martedì 17 novembre 2009

La Figlia del Reggimento - Cremona, Teatro Ponchielli

Mi sono recato, domenica scorsa, a Cremona, per assistere al Teatro Ponchielli alla recita pomeridiana della Figlia del Reggimento. Occasione interessante per ascoltare la prima ripresa moderna della versione italiana dell’opera, così come rivista da Donizetti in occasione delle rappresentazioni scaligere nell’ottobre del 1840 ed eseguita nella sua interezza, senza cioè ricorrere ad inserti provenienti dall’originale francese (salvo in un caso) e secondo la nuova edizione critica curata per Ricordi da Claudio Toscani. Spettacolo strano questo di Cremona (e che verrà riproposto a Bergamo, nell’ambito del Festival Donizetti, e poi a Pavia e a Ravenna nei primi mesi del 2010), dall’esito ambiguo e dal giudizio necessariamente spezzato in due: tanto opposti, infatti, sono apparsi i risultati del primo e del secondo atto, sia dal punto di vista musicale che da quello registico.

Partiamo dalla lettura musicale: il direttore Alessandro D’Agostini, alla guida della precisa Orchestra dei Pomeriggi Musicali, adotta la nuova edizione critica dell’opera e – come dichiara lui stesso nelle note introduttive sul programma di sala – ne dà una lettura caratterizzata da grande attenzione al rispetto della prassi d’epoca e alle cure filologiche. Innanzitutto la versione scelta: quella originale italiana così come approntata dalla stesso Donizetti: senza, quindi gli abituali tagli e inserti provenienti dalla prima versione francese (a parte la cabaletta di Tonio “Qual destino/Pour mon ame”...irrinunciabile per le velleità di qualsiasi tenore che ritenga essere in grado di eseguire l’infilata dei 9 successivi DO di petto...a costo di risparmiarsi per tutto l’atto o abbassandola di mezzo tono) e quindi nel dettaglio: 1) i recitativi invece dei dialoghi; 2) spariscono i couplets della Marchesa nell’Introduzione, “Pour une femme de mon nom” sostituiti da un recitativo accompagnato; 3) nell’atto II spariscono il “Salut a la France” e la seconda aria di Tonio “Pour me rapprocher de Marie”; 4) in compenso viene aggiunta un’aria per il tenore nell’atto I, “Feste, pompe, onori”, presa dal Gianni di Calais e un duetto per i due protagonisti nel finale II, “In questo sen riposati”. D’Agostini, poi, arricchisce l’orchestra di alcuni strumenti originali (certe percussioni particolari, cornette e cimbasso) e la dispone secondo uno schema atipico, predisposto, pare, da Donizetti stesso in occasione della prima scaligera – con i legni al centro, i contrabbassi molto più numerosi dei violoncelli e divisi in due, posti ai lati della compagine, i corni separati dagli altri ottoni... – accompagna i recitativi secchi con fortepiano, contrabbasso e violoncello, mentre in quelli accompagnati viene utilizzato uno strumentale ridotto (limitato al doppio quartetto d’archi) per far meglio risaltare l’articolazione del testo. Viene poi seguita la prassi d’epoca, con variazioni e abbellimenti nelle riprese e nei da capo. Operazione dunque interessante e abbastanza riuscita. La direzione è precisa, spigliata, adeguata allo spirito dell'opera: buon ritmo, ma anche attenzione ai momenti più lirici, resi con abbandono e dolcezza. L'orchestra conferma le sue qualità: attenta, molto musicale, precisa (gli attacchi sono perfetti, senza sbavature), mai pesante, ottimi i corni che si sentono fin dall'ouverture (strumenti critici e a rischio spesso, di stonature particolarmente sgradevoli). La compagnia di canto segue volonterosamente le intenzioni del direttore, e il livello complessivo – pur con alcune evidenti difficoltà, soprattutto per il personaggio di Maria – resta buono e dignitoso (si tratta pur sempre di una produzione di provincia, con mezzi, dunque, abbastanza scarsi), livello che spesso non è raggiunto da più pretenziose e blasonate esecuzioni. Quì l’impegno c’è e si sente. Nel dettaglio: la Maria di Yolanda Auyanet presenta un bel colore e una buona emissione, finchè non impiega troppo il registro acuto, laddove lo sforzo appare evidente e la voce tende a fissarsi e stimbrarsi; il Tonio di Gianluca Terranova sfrutta a suo vantaggio l’impervia tessitura della parte, il centro resta appannato e il fraseggio è un pò approssimativo, ma gli acuti sono buoni (a volte un pò ingolati), si risparmia per tutto il primo atto (prima aria e duetto) per poi eseguire una buona “Qual destino” con i suoi 9 DO di petto...e concede pure il bis (evidentemente non solo Florez è in grado di eseguire 18 DO di petto); funzionale alla parte – e finalmente non un pagliaccio – il Sulpizio di Francesco Paolo Vultaggio, dotato di una buona presenza scenica; comprimari mediocri, ma le parti non richiedono di più. Un mistero la regia di Andrea Cigni (che si occupa pure delle scene e dei costumi)! Spettacolo nettamente diviso in due: sobrio ed elegante l’atto I, farsaccia volgare il secondo. E pensare che lo stesso ha dichiarato nelle note di regia di voler ripulire “la drammaturgia da inutili trovate e gags da macchietta”: gli riesce solo per metà spettacolo! Il primo atto si apre su una gigantesca bandiera svizzera, davanti alla quale il coro canta le sue suppliche, e che lascia presto il posto ad un panorama montano con mucchietti di neve sparsi per il palco: la vicenda è trasportata durante la prima guerra mondiale, e la caratterizzazione dei personaggi è garbata e mai caricata. Alcuni momenti sono davvero suggestivi: il finale I, quando Maria saluta i suoi compagni, con uno dei più commoventi cantabili donizettiani, mentre si fa sera (le luci si abbassano) e dal cielo comincia a nevicare lentamente. Forse una trovata facile e ingenua per chi ricerca nella regia occasioni di elucubrazione intellettualistica e simbologia psicanalitica...per me, invece, soluzione raffinata e toccante. Tuttavia il regista, forse spaventato di apparire troppo “normale”, cambia completamente l’approccio nell’atto II che si apre ancora sul panorama montano (anzichè l’interno di un palazzo signorile), ingombro però di un gigantesco orsacchiotto che campeggia in mezzo alla scena, cosparsa di giocattoli e bambole... A parte la bruttezza estetica, a parte l’effetto di deja vu (se non erro una Turandot berlinese di qualche anno fa, presentava la stessa incomprensibile soluzione), non se ne capisce bene il motivo: Maria non viene trattata da bambina, ma da nobildonna, ed è questo a metterla a disagio (a confronto con la più libera e ruspante vita da reggimento). E di conseguenza va tutto il resto: al garbo si sostituisce la farsa più volgare. La lezione di canto è caricata in modo insopportabile con urla, strilli, stonature e parodie (manco fosse la Mamma Agata delle Inconvenienze teatrali); il terzetto Sulpizio/Tonio/Maria viene accompagnato con ballettini da avanspettacolo e accenni di “macarena” (come al Costanzo Show degli anni più bui...) e l’arrivo degli ospiti in occasione del matrimonio di Maria assomiglia a una sfilata da corte dei miracoli, un gerontocomio semovente di tic, zoppie, dentiere malferme, stampelle, bicchieri rovesciati, tremolii senili etc...tra le risate e gli applausi di un pubblico, evidentemente, di bocca assai buona... E il canto si adegua alla trivialità della messa in scena. Peccato: occasione, almeno in parte e per colpa del regista, mancata.


Gli ascolti

Donizetti - La figlia del reggimento


Atto I

Eccomi finalmente...Feste, pompe - Cesare Valletti (1950)

Read More...

venerdì 13 novembre 2009

Celebrazione di Rossini: Giovanna d'Arco

Ricordiamo oggi Rossini, nell’anniversario della morte, con una puntata dedicata ad una delle sue più straordinarie composizioni, la cantata per piano e voce Giovanna d’Arco (1832).
Soggetto teatrale prima ancora che mito storiografico della Terza Repubblica francese, che ne fece un'eroina simbolo della laicità dello stato, all’epoca in cui Rossini compose la cantata Giovanna d’arco era ancora un'eroina letteraria di fama controversa, come ben si vede nei testi di Voltaire e Schiller. Giovanna, però, era stata protagonista di composizioni operistiche negli anni immediatamente precedenti il momento in cui venne scritta la cantata, con Carafa (1821), Vaccai (1827), Pacini (1830). Non sono chiare le ragioni per le quali Rossini non la fece eseguire da subito in pubblico, ma attese il 1859, interprete l’Alboni. In quegli anni la Pulzella di Orléans era già un mito nella storia di Francia.

Per noi oggi la cantata, straordinaria, è uno dei massimi cimenti vocali ed espressivi per mezzosoprani che si confrontino con il Rossini serio. Terreno d’elezione delle grandi primedonne virtuose, appuntamento immancabile nella programmazione concertistica della belcantista di rango. Dunque, ecco qui un’esposizione in parallelo di grandi cantanti che vi si sono impegnate, ieri come oggi, e che danno spunto ad una riflessione sui mutamenti (o la degenerazione) del canto rossiniano nella corda di mezzo.

Teresa Berganza. Lo stile. La precisione esecutiva. L’incarnazione vivente della concezione del canto come arte della mìmesis, della stilizzazione, che trasmette idee astratte e perfette, depurate da ogni minima traccia di realismo. La Berganza, ancor prima della Horne, ha affermato la secondarietà del mezzo naturale rispetto alla tecnica ed alla musicalità. La voce, qui presa molto da vicino in una trasmissione radio che non rende per nulla il modo in cui questa risuonava in teatro, non colpisce, e l’interprete resta sempre composta e misurata. Ma tutto procede perfettamente, senza intoppi, cricche, disturbi di fondo di alcuna sorta. Il sound è pulito, quasi parlato, a fior di labbra, dizione chiarissima. E la sua Giovanna risulta semplicissima, dolce e femminile, chiara e del tutto logica nell’esattezza delle scelte espressive, negli accenti. Nulla è di troppo, nulla è tolto, nulla è fine a se stesso, nessuna gratuità. La voce è sempre in ordine, in zona centro grave soprattutto, laddove altre, ben più dotate di lei, fanno sfracelli. Mai un calo di sonorità, mai una forzatura, piuttosto qualche fissità in zona mi-re, sul passaggio acuto ( la signora ha qui 55 anni, circa 34 di carriera). La virtuosa aveva dei limiti, si sa, ed emergono nella sezione acrobatica finale, “ Corre la gioja…”in particolare in quanto scritto nelle ultime battute di “…che in Dio sperò...”, in chiusa alla prima strofa, ma esegue la sezione per intero variando pure il da capo. Il brano è troppo vigoroso per la voce della cantante madrilena, che però lascia vivida impressione. Sarà anche datata, espressione di un Rossini, depurato e classicheggiante, lontano dalle eclatanti acrobazie di scuola americana, ma ancor oggi preferibile a certi scempi vocali spacciati per “belcanto”.


La cantata con Marilyn Horne trova forse la sua più completa e paradigmatica esecuzione. L’approccio è pensato in ogni nota, perfetto sul piano musicale, razionale come non mai. La voce è costantemente dominata e piegata ad ogni più sottile sfumatura, nuance, intento espressivo. Tutto è costruito con lucidità e maestria impressionanti, pensato, meditato e rimeditato come nessuno oggi sa più fare nella pratica del canto. La Giovanna della Horne è complessivamente monumentale, come l’ampiezza della cantata richiede, ma variegata, perché la voce della diva asseconda i mutamenti del brano da una sezione all’altra e da una frase all’altra all’interno di ciascuna sezione, con precisione e puntigliosità straordinarie. Il canto è nobile; eroico e del tutto privo di quella retorica pompière che a volte screzia gli eroi en travesti della Horne; il legato, di altissima qualità dato che la voce è sempre ferma e galleggiante sul fiato, le consente di dare ampiezza alle frasi e pienezza d’accento, cui partecipa una dizione nitida ed incisiva; il canto di coloratura, impeccabile, ciascuna nota sempre ben riconoscibile, e accentata, eseguita con perfezione e facilità assoluta. Più la si ascolta e più risalta lo studio accurato che si cela dietro l’esecuzione, l’aver scomposto la cantata passo passo, una frase dopo l’altra, per poi ricomporre il tutto in un’esecuzione fluida ed apparentemente immediata, perché così è il belcanto della Horne, costruito ed architettato per intero, a cominciare dalla voce.
Non si può non ricordare che l’esecuzione della Horne è tutt’uno con quella del suo pianista accompagnatore di tante serate, Martin Katz. All’introduzione di P. Gossett all’edizione Ricordi della cantata orchestrata da Sciarrino, in cui lo studioso americano sottolinea come nel catalogo di Rossini non vi sia composizione che “reclami una veste orchestrale più fortemente della Giovanna d’arco” ( ! ), verrebbe da aggiungere la chiosa “a meno che non suoni Martin Katz !”. Stupendo, onnipresente, accompagna e trascina, commenta e sottolinea il canto della Horne con la forza di un’orchestra, perché ha di certo ben presente che questa “gran scena” rifletteva i modelli delle composizioni operistiche, e proprio riecheggiando quei modi esegue l’accompagnamento.

Approccio assolutamente opposto è quello di Martine Dupuy, superba, malinconica ed orgogliosa Giovanna. Il canto rossiniano trova in lei una rappresentazione intuitiva e sensibilissima della “mozione degli affetti” figlia di un approccio personale, un'interpretazione del tutto soggettiva, aderente alle corde della cantante. Il canto è facilissimo, di qualità il legato che sostiene anche le frasi di scrittura più centrale, perfetto quello di agilità. La ricerca è sempre quella dell’atmosfera, del clima che connota le varie sezioni della cantata. L’incipit del recitativo sottolinea la solitudine notturna di Giovanna, circondata da una natura silente ed anche misteriosa. La contemplazione è interrotta dalla visione repentina “O Patria! O Re! L’Onnipossente dal gregge…”, per poi placarsi nella nostalgia del ricordo. Quindi la cantata si apre alla parte più suggestiva dell’esecuzione della Dupuy, quella dell’Andantino grazioso “ Oh mia madre e tu frattanto …”, dove il canto scorre morbido, lirico ed emozionante ( “…la mia madre invidierà..”; ”…..se affannata chiamerai, questo suon rispenderà…” ), perché aderente al tipo di espressività caratteristica della Dupuy. Le innumerevoli forcelle previste da Rossini sono, tra l’altro, di grande intensità emotiva mentre l’esecuzione non risulta mai manierata o compiaciuta, ed il timbro del mezzo francese contribuisce a venare di malinconia il canto. La terza sezione, poi, è quella delle visioni, dell’epica di Giovanna, della prefigurazione della battaglia e della vittoria. Ed il canto, come nei suoi guerrieri en travesti, si fa irruente, di slancio. Il sacro fuoco della Giovanna visionaria prende corpo sempre nella misura, lontano dall’eccesso, e nella compostezza del canto, e trova grande forza nello slancio all’acuto. Esecuzione emozionante e vera, sempre di dimensione cameristica, accompagnata da quel maestro di chincaglieria salottiera che è Vincent Scalera. L’accompagnamento è talora perfino caramelloso, ma ben rende il senso del salotto ottocentesco, il colore, l’atmosfera cui la composizione, al di là della sua evidente ascendenza operistica, era destinata.

Voce di mezzo per autonomasia, più dotata di tutte, Lucia Valentini Terrani, che eseguì raramente la cantata, sebbene assolutamente adatta alla sua voce per timbro ed estensione.
Meno analitica e personale sul piano interpretativo, la Terrani pare adagiare la sua voce sul pentagramma limitandosi a seguirlo nei suoi saliscendi con un canto che da subito suona monotono. La sua Giovanna affascina per il timbro, sontuoso e ricco, straordinario, e di questo pare accontentarsi la cantante.
La Terrani intende eseguire il recitativo con toni imperiosi e magniloquenti, sebbene talune frasi le escano affettate. Spiana qualche agilità in “ il mormorar del vento”, ed approda alla sezione centrale, quella sulla carta a lei più congeniale per tessitura. Attacca “ Oh mia madre “ con un tempo sostenuto, sul mezzoforte, che però stenta ad abbandonare laddove Rossini mette forcelle, eseguendo solo qualche rallentando. Il canto è privo di malinconia e generico per assenza di nuances, ma la voce è bellissima, e questo parzialmente compensa la latitanza sul piano interpretativo. Appaiono alcuni suoni gonfi al di sotto del rigo, che poi si ripetono in modo manifesto nell’allegro vivace, “…già m’ha tocca,mi investe, già m’arde..”. Non brilla nell’esecuzione della coloratura, quando Rossini prevede serie di quartine in “…si la vittoria è con me…”. Purtroppo la delusione vera arriva nella sezione finale, che sarebbe anch’essa allegro vivace,“ Corre la gioja di core in core….”. Il piano stacca un tempo di una lentezza mortifera ed insensata, tanto che il canto perde il vigore che richiede il significato drammaturgico del testo. Varia già in primo enunciato dato che taglia la ripetizione prevista, e si sistema tutte le code, fatto incredibile per una belcantista del suo calibro. Il finale viene dunque mozzato, la chiusa arronzata alla bell’è meglio: l’effetto è tremendo, duramente in contrasto con la monumentalità dell’intera cantata, che finisce così…in modo brutale. E deludente.

Cantante della stagione “di mezzo”, a cavallo tra ieri ed oggi, Ewa Podles, vocalista particolarissima e difficile per chi era abituato al prima. E’ duro accettare la sua ottava grave, l’esistenza di due voci nettamente distinte, la natura inumana ed androgina della voce. La registrazione è abbastanza recente, e l’anagrafe non è dalla sua, ma la sostanza del canto si coglie assai bene. La sua Giovanna è una sorta di creatura silvana, figlia di una natura spaventosa e terribile. La foresta che avvolge Giovanna al recitativo non è Fontainebleau o qualche angolo recondito di Francia medioevale, ma uno spaventoso bosco di saga nordica. Di primo acchito il timbro terrorizza lo spettatore: la voce è ovattata, di petto sotto il rigo. Il canto vigoroso è più nelle corde della Podles di quello patetico: “O mia madre…” è anche attaccato con esattezza interpretativa, ma non emoziona, non commuove come dovrebbe perchè presto afflitto dall’emissione sgraziata dei gravi. La cantante pare aspettare le frasi più forti, “…ma tra poco d’alte imprese verrà un suon….”, dove il canto si rifà subito pugnace ed aggressivo. Quella Giovanna chissà che avrebbe mai fatto ai nemici…!!! Insomma, la Podles è spesso sopra le righe e non vuole abbandonarsi all’estasi lirica, alla nostalgia che attraversa il canto di Giovanna. Nella sezione centrale manca la struggente intensità della Giovanna della Dupuy, ad esempio. Di umanità e fragilità, in questa esecuzione, proprio non ce n’è, a differenza di certi en travestì rossiniani impersonati più volte dalla Podles.
La sezione finale, veloce ed acrobatica, ha un vigore ragguardevole, ed è la parte migliore dell’esecuzione della cantata. A parte certe note di petto e/o aperte, troppo volgari, elettrizza per la forza che ha il suo canto di agilità, preciso e facile come sempre. In questo Superewa sa il fatto suo, ed appartiene ancora alla tradizione di ieri: una volta che ha abituato lo spettatore al suo sound, lo trascina vigorosamente con lei, su e giù per il pentagramma, con assoluta confidenza e facilità, conferendo pieno senso al lato visionario dell’eroina guerriera. Di forza e per forza, ma solo quello.

Daniela Barcellona canta da mezzosoprano con una voce importante, di grande qualità e volume. Amante di Rossini e lontana dalle ciance dei baroccari (fatto per cui la ringraziamo), per indole e cultura ricerca un canto composto, scevro da platealità, lirico. La sua Giovanna è approcciata al pari degli eroi di Rossini en travesti che porta solitamente in teatro. Gli intenti interpretativi sono belli, esattamente aderenti al testo. Condivide con la Dupuy la sottolineatura del lato malinconico del personaggio, venato forse anche da una certa tristezza di fondo. Tristezza che alla lunga, con lo scorrere delle battute, si trasforma in monotonia ed inerzia interpretativa. La voce è imponente, e trova un confronto nella sola Terrani, cui somiglia molto nell’esito finale della cantata (che la Barcellona, però, esegue integralmente, qui nella versione Sciarrino). Iperdotata, di una natura che diversamente acconciata l’avrebbe da subito collocata su Verdi, non so se come mezzo acuto o soprano drammatico vero alla Burzio o alla Poli Randaccio... Il suono è composto, ma costantemente connotato o da una certa fissità di fondo o da sonorità tubate in zona grave. La modulazione dei suoni ha luogo in bocca, come si può udire nell’ ” O mia madre……questo suon risponderà…”, oppure in quelle frasi che introducono la sezione finale, “Repente qual luce balenò nell’oriente…..più grande che non suole empie il ciel fulminando…..io vegno…” dove le note re-mi-fa alti sono regolarmente fisse. E credo che il quid di questa cantante stia tutto qui, nel fatto che la voce non è mai davvero retta dal fiato, non galleggi, e quindi si fletta con minor facilità rispetto ad una Horne, una Dupuy o una Berganza. E’ tutto giusto quello che la Barcellona vuole fare, ma la resa è statica, la sua Giovanna esce fiacca nell’accento patetico come nei momenti di virtuosismo, perché l’agilità è scolastica o poco incisiva, eseguita con esiti alterni. Le bastano frasi interlocutorie come “Ah la fiamma che t’esce dal guardo…..m’arde” oppure in chiusa al “ che in Dio, che in Dio sperò…” per trovarsi a pasticciare o spappolare la scrittura rossiniana. In altri passi regge, invece, abbastanza bene, come in “Guida i forti la vergine al campo….”, ma siamo lontani da quella perfezione esecutiva che fa di Rossini la palestra dei migliori vocalisti della storia del canto. Poco vale la messe di variazioni che esibisce nel da capo di “Corre la gioja di core in core….”, perché la voce suona fissa (per giunta di grande volume) e sgraziata, in particolare salendo ai primi acuti, tanto da rendere davvero poco piacevole l’ascolto del suo canto. Peccato.

Con Joyce Di Donato ci troviamo in piena Rossini décadence. Se qualcuno avesse ancora bisogno di essere certiorato circa il dilettantismo tecnico di questa cantante, ascolti l’audio di questa esecuzione. Primo problema della Di Donato, la centralità della scrittura nella sezione mediana dell’andantino, ove esibisce un canto frequentemente aperto e sguaiato, spesso completamente di petto in zona mi-fa–sol, con frasi addirittura veriste come “ Repente qual luce balenò nell’oriente..”, inammissibili nel belcanto, anche in quello che si pratichi nel Caucaso, nel Tibet o nel deserto australiano! Di nuovo nella sezione finale, quindi, nel “Corre la gioia di core in core”, che batte ripetutamente sul sol in primo rigo, il mezzo americano viaggia di canto aperto e di petto puro non sapendo a che santo votarsi, tanto che nel da capo attacca a puntare verso l’alto, e giustamente, ma provata da quanto eseguito sino a quel punto, finisce poi per gridare nella chiusa. La metterei in confronto con la più sopranile delle prime tre voci, T.Berganza, meno dotata in natura a mio modo di vedere. La voce della spagnola nella stessa zona mi-fa-sol non è gran chè, eppure canta, e con gran fluidità senza aprire o andare di petto, mentre la Di Donato si arrabatta malamente, alla fine anche senza gusto. E questo è sufficiente per provare il gap tecnico tra le due cantanti, ma anche tra due diverse epoche del belcanto. Quanto al canto di agilità, le cose non vanno affatto meglio, per forza di cose. La cantata basta ed avanza per mettere la simpatica Joyce a dura prova. Si trova alla corda sin dal recitativo, la stessa frasetta ove pasticcia la Terrani “il mormorar del vento”, per non parlare dello scempio che compie su quanto scritto da Rossini in chiusa a “questo suon risponderà” ( per nulla compensato dalla precedente interpolazione nella ripetizione di “questo suon” che precede la cadenza scritta……un vezzo inutile, quando poi si elidono le difficoltà vere che seguono ). All’arrivo della sezione finale, poi, accadono cataclismi vocali di vario tipo, dai pasticci in “Ah la fiamma che t’esce dal guardo…”, per non parlare dell’esecuzione “Singer style” ( o bartolesca, come vi pare..) di “Guida i forti la vergine al campo…”, lontanissima dall’agilità di forza necessaria per Rossini.
Insomma, una moltitudine di magagne vocali che impediscono alla pugnace Giovanna della Di Donato di convincere e di affascinare. All’immagine intellettuale (e simpatica) che questa cantante offre di sé, corrisponde, al contrario, un canto istintivo ma brado ed ineducato, estraneo alla vocalità Rossiniana, fatta, in primis, di emissione stilizzata, suoni immascherati ed astratti, virtuosismo eccelso e varietà di accento. Il tutto, tra l’altro, eseguito... al ROF, dove qualcuno avrebbe potuto e dovuto mostrarle come e perché si canta Rossini etc. etc.

Quanto a Cecilia Bartoli, vi prego di esimermi dalla recensione.
Già Duprez ha compiuto un sovrumano sforzo “sacrificandosi” per voi in questi giorni. Brevi estratti del prodigio vocale che è questa Giovanna d’Arco bartolesca possono ben provare che... abbiamo ragione noi. L’opera è finita perchè se questi sono i modelli odierni, il canto è arte perduta e sconosciuta, gli autori traditi dai loro custodi più blasonati e remunerati.
E Rossini, stando a come cantano le star odierne nell’anniversario della sua morte, è più morto oggi che all’epoca delle vituperate Pederzini e Supervía, perché ne è stata uccisa la lezione esecutiva ed interpretativa assieme ai necessari presupposti tecnici. Non è possibile continuare ad affermare genericamente la validità del modo di cantare ed interpretare di queste moderne signore barocchiste al pari del modo di una Horne, di una Berganza, di una Dupuy, di una Terrani. O ricusiamo il presente o ricusiamo il passato. Ma chi sceglierà questo presente dovrà poi anche dimostrarci, e con argomenti e non con ciance da giornalino-catalogo, come e perché quanto è trascorso non sia più la vera lectio, e lì li aspetteremo al varco!

PS
Un rimpianto.
Peccato la riscoperta tardiva di questa cantata di Gioachino, perché se l’avessero conosciuta la Schumann-Heink, la Onégin, la Matzenauer, la Stignani e la Doloukhanova ne avremmo sentite... delle belle!!!


Gli ascolti

Rossini - Giovanna d'Arco


1968 - Renata Scotto
1979 - Marilyn Horne
1986 - Martine Dupuy
1988 - Teresa Berganza
1989 - Lucia Valentini-Terrani
1997 - Violeta Urmana
2001 - Daniela Barcellona
2001 - Cecilia Bartoli
2003 - Ewa Podles
2005 - Joyce Di Donato


Read More...

giovedì 12 novembre 2009

Il "Sacrificium" della Bartoli

Da non molto tempo è disponibile sugli scaffali dei maggiori megastore del disco, l’ultimo album di Cecilia Bartoli. Dal titolo particolarmente evocativo – Sacrificium – e dal packaging patinato e accattivante (il prodotto è confezionato in una sorta di algido volumetto di 152 pagine che comprende una lunga tirata celebrativa dell’artista, un compendio “dalla A alla Z” sul mondo dei castrati, dall’inelegante titolo Evviva il coltellino! e un ricco apparato iconografico – anche se la copertina, ove campeggia il capo della diva montato su un torso mutilo di statua greco-romana dal sesso incerto, non denota certo un gusto sopraffino) il disco è dedicato al repertorio più acrobatico di quegli evirati cantori che resero ancor più grande l’epopea barocca dell’Opera Seria: Porpora, Caldara, Araia, Carl Graun, Vinci, Broschi, Giacomelli e Handel naturalmente. Proprio le celebrazioni del 250° anniversario della morte del Caro Sassone, infatti, sono state l’occasione di una serie di uscite discografiche dedicate al grande compositore naturalizzato inglese e al mondo che lo circondava, con particolare attenzione a quell’universo misterioso ed affascinante che è la tuttora inafferrabile voce dei castrati.

I risultati di queste scoperte e riscoperte – tutte, naturalmente, effettuate sotto l’egida e la benedizione della filologia barocchista – sono stati per lo più interlocutori, nel presentare un repertorio a lungo misconosciuto, ma attraverso performance assai discutibili (si pensi all’ondata di incisioni affidate a falsettisti, che tuttora continua a macinare album su album: è il caso di Jaroussky, appena uscito con la risposta controtenorile alla diva di casa Decca, La Dolce Fiamma, dedicato alle arie per castrato di Johann Christian Bach). Come di consueto, tuttavia, la Bartoli e il suo staff, hanno preparato l’uscita del nuovo album con un’abilissima campagna stampa ed un battage pubblicitario particolarmente aggressivo, al fine di trasformare la presentazione di un prodotto tutto sommato di nicchia, in Evento di carattere internazionale. E dunque si sono succedute interviste, polemiche, concerti esclusivi in location deluxe (la presentazione del disco alla Reggia di Caserta per un selezionatissimo pubblico di critici graditi), fotografie, poster, filmati circolati su Internet, spezzoni di brani. A tutto ciò si è aggiunta, in ossequio alle mode odierne del conformismo intellettuale, una gratuita polemica – che puzza tanto di politically correctness – nei confronti della pratica dell’evirazione: un grido di dolore e una sincera e commossa partecipazione, necessariamente postuma, per le sorti di quelle centinaia (migliaia dice la Bartoli) di fanciulli privati dei genitali, di cui solo una piccolissima parte ascendeva poi all’olimpo delle celebrità. Una mattanza, suggerisce la diva, che non può essere riscattata dalla meraviglia della musica che ha contribuito a produrre e che non può che essere deprecata e stigmatizzata. Polemica sterile – a quando la richiesta di risarcimento danni? O la bollatura di quel repertorio come una entartete Musik e la conseguente proibizione? – che denota la superficialità dell’approccio nell’affrontare un mondo culturale ed un sistema di valori lontani dalla nostra sensibilità. Superficialità e ignoranza: oltre, naturalmente, all’occhio verso il marketing attraverso il maggior appeal che un contorno pruriginoso o truculento può regalare al prodotto messo in vendita. Una grande attesa, dunque, è stata creata per l’avvento di questo album, accompagnata da litigi e discussioni, da elogi preventivi e altrettanto preventive stroncature, da presuntuosi e antipatici attacchi verso i pubblici facinorosi del Bel Paese ove osano criticare la diva (scandalo inconcepibile per chi ritiene essere suo diritto la proskynesis di cui è oggetto nell’Europa più evoluta – o supposta tale) e dall’entusiasmo, un po' ingenuo, dei suoi pur numerosi fan (o piccoli fan, vista l’età anagrafica della maggior parte degli stessi: ignari che la musica barocca venisse suonata e cantata anche prima della venuta dei baroccari). E alla fine? Much ado about nothing! Molto rumore per nulla, direbbe Shakespeare, giacché il contenitore – dopo un approfondito ascolto – è molto più interessante del contenuto. Innanzitutto la scelta dei brani: tutti, o quasi, sono inediti e prime incisioni mondiali. Ma aldilà del gioco puramente intellettualistico e dello snobismo filologico, è evidente l’intento di sottrarsi a qualsiasi confronto con il passato più o meno prossimo (altrimenti inspiegabile la mancata inclusione della assai più celebre “Qual guerriero in campo armato” dello stesso Broschi, di cui si è preferita la assai meno spettacolare “Son qual nave”, a parte l'unico vantaggio di non aver altre incisioni facilmente reperibili: salvo la Anfuso in un ormai introvabile recital del '94 e una elaborazione digitale dell'aria predisposta per il Farinelli cinematografico). Operazione, però, non perfettamente riuscita, giacché se è pur vero che non vi è la possibilità di confrontare immediatamente ogni singola interpretazione della Bartoli con analoga di altre cantanti, tuttavia non è affatto inedito il genere e il repertorio in cui i brani che compongono la track list, si inseriscono. A maggior ragione per arie il cui valore principale risiede nell’acrobazia vocale più che nel contenuto musicale: poco importa che nessuno abbia mai inciso “In braccio a mille furie” dalla Semiramide riconosciuta di Leonardo Leo, per giudicare il modo in cui la Bartoli esegue l’aria basta prendere a paragone una qualsiasi aria di furore cantata dalla Horne, ad esempio, per evidenziare le differenze tecniche e interpretative. In secondo luogo emerge in questo ultimo prodotto, più che altrove, un manierismo in cui la diva romana trova comodo sollazzo: un one man show in cui tutto gira intorno ai suoi capricci, e nel quale – aldilà delle dichiarazioni programmatiche – la musica eseguita, la riscoperta, la cura filologica, riveste ben poco interesse. La Bartoli fa la Bartoli: fa quello che il suo devoto pubblico si aspetta e facendolo ne esagera i profili (sussurri, grida, smorfie, ansimi, spasmi, agilità mitragliate etc...). E’, se mi si consente il paragone, il Quentin Tarantino dell’opera barocca. Va sul sicuro, perfettamente consapevole che comunque sarà un successo di critica e pubblico. Cosa resta dunque, dopo l’ascolto? Qual è il valore musicale del prodotto discografico? Nulla! Ripulita dal circo montato sopra di essa, l’intera operazione rivela un vuoto assoluto: un nulla mal eseguito, per giunta. La lettura della Bartoli è superficiale: tesa a far schizzare la voce (piccola) su e giù per il pentagramma in scale velocissime di agilità sgranate in modo rozzo e sostenute a colpi di gola (e spesso è evidente la sensazione di un continuo e fastidioso vavavavava al cui confronto le agilità della Genaux appaiono liquide e astratte come quelle della Sutherland), in note ribattute, in trilli gorgoglianti: alla fine viene il mal di mare, si prenda ad esempio l’assurda “Chi temea Giove regnante” dal Farnace di Vinci, che sembra la caricatura di un’aria di furore. Il legato – già evidentemente compromesso nella precedente Sonnambula – è qui completamente assente. Non riesce a legare due note senza perdere il sostegno del fiato, cosa che rende l’esecuzione delle arie lente un vero strazio: malinconia e sensualità vengono sistematicamente sostituite da sussurri impercettibili, sospiri, tempi slentati. Si ascolti, per farsi un’idea, “Ombra mai fu”, contenuta quale bonus track nel secondo cd, e la si confronti con la stessa aria cantata dalla Podles o dalla Horne (ma direi anche dalla Flagstad e persino da Caruso). E così si potrebbe andare avanti per tutti i brani dell’album, che si susseguono monotoni e identici, in 105 estenuanti minuti che metterebbero a dura prova i nervi di chiunque...e nei quali la Bartoli perpetua se stessa “all’apice del proprio masochismo”. Un’ultima annotazione, però, la merita l’orchestra Il Giardino Armonico diretta da Giovanni Antonini: talmente aguzza, stridente e priva di colore da risultare perfettamente evocativa di quello strumento – il coltellino appunto – artefice immediato, nel bene e nel male, di quelle voci eccezionali che furono, quelle, la vera gloria del canto barocco.


Gli ascolti

Haendel - Serse


Atto I

Frondi tenere...Ombra mai fu - Elisabeth Rethberg (1924)

Read More...

lunedì 9 novembre 2009

Mese verdiano XV - L'accento verdiano, parte quarta: "Eri tu che macchiavi quell'anima"

L'aria di Renato al terzo atto del Ballo in maschera può essere esaminata sotto varie angolazioni: le difficoltà vocali, ad esempio, visto che Verdi dedica al baritono una serie di scomode frasi, che impegnano la zona dal mi acuto al sol; quale più compiuta definzione del baritono verdiano da un lato quale evoluzione dei baritenori di marca rossiniana, ossia dei bassi baritoni alla Tamburini, atteso che Renato nella tessitura, soprattutto dell'aria del terzo atto, ci ricorda e non poco le ultime esperienze del tenore baritonale alla Donzelli.

Ma il problema é ben altro, ossia come cantare l'aria se si vuole essere un interprete ovvero dare senso alla dolorosa lamentazione di un marito, che si crede tradito, anche se il tradimento che lo angustia di più, è quello dell'amico, colpevole di non lecite attenzioni alla propria consorte, che sembra essere molto maschilisticamente l'oggetto del tradimento.
Aulico, ampolloso, nobile, solenne forse anche distaccato, sussiegoso ed altezzoso. Questi sono gli aggettivi per il baritono verdiano, anche in situazioni di grande tensione emotiva, come quella in cui si trova Renato.
Banditi, dunque, per lo status del personaggio, accenti plebei ed espressioni estranee al canto. Renato non è parente dei cornuti veristi quali Canio, Ciaciotto o Compare Alfio, piuttosto di Chalais della Rohan e di don Alfonso d'Este.
Per capire il personaggio Renato e le problematiche vocali ed interpretative, che coincidono con quelle dell'esatta definizione dell'accento verdiano basta leggere Lauri Volpi su Battistini Renato: "Il divino e l'umano si fondevano in quella voce quando egli sussurrava con il più lieve, ma percettibilissimo timbro "oh dolcezze perdute o memorie d'un amplesso che l'essere india!" frase che oggi si falseggia o si grida".
In buona sostanza Verdi chiede all'ultore marito tradito di essere solenne ed oratorio nel proclamare il tradimento amicale, accorato e profondamente ferito nella rimembranza dell'amore, vindice, in nome dell'amicizia tradita e della infranta purezza d'Amelia, alla sezione conclusiva.
Carlo Galeffi e Mario Ancona rispondono con il canto e la tecnica alle richieste verdiane. Entrambi hanno voce dal colore chiaro tenoreggiante (all'epoca di Rossini sarebbero stati baritenori, Galeffi soprattutto), nella limitata indicazione di segni di espressione di Verdi lungo le sezioni dell'aria, differenziano il mutamento dello stato d'animo di Renato, sono costantemente nobili nel fraseggio. Tutti gli acuti di cui la parte è disseminata precisamente i fa di "che compensi in tal guiSA...","che l'esSEre india" e "sul mio seNO brillava d'amor" non mostrano segni di tensione. E lo stesso accade con il sol acuto di "...sul mio seno brilLAva d'amor", che richiede massima eleganza e dolcezza e nessuna evocazione "rusticana", visto il momento della vita di coppia, che va a ricordare e con il SOL bem di "...non siede che l'odio, non SIEde che l'odio, che l'odio e la morte", dove il bercio verista è in agguato.
Per la precisione a partire dal mi acuto per la voce di bariono siamo in zona acuta e solo il baritono, che concluda sul do diesis o al massimo sul re, l'operazione di passaggio di registro potrà emettere i suoni estremi facili e timbrati, smorzati e rinforzati alla bisogna espressiva.
In difetto si canta come Piero Cappuccilli o Thomas Hampson. E, quel che peggio non si è nobili o non si accenta. Si falseggia o si grida, come diceva Giacomo Lauri-Volpi. Con l'attenuante che Cappuccilli era dotatissimo in natura e pertanto non era nobile, non era aulico, anzi era volgare e plebeo, ma almeno emetteva suoni facili, anche se interpretativamente accettabili per l'arrapamento di Tonio. Renato è vendicativo, ma niente bava alla bocca, niente arrapamento nella memoria dell'amore. Sentire cosa accade sulle "dolcezze perdute" o "sul seno brillava d'amor" non tanto per il bercio della nota acuta in sé, ma per la mancanza di qualsiasi nobiltà nel dire la frase e la palese difficoltà nella zona acuta della voce, nonostante la natura generosa.
Quanto a Thomas Hampson le mende sono le stesse, ossia un cattiva esecuzione del passaggi in un baritono tenoreggiante, che compensa il limite tecnico con suoni oscurati artificiosamente e non calibrati dalla respirazione corretta. Hampson si sforza, a differenza di Cappuccilli di essere più elegante e meno trucido, ma il risultato è solo affetazione e maniera.
Affettazione e maniera, che non sono eleganza e nobiltà.
Pare che di affettazione e maniera lo stesso Verdi tacciasse Battistini. In realtà era solo un cantante di gusto ed impianto vocale donizettiano, che reggeva le tessiture acute di Verdi. Non solo Lauri Volpi, ma anche Giuseppe de Luca, nelle interviste americane del 1917, parlano di Battistini in termini agiografici. Nessuno aveva del commendator Battistini la fluidità di emissione, la rotondità e la morbidezza del suono ed un controllo tecnico, che gli consentisse di fare quello che voleva in ogni pagina musicale, anche quelle disseminate di difficoltà come l'aria di Renato. Davanti all'esecuzione di Battistini, Galeffi ed Ancona gli risultano inferiori per eleganza e nobiltà. A differenza dei suoi successori Battistini è accorato ed aulico sin dall'invettiva iniziale, ma il passo rimane invettiva per la straordinaria espansione e squillo, che emergono nonostante la registrazione primordiale ed i quasi trent'anni di carriera del cinquantenne baritono reatino. Quando poi Battistini-Renato rimembra l'amore nessun cantante, ad onta del giudizio di Verdi (che ha un suo inossidabile fondamento), secondo il nostro gusto offre la più esauriente rappresentazione dell'eroe romantico, anzi del cattivo e vindice, nel dramma di cappa e spada.

Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera


Atto III

Eri tu che macchiavi quell'anima

1906 - Mattia Battistini

1907 - Mario Ancona

1926 - Carlo Galeffi

1978 - Piero Cappuccilli

2005 - Thomas Hampson


Read More...

sabato 7 novembre 2009

Caro Maestro, cara Giulia / 5

Maestro mio illustre!
non scritturatemi neppure per ischerzo per quell'esecuzione del Vostro Inflammatus!
Vorrei esser morta ora pur di non essere chiamata a quell'ufficio!
Però vorrei aver mille vite, mille voci per cantare ancora la Vostra Semiramide, quella sì e più d'ogn'altro capolavoro Vostro, che oggi canterella quella fanciulla figlia della povera Caterina, che va anche dicendo che io ruinai la carriera della mamma sua buonanima!! Ma che, scherziamo? L'arte Vostra è fatta per poche come la nostra Git, la grande contessa de' Rossi, non certi, consentitemi, mezzo soprani!!!

Vs devota
Giulietta


Gli ascolti

Rossini - Semiramide


Bel raggio lusinghier - Marcella Sembrich (1908)

Read More...

giovedì 5 novembre 2009

Parisina di Gaetano Donizetti - Opera Rara

Opera Rara svolge da anni, con dedizione e impegno, un ammirevole lavoro di riscoperta di titoli più o meno ingiustamente dimenticati. In particolare dedica la maggior parte dei propri sforzi, al melodramma italiano del primo ‘800: Mayr, Rossini, Donizetti, il primo Meyerbeer, Pacini, Mercadante e, da ultimo, Bellini. Le attenzioni maggiori, tuttavia, sono riservate all’opera di Gaetano Donizetti: impegno tanto lodevole quanto necessario, atteso lo stato in cui versa la quasi interezza del suo vasto catalogo, per larga parte sconosciuto, inesplorato e ignorato (salvo quella manciata di titoli mai usciti dal repertorio, sulla cui correttezza ed efficacia esecutiva, però, molto vi sarebbe da dire ed infierire). Nonostante non si tratti quasi mai di incisioni tali da lasciare tracce indelebili nella storia interpretativa o nella memoria e nelle emozioni dell’ascoltatore, le produzioni di Opera Rara si sono sempre caratterizzate per un altissimo grado di professionalità e impegno, sia per ciò che riguarda le cure filologiche (con approfondite ricerche su manoscritti e prime partiture – rimediando spesso alla mancanza di edizioni critiche ufficiali – attenzione alla prassi dell’epoca e interesse per le versioni alternative, comprese in “appendice” all’incisione dell’edizione canonica integrale), sia per gli aspetti più propriamente esecutivi (e spesso nei cast offerti, si segnala la presenza di specialisti conclamati di quel particolare repertorio).

Produzioni, quindi, che, se pure presentino un valore documentario preminente rispetto al puro piacere dell’ascolto, si sono sempre caratterizzate per un esito finale complessivo assolutamente ragguardevole. Purtroppo l’elevato standard a cui aveva abituato la piccola casa discografica inglese, appare oggi in una fase di preoccupante declino artistico ed organizzativo, da imputarsi sia agli eventi luttuosi che hanno reso necessario il cambio di gestione (la dipartita di Patric Schmid ha lasciato un vuoto, in termini di dedizione a questo repertorio, evidentemente incolmabile), sia all’inevitabile avvicendamento nelle compagnie di canto, dovuto al ricambio generazionale e segnato dalla stessa crisi riscontrabile ovunque.
Ultima uscita dell’anno per le cure di Opera Rara, presentata in un cofanetto di grande eleganza e corredata da un libretto che è in realtà un vero e proprio saggio sulla genesi dell’opera (con analisi approfondite, note sui primi interpreti e cronologie), è la donizettiana Parisina. Eseguita per la prima volta a Firenze, il 17 marzo 1833, segna una tappa importante nella carriera dell’autore per due ragioni: da una parte l’incontro con Carolina Ungher (allora all’apice della carriera, e precedentemente incrociata solo di sfuggita in occasione del Borgomastro di Sardaam: lavoro ancora immaturo) e con Gilbert-Louis Duprez (all’epoca non ancora divenuto il celebre “inventore” del DO di petto: interessante, dunque, vedere nella scrittura della sua parte, la testimonianza del primo stile del cantante francese), dall’altra l’evidente progresso nell’ambito della drammaturgia musicale, che segna qui un definitivo distacco dai modelli più scopertamente postrossiniani, per abbracciare un'estetica già compiutamente romantica, ricca di quei contrasti e passioni che condurranno al traguardo della Lucia di Lammermoor. La struttura dell'opera è incentrata su tre personaggi (Parisina, Azzo e Ugo) ognuno ben caratterizzato da una scrittura che ne identifica il carattere: la malinconia della protagonista, che emerge nella grande doppia aria dell'atto I e successiva cabaletta - che poco concedono al virtuosismo e allo slancio in acuto, ma che molto richiedono in termine di fraseggio e interpretazione - e soprattutto nella grande romanza e cabaletta dell'atto II, uno dei vertici dell'intera produzione donizettiana, “Sogno talor di correre”, oltre all'austera e drammatica scena finale “Ciel se’ tu che in tal momento” di cui la Caballè diede una magistrale interpretazione nel celebre recital di rarità donizettiane; la ferocia sanguinaria del marito di lei (ma anche il suo sincero trasporto passionale), combattuto tra amore e gelosia, ben evidenziata dalla prima aria e dal duetto con Parisina nell'atto II (dove la moglie sospira nel sonno il nome dell'amato), scena dalla potenza drammatica preverdiana; l'acceso romanticismo di Ugo espresso in una scrittura molto acuta da raggiungersi con la tecnica del falsettone (e che presenta abbondanza di DO, RE bemolle e pure una variante con un MI bemolle nella prima aria). A ciò si aggiunga una cura estrema nell'orchestrazione, che ha dello straordinario se si considera il breve tempo impiegato da Donizetti nello scrivere l'intera opera (poche settimane): e per la prima volta gli autoimprestiti non sono semplicemente adattati alle nuove parole, bensì rivisti nella struttura e profondamente modificati. Opera, dunque, di estremo interesse e che fu giudicata dallo stesso compositore uno dei suoi lavori migliori: e ne è buon testimone il successo ottenuto e il grande numero di repliche, vivente l'autore e per tutto l'800 (in Europa e in America), fino al 1896, ultima sua apparizione sino alle prime riscoperte negli anni '60 del secolo XX. Opera che, pure, attirò le attenzioni di grandissime primedonne: dopo la Ungher si ricordano Henriette Méric-Lalande, le sorelle Grisi, la Brambilla, la Strepponi, Eugenia Tadolini, la Tosi, la Stolz etc...sino alle più recenti Pobbe, Devia e, soprattutto, Montserrat Caballé (anche la parte di Ugo vide l'avvicendamento di grandi tenori dopo Duprez: Moriani, Ivanoff, Donzelli, Fraschini, Rubini). Di tutto ciò, poco o nulla è percepibile nell'incisione di Opera Rara. A cominciare dalla noiosa e pesante concertazione di David Parry: corretto, ma fantasioso come un metronomo, greve come un martello che batte sull'incudine e del tutto privo di trasporto e abbandono negli squarci di malinconico lirismo abbondantemente offerti dalla partitura (e pensare che ancora oggi c'è chi storce il naso davanti non solo ai vari Serafin, Sanzogno, Votto, ma pure ad un Patanè o ad un Gavazzeni, sovente oggetto di critiche ingiuste e preconcette, quando non di arrogante irrisione). Ma se il direttore, presenza fissa nelle incisioni della casa discografica inglese (nonché suo direttore artistico), passa in secondo piano e si limita ad essere funzionale in presenza di cantanti che riescono a concentrare su di sè l'attenzione dell'ascoltatore (rimediando così alla piattezza dell'orchestra), con un cast come quello schierato per questa Parisina, aggiunge un ulteriore tassello al sostanziale fallimento dell'operazione, non essendo in grado di ovviare alle tante mancanze dei cantanti impiegati. Infatti, più che l'accento generico e volgare di Dario Solari, del tutto incapace nel rendere il nobile tormento del Duca (e con una voce estremamente a disagio nel fraseggio e durissima negli acuti, oltre che traballante nella linea), più che la deludente Carmen Giannattasio, inerte sul piano interpretativo e vocalmente non irreprensibile (evidente la difficoltà nell'acuto e nel gestire le mezzevoci, anche se qui si sforza di imitare con scarso successo il palese modello della Caballè - con filatini manierati e mollezza espressiva invece di malinconico abbandono), ciò che davvero rimane improponibile è la prestazione di José Bros: accettabile nei centri - anche se la voce è priva di corpo - naufraga miseramente nell'acuto, e considerato il fatto che la parte di Ugo insiste proprio nelle zone più alte della tessitura, il non essere in grado di raggiungere i SI e i DO (taccio dei RE bemolle e del MI bemolle) senza strillare oscenamente, è pecca non trascurabile, anzi tale da compromettere l'intera esecuzione. In conclusione: un'incisione poco riuscita, che si fa apprezzare unicamente per il valore documentaristico (partitura integrale e ottimo suono). La registrazione è dedicata alla memoria del grande William Ashbrook, scomparso proprio quest'anno: certo non un grande omaggio al più grande studioso di Donizetti. Ps: l'anno prossimo Opera Rara uscirà con altri due titoli donizettiani: Linda di Chamounix e Maria di Rohan...mi auguro un cambiamento di rotta, per non compromettere due tra le più belle creazioni del Maestro bergamasco.

Read More...

lunedì 2 novembre 2009

Mese verdiano XIV: Son giunta. Quarta puntata: Anita Cerquetti, Antonietta Stella, Gabriella Tucci

Prima dell'alba allorchè un convento maschile di stretta osservanza quale i francescani conventuali si prepara alla nuova giornata con la preghiera giunge sul piazzale antistante il sacro recinto un cavaliere.

Nella realtà si tratta di una donna e di nobilissima, quanto decaduta prosapia, che assorbita dai rimorsi per un amore interraziale, colpevole cagione, crede, della morte violenta del proprio padre chiede asilo fisico e, prima ancora morale e psicologico, alla severa regola francescana per espiare i propri cospicui e seriali peccati di cui si autoaccusa.
La scena si snoda secondo un'assoluta fedeltà alla liturgia penitenziale. Prima della penitenza, che potrebbe essere verace, utilizzando i termini del Cardinale Federigo Borromeo circa quella -inumama secondo l'attuale sentire- elargita alla monaca di Monza, la donna rende al Superiore del convento una totale e completa confessione, condicio sine qua non per una penitenza, appunto, verace. Di quelle che le signore accorse la sera del 2 febbraio 1869 alla Scala di Milano per certo avranno definito "ona bela confession, che la lava giò tuttscos".
Alla confessione segue l'amministrazione della Santa Comunione, il conforto del pane agnelico e la vestizione dell'eremita, che intraprende il cammino di redenzione.
Molto dopo sarebbe anche arrivato Freud, ma il rimorso, il pentimento, la sete di penitenza e la brama di redenzione di Donna Leonora di Vargas hanno una forza, quella della fede popolare, ed una presa sul pubblico, che poche scene d'opera hanno nel rappresentare il rapporto con il Sacro. Solo, in altra temperie culturale e poetica, la preghiera del popolo ebraico sulle sponde del Mar Rosso.
Correva l'anno 1957 quando al convento (che era poi uno studio RAI) giunse Anita Cerquetti.
La scrittura centralizzante, da soprano Falcon (quali erano sia la Barbot che la Stolz) conveniva perfettamente alla Cerquetti il cui tallone d'Achille furono sempre gli acuti estremi, spesso forzati e fissi. E così per i detrattori della Cerquetti possiamo anche dire che così suonano sia il si nat del recitativo sulla esclamazione conclusiva, che più ancora quella di "la sua figlia a maledir". Frase tutt'altro che agevole proprio perché il si nat (per giunta coronato) è posto alla fine di una lunga frase, che richiede anche l'esecuzione di una forcella. Nel duetto con il Padre Guardiano alla chiusa del moderato "Sull'alba", complice Sanzogno la Cerquetti taglia la ripetizione di alcune battute conclusive, risparmiandosi un si bem. Il taglio è di tradizione e solo Mitropoulos lo riapre. Per contrasto la parte richiede un registro medio e grave facile e sicuro e la Cerquetti suona sempre sonora ora dolce ora risoluta su frasi che vanno dal do4 in giù e spesso richiedono attacchi sul si nat sotto il rigo. Mai un suono opaco, mai un suono non calibrato e sostenuto dal fiato.
La voce della Cerquetti è perfetta per il personaggio. Il timbro è nobilissimo e l'accento ispiratissimo. Le corde del rimorso, del dolore espresse come si conviene ad una dama di rango trovano nella Cerquetti un'interprete di assoluto riferimento. Aggiungiamo, poi, un particolare Verdi richiede a Leonora di Vargas una ampiezza e cavata fenomenali, disseminata come è la parte di forcelle alcune previste per un notevole numero di battute.
Siccome qualcuno che ci addita, per la nostra attenzione ai segni di espressione quali Beckmesser dell'opera, quando, se non con il melodramma, ma con l'altrui opinione il Beckmesser è proprio lui, preciso che il rispetto del segno di espressione previsto dall'autore, l'aggiungerne dei propri, l'ampliare il senso di quelli previsti non è affatto edonismo, ma rispetto dell'autore, interpretazione e talora, con il sostegno della tecnica assurgere al rango di artisti. Nel caso di Anita Cerquetti, pur con i difetti della zona acuta, la parola ARTE può coerentemente esser spesa.
La scena di Leonora de Vargas è il misto di eleganza, vigore e dolcezza che rendono la prima sezione della scena di altissimo livello, è il connubbio fra la dote e l'espressione, che fanno della monumentale ragazza marchigiana, che sul finire degli anni '50 venne a "dire la sua" nella lotta Callas-Tebaldi, un esempio monumentale (qui nel senso originario del termine) di accento verdiano.
Spartito alla mano possiamo rilevare come la Cerquetti non manchi un appuntamento con le forcelle previste da Verdi, alla chiusa del recitativo d'entrata rispetta alla perfezione l'indicazione "morendo" sulla frasetta "a tant'ambascia" e siccome la frase cade anche sul primo passaggio della voce femminile per i cultori di questi dettagli tecnici abbiamo anche un'esemplare esecuzione dell'operazione. La grande dote della Cerquetti si dispiega, poi, nella sezione conclusiva dell'aria dove Verdi prevede una serie di crescendo sulla parola - essenziale per la predisposta penitente- di "espierò". Questo per la cronaca è "cantare sulla parola". E siccome canta sulla parola Anita Cerquetti sul "pietà signore", dove Verdi prevede una forcella dal piano al forte, amplifica il senso del'invocazione eseguendo anche la forcella non prevista dal forte al piano. Questo significa interpretare. Arrivata alla chiusa dell'aria ossia il "non mi lasciar signor" la Cerquetti per rispettare l'indicazione "con più forza" attacca la frase piano e progressivamente spiega la propria privilegiata qualità e quantità vocale. Posso essere vociomane? Grande Ani'!!!!.
E l'ammirazione prosegue nel corso del dramma quando la Cerquetti, confitente, esegue un rallentando non previsto, ma di grande forza espressiva su "fin le belve" (re4 fa4), rende, per virtù di canto la raccomandazione verdiana di "salvati all'ombra di questa..." o l'attacco del più mosso "tua grazia sorride", che rende con la voce l'idea della serena redenzione raggiunta con il conforto della Fede, sino all'attenzione per tutti i segni di espressione "f" e l'accento del "plaudite o cori angelici". Questo ricompensa un paio di si nat piuttosto fissi e spinti.
Aggettivi, superlativi assoluti vanno spesi per la preghiera finale, che non superando un sol acuto consente al timbro dolce ed aureo della signora Cerquetti di chiudere la scena ed avviarsi alla redenzione.
Siccome l'interprete ed il fraseggiatore non si dovrebbe limitare al canto si devono ascoltare certe frasette come "un'infelice", autodefinizione di Leonora, che bussa al convento, "vergin m'assisti", di Leonora in attesa del Superiore e della Confessione, "Darmi a Dio", risposta di Leonora al Padre Guardiano, che investiga, come prescrivevano le norme del Concilio di Trento l'animus poenitendi o l'assunto "E' fermo" circa la perpetuità del voto e la seguente forcella sul "bontà divina" dal la al fa diesis. Repetita juvant: Grande Anì!
Premetto non che la grandezza di esecutrici e di interpreti manchi ad Antonietta Stella e Gabriella Tucci. Anzi ascoltare due cantanti che all'epoca dei loro successi furono, spesso, ritenute non al livello delle grandissime serve a valutare quei tempi, confrontadoli agli attuali.


Al convento della Madonna degli Angeli Antonietta Stella giunge con l'accompagnamento di Dimitri Mitropoulos e sia detto subito vi incontrerà un confessore ed un frate portinaio, che praticano la più autentica malagrazia del canto. Tale da mettere a dura prova qualsivoglia vocazione.
Il maestro Mitropoulos aveva interpretato in maniera esemplare qualche anno prima con Renata Tebaldi l’opera verdiana. Il maestro Mitropoulos, uno dei più grandi direttori d’orchestra mai esistiti proprio in quanto tale non aveva affatto idee preconcette e prestabilite sullo stacco dei tempi, modificabili a seconda del cantante di cui disponeva. Per quel che può interessare e contare tale opinione circa la qualità di un direttore è condivisa da Richard Bonynge, stando a quanto dichiarato dallo stesso qualche giorno or sono dai microfoni della Rai.
Per sincerarsi della grandezza basta ascoltare la realizzazione della medesima scena disponendo appunto della Tebaldi e della Stella.
Mitropoulos stacca in generale tempi veloci ed asciutti. La scelta consente ad una voce, che oggettivamente e soprattutto secondo i canoni del tempo, non era di autentico soprano drammatico, di essere, comunque, drammatica E ce ne accorgiamo subito quando il suono della Stella suona un poco spinto sul forte del sol diesis di "sangue" del recitativo, mentre subito dopo l’esecuzione del piano su “non reggo a tanta ambascia” è di grande presa emotiva e prepara l’esecuzione dell’aria dove l’allegro assai moderato è molto sostenuto e vibrante, ma la voce della Stella rende l’indicazione “come un lamento” di Verdi.
E’ evidente per superare il singolo esempio che con questo tempo, ad avviso del concertatore la cantante riusciva a rendere nel migliore dei modi quanto previsto da Verdi. Ad esempio e nelle frasi “espierò” e nel primo attacco di “pietà di me signor” la Stella suona un poco piatta, nel confronto con la Cerquetti, ma arrivati all’indicazione “con passione” su “non m’abbandonar” direttore e soprano eseguono un rallentando che coglie, dato il timbro dolce e femminile della protagonista, l’indicazione verdiana.
Della Stella nell’aria sono da ammirare la facilità con cui scende al registro grave e la dizione perfetta, scolpita, mai esagitata con la quale rende certe frasi come “ che come incenso ascendono a Dio” ossia “fede conforto e calma”, elementi che conpensano la mancanza della straordinaria dote timbrica in quella zona della Cerquetti.
Arrivati alla sezione conclusiva dell’aria Mitropoulos e la Stella danno luogo ad una esecuzione di grande carica e tensione: rispetto assoluto delle indicazioni dell’autore alla prescrizione “con più forza” dell’ultimo “non mi lasciar soccorrimi signor” e del seguente “deh non m’abbandonar” con Mitropoulos, che stringe moltissimo sugli ultimi “pietà signor” a rendere lo sconvolgimento interiore di Leonora. La quale è poi nervosa ed inquieta (e qui Antonietta Stella è irresistibile) in frasi come “chiedo il Superiore” autoritaria, come si conviene ad una dama di nobile schiatta per di più in veste di cavaliere.
Nel duetto per esaltare autore e doti naturali della protagonista Mitropoulos attacca piano l’allegro agitato “infelice delusa reietta”. In questo modo gli acuti squillanti e facili della Stella segnano il punto di più alta disperazione e tensione del brano. I punti esclamativi per direttore e soprano si impongono, al pari delle riprovazioni per il pessimo padre Guardiano. Pessimo vocalmente, ma accompagnato da un Mitropoulos, che rende perfettamente l’indicazione di “solenne” prevista alla frase “Guai per chi”. Certo per rendere indicazioni dell’autore e stacchi del direttore ci sarebbero voluti colossi come Pasero o Mardones. Inutile dire che una cantante lirica come la Stella rende compiutamente, nel generale rispetto dei segni di espressione, indicazioni come “dolcissimo” all’inizio del cantabile “più tranquilla l’alma sento”.
Nell’andante mosso “ Se voi cacciate questa pentita” Antonietta Stella non ha – perdonate la ripetizione- la straordinaria opulenza della zona medio grave della Cerquetti e la frase “Salvati all’ombra” ne risente nel senso che il soprano perugino non è ispirata come la corregionale. Arrivata alla chiusa della sezione “chi tal conforto mi toglierà” grazie ad un rallentando di Mitropoulos prepara un’esecuzione del “poco più mosso” aderente al dettato dell’autore ed al momento scenico.
L’ansia interiore di questa Leonora ritorna alla frasetta “Andiamo”, che precede la sezione conclusiva del duetto e la intensa scena della vestizione. A riprova che, almeno nel repertorio tradizionale (credo soprattutto grazie alla grande tradizione dei ripassatori e preparatori di spartito, che oggi abbiamo dimenticato completamente)l’eloquenza di fraseggio non fosse appannaggio di un solo soprano e, tanto meno un'invenzione dei soprani del dopo Callas, che alle prese con Leonora di Vargas non saranno in grado di eguagliare la triade oggi proposta. Quanto alla sezione finale del duetto, eseguita ab integro, la Stella è ancora attentissima al rispetto dei segni di espressione previsti e chi volesse munirsi di spartito potrà anche verificare che le idee del compositore risultino amplificate dalle scelte dinamiche del soprano e della bacchetta. Come sempre gli acuti della Stella sono facili e radiosi.
Arrivati alla scena della vestizione il vero protagonista diventa il direttore. Era accaduto lo stesso anche a Firenze. Il tempo a Vienna è sostenutissimo, nessuna indulgenza quando gli archi attaccano il tema di Leonora a tempi allargati, ma al tempo stesso la scena ha l’austerità e la solennità che la vestizione di un religioso richiede. Mitropoulos era uomo religiosissimo e di grande cultura spirituale. Credo si senta nell’evocazione del clima conventuale, molto caro ad un ortodosso. Il vero tallone d’Achille è il basso. Quando, poi, attacca il tema della “vergine degli angeli” con l’indicazione di sottovoce orchestra e coro rendono l’idea della pace ormai conquistata dall’inquieta protagonista, che rispetta le indicazioni di piano e forte previste e, per smentire chi ritiene Antonietta Stella discreta cantante e mediocre interprete, non si canta affatto addosso. Per lei cantano orchestra, coro e, soprattutto direttore.


La terza penitente, che giunge all'immaginario convento della Madonna degli Angeli è Gabriella Tucci. Siamo a New York, 1965, ripresa della Forza del destino sotto la guida di Nello Santi (il braccio sicuro!), star della serata Franco Corelli, arduo confronto per la protagonsta femminile i cui termini di paragone si chiamano Milanov e Tebaldi nel recente passato, Leontyne Price in contemporaneo.
La voce della Tucci non aveva l'opulenza straordinaria di Anita Cerquetti e neppure il timbro di Antonietta Stella. Tecnica, musicalità e resistenza erano quelle della professionista di una solidità oggi persa e dimenticata, che consentivano la sistematica esecuzione del Verdi pesante ad una cantante, che soprano lirico drammatico non era. In difetto non si giustificherebbero un repertorio vastissimo e trent'anni di carriera nei massimi teatri del mondo, Metropolitan più di ogni altro.
Allora si parlava con sufficienza di una cantante come la Tucci, oggi del professionismo e del mestiere solidissimo di una Tucci siamo privi e, quindi, spendiamo parole come artista, diva, interprete per soggetti quali la signora Fleming, che dopo il verismo potrebbe anche approdare al tardo Verdi.
Tanto per incrementare gli incassi e diseducare le orecchie degli ascoltatori. Gabriella Tucci, invece, educa e forma l'ascoltatore, pur non essendo una fuoriclasse.
L'esecuzione della grande scena di Leonora di Gabriella Tucci -ripeto solidissima professionista- consente di comprendere a chi non era nato o non andava all'opera nel 1965 perchè Forza, Aida, Ballo, Chenier, Tosca fossero rappresentante in ogni teatro senza alcun problema o patema d'animo. Erano, appunto il repertorio.
E trattandosi di esecuzione di opera di repertorio si alternano colpi da artista a normale esecuzione. Arrivata al convento la preoccupazione di soprano e direttore è quello di essere drammatici. Conseguenza la Tucci, soprano lirico, risulta un poco enfatica nel recitativo; l'enfasi porta a qualche acuto spinto come il sol diesis di "sangue", mentre al si nat l'attacco è un po' duro, poi la cantante smorza la nota. Prodezza ed effetto di notevole drammaticità. Solo che per saperlo fare bisogna anche saper dove mettere la voce. Sentire sempre in confronto gli acuti della celebrata signora Fleming o di Violeta Urmana. Nella prima sezione dell'aria i segni di espressioni sono molto parzialmente eseguiti. Arrivata, però, nell'elemento più consono alla propria voce, la seconda sezione dell'aria il "deh non m'abbandonar", la Tucci inizia ad esprimere l'ansia di pentimento e redenzione di Leonora. Facilissimi gli acuti, senza difficoltà e cattivo gusto la discesa nella zona medio grave della voce. Santi non è Mitropoulos. Anche lui stringe nelle ultime invocazioni. Alla fine applausi, anzi ovazioni. Meritatissime.
Nelle battute di conversazione con Melitone è chiaro che il timbro privilegiato della Tucci è già sufficiente per essere la tormentata ed impaurita donna, che chiede asilo fisico e morale. Sentire "fama pietoso il dice" e "Vergin m'assisti".
Essere varie significa cambiare colore della voce passando dalle frasi finali dell'invocazione al brevissimo "un segreto".
Nell'esecuzione del duetto Gabriella Tucci canta bene, l'interprete è accorata e misurata, arrivata al primo si nat di "sua figlia a maledire" emette una nota facilissima e penetrante. La "zampata" arriva al "Darmi a Dio". Sul si naturale centrale di "Dio" un rallentando rende l'enfasi dell'eccesso di desiderio di espiazione, che anima donna Leonora. Verdi nulla indica. Ripeto e chiedo scusa di certa insistenza, questa è la frase, che colpisce l'ascoltatore, non è l'effettaccio è rendere il momento drammatico, sensazione che si ripete nel contrasto fra la frase "salvati all'ombra" e il successivo "voi mi scacciate".
Che Gabriella Tucci fosse un soprano lirico emerge nella conclusione del duetto con il padre guardiano dove le prime frasi si giovano del timbro dolce ed angelico, ma lo slancio drammatico richiesto e verdiano per eccellenza costringono la cantante a qualche acuto un po' spinto e forzato coma accade con il si nat.4 di "grazie". Accorciata la sezione conclusiva, squillante e fermissimo il si nat. 4 della chiusa. Ovvio che la Tucci canti benissimo la Vergine degli angeli.
Morale: nessuno dei bassi anche se porta l'insigne nome di Boris Christoff può eguagliare Pasero, Pinza e Vaghi, uno -Kreppel- sarebbe da protesta. Dei diriettori Mitropoulos è un gigante, un esempio. Gli altri solidissimi professionisti; non perdono mai cantanti ed orchestra. Le tre protagoniste sono ciascuna variamente la declinazione della voce d'oro italiana o all'italiana, del fraseggio sempre preciso, eloquente, congruo al momento scenico e drammatico.
Soprattutto ci ricordano il significato culturale del melodramma italiano.
Grazie a queste ormai ultrasettantenni ex ragazze dell'Italia centrale, che nella realtà, arrivate al convento, avrebbero esclamato "so' qua"!





Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1957 - Anita Cerquetti (con Boris Christoff & Fernando Corena - dir. Nino Sanzogno - RAI)

1960 - Antonietta Stella (con Walter Kreppel & Karl Doench - dir. Dimitri Mitropoulos - Opera di Stato, Vienna)

1965 - Gabriella Tucci (con Giorgio Tozzi & Elfego Esparza - dir. Nello Santi - Met, New York)

Scarica tutti gli ascolti (file ZIP)

Read More...