolo, uno dei più esigenti del Belcanto. Anche la voce di Mukeria è brillante e sonora, e come per la Gruberova non si tratta di eccezionale dote di natura, ma di grande controllo tecnico, anche questo davvero “vecchia scuola”. La voce è argentina, squillante sugli acuti e i sovracuti, meno sonora nei gravi, che però Mukeria non forza mai, cantando in modo estremamente dolce e morbido. Ne risulta un personaggio idealizzato (come non possono non esserlo quelli di questo repertorio!), tenero e sognante nell’A te o cara (dopo le prime battute un poco incerte, per così dire “di assestamento”, è mirabile la facilità con cui il cantante prende e tiene il do diesis e lo lega alla successiva scaletta discendente), eroico nel riconoscimento della Regina e baldanzoso alla sfida (magnificamente scandite le quartine e terzine vocalizzate) ma sempre elegante e nobile.
Il punto di forza di questo Arturo, come già a Toulon, è il terzo atto. La canzone del trovatore (purtroppo eseguita con un taglio nella sezione conclusiva della prima strofa) è malinconica quanto varia nell’accento e nei colori, mentre nel recitativo che la precede il tenore sostiene con grande naturalezza la tessitura per nulla comoda, rendendo bene l’emozione e lo sgomento del personaggio. Sacrosanto applauso a scena aperta al termine della scena. Anche al duetto Mukeria ci rammenta che cantare bene e interpretare non sono alternative, ma causa ed effetto: il pianissimo su “Fur tre mesi” trasmette l’ansia, l’affetto e i sensi di colpa dell’amante fuggitivo più di mille trovate pseudointerpretative. Al Credeasi misera il canto di Arturo si fa tragico, ma questa tragedia si esprime, come fa Mukeria, dominando con spavalderia l’ostica scrittura, squillando quasi con protervia sul la bemolle e re bemolle e smorzando le ultime frasi, quasi che Arturo le ripetesse fra sé. Altri poi si lagneranno della mancanza del fa sovracuto. Come se una nota, magari emessa di strozza, potesse aggiungere qualcosa a un brano già così diabolicamente difficile. Grandi e meritati applausi anche a questa pagina che, con la soppressione della cabaletta finale, conclude di fatto la serata.
Poi ci si può magari interrogare sul perché il primo atto non sia affrontato con la stessa irruenza del terzo, anche se quella che è verosimilmente una scelta di prudente e oculata amministrazione delle forze vocali è anche funzionale alla costruzione del personaggio, che cresce nel corso della serata fino al vertice dell’ultimo assolo. Ma se richiamiamo alla memoria gli Arturi stanziali o sporadici del presente e del recente passato, il tenore georgiano si colloca agilmente in cima alla classifica. Come per la Gruberova, il segreto si chiama grande preparazione tecnica, cura della propria voce, amore e rispetto per la musica e per il pubblico.
Boaz Daniel (Riccardo), fattosi annunciare indisposto, ha cantato con buona voce, assai chiara e abbastanza grande, però molto rigida e compressa, specie dopo che la puntatura alla fine del cantabile dell’aria, risoltasi in un suono piuttosto rauco, ha provocato un mormorio di disappunto fra il pubblico. Alla sfida gli è mancato lo squillo dell’innamorato vendicativo, ma ha ben figurato nel duetto in chiusa del secondo atto. Christof Fischesser, Giorgio slaveggiante nell’emissione, ha risolto discretamente il Cinta di fiori (più per le encomiabili buone intenzioni di fraseggio che per il risultato vocale, un poco ingolfato) ed è stato funzionale nel resto dell’opera. Se non altro la voce è di vero basso, e con l’abbondanza di tenori mancati, anche e soprattutto di provenienza belcantista, cui attualmente è affidato il ruolo dello zio di Elvira, non è cosa da poco.
Pesante e priva di nerbo la direzione di Latham-König. Se non altro ha avuto il merito di non ostacolare le voci, staccando ad esempio nel terzo atto tempi ragionevolmente rapidi e non inutilmente dilatati, come invece fanno certi astri nascenti della bacchetta, le cui nozioni in questo repertorio si limitano a qualche peregrina osservazione sui pregi di Bellini come strumentatore (!).
Messinscena “alla tedesca”, probabilmente all’origine di alcuni tagli piuttosto discutibili (fra cui spicca quello del coro Garzon che mira Elvira, evidentemente ritenuto troppo frivolo). Costumi quasi classici (ma gli ufficiali puritani sono vestiti da preti con soprammessa armatura, più da Templari che da calvinisti inglesi), la scena uno show-room con poltroncine minimaliste, qualche polveroso simbolo (una serie di teste mozze, una foresta di lampade su un pavimento di foglie morte) e poco altro.



La locandina

Lord Gualtiero Valton - Janusz Monarcha
Sir Giorgio - Christof Fischesser
Lord Arturo Talbo - Shalva Mukeria
Sir Riccardo Forth - Boaz Daniel
Sir Bruno Roberton - Benedikt Kobel
Enrichetta di Francia - Zoryana Kushpler
Elvira - Edita Gruberova

Direttore - Jan Latham-König
Maestro del coro - Martin Schebesta

Orchestra e Coro dell'Opera di Stato di Vienna

Regia - John Dew
Scene - Heinz Balthes
Costumi - José Manuel Vásquez

Wiener Staatsoper, 30 Gennaio 2010



Gli ascolti

Bellini - I Puritani


Atto II

Qui la voce sua soave...Vien diletto, è in ciel la luna - Marcella Sembrich (1907)

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