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venerdì 8 gennaio 2010

Mese verdiano XVIII - Son giunta! Settima puntata: Montserrat Caballé, Rita Orlandi-Malaspina e Ilva Ligabue

Alla fine degli anni’60 partì la campagna di liricizzazione di Verdi. Ed in questo, complice von Karajan e l’intensa campagna pubblicitaria, che circondava il famoso direttore, Verdi si trovò ancora una volta in compagnia del coetaneo e rivale Wagner. Oggi Verdi e Wagner sono più che mai in coppia nell’assoluta impossibilità di allestire decentemente un titolo del loro catalogo.

Per contro quando partì la campagna di liricizzazione era normale che i massimi teatri proponessero con assoluta regolarità il titolo di Verdi, che fama metaoperistica designa con appellativi tipo “la malefica”, “l’opera mai scritta” e, sopra tutti “la maledetta”.
Al momento in cui la campagna venne lanciata e sostenuta il Verdi lirico parve la salvezza perché si riteneva coincidesse con esecuzioni assolutamente rispettose delle dinamiche di spartito di cui – e mi limito alla corda di soprano- soprananoni e sopranacci tipo Cigna, Caniglia, Milanov e Scacciati, complici direttori di bieca ispirazione toscaniniana avevano fatto scempio.
In questa campagna, intorno al 1968, in una tavola rotonda sulla rivista delle edizioni ERI dedicata a Maria Callas, Rodolfo Celletti indicò in Montserrat Caballé il soprano verdiano del futuro. All’epoca la señora aveva affrontato in teatro il solo Don Carlos e registrato o eseguito in concerto le arie(ovvero i passi elegiaci e sognanti) di Aida, Forza e Ballo.
In teatro la señora approdò al titolo verdiano solo nel 1978 e, decorso un decennio, la recensione di Rodolfo Celletti su Discoteca fu alquanto diversa rispetto agli auspici di dieci anni prima.
Anticipo la conclusione: delle tre Leonore di Vargas oggi esaminate la Caballé è spartito alla mano, tradizione interpretativa nell’orecchio, attenzione ai principi del canto professionale quella più censurabile e discutibile. Poi se qualcuno riesce a convincere che i segni di espressione sono optional, che la tecnica di canto del Garcia, piuttosto che del Lamperti sono invenzioni dei “grissini”, come, con affettuoso disprezzo, ci chiamano, altrove, la “claudiette”, possiamo, anche, proclamare Moneserrat Caballé la più completa Leonora di Vargas mai esistita e coerentemente godere delle attuali, che, una esclusa, ad altro non repertorio, ma mestiere potrebbero con identica coerenza dedicarsi.
E preciso che per omaggio alla memoria artistica dell’illustre cantante catalana è proposto l’ascolto della prima Leonora, ossia la scaligera. Solo che si esamini quella successiva di un semestre, eseguita in Barcellona, i vizi e vezzi sono cresciuti, il canto professionale diminuito, l’interpretazione sempre più approssimata e casuale.
Se vogliamo i conti sulla prestazione della divina Montsita sono presto fatti. In una parte di soprano Falcon la Caballé emette suoni aperti e sgangherati dal do centrale al si nat sotto il rigo. Per la precisione l’inconveniente emerge sin dal recitativo iniziale “estremo asil questo è per me” con esemplare suono di petto senza appoggio in “son giun-ta” trattasi di un mi 3. Idem in “la mia orrenda storia è nota in quell’albergo” di fatto una omofonia. Per completezza suoni sopra il mi4 sono sistematicamente gridati vedasi “son giunta” iniziale.
All’aria “Madre pietosa Vergine” passo nella prima sezione assolutamente patetico proprio la regina dei piani e dei pianissimi risulta assolutamente monotona e piatta. Non serve neppure saper leggere la musica per accorgersi che le forcelle di cui è disseminata la parte non vengono rispettate. L’aria è eseguita perennemente sul mezzo forte e con un tempo anche piuttosto sostenuto. Montserrat Caballé anzi dinanzi alla forcella di “dal core a cancellare” esegue un piano anzichè quanto previsto in spartito. Arrivata alla sezione seconda dell’aria i vari “deh non m’abbandonar” a parte qualche suggestivo piano in zona centrale (do4 mi 4) emette suoni sopra duri e stridenti (vedasi il si bem del primo “deh non m’abbandor), parla sulle battute “a quei sublimi cantici” dando il saggio del suono privo di appoggio e il si nat grave “di calma” non si sa bene come sia collocato. Siccome al “non mi lasciar soccorrimi” Verdi prevede con più forza la Caballé piazza il solito piano, che sul re centrale, le riesce splendido in compenso il “deh non m’abbandonare” dell’ultima invocazione rende Gina Cigna e la Caniglia due forbite vocaliste. Trattasi di un banale fa# 3! Forse non tanto banale perché a rigore su quella nota cade il primo, delicatissimo passaggio della voce femminile! Certo il passaggio do diesis-si centrale del “pietà signor” conclusivo in pianino è suggestivo. Il peso specifico è quello di un soprano da Mimì. E non lo dice solo il povero Domenico Donzelli, ma Giacomo Lauri Volpi, che Mimì e non Verdi fosse il repertorio per grande soprano catalano.
Il pubblico scaligero decreta un autentica ovazione all’idolatrato soprano catalano.
Se vogliamo andare avanti tutte le battute di “conversazione” (salvo il “per carità”) con Melitone dove abbiamo sentito una agitata Stella, una solenne e nobilissima Cerquetti, una nevrotica Kabaiwaska passano via senza nessuna illuminazione e finalmente arriva il padre Guardiano. Padre Guardiano, che vocalmente è il voluminoso rimasuglio di Nicolai Ghiaurov, già Padre Guardiano della Leonora de Vargas di Ilva Ligabue.
Siamo sempre alle solite le esigenze drammatiche, la scrittura vocale da Falcon della sezione “Infelice, delusa” danno luogo a suoni poco appoggiati e prossimi al parlato se collocati sotto il do centrale. Le cose, ossia i suoni sono di miglior qualità e collocazione nella sezione” più tranquilla l’alma sento” che sarebbe lirica, salvo poi arrivare all’urlo del si nat del ”la sua figlia a maledir”, dove non è rispettata la forcella e il si nat è sparato (urlato!) e non legato alla frase come da spartito. Alla frasetta “darmi a Dio” la Caballé si ricorda di interpretare ed esegue una smorzatura sul si nat 4 di “Dio”. Scelta comune ad esempio a Rita Orlandi-Malaspina. Certo che con l’emissione precaria sul primo passaggio la Caballé non è in grado di rispettare l’indicazione di “dolcissimo” alla ripresa di “ah tranquilla l’alma sento”. Il secondo si nat è il degno compagno del primo e le varie indicazioni di crescendo restano una pia indicazione. Siccome l’andante mosso “se voi cacciate” ripete scrittura ed esigenze drammatiche dell’iniziale “infelice delusa” l’esecuzione presenta gli stessi difetti, salvo il rispetto dell’indicazione” sottovoce” di “salvati all’ombra”. La stanchezza ed il peso della parte inducono al Caballé persino ad artefazioni di dizione di marca verista; voi trasformato in “vai”. Inutile sottolineare che il filato di “mi toglierà” sul passaggio discendente sol fa si rompe.
La liricizzazione di Verdi, ossia il far quel che si può quando si dispone della voce –splendida- di Mimì da i suoi frutti alla sezione conclusiva dove la Caballé attacca dolce, ispirata e pucciniana le prime frasi, poi, priva dell’ampiezza e del vigore che Verdi richiede emette suoni spinti e duri a partire dal fa acuto. Tralasciamo il bercio finale. Per il sollievo dei fans del soprano catalano (fra i quali per altri titoli posso anche far parte) l’esecuzione della “vergine degli angeli” la cui nota più acuta è un sol è dolcissima, morbidissima e trasfigurata. Insomma due minuti di Montserrat hoc nomine digna!
Morale: la liricizzazione di Verdi è uno specchio per allodole o meglio un equivoco in cui perfino un critico come Rodolfo Celletti è caduto. Equivoco perché Verdi indica segni di dinamica e questi devono essere rispettati, magari amplificati, ma l’orchestrale, la zona in cui la scrittura vocale gravita non sono quelli che competeranno (e mi limito alla corda di soprano) qualche anno dopo a Mimì o Manon. Il pianissimo e più in generale la dinamica di Montserrat Caballé era, almeno sino al 1975 splendida e suggettiva, ma applicato ad altri autori. In Verdi la dimanica ed il peso vocale esatti sono quelli, che tramandano i 78 giri di una Arangi-Lombardi, di una Raisa, di Frida Leider o Rosa Ponselle. E per completezza non si tiri in ballo Claudia Muzio. Mi spiace, ma nella zona medio grave della voce, nonostante qualche suono un po’ aperto la divina Claudia aveva ben altra saldezza e cognizione.

Rita Orlandi-Malaspina e Ilva Ligabue, cui abbiamo già dedicato le nostre riflessioni tempo addietro con riferimento alle cantanti con faciloneria definite di serie b erano, dopo il ritiro della Cerquetti e l’assenza della Tebaldi dai teatri italiani fra le più accreditate, stimate ed applaudite Leonere di Vargas, quando, appunto, il titolo era titolo di repertorio e non preziosa e raffinata riproposizione, come per certo accadrà per l’imminente bicentenario verdiano, che saggio sarebbe postergare.
La Orlandi-Malaspina aveva un’autentica voce di soprano lirico drammatico e guardava, come modelli interpretativi, alla Tebaldi o alla Cerquetti. Certamente con una maggior solidità nella zona acuta della voce. Per essere chiari i si nat che la parte prevede sono tutti facili, sonori e squillanti ed a conferma che si trattasse della voce di un vero soprano di forza nessuno degli attacchi sul do grave o addirittura sul si nat presenza opacità ed insicurezza. Poi possiamo anche ritenere che la cantante raramente esca da consolidati binari interpretativi per assurgere, appunto, al rango di interprete. Verissimo, ma all’ingresso l’Orlandi-Malaspina anche su frasi scabrose come “del sangue di mio padre” può essere genericamente concitata, ma salda vocalmente e alla fine del recitativo, senza effettacci il morendo di “tanta ambascia” è rispettato alla lettera e con la poderosa voce del soprano cosiddetto di forza. Nell’aria con un tempo piuttosto sostenuto è assai più ligia alle indicazioni di spartito di quanto non faccia la Caballé a partire da buona parte delle forcelle previste (“perdona al mio peccato”, “m’aita quell’ingrato”) ed arrivata al “pietà Signor” che chiude la prima sezione dell’aria esegue, come molti altri soprani, la smorzatura di tradizione sia pure con un suono non bellissimo. Il rispetto delle forcelle previste al “deh non m’abbandonar” rende l’indicazione ‘con passione’ di Verdi; del pari il timbro sontuoso aiuta moltissimo a rendere frasi come “inspirano quest’anima”, ”il pio frate accoglierti” presagio della prossima confessione e conversione della nobile penitente. Timbro sontuoso, appunto, e adeguatezza della voce alla scrittura vocale sono al servizio di una facile chiusa dell’aria. Nelle battute di conversazione con fra’ Melitone Rita Orlandi-Malaspina sfoggi anche un paio di uscite da vera fraseggiatrice, soprattutto per virtù di mezzo vocale. Mi riferisco alle frasi “mi manda il padre Cleto” e “un’infelice” dette con accento mite e dolce, che fanno da contrapposizione alle prime del duetto con il Guardiano, dove il soprano è, invece e giustamente, agitato. E una specie di agitazione interna sembra essere la caratteristica dell’incipit “Infelice, delusa”. Ogni tanto appare qualche accento un poco enfatico (“fremete”), ma siamo dinanzi ad una Leonora nobile e pentita al tempo stesso, che emette con facilità i due si nat della “figlia maledir” (per esattezza più il secondo del primo). Nella seconda drammatica sezione del duetto “Se voi scacciate” compaiono molto suggestivi rallentando su “fin le belve” e sul successivo “chi tal conforto mi toglierà” per contro l’intonazione di alcune frasi come “ah si dal cielo” non è, almeno dalla registrazione, perfetta, come pure la realizzazione del morendo su “mi toglierà” non è esemplare.
Non ho dubbi a rilevare come nella sezione conclusiva del duetto “tua grazia” più che racconsolata, come indica lo spartito dalla confessione e dall’incipiente penitenza, questa Leonora è ben salda e certa nella propria fede e un si naturale alla chiusa è un po’ tirato. Erano questi i vizi e vezzi contro cui la liricizzazione di Verdi si spendeva ed adoperava? Per completezza il duetto viene eseguito con il taglio di tradizione alle battute conclusive. Quanto alla sezione conclusiva della scena della vestizione, allorquando Leonora, dopo il coro maschile eleva la propria voce ripetendo “la vergine degli angeli” possiamo anche ritenere che Rita Orlandi-Malaspina non abbia il timbro serico e sublimato della Caballé, ma siamo sempre alle stesse ossia trattasi di Leonora di Vargas e non già di Manon Lescaut che prega a Saint-Sulpice.

Più interessante, per la storia dell’interpretazione verdiana, la Leonora della Ligabue, qui proposta in un turbulenta inaugurazione scaligera. Per la cronaca il si bem di “maledizione” all’aria del quarto atto non riuscì bene ed il pubblico pizzicò il soprano reggiano.
La Ligabue non era, per i canoni del tempo, un soprano drammatico. Aveva, però una voce veramente bella, femminile, sontuosa, ampia ed una tecnica, che le consentiva di primeggiare non solo in Verdi, fosse il tardo o il primo (Elvira di Ernani ed Amalia dei Masnadieri) ma anche in Mozart e di reggere senza sforzo scritture massacranti come Francesca da Rimini. Oggi sarebbe una star assoluta anche perché l’interprete era specie in Verdi di prim’ordine. Basta sentire l’arrivo al convento della Madonna degli Angeli. Leonora è giustamente agitata e nervosa, sostenuta da un tempo veloce, che le evita le insidie del declamato in zona medio bassa e le consente, per contro, di sfoggiare un si naturale facile e sonoro e di rispettare ed esaltare l’indicazione “morendo” alla chiusa del recitativo. Anche il tempo dell’aria è molto sostenuto, comodo per un soprano di buona, ma non eccezionale potenza. E qui la Ligabue è esemplare all’attacco perché il timbro, l’accento, pur nel tempo sostenuto, rendono il senso del ‘come un lamento’ previsto da Verdi e allora in quest’ottica si può anche accettare e condividere che il soprano reggiano sul “dal core a cancellar” passi dal forte al piano, pur contravvenendo l’indicazione dell’autore. Indicazione “con passione” per i “deh non abbandonar”: la Ligabue, credo complice Gavazzeni, esprime la passione mediante un canto raccolto e sonorità, almeno all’inizio, controllate. In questo modo l’effetto previsto è reso in maniera soddisfacente, inoltre gli acuti sono facili e saldi. Un soprano come la Ligabue, naturalmente, punta moltissimo alla facilità e lucentezza della zona acuta, moderandosi in quella grave. Tanto è che la Ligabue è veramente travolgente nella realizzazione della forcella “il pio frate accoglierti etc” posta in una zona privilegiata della voce e, in generale nella sezione conclusiva dell’aria che sollecita la zona medio alta della voce. Sentire gli applausi convinti del pubblico.
Remissiva e spaventata, già penitente è la Ligabue nelle prime battute del duetto con il Padre Guardiano (sempre Ghiaurov allora, per virtù naturale, integro). Anche se non esprimesse nulla nell’”infelice delusa rejetta” e nel seguente “più tranquilla” la Ligabue dovrebbe essere proposta come modello assoluto di canto di scuola in zona pericolose come quelle medio gravi della voce femminile. Prova quando arriva il si nat la nota è facilissima e squillante, senza alcun segno di sforzo. Per la precisione sia la prima che la seconda volta.
In realtà Ilva Ligabue in questa sezione della scena rappresenta, a mio avviso, un vero paradigma di quello che dovrebbe essere il canto verdiano, per sicurezza e solidità, da un lato, e capacità di esprimere i forti sentimenti di cui la penitente nobildonna spagnola è raffigurazione. Se poi dobbiamo compiacerci di suoni belli basta sentire quelli che Ilva Ligabue emette sul sol acuto di “toglierà” alla chiusa del duetto con il Padre Guardiano. Il bello è che questo bel suono non è solo edonismo ed esibizione vocale: diventa anche interpretazione. Con buona pace di chi blatera sul termine interpretare, un suono dolce, morbido è la rappresentazione del canto dell’anima purificata e redenta. Almeno secondo l’immaginario popolare e, quindi, verdiano! Ancora applausi dal pubblico scaligero, allora non ancora rieducato con massicce dosi di opera ceca e di teatro di regia, ma in grado di accogliere ed apprezzare il vero canto all’italiana.
Buon ascolto! Dimenticavo: la Ligabue è splendida nella Vergine degli angeli.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1965 - Ilva Ligabue (con Nicolai Ghiaurov & Renato Capecchi - dir. Gianandrea Gavazzeni - Milano, Teatro alla Scala)

1970 - Rita Orlandi-Malaspina (con Bonaldo Giaiotti & Alfredo Mariotti - dir. Paolo Peloso - Genova)

1978 - Montserrat Caballé (con Nicolai Ghiaurov & Sesto Bruscantini - dir. Giuseppe Patanè - Milano, Teatro alla Scala)

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mercoledì 1 aprile 2009

Serie B a chi ?!? - quinta puntata

La quinta puntata della nostra rubrica, dedicata alle grandi Dive dell'Opera, regine dei più svariati palcoscenici, assenti magari solo dagli onori del disco, si occupa questa volta di tre grandissimi soprani, diversi fra loro, ugualmente importanti e dai grandi meriti, in repertori con più di un titolo in comune, affrontato con diverse caratteristiche vocali, ma uguale professionismo e solidità tecnica.

La carriera di Luisa Maragliano si è snodata nell'arco di circa 25 anni fra il 1955 e il 1979/80, carriera importante con apparizioni in tutti i più grandi teatri del mondo, dalla Scala all'Arena di Verona (quando era un teatro dove si sentivano le VOCI) tutti i teatri italiani, fino ad esibizioni a New York, Buenos Aires, Parigi ecc. in un repertorio oneroso cui la Maragliano ha sempre saputo rendere giustizia grazie ad una saldezza tecnica di rara consistenza.

La Maragliano inizia giovanissima, quasi per caso, ad avvicinarsi al mondo dell'opera e subito incontra il suo mentore e compagno di vita, il direttore Tristan Illersberg, che la sceglie nel 1955 come una delle Fanciulle fiore nel Parsifal a Genova, sua città d'origine. In seguito la carriera della giovane Maragliano comincia a farsi importante fino alla rivelazione all'Arena di Verona nel 1959 sostituendo un'indisposta Antonietta Stella come Leonora ne La forza del destino. Da qui in poi la Maragliano si cimenterà con un repertorio molto vasto comprendente soprattutto Verdi e opere del Verismo senza disdegnare cimenti come quello del Giulio Cesare di Handel (oggi come non mai farebbe proprio piacere sentire una Cleopatra dalla sensuale voce sontuosa, invece, delle consuete striminzite soubrettine sprovviste della tecnica di base del canto), spaziando in opere da soprano lirico puro come Bohéme e Carmen (Micaela), a ruoli da lirico spinto come Tosca, Manon Lescaut, Maddalena di Coigny e di soprano drammatico sia nel tardo Verdi (Aida e Don Carlo) che nel primo Verdi (Attila e Due Foscari) LA L'esteso repertorio fu possibile grazie sia ad una voce di bel timbro di soprano lirico-spinto che una grande cognizione tecnica ha preservato per lungo tempo in un simile repertorio consentendo all'interprete la capacità di essere sempre all'altezza delle richieste dello spartito, fosse Handel o Verdi o Puccini, magari con qualche limite stilistico nel primo, ma sempre a pieno agio sotto il versante vocale.

Interessantissimi sono, infatti, gli ascolti di Luisa Maragliano, che oggi moltissime giovani cantanti dovrebbero prendere a modello per capire come la professionalità e la serietà rendano grandi un cantante più ancora della carriera effettuata. Se infatti negli anni di carriera Luisa Maragliano non ha mai ricevuto riconoscimenti dal mondo della discografia e fama internazionale, o può essere stata all'ombra di colleghe come la Caballè, la Gencer, la Stella, la Price, cio non di meno il pubblico le ha sempre tributato il giusto plauso per il suo valore artistico e le registrazioni, che rimangono, consentono ancora oggi di ammirare una cantante che vorremmo avere oggi sui palcoscenici mondiali, dove surclasserebbe senza sforzo le più blasonate dive odierne, incapaci di produrre un canto di pari qualità tecnica e artistica. La polemica può sembrare ripetitiva e sterile, ma l'ascolto porta sempre e solo ad una siffatta conclusione.

La cavatina di Lida della Battaglia di Legnano per esempio, mette in evidenza nella Maragliano una grande attenzione, soprattutto nel cantabile, ai segni d'espressione e di dinamica presenti nello spartito (che in più di un passaggio chiede all'interprete di rendere "dolce" i suoni e di avere una dimamica molto varia nel rinforzare e smorzare frasi intere), la voce apputo smorza e addolcisce i suoni a qualsiasi quota, con grande sicurezza, ed è capace di salire ad acuti granitici come il do5 prima della cabaletta e quello in chiusa della cabaletta medesima. Nella cabaletta la Maragliano mostra come la sicurezza e la professionalità tecnica consentano all'esecutore di risolvere brillantemente i problemi della scrittura per certo poco agevole e di destreggiarsi fra note picchettate, trilli e volatine risolte alleggerendo il mezzo vocale senza che i suoni diventino ,però, "suonini" flautati e falsettanti in assenza del saldo sostegno della respirazione.
Unico vezzo che è possibile rilevare è quello dell'interprete che tende a tebaldeggiare al centro in certi vezzi di pronuncia.

Nel recitativo della grande aria di Amalia nei Masnadieri invece la Maragliano esegue dei diminuendo non scritti molto appropriati sulla frase "all'obliato sepolcro tuo che sola...", molto espressivi nel risultato e che ben contrastano col tono di disprezzo con cui Amalia risponde al canto del coro fuori scena nelle frasi seguenti. Abbiamo ancora grande attenzione agli accenti mentre l'uso del registro di petto per le note basse su "in quella pietra" non si tramutano in suoni gutturali e indietro o in afonoidi emissioni d'aria come oggi siamo abituati, ma sono dei suoni timbrati, raccolti e sonori.

Nel cantabile la Maragliano da il meglio di sè, la voce piena e corposa al centro si addice molto bene a questo tipo di pagina, cui la Maragliano dona la solita attenzione alla dinamica, molto varia nelle prescrizioni di Verdi, che chiede all'interprete di rinforzare e diminuire di continuo i suoni lungo le prime lunghe frasi, in cui la Maragliano è attenta alle sfumature pur mantenendo la voce sempre dolce. Bello è poi il contrasto di dinamica prodotto dal prorompere della voce su "Oh quanto invidio, oh quanto". MA la morale è sempre la stessa si può "propormpere" solo se si ha la cognizione di dove mettere i suoni.
La voce è molto omogenea e sicura nel si bemolle pianissimo in chiusa prima della cadenza finale.

La cabaletta della scena, scritta appunto per una grande virtuosa come Jenny Lind, metterebbe un pò a mal partito una cantante come la Maragliano abituata a Tosche e Aide, ma l'intelligenza e la preparazione (che non consiste solo nel sapere le note) consente di evitare grossi inciampi. Innanzitutto affronta la cabaletta ad un tempo più slentato rispetto a quello di una Sutherland , ma sempre cercando di essere più possibile fedele allo spartito. Analogamente alla cabaletta della Battaglia di Legnano, infatti, la Maragliano alleggerisce il volume della voce per affrontare le volatine e le note puntate sempre mantenendo il ferreo appoggio della voce, che le consente di chiudere con uno dei consueti saldissimi do acuti.

Sarebbe ingiusto non parlare dell'Aida di Luisa Maragliano, ruolo cardine della sua carriera, di cui la Maragliano è stata grande interprete per più di 500 rappresentazioni, un record forse unico al mondo. Ancora una volta le ragioni di questo lungo rapporto con un ruolo temibile per difficoltà e pesantezza come Aida è riscontrabile nella grande saldezza vocale e tecnica della Maragliano. Qualità che l'audio di una recita estiva del 1972 mostrano in tutto e per tutto. Insieme a Franco Corelli ci viene regalata una grande esecuzione del duetto finale. L'aperto dell'Arena non fa dimenticare agli interpreti (soprattutto alla Maragliano, più che al Divo Corelli) le necessità dello spartito, anzi onorato da una grande esecuzione in cui i due protagonisti gareggiano a suon di pianissimi, smorzature e frasi lunghissime oltre che in acuti sonori e squillanti. C'è chi vorrebbe queste esecuzioni areniane come mere palestre di sterili esibizioni vocali, un ascolto simile è la prova che più in questo passato l'Arena di Verona è stata luogo di esibizioni in cui si è fatta dell'Arte vera rispetto alle problematiche, spesso noiose serate odierne.

Da subito, ovvero senza neppure la minimale gavetta si fece notare, invece, la voce di Rita Orlandi-Malaspina, che dalla metà degli anni 60 e per tutti gli anni 70 ha mietuto onori come vera voce verdiana eccellendo soprattutto nel repertorio verdiano da soprano drammatico. Il debutto avviene a 26 anni al Teatro Nuovo di Milano come Giovanna d'Arco, il debutto alla Scala avviene solo due anni dopo come Leonora nelle repliche dell'inaugurale Forza del destino. Il sodalizio con il teatro milanese continuerà in seguito con Don Carlo, Il trovatore, Un ballo in maschera e Attila. Sempre nel 1966 debutta alla Carnegie Hall di New York nel Mosè di Rossini accanto a Nicolai Ghiaurov mentre al Met approda nel 1968 come Amelia nel Simon Boccanegra ed Elisabetta nel Don Carlo per poi tornarvi una sola volta ancora, come Aida nel 1979/1980. La carriera di Rita Orlandi-Malaspina l'ha portata nei maggiori teatri del mondo come nei teatri di provincia, ovunque onorandosi non solo grazie alla doviziosa dote naturale ma in virtù della solida tecnica e della grande professionalità con cui Artiste simili hanno sempre inteso il loro mestiere e la gestione del loro patrimonio vocale.

Gli ascolti proposti sono tutti improntati al repertorio verdiano, centrale nella carriera della Orlandi-Malaspina, sia nelle opere del primo Verdi che, soprattutto, per quanto riguarda i titoli del cosiddetto Verdi pesante.

Il duetto dal II atto dei Masnadieri è funestato dalla presenza di un Mario Petri in fine di carriera, cui una certa afonia impedisce di strafare in quanto a volgarità varie ma che non può evitargli di produrre molti suoni opachi e strozzati soprattutto in acuto. La Orlandi-Malaspina è invece bravissima, la voce è ampia, bellissima, mostrando da subito quella che per unanime giudizio è la vera voce verdiana dalla materia prima preziosissima. Soprattutto nella stretta del duetto le basta pochissimo per rendere lo slancio della pagina, con grande facilità di canto in tutta la linea e persino nell'esecuzione delle agilità. Un'ottimo esempio di canto di forza nel primo Verdi, utile per fare una distinzione col canto urlato che oggi viene spacciato per grande primo Verdi.

Esecuzione esemplare è poi l'aria di Amelia nel II atto di Un ballo in maschera. La tessitura è ardua, la voce è chiamata ad affrontare un orchestrale pesante, intere frasi sono scritte in tessitura medio bassa, scendendo più volte sotto al rigo per poi far salire la voce in un'ampia frase al do acuto e prima ancora a svariati si bemolli e si naturali. La voce della Orlandi-Malaspina si adatta benissimo alle richieste di Amelia, che non a caso è stato uno dei suoi "cavalli di battaglia", per l'ampiezza che possiede in tutta la gamma e la precisione del canto. Affronta, infatti ,senza problema le frasi più basse della tessitura, pur ricorrendo all'uso del registro di petto (senza ovviamente sbracare il suono), è capace di scendere al la sotto al rigo con un suono corposo e sonoro, contrasta senza problema l'orchestrale anche nei fortissimo. Ha accuratezza nel legato di frasi che rende molto espressive come "o finisci di battere e muor" (in cui risultano un pò aperti solo i la bemolli acuti posti sul termine della frase) che lo spartito prescrive piano all'inizio per affrontare un crescendo nel resto della frase, come ugualmente accade in "Deh mi reggi m'aita signor", che la Orlandi-Malaspina inizia con un bellissimo piano per poi salire via via ad un ottimo do acuto sul forte dell'orchestrale. Molto bella è anche l'esecuzione della cadenza, eseguita attaccando mezzoforte il si bemolle acuto mantenendo la voce sempre omogenea nello scendere sotto al rigo nelle ultime frasi.

Il duetto dell'Ernani vede accanto alla Orlandi-Malaspina un bravissimo Mario Zanasi, dall'emissione morbidissima, accento semplice, nobile e composto, interprete di un vero Re. Ottimo è il contrasto fra questo Re e la voce sontuosa della Orlandi-Malaspina che nella prima parte del duetto sfodera un poderoso si bemolle per poi eseguire ottimamente la frase "ogni cor serba un mistero", allargandola con grande effetto espressivo.

Nel cantabile Zanasi ha una bella linea di canto ed emissione molto morbida, il chè lo rende un Re sopra la media per gli anni dell'esibizione e un fuoriclasse per gli standard odierni. Alla bellissima e donizettiana frase d'incipit del cantabile di Don Carlos la Orlandi-Malaspina risponde con la giusta fierezza prescritta dallo spartito e che solo una voce di questo calibro e di tale bellezza può dare al personaggio, sul modello di Anita Cerquetti. La Orlandi-Malaspina sa rendere molto bene l'esecuzione delle agilità a piena voce, mantenendo omogenea la voce nelle discese alle frasi più basse che portano la voce sotto al rigo come in "lo splendor d'una corona", in cui la voce risulta sempre correttamente emessa e il suono risulta timbrato e raccolto. E le ultime frasi, perlopiù centrali, come "la corona o sire è un dono..." cantate piano come Verdi prescrive sono luogo ideale per dispiegare tutta la bellezza di cotanta voce, veramente sontuosa.

Pace mio Dio è un brano ideale per dispiegare una voce sontuosa in tutta la sua bellezza e la Orlandi-Malaspina non fa eccezione, offrendo un'esecuzione da manuale dell'aria di Leonora di Vargas. Nella riflessione del venerdì sugli agenti abbiamo proposto un confronto fra i Pace mio Dio della Caniglia, della Tebaldi e della Urmana. Il confronto poteva risultare, come nei fatti risulta, impietoso. Personalmente inviterei a confrontare qualche Leonora di Vargas odrierna, come la Urmana appunto o la Stemme, incensate e ammirate come nuove grandi voci ed interpreti verdiane, con Rita Orlandi-Malaspina, che di certo non ha avuto il rilievo discografico di queste signore. Proprio sul terreno dell'emissione prima ancora che dell'esecuzione appare schiacciante il confronto, emissione mantenuta sempre morbida e sul fiato per quanto riguarda la Orlandi-Malaspina, quasi sempre di gola per le due citate colleghe. Un confronto che chi scrive ha sentito di voler suggerire ascoltando la voce della Orlandi-Malaspina dispiegarsi nella malinconica melodia verdiana con grande dolcezza e morbidezza, ma soprattutto con una sapienza tecnica oggi più che mai riguardevole, esempio ne sia la frase "invan la pace qui sperò quest'alma", che passa dall'iniziale forte alla salita al si bemolle pianissimo, suono perfetto e bellissimo, che regge benissimo il confronto con le prime colleghe citate, la Caniglia e la Tebaldi, sicuramente due modelli per la grandissima Rita Orlandi-Malaspina e di cui può senz'altro essere definita l'erede. E non dimenticherei Antonietta Stella.

Di grandissimo interesse è l'ascolto di Ilva Ligabue, vero esempio di voce d'oro, che iniziò lo studio del canto quasi per caso per divenire una delle più importanti e brave cantanti del secondo dopoguerra.

Per una maggiore e più dettagliata biografia rinviamo al suo sito, appena creato, per parte nostra ricordiamo gli studi che la Ligabue effettuò a Milano presso il Conservatorio Verdi dove fu allieva di Aureliano Pertile in primis per poi passare ai corsi di perfezionamento del Maestro Campogalliani patrocinati dalla Scala, che ancora oggi sforna nuovi allievi...anche se non propriamente purtroppo di egual bravura. Ilva Ligabue dopo i corsi del Maestro Campogalliani, debutta alla Piccola Scala ne "L'Osteria portoghese" di Cherubini e "La serva padrona" di Pergolesi. Nei primi anni di carriera infatti affronta molto repertorio del '700 (Cimarosa, Pergolesi, Mozart), palestra per la voce di una giovane debuttante, che ha avuto così modo di "farsi le ossa" prima di passare gradatamente ad un repertorio più pesante, consentendole di non rovinarsi. Degli inizi di Ilva Ligabue dovrebbero tenere conto giovani cantanti e agenti che nel gestire giovani talentuosi non tengono conto dell'esperienza che dovrebbero maturare prima di affrontare importanti debutti e certi ritmi di carriera. E quindi abbiamo una Carolina del Matrimonio segreto promossa a Tosca perchè agenti e direttori artistici percepiscono un po' di volume.

Ilva Ligabue si fece, dunque, notare da subito come voce di soprano lirico e con gli anni maturò la propria voce in quella di un vero soprano lirico spinto affrontando un repertorio molto vario, dall'iniziale repertorio settecentesco, di cui terrà cari i personaggi mozartiani, soprattutto La Contessa e Donna Elvira, eseguite spessissimo, aggiungendo in seguito Alice Ford in Falstaff (ruolo inciso due volte in studio con Solti e Bernstein), Francesca da Rimini, Margherita nel Mefistofele, fino a Puccini con Tosca, Butterfly, Suor Angelica e Manon Lescaut e Verdi con Masnadieri, Trovatore, Simon Boccanegra, Don Carlo, Otello ecc.

Gli ascolti proposti vogliono prendere un pò dai vari ambiti del repertorio della Ligabue, partendo da Mozart, per proseguire col repertorio Verista, il primo Verdi di Ernani e il tardo Verdi del Don Carlo.

Fra i motivi per cui bisognerebbe preferire certe moderne esecuzioni mozartiane a quelle cosiddetto vecchio stile ci sarebbe in primis la questione della maggiore aderenza stilistica e drammaturgica di un filone di interpreti che possiamo definire specialisti. A nostro parere l'ascolto della Contessa d'Almaviva di Ilva Ligabue giunge a smentire tali fole a partire da un recitativo in cui a risultare espressiva è la voce stessa, di timbro nobilissimo ed emissione morbida, a questa Contessa infatti basta un'inflessione della voce per essere espressiva, nobile e malinconica. Nel rondò, inoltre, la voce si dispiega con grande facilità e ampiezza tramite una linea di canto semplice ma molto espressiva che mette in risalto la bellezza della voce e l'abilità della cantante, ferratissima nel dosare i fiati e nel variare la dinamica.

In Ernani la Ligabue entra in scena con con un sonorissimo la che tiene benissimo testa a quello di Corelli.

La voce, da autentico soprano lirico spinto, pur dotatissima, al cospetto di una collega come la Orlandi-Malaspina nella stessa opera, risulta in un ipotetico confronto meno ampia al centro e soprattutto in basso, ma l'interprete è, però, tecnicamente molto agguerrita e riesce con grande facilità a reggere le pesanti frasi centrali del terzetto finale, per giunta eseguito ad un tempo molto largo, che metterebbe chiunque in difficoltà. Nelle frasi più gravi la voce si mantiene sempre e comunque sonora, i suoni rimangono raccolti e mai sbracati, il sostegno è perfetto e lo si nota nel modo in cui dalle prime frasi centrali la voce passi al piano di "Ma che diss'io perdonami" senza perdere sonorità, e mantenendo anzi sempre morbido il suono. E in quanto a sonorità l'ascolto prova come la Ligabue non abbia alcun problema a tenere testa a Corelli e Raimondi, non certo due voci poco sonore, all'aperto dell'Arena.

La grande cantante da l'ennesima prova di sé nell'aria di Maddalena di Coigny, che rende in modo poetico. La voce è come sempre bellissima e con tale peculiarità il personaggio è già realizzato per metà e la Ligabue, con uno stile giustamente diverso rispetto a Mozart ma senza strafare e sempre cantando, risulta anche interprete e fraseggiatrice attentissima. Le prime frasi vengono cantate pianissimo, adatte al clima drammatico del cupo racconto di Maddalena, la voce cambia, però, colore gradualmente nel narrare del meretricio di Bersi e alla frase "Fu in quel dolore.." per lasciarsi infine andare al canto spiegato di "Ei disse vivi ancora", dove l'ampia voce della Ligabue tiene facilmente testa all'orchestrale. Una prova superlativa, che fa meritare ampiamente alla Ligabue la sua fama di grande Artista.

Infine eccezionale è l'ascolto del Don Carlo. Pur non essendo un vero soprano drammatico o addiruttura Falcon la voce della Ligabue ha notevole ampiezza, tanto da reggere con relativa facilità le frasi della Valois e l'orchestrale che Verdi predispone per la sua grande aria. Già dalle prime frasi l'esecuzione si segnala come grandissima, oltre a rispettare i segni di dinamica previsti da Verdi la Ligabue si mostra vera interprete, forse facendo anche di necessità virtù, nel variare la dinamica ulteriormente passando dal forte di "e godi nell'avel" alla smorzatura su "il riposo". Vi è grande rispetto per i segni di legatura che Verdi spande a piene mani, e la voce cerca sempre di mantenersi più ampia e regale possibile, invece di liricizzare la pagina, eseguendo benissimo l'effetto di grandioso prescritto su "il pianto mio al trono del signor". Nella sezione centrale dell'aria la Ligabue è molto espressiva e attenta al fraseggio ed è bravissima nel crescendo de "i fonti i boschi i fior" coronato da un bellissimo la diesis dopo il quale la Ligabue smorza abilmente il suono rallentando sul poco ritenuto de "cantino il nostro amor" con grande effetto espressivo e grandissima bravura tecnica nel manterere e gestire il fiato, mostrando un appoggio granitico della voce. Nella parte finale, sul crescendo orchestrale, perfetta è l'esecuzione della forcella dal pianissimo di "il pianto" al ff di "mio", reggendo senza difficoltà alcuna l'orchestrale nelle frasi seguenti e, grazie ad un perfetto passaggio di registro, eseguendo benissimo le discese al registro grave delle ultime frasi. Pur non essendo un soprano drammatico tout-court la Ligabue riesce ad essere interprete fedele della regalità di Elisabetta e della maestosità delle arcate vocali a lei affidate da Verdi, senza incappare in liricizzazioni che, come abbiamo avuto occasione di scrivere a suo tempo, citando un collega del blog, rendono Elisabetta parente stretta di Mimì.


Gli ascolti

Luisa Maragliano


Verdi - La battaglia di Legnano

Atto I - Quante volte come un dono...A frenarti, o cor (1969)

Verdi - I masnadieri

Atto I - Tu del mio Carlo...Carlo vive! (1969)

Verdi - Luisa Miller

Atto IV - La tomba è un letto sparso di fiori (con Cornell MacNeil - 1969)

Verdi - Aida

Atto IV - La fatal pietra...O terra addio (con Franco Corelli - 1972)


Rita Orlandi-Malaspina

Verdi - Ernani

Atto I - Da quel dì che t'ho veduta (con Mario Zanasi - 1967)

Verdi - I masnadieri

Atto II - Io t'amo, Amalia...Ti scosta, malnato (con Mario Petri - 1973)

Verdi - Un ballo in maschera

Atto II - Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa (1971)

Verdi - La forza del destino

Atto IV - Pace mio Dio (1970)


Ilva Ligabue

Giordano - Andrea Chénier

Atto III - La mamma morta (1973)

Mozart - Le nozze di Figaro

Atto III - E Susanna non vien...Dove sono i bei momenti (1963)

Verdi - Ernani

Atto IV - Ferma, crudele, estinguere (con Franco Corelli & Ruggero Raimondi - 1972)

Verdi - Don Carlo

Atto IV - Tu che le vanità (1964)


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