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sabato 22 novembre 2008

Don Carlo, sei personaggi in cerca di cantanti. Quarta puntata: Elisabetta di Valois

La prima interprete di Elisabetta di Valois fu Marie Sass, la stessa cantante che nel 1865 aveva interpretato, sempre all’Opera di Parigi, Selika nella prima esecuzione di Africana.
A Verdi la Sass non piacque nè come cantante, definita “soprano belga”, ossia uno di quei soprani, che gridavano in zona acuta, (era, in effetti, un cosiddetto Falcon) né come interprete, asserendo che aveva fatto di Elisabetta una corista.
La prima esecutrice italiana (Bologna 1867) di Elisabetta fu Teresa Stolz. A Verdi piaceva molto la cantante ancor più la donna.
Don Carlo, nel raffronto con le altre opere di Verdi ebbe limitata circolazione almeno sino agli anni ‘50 del secolo passato. Pagava lo scotto di essere nato quale Grand-Opéra con le annesse difficoltà e vocali e direttoriali e di allestimento e il fatto che nel confronto con le altre opere del tardo Verdi, pensate per palcoscenici differenti da quello parigino, non offrisse ai protagonisti, tenore e soprano in primis, occasioni assolute per primeggiare.
Esemplare proprio il caso di Elisabetta di Valois, cantata da molti dei maggiori soprani drammatici in carriera sino agli anni ’50, senza, però, che nessuna passasse alla storia del canto e dell’interpretazione di questo personaggio. E magari si trattava di Aide, Amelie e Leonore di Calatrava di levatura storica.

La verità è che il limite, che Verdi imputava alla prima interprete è limite del personaggio stesso. Sia in Verdi che in Schiller, tanto per alleggerire le colpe del musicista. Piegata alla ragione di Stato nel primo atto (quello di Fontainbleu, ossia quello che non sentiremo in Scala), dopo una fittizia prospettiva di felicità, moglie infelice ed insoddisfatta, ma sempre regina e, quindi, prona alla ragione di Stato nel secondo, pure straniera ed esule nel quarto, oltre che oltraggiata nei diritti coniugali, soffocata dall’onda dei ricordi al quinto, come ogni sovrano più autentico schiavo di rango ed etichetta i veri sentimenti di Elisabetta escono allo scoperto ben di rado, grazie a qualche frasetta marginale. Nel secondo atto al “non piangere mia compagnia” con il “cela l’oltraggio indegno” che è un chiaro avvertimento al marito, al quarto, durante lo scontro con Filippo quando assume di essere moglie solo per dovere ed al quinto nel monologo davanti la tomba del suocero. Il monologo di Elisabetta che apre il quinto atto è il parallelo di quello di Filippo, che principia il quarto.
Verdi e Schiller sono chiari al sovrano non è dato esternare i suoi sentimenti, salvo che non sia solo e parli fra sé.
In questa regale uniformità sta Elisabetta ed è facile comprendere perché abbia attratto, sempre sino al 1950, ben poche cantanti in sede discografica. Anzi le sole Giannina Russ, protagonista nel 1913 in Scala ed al Costanzi e Selma Kurz in una edizione ridotta e concentrata sulle peculiarità della diva, che vale, forse, la pena di essere ascoltata. Né Gina Cigna, né Bianca Scacciati, né Rosa Ponselle, né Rosa Raisa sentirono il bisogno o ebbero l’opportunità d incidere alcun brano del personaggio, che pure avevano portato in scena.
Di Maria Reining la registrazione , interessantissima, è un live dalla Staatoper di Vienna.
Nel dopoguerra il personaggio venne affidato alle più importanti primedonne in carriera. Alcune fecero della Valois un cosiddetto cavallo di battaglia, basta pensare alla Caballè o alla Freni.
Credo, però, che inversamente proporzionale all’interesse diffuso per questo personaggio ne sia avvenuto lo snaturamento. Almeno vocale e non solo.
Mi spiego.
Spartito alla mano Verdi, che pure fece mostra di poca stima verso Marie Sass di fatto fotografa benissimo le caratteristiche di quel genere di soprano. Elisabetta non supera mai il si nat (anche Leonora di Calatrava lì si ferma) ma a partire lo emette occasionalmente ossia nel finale dell’opera (versione italiana) e le note dopo il la sono tutte e solo toccate, si attesta su una tessitura che talvolta è addirittura più bassa di quella di Amneris.
A parte un paio di frasi non proprio centrali (alludo nell’aria del primo/secondo atto a quelle “ritorna al suo natio” dove Elisabetta deve fraseggiare sulla zona re4 fa 4 alla frase, ma si tratta di tre battute per il resto in quella scena la scrittura è centralissima, anzi compaiono attacchi scomodissimi sul do grave. Elisabetta è chiamata a cantare su di una tessitura più sopranile nel quartetto del IV atto, allorchè rinviene, mentre in quella sede è Eboli ad essere impegnata su una tessitura grave; l’esatto opposto di quanto avvenga al secondo atto, nel terzetto con Posa e sempre Eboli, dove è la Valois a cantare più in basso dell’altra primadonna. Come pure centralissimo per la scrittura il duetto con don Carlos al secondo atto (primo nella versione in quattro) e quando Elisabetta insorge contro il figlio la frase “va corri“ la scrittura è marcatamente centrale, salvo un si bem tenuto (“menare la madre”).
Per capire la differenza di scrittura vocale con le altre primedonne del tardo Verdi basta esaminare quel che Verdi chieda alla invasata e furente Leonora di Vargas con il Padre Guardiano, che le promette un confortevole chiostro, o Aida sia con Amneris al secondo atto che con Amonasro e con Radames all’atto del Nilo. Ma anche certe frasi di sapore elegiaco e dolente in zona alta il “lieta poss’ioprecederti” del finale IV , sempre di Forza o il “vedi per noi s’appressa un angel” della morte di Aida non trovano il parallelo nella scrittura di Elisabetta.
Un personaggio, quindi, di contenuta spinta drammatica chiamata ad un canto elegante, nobile regale e distaccato ed in una tessitura mista, tipica, appunto del soprano Falcon. Scorrendo lo spartito le indicazioni sono costanti “largo”, “grandioso”, “commosso”, “dolce” a rinvigorire l’aura del personaggio.
Tanto per esemplificare: nella grande aria del quinto atto, ove la Valois deve fronteggiare un organico orchestrale che prevede oltre agli archi, oboe, clarinetto, trombe, tromboni, fagotti e, persino, l’oficleide (quello che nel Profeta accompagna gli Anabattisti) Verdi prescrive sull’attacco “larga la frase” seguito da una messa di voce su “ s’ancor si piange in cielo”, che deve anche essere molto dolce, sul “trono del Signor” Verdi scrive “marcato” e prevede “grandioso” per il “pianto mio”, ancora una messa di voce “monstre” compare su “ i ruscelli, i fonti, i boschi, i fior” e nella frase successiva con sotto un pesante organico orchestrale la Valois deve o dovrebbe rispettare la prescrizione “ a piacere” sul re grave della “pace dell’avel”.
Certo per lo slancio drammatico, inteso nel senso del fuoco verdiano, limitatissimo la Valois piace a soprani di limitato slancio drammatico e, quindi, da cinquant’anni a questa parte si ritiene (a torto!) che servano le altisonanti voce dei soprano cosiddetti di forza. Può bastare un soprano lirico, quelle alle quali Aida, Ballo e Forza sono (o sarebbero) interdette, tanto si può pensare il personaggio è essenzialmente dolente, sognante e sottomesso.
E quindi le Valois della Caballe e della Freni ( e poi della Scotto e della Ricciarelli sino alla Cotrubas, alla Dessy) fanno di la parente ricca, regale ed ispanica di Mimì o di Manon.
Le prescrizioni di “dolce”, i piani ed i pianissimi o le messe di voce, che occupano quattro o cinque battute, con sotto orchestrali poderosi convengono a voci di ampiezza ben maggiore di un normale soprano lirico e dobbiamo accettare che il pianissimo di un soprano cosiddetto di forza non può essere di un soprano lirico. In difetto assisteremmo ad un progressivo ed antistorico uniformarsi.
Quando, anni fa precisamente il 7 dicembre 1977, qualcuno al termine degli applausi riservati alla Freni Valois in Scala qualcuno gridò” bravina” aveva colpito nel segno. E non me ne voglia un nostro affezionatissimo lettore fans del soprano modenese.
Come non me ne voglia il più ardente adoratore del soprano catalano se ritengo la Caballè bravissima, ma non Elisabetta di Valois. A tacere del rapporto libertario della nostra con le indicazioni di spartito. Tanto per fare le solita osservazione circa il rispetto delle indicazioni la nostra Monteserrat arrivata, nella grande aria del V atto, al “Francia” rispetta l’indicazione di corona, ma la applica al comodissimo fa4 di “Fra” e non allo scomodo, per lei, fa 3 grave di “cia”, che batte in una zona poco propizia alla voce di soprani angelicati o assoluti cui appartengono sia la Freni che la Caballè, ma non quelli che dovrebbero cantare la Valois.
L’effetto è splendido chi lo nega, ma non è quello previsto da Verdi.
Ad una ascoltatore attento non sfugge che sia pur brava la Freni che la bravissima la Caballè (quella proposta di Barcellona 1971 e non quella che arronzava nelle Arene francesi a metà anni ‘80) non dispongono né dell’ampiezza e né della sonorità della prima ottava che la parte chiede.
All’apostrofe del primo duetto “va corri…” la Freni suona opaca e per nulla tragica o drammatica e lo stesso accade alla Caballè. L’esigenza di Elisabetta, che invita a parricidio ed incesto il figlio riesce completa nella sua valenza espressiva a Ghena Dimitrova, che pure non era un modello preclaro di tecnica di canto. Ma in quella zona della voce una Dimitrova ha altra ampiezza ed altra risonanza soprattutto idonea a sostenere il considerevole peso orchestrale.
Ancora nella prima grande aria “Non pianger mia compagna” di Elisabetta una Caballè strepitosa per ampiezza di fiato e legature (alcune di sua invenzione per compensare quelle previste, ma omesse) mostra che la voce sul primo passaggio non è saldissima e sicura e la romanza batte quella zone che nel prosieguo di carriera saranno le disastrate della Caballè.
Ancora nel primo duetto Maria Pedrini, che pure non è mai stata diva come Mirella Freni e nonostante l’ascolto fortunoso, è ben più sicura e non denota il limite della prima ottava da soprano lirico della Freni. Sentire anche che accade con i si naturale acuto chiusa del duetto sulla frase “oh ciel, oh ciel”,e con i successivi do gravi: è la sontuosa rappresentazione vocale della Regina. Le cose, ovvio peggiorano se, anziché la Freni, si prendesse a metro di paragone qualche più recente Elisabetta come Barbara Frittoli.
Due sono, oltre a Maria Pedrini, le Elisabetta di Valois che rispondono alle esigenze di regalità e di scrittura vocale del personaggio mi riferisco a Martina Arroyo ed a Maria Reining. Nel duetto con don Carlos, o meglio in quel che rimane (a fianco di un don Carlos che sembra provenire direttamente dall’800) dei due incontri fra gli sfortunati amanti la Reining padroneggia la scrittura centro grave con dolcezza e legato assoluti e conferisce al personaggio la nobiltà, che spetta alla Regina, in perfetto equilibrio fra esigenze vocali ed esigenze interpretative. La stessa osservazione vale per la Arroyo nella grande scena del quinto atto a San Giusto. E’ vero che da sempre e con ragione la Arroyo è stata ritenuta gelida, ma alle prese con personaggio statuario e tutto sommato compiuto ed espresso nel canto soprattutto in una zona propizia alla voce del soprano statunitense la raffigurazione è quanto mai aderente al pensiero di Verdi.
E forse sia Ilva Ligabue che Sena Jurinac che a rigore non furono soprani drammatici, ma lirici spinti di grande ricchezza in tutta la gamma vocale sono state aderenti al personaggio soprattutto sotto il profilo vocale. E’ interessante rilevare come entrambi i soprani rispettino le prescrizioni di Verdi nella frase, fra l’altro una delle più sopranili della parte “io sono straniera”, esibendo, però, una voce che non ha nulla del soprano lirico, che successive e celebrate, a ragione, Elisabette hanno sfoggiato.
Non escludo che si possa anche darne una raffigurazione credibile con un mezzo vocale che per natura non è quello richiesto dallo spartito, ma in questo caso si deve avere il superiore acume interpretativo di Leyla Gencer (che, per altro, assicuro nel 1970 in Scala non pativa il confronto con voci come quella di Talvela e di Bianca Berini), di Raina Kabaiwanska e di Renata Scotto, che, nonostante la prima ottava un poco vuota e i ballonzolamenti in quella superiore, si pone come paradigma della vittima sacrificata sull’ara della Ragion di Stato. Ma, ripeto, siamo dinnanzi forse alle tre più complete e fantasiose fraseggiatrici degli ultimi decenni. E quando non ci sono le soluzioni geniali delle geniali signore che ci rimane di Elisabetta? Mimì e Manon all’Escorial, e oggi la teoria delle grisette all’Escorial è lunghissima. In attesa, magari, di qualche Santuzza.

Gli ascolti

Verdi - Don Carlos

Atto I
Il suon del corno...Di qual amor...L'ora fatale è suonata - Maria Pedrini & Mirto Picchi (1950), Mirella Freni & José Carreras (1977)

Atto II
Io vengo a domandar grazia - Maria Reining & Todor Mazaroff (1937), Anita Cerquetti & Angelo Lo Forese (1956), Renata Scotto & Giuseppe Giacomini (1979)
Non pianger mia compagna - Montserrat Caballè (1971), Ghena Dimitrova (1978)

Atto IV
Giustizia, Sire!...Ah! Sii maledetto - Sena Jurinac, Boris Christoff, Ettore Bastianini & Regina Resnik (1960), Ilva Ligabue, Jerome Hines, Louis Quilico & Giulietta Simionato (1964), Katia Ricciarelli, Nicolai Ghiaurov, Piero Cappuccilli & Fiorenza Cossotto (1973)

Atto V
Tu che le vanità - Martina Arroyo (1965), Montserrat Caballè (1971), Mirella Freni (1975)
E' dessa...Sì, l'eroismo è questo...Ma lassù ci vedremo - Maria Reining & Todor Mazaroff (1937), Maria Pedrini & Mirto Picchi (1950), Leyla Gencer & Richard Tucker (1964), Raina Kabaivanska & Franco Corelli (1966), Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci (1978)

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domenica 16 novembre 2008

Fiorenza Cedolins lascia l'Aida a Barcellona


Giunge da Barcellona la notizia del forfait del soprano Fiorenza Cedolins, prevista come Aida al Gran Teatre del Liceu, dove pochi mesi fa aveva cantato la Norma di Bellini. Attendono ora il soprano friulano prossimi impegni come i debutti nel ruolo di Magda ne La rondine di Puccini, spettacolo inaugurale della Stagione 2008 di Venezia, Paolina nel Poliuto di Donizetti a Bilbao, Lucrezia Borgia a Torino, Maddalena di Coigny in Andrea Chénier al Teatro alla Scala di Milano.

Offriamo come consolazione di questo forfait quattro Aide, non annoverate fra le grandissime : Maria Pedrini, Gabriella Tucci, Lucine Amara, Gilda Cruz-Romo. Buon ascolto!

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domenica 27 aprile 2008

Il mito della primadonna: Norma e Giuditta Pasta, una e ...bina!

Giuditta Pasta una e bina si potrebbe con superficialità affermare pensando che la cantante fu interprete a distanza di nove mesi ( 6 marzo e successivo 26 dicembre) dei ruoli protagonistici di Sonnambula e di Norma.
Oggi pochi soprani hanno affrontato entrambi i personaggi. Amina è passata nell’orbita dei cosiddetti soprani leggeri e la sacerdotessa in quello dei soprani drammatici, o pseudo tali.

La contrapposizione nasce ai principi del secolo XX con le codifiche vocali del Verismo, prima del quale abbiamo soprani, che affrontarono sia Norma che Amina e rispondono al nome di Irene Abendroth, Maria Nemeth, e credo, Lilli Lehmann. Di assoluto interesse gli incunaboli della senescente Adelina Patti che però non fu mai Norma in teatro. Ancora le Amine delle prime registrazioni possono essere soprani lirici o lirico spinti come Rosina Storchio, Marcella Sembrich e Frieda Hempel che poco o nulla hanno delle svenevoli Pons, Carosio degli anni fra e due guerre.
Certo il Verismo aveva fatto di Norma una Aida o Leonora di Calatrava ante litteram e di Amina una delle tante derelitte, ingannate che partono da Amina e Lucia per arrivare a Gilda, Ofelia di Hamlet e tutta la serie dei soprani leggeri del repertorio francese.
Quindi Maria Callas, Norma dal 1948 ed Amina dal 1955 non fu rivoluzione, se mai restaurazione.
In realtà credo si debba partire dalla scrittura vocale dell’opera e dalla caratteristiche della prima interprete per capire tradizioni e deviazioni. Alcune delle quali propiziate dallo stesso autore.
Giuditta Pasta, qualificata contralto o “musico” nella prima parte della carriera e soprano in quella finale, deve la più pregnante della propria voce e della propria arte a Stendhal. Leggere, per sincerarsene la vita di Rossini. Al di là delle qualifiche la Pasta rifiutò sempre e ne costituisce testimonianza una lettera autografa indirizzata a Rossini i ruoli di contralto autentico. Fu esplicita nel dire al maestro di non perdere tempo a trasportare per lei la pare di Arsace. Lei cantava Semiramide. Ancora quando si esibiva con la Malibran nei duetti della Semiramide era quest’ultima a cantare Arsace, riservato alla Pasta il title role. Ancora nel Tancredi i trasporti erano molti, a partire dalla sortita alzata di un tono, al finale completamente modificato perché l’originale era troppo basso e nella Cenerentola dove le note sotto il si nat 3 erano omesse o trasportate, ossia l’aria “oh come rapida fuggi la speme” inserita nel Crociato in Egitto per il personaggio d’Armando con una serie di volate di cui l’ultima al si nat fa ritenere la Pasta un mezzo acutissimo o un soprano dal registro centrale ricco ed esteso. Elementi questi su cui molti hanno già da tempo scritto.
In fondo le scritture originali di Amina e Norma questo ci dicono.
Conta poco per chiarirsi la presenza di un mi bem toccato nel rondò di Amina a maggior ragione se leggiamo sul falsetto femminile i trattati di canto, in primis il Garcia o se ascoltiamo certe registrazioni dei primi del ‘900 dove Margarete Matzenauer come Azucena, Irene Abentrodt, come Semiramide o Ernestine Schumann-Henick, come Fides esemplificano questo tipo di emissione.
La scrittura di Amina rimane centrale a maggior ragione se si osservano le esatte tonalità dei duetti con Elvino, dove la scrittura di Amina e davvero centrale e pure il finale primo, normalmente eseguito alzato di mezzo tono, donde i do che Amina deve “sparare” diventano si nat. Nota che moltissimi mezzoprani del passato remoto o recente hanno esibito con una saldezza e sicurezza estranea a moltissimi soprani.
Poi è chiaro la tradizione di inserire, la difficoltà di reperire un tenore, capace di reggere la scrittura, anche come ritoccata da Bellini, della parte del protagonista maschile hanno portato alla Amina prima di Giulia Grisi od Erminia Frezzolini o della Lind ( tutte Norme di grande successo, magari giudicate carenti sotto il profilo della tragicità) sino ai soprani leggeri fra le due guerre.
Non dimentichiamo che Bellini con questo primo personaggio dovette avere presente che la cantante era esemplare in ruoli di accentuato patetismo tipo Nina di Paisiello piuttosto che Desdemona o Elena della Donna del Lago.
Alle prese con Norma un po’ Semiramide, un po’ Medea (ma quella di Mayr, specialità della Pasta) ossia con il personaggio coturnato, paradigma di quello che all’epoca veniva definito il sublime tragico mise in rilievo tutte le doti della cantante e dell’interprete Pasta nel genere tragico. A cominciare dalla maestria nei recitativi accompagnati di cui la parte sovrabbonda e dove è risaputo la Pasta esibisse fiati, appoggiature, inserimenti vari tutti predisposti alla amplificazione del personaggio.
Bellini non aveva la conoscenza delle voci di Rossini e di Donizetti nell’ adeguarsi alle esigenze del canto ed in qualche caso, credo, si lasciò prendere la mano. Basta raffrontare la cavatina di sortita della Bolena con quella di Norma. Sarà differente la situazione, ma Donizetti non sottopone a sforzi la voce, mentre Bellini dopo le prime battute di scrittura grave fa salire la voce verso l’alto con tanto di la ribattuti. E il momento più impervio (il terzetto che chiude l’atto primo) dove nell’incipit “no non tremare” la protagonista deve sparare due do acuti tutt’altro che agevoli. Bellini non riesce a coniugare apice drammatico e scrittura comoda come accade a Rossini con le scene di furore riservate alla Colbran o al Donizetti di Borgia e Bolena. Al confronto la stessa nota prevista per Anna nel finale “coppia iniqua” non è così apertamente scoperta, anche se arriva alla fine di una parte massacrante.
Ma credo rilevi in questo “farsi prendere” la mano anche la tensione drammatica mai così alta prima della Norma. Insomma il mancato rispetto della voce e delle esigenze vocali prima di tutto nasce da un’esigenza drammatica. Tanto è che altri mezzosoprani (in primis le sorelle Garcia) in più passi ricorreranno ad aggiustamenti di tonalità. Ed ai ritocchi e trasporti ricorrerà, protagonista di Sonnambula Marietta Alboni, il più famoso contralto degli anni ’50 dell’ottocento.
In buona sostanza le scritture vocali non sono così diverse. Le hanno nettamente differenziate inserimenti e tradizioni esecutive. E con fondamento. I due personaggi, pur pensati per la medesima cantante nei loro primi decenni di esecuzione, spesso affidati alle stesse cantanti toccano ed esprimono due generi differenti fra loro. Il tragico ed il patetico, che trovavano egual capacità espressive nella prima protagonista, grande cantante e, più ancora grande interprete. E non dimentichiamo che in Norma il personaggio patetico è Adalgisa, come Seymour in Bolena.
E’ logico, soprattutto in considerazione dell’evoluzione del gusto e della vocalità (penso sopratutto alla compresenza nei grand-operà di due tipi ben differenti di soprano) che il soprano di genere patetico-elegiaco si annettesse la contadinella elvetica e quello coturnato si aggiudicasse la tormentata sacerdotessa.
Poi i soprani patetici divennero sempre più acrobatici e quelli tragici sempre meno d’agilità Alla fina l’apparentemente insanabile dicotomia Toti dal Monte Gina Cigna. Per completezza di cronaca va anche precisato che assistiamo ad Amine old fashioned che vestono i panni di Norma.
Offrire oggi ascolti per Norma, che evitino percorsi ben noti, e siano al tempo stesso significativi non è facile anche per l’ascoltatore.
Si impone Joan Sutherland che, a differenza di Maria Callas non ritenne di modificare il colore della propria voce nell’affrontare i due personaggi. Qualche detrattore del soprano australiano potrebbe dire che questa Giulia Grisi del XX secolo non ne fosse capace.
Sotto il profilo della storia della vocalità e della sua evoluzione devono essere proposte Adelina Patti, con i raggiusti e le ingiurie del tempo sebbene solo in audio, piuttosto che Marcella Sembrich, per noi più interessante come Norma che come Amina per la fluidità dell’esecuzione che ricorda (anzi anticipa) quella di Joan Sutheland. Come è giusto crediamo proporre sia le Norme pre Callas, scegliendo o quelle che meno praticavano i vezzi del Verismo come Maria Pedrini o la giovane Milanov, sia le Amine dei soprani leggeri, quando in regola con la tecnica. Circa il gusto di queste è molto facile opinare.

Bellini - La sonnambula

Atto I

Come per me sereno - Beverly Sills, Frederica Von Stade
Finale I - Renata Scotto, Joan Sutherland

Atto II

Ah non credea mirarti - Adelina Patti, Joan Sutherland
Ah non giunge - Marcella Sembrich, Joan Sutherland

Bellini - Norma

Atto I

Casta Diva - Adelina Patti, Marcella Sembrich, Maria Pedrini
Finale I - Zinka Milanov

Atto II

Dormono entrambi - Anita Cerquetti, Grace Bumbry
Ei tornerà - Gina Cigna, Anita Cerquetti
In mia man alfin tu sei - Maria Callas & Kurt Baum, Christina Deutekom & Aldo Bottion, Grace Bumbry & Ruben Dominguez
Qual cor tradisti - Maria Callas
Deh non volerli vittime - Renata Scotto

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