
Per contro quando partì la campagna di liricizzazione era normale che i massimi teatri proponessero con assoluta regolarità il titolo di Verdi, che fama metaoperistica designa con appellativi tipo “la malefica”, “l’opera mai scritta” e, sopra tutti “la maledetta”.
Al momento in cui la campagna venne lanciata e sostenuta il Verdi lirico parve la salvezza perché si riteneva coincidesse con esecuzioni assolutamente rispettose delle dinamiche di spartito di cui – e mi limito alla corda di soprano- soprananoni e sopranacci tipo Cigna, Caniglia, Milanov e Scacciati, complici direttori di bieca ispirazione toscaniniana avevano fatto scempio.
In questa campagna, intorno al 1968, in una tavola rotonda sulla rivista delle edizioni ERI dedicata a Maria Callas, Rodolfo Celletti indicò in Montserrat Caballé il soprano verdiano del futuro. All’epoca la señora aveva affrontato in teatro il solo Don Carlos e registrato o eseguito in concerto le arie(ovvero i passi elegiaci e sognanti) di Aida, Forza e Ballo.
In teatro la señora approdò al titolo verdiano solo nel 1978 e, decorso un decennio, la recensione di Rodolfo Celletti su Discoteca fu alquanto diversa rispetto agli auspici di dieci anni prima.
Anticipo la conclusione: delle tre Leonore di Vargas oggi esaminate la Caballé è spartito alla mano, tradizione interpretativa nell’orecchio, attenzione ai principi del canto professionale quella più censurabile e discutibile. Poi se qualcuno riesce a convincere che i segni di espressione sono optional, che la tecnica di canto del Garcia, piuttosto che del Lamperti sono invenzioni dei “grissini”, come, con affettuoso disprezzo, ci chiamano, altrove, la “claudiette”, possiamo, anche, proclamare Moneserrat Caballé la più completa Leonora di Vargas mai esistita e coerentemente godere delle attuali, che, una esclusa, ad altro non repertorio, ma mestiere potrebbero con identica coerenza dedicarsi.
E preciso che per omaggio alla memoria artistica dell’illustre cantante catalana è proposto l’ascolto della prima Leonora, ossia la scaligera. Solo che si esamini quella successiva di un semestre, eseguita in Barcellona, i vizi e vezzi sono cresciuti, il canto professionale diminuito, l’interpretazione sempre più approssimata e casuale.
Se vogliamo i conti sulla prestazione della divina Montsita sono presto fatti. In una parte di soprano Falcon la Caballé emette suoni aperti e sgangherati dal do centrale al si nat sotto il rigo. Per la precisione l’inconveniente emerge sin dal recitativo iniziale “estremo asil questo è per me” con esemplare suono di petto senza appoggio in “son giun-ta” trattasi di un mi 3. Idem in “la mia orrenda storia è nota in quell’albergo” di fatto una omofonia. Per completezza suoni sopra il mi4 sono sistematicamente gridati vedasi “son giunta” iniziale.
All’aria “Madre pietosa Vergine” passo nella prima sezione assolutamente patetico proprio la regina dei piani e dei pianissimi risulta assolutamente monotona e piatta. Non serve neppure saper leggere la musica per accorgersi che le forcelle di cui è disseminata la parte non vengono rispettate. L’aria è eseguita perennemente sul mezzo forte e con un tempo anche piuttosto sostenuto. Montserrat Caballé anzi dinanzi alla forcella di “dal core a cancellare” esegue un piano anzichè quanto previsto in spartito. Arrivata alla sezione seconda dell’aria i vari “deh non m’abbandonar” a parte qualche suggestivo piano in zona centrale (do4 mi 4) emette suoni sopra duri e stridenti (vedasi il si bem del primo “deh non m’abbandor), parla sulle battute “a quei sublimi cantici” dando il saggio del suono privo di appoggio e il si nat grave “di calma” non si sa bene come sia collocato. Siccome al “non mi lasciar soccorrimi” Verdi prevede con più forza la Caballé piazza il solito piano, che sul re centrale, le riesce splendido in compenso il “deh non m’abbandonare” dell’ultima invocazione rende Gina Cigna e la Caniglia due forbite vocaliste. Trattasi di un banale fa# 3! Forse non tanto banale perché a rigore su quella nota cade il primo, delicatissimo passaggio della voce femminile! Certo il passaggio do diesis-si centrale del “pietà signor” conclusivo in pianino è suggestivo. Il peso specifico è quello di un soprano da Mimì. E non lo dice solo il povero Domenico Donzelli, ma Giacomo Lauri Volpi, che Mimì e non Verdi fosse il repertorio per grande soprano catalano.
Il pubblico scaligero decreta un autentica ovazione all’idolatrato soprano catalano.
Se vogliamo andare avanti tutte le battute di “conversazione” (salvo il “per carità”) con Melitone dove abbiamo sentito una agitata Stella, una solenne e nobilissima Cerquetti, una nevrotica Kabaiwaska passano via senza nessuna illuminazione e finalmente arriva il padre Guardiano. Padre Guardiano, che vocalmente è il voluminoso rimasuglio di Nicolai Ghiaurov, già Padre Guardiano della Leonora de Vargas di Ilva Ligabue.
Siamo sempre alle solite le esigenze drammatiche, la scrittura vocale da Falcon della sezione “Infelice, delusa” danno luogo a suoni poco appoggiati e prossimi al parlato se collocati sotto il do centrale. Le cose, ossia i suoni sono di miglior qualità e collocazione nella sezione” più tranquilla l’alma sento” che sarebbe lirica, salvo poi arrivare all’urlo del si nat del ”la sua figlia a maledir”, dove non è rispettata la forcella e il si nat è sparato (urlato!) e non legato alla frase come da spartito. Alla frasetta “darmi a Dio” la Caballé si ricorda di interpretare ed esegue una smorzatura sul si nat 4 di “Dio”. Scelta comune ad esempio a Rita Orlandi-Malaspina. Certo che con l’emissione precaria sul primo passaggio la Caballé non è in grado di rispettare l’indicazione di “dolcissimo” alla ripresa di “ah tranquilla l’alma sento”. Il secondo si nat è il degno compagno del primo e le varie indicazioni di crescendo restano una pia indicazione. Siccome l’andante mosso “se voi cacciate” ripete scrittura ed esigenze drammatiche dell’iniziale “infelice delusa” l’esecuzione presenta gli stessi difetti, salvo il rispetto dell’indicazione” sottovoce” di “salvati all’ombra”. La stanchezza ed il peso della parte inducono al Caballé persino ad artefazioni di dizione di marca verista; voi trasformato in “vai”. Inutile sottolineare che il filato di “mi toglierà” sul passaggio discendente sol fa si rompe.
La liricizzazione di Verdi, ossia il far quel che si può quando si dispone della voce –splendida- di Mimì da i suoi frutti alla sezione conclusiva dove la Caballé attacca dolce, ispirata e pucciniana le prime frasi, poi, priva dell’ampiezza e del vigore che Verdi richiede emette suoni spinti e duri a partire dal fa acuto. Tralasciamo il bercio finale. Per il sollievo dei fans del soprano catalano (fra i quali per altri titoli posso anche far parte) l’esecuzione della “vergine degli angeli” la cui nota più acuta è un sol è dolcissima, morbidissima e trasfigurata. Insomma due minuti di Montserrat hoc nomine digna!
Morale: la liricizzazione di Verdi è uno specchio per allodole o meglio un equivoco in cui perfino un critico come Rodolfo Celletti è caduto. Equivoco perché Verdi indica segni di dinamica e questi devono essere rispettati, magari amplificati, ma l’orchestrale, la zona in cui la scrittura vocale gravita non sono quelli che competeranno (e mi limito alla corda di soprano) qualche anno dopo a Mimì o Manon. Il pianissimo e più in generale la dinamica di Montserrat Caballé era, almeno sino al 1975 splendida e suggettiva, ma applicato ad altri autori. In Verdi la dimanica ed il peso vocale esatti sono quelli, che tramandano i 78 giri di una Arangi-Lombardi, di una Raisa, di Frida Leider o Rosa Ponselle. E per completezza non si tiri in ballo Claudia Muzio. Mi spiace, ma nella zona medio grave della voce, nonostante qualche suono un po’ aperto la divina Claudia aveva ben altra saldezza e cognizione.

La Orlandi-Malaspina aveva un’autentica voce di soprano lirico drammatico e guardava, come modelli interpretativi, alla Tebaldi o alla Cerquetti. Certamente con una maggior solidità nella zona acuta della voce. Per essere chiari i si nat che la parte prevede sono tutti facili, sonori e squillanti ed a conferma che si trattasse della voce di un vero soprano di forza nessuno degli attacchi sul do grave o addirittura sul si nat presenza opacità ed insicurezza. Poi possiamo anche ritenere che la cantante raramente esca da consolidati binari interpretativi per assurgere, appunto, al rango di interprete. Verissimo, ma all’ingresso l’Orlandi-Malaspina anche su frasi scabrose come “del sangue di mio padre” può essere genericamente concitata, ma salda vocalmente e alla fine del recitativo, senza effettacci il morendo di “tanta ambascia” è rispettato alla lettera e con la poderosa voce del soprano cosiddetto di forza. Nell’aria con un tempo piuttosto sostenuto è assai più ligia alle indicazioni di spartito di quanto non faccia la Caballé a partire da buona parte delle forcelle previste (“perdona al mio peccato”, “m’aita quell’ingrato”) ed arrivata al “pietà Signor” che chiude la prima sezione dell’aria esegue, come molti altri soprani, la smorzatura di tradizione sia pure con un suono non bellissimo. Il rispetto delle forcelle previste al “deh non m’abbandonar” rende l’indicazione ‘con passione’ di Verdi; del pari il timbro sontuoso aiuta moltissimo a rendere frasi come “inspirano quest’anima”, ”il pio frate accoglierti” presagio della prossima confessione e conversione della nobile penitente. Timbro sontuoso, appunto, e adeguatezza della voce alla scrittura vocale sono al servizio di una facile chiusa dell’aria. Nelle battute di conversazione con fra’ Melitone Rita Orlandi-Malaspina sfoggi anche un paio di uscite da vera fraseggiatrice, soprattutto per virtù di mezzo vocale. Mi riferisco alle frasi “mi manda il padre Cleto” e “un’infelice” dette con accento mite e dolce, che fanno da contrapposizione alle prime del duetto con il Guardiano, dove il soprano è, invece e giustamente, agitato. E una specie di agitazione interna sembra essere la caratteristica dell’incipit “Infelice, delusa”. Ogni tanto appare qualche accento un poco enfatico (“fremete”), ma siamo dinanzi ad una Leonora nobile e pentita al tempo stesso, che emette con facilità i due si nat della “figlia maledir” (per esattezza più il secondo del primo). Nella seconda drammatica sezione del duetto “Se voi scacciate” compaiono molto suggestivi rallentando su “fin le belve” e sul successivo “chi tal conforto mi toglierà” per contro l’intonazione di alcune frasi come “ah si dal cielo” non è, almeno dalla registrazione, perfetta, come pure la realizzazione del morendo su “mi toglierà” non è esemplare.
Non ho dubbi a rilevare come nella sezione conclusiva del duetto “tua grazia” più che racconsolata, come indica lo spartito dalla confessione e dall’incipiente penitenza, questa Leonora è ben salda e certa nella propria fede e un si naturale alla chiusa è un po’ tirato. Erano questi i vizi e vezzi contro cui la liricizzazione di Verdi si spendeva ed adoperava? Per completezza il duetto viene eseguito con il taglio di tradizione alle battute conclusive. Quanto alla sezione conclusiva della scena della vestizione, allorquando Leonora, dopo il coro maschile eleva la propria voce ripetendo “la vergine degli angeli” possiamo anche ritenere che Rita Orlandi-Malaspina non abbia il timbro serico e sublimato della Caballé, ma siamo sempre alle stesse ossia trattasi di Leonora di Vargas e non già di Manon Lescaut che prega a Saint-Sulpice.

La Ligabue non era, per i canoni del tempo, un soprano drammatico. Aveva, però una voce veramente bella, femminile, sontuosa, ampia ed una tecnica, che le consentiva di primeggiare non solo in Verdi, fosse il tardo o il primo (Elvira di Ernani ed Amalia dei Masnadieri) ma anche in Mozart e di reggere senza sforzo scritture massacranti come Francesca da Rimini. Oggi sarebbe una star assoluta anche perché l’interprete era specie in Verdi di prim’ordine. Basta sentire l’arrivo al convento della Madonna degli Angeli. Leonora è giustamente agitata e nervosa, sostenuta da un tempo veloce, che le evita le insidie del declamato in zona medio bassa e le consente, per contro, di sfoggiare un si naturale facile e sonoro e di rispettare ed esaltare l’indicazione “morendo” alla chiusa del recitativo. Anche il tempo dell’aria è molto sostenuto, comodo per un soprano di buona, ma non eccezionale potenza. E qui la Ligabue è esemplare all’attacco perché il timbro, l’accento, pur nel tempo sostenuto, rendono il senso del ‘come un lamento’ previsto da Verdi e allora in quest’ottica si può anche accettare e condividere che il soprano reggiano sul “dal core a cancellar” passi dal forte al piano, pur contravvenendo l’indicazione dell’autore. Indicazione “con passione” per i “deh non abbandonar”: la Ligabue, credo complice Gavazzeni, esprime la passione mediante un canto raccolto e sonorità, almeno all’inizio, controllate. In questo modo l’effetto previsto è reso in maniera soddisfacente, inoltre gli acuti sono facili e saldi. Un soprano come la Ligabue, naturalmente, punta moltissimo alla facilità e lucentezza della zona acuta, moderandosi in quella grave. Tanto è che la Ligabue è veramente travolgente nella realizzazione della forcella “il pio frate accoglierti etc” posta in una zona privilegiata della voce e, in generale nella sezione conclusiva dell’aria che sollecita la zona medio alta della voce. Sentire gli applausi convinti del pubblico.
Remissiva e spaventata, già penitente è la Ligabue nelle prime battute del duetto con il Padre Guardiano (sempre Ghiaurov allora, per virtù naturale, integro). Anche se non esprimesse nulla nell’”infelice delusa rejetta” e nel seguente “più tranquilla” la Ligabue dovrebbe essere proposta come modello assoluto di canto di scuola in zona pericolose come quelle medio gravi della voce femminile. Prova quando arriva il si nat la nota è facilissima e squillante, senza alcun segno di sforzo. Per la precisione sia la prima che la seconda volta.
In realtà Ilva Ligabue in questa sezione della scena rappresenta, a mio avviso, un vero paradigma di quello che dovrebbe essere il canto verdiano, per sicurezza e solidità, da un lato, e capacità di esprimere i forti sentimenti di cui la penitente nobildonna spagnola è raffigurazione. Se poi dobbiamo compiacerci di suoni belli basta sentire quelli che Ilva Ligabue emette sul sol acuto di “toglierà” alla chiusa del duetto con il Padre Guardiano. Il bello è che questo bel suono non è solo edonismo ed esibizione vocale: diventa anche interpretazione. Con buona pace di chi blatera sul termine interpretare, un suono dolce, morbido è la rappresentazione del canto dell’anima purificata e redenta. Almeno secondo l’immaginario popolare e, quindi, verdiano! Ancora applausi dal pubblico scaligero, allora non ancora rieducato con massicce dosi di opera ceca e di teatro di regia, ma in grado di accogliere ed apprezzare il vero canto all’italiana.
Buon ascolto! Dimenticavo: la Ligabue è splendida nella Vergine degli angeli.
Gli ascolti
Verdi - La forza del destino
Atto II
Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli
1965 - Ilva Ligabue (con Nicolai Ghiaurov & Renato Capecchi - dir. Gianandrea Gavazzeni - Milano, Teatro alla Scala)
1970 - Rita Orlandi-Malaspina (con Bonaldo Giaiotti & Alfredo Mariotti - dir. Paolo Peloso - Genova)
1978 - Montserrat Caballé (con Nicolai Ghiaurov & Sesto Bruscantini - dir. Giuseppe Patanè - Milano, Teatro alla Scala)