martedì 12 gennaio 2010

Ildar Abdrazakov in concerto alla Scala

I concerti di canto proposti nel teatro milanese devono, nel pensiero del sovrintentente e direttore artistico, concorrere all'educazione ed all'elevazione culturale del pubblico milanese. Lo sappiamo ed è inutile continuare la polemica.Anche se un invito all'autocoscienza mai guasta.
Altra polemica, però, a mio avviso ha senso. Ossia domandarsi se e quali i cantanti oggi in carriera dispongano delle qualità tecniche, culturali e musicali per assurgere a grandi interpreti del repertorio cameristico. In qualsivoglia lingua cantato, intendiamoci bene.

Quindi le proposte di commento, prive d'ogni vis polemica nei confronti di Ildar Abdrazakov sono affidate ad un basso di lingua anche russa, come di lingua anche russa Abdrazakov e famoso per essere stato fra il 1920 ed il 1949 uno degli esecutori di riferimento di Verdi e Wagner, ossia Alexander Kipnis.
Ieri sera il programma prevedeva un incipit con Čajkovskij, l'autore russo più italiano e sempre nel primo tempo Rachmaninov. La voce di Abdrazakov, alto ed imponente come conviene ad un basso russo, in realtà è chiara e piccola. Un giovanissimo ascoltatore al mio fianco si domandava se fosse un baritono. Tralascio. Oggi sembra un diffuso gioco al massacro ritenere che un cantante canti fuori della propria corda. Anche se nel caso di specie sopratutto i primi anni di carriera hanno visto il cantante affrontare ruoli che, nominali di basso, potrebbero anche convenire a voci baritonaleggianti. A questo lo ha portato anche il limitato volume e la ridotta ampiezza (davvero poco da basso) della voce che ad esempio in Scala, rectius agli Arcimboldi nel ruolo protagonistico di Mosè era di tutta evidenza.
In Čajkovskij il nostro ha cantato con gusto, anche con una certa varietà di fraseggio. Appena la scrittura accenna a salire o scendere però si percepiscono suoni, che sempre il mio giovane vicino ha definito "grevi". Impressione giusta: sono i tipici suoni di chi non sostiene correttamente e non proietta la voce. Anche se Abdrazakov a differenza di molti cantanti slavi non emette suoni stomacali nelle filature e nei tentativi di addolcire il suono è ovattato.
Arrivato a Rachmaninov, che richiede una vocalità più russa ed altisonante soprattutto nell'aria di Aleko si capiscono bene i limiti del cantante.
Poi arriva il repertorio italiano o italianeggiante come i sonetti di Liszt (fra l'altro tutt'altro che facili anche per l'accompagamento pianistico, brava Mzia Bachtouridze) e la domanda dell'ideoneità e capacità dei cantanti oggi in carriera di essere concertisti ossia di colorire la parola, di dare senso a quello che cantano per cultura e preparazione musicale acquista una rilievo e rende necessaria l'interrogazione a chi offra al pubblico questi programmi. Identica osservazione l'ascolto del ciclo di Ravel dedicato a don Chisciotte dove abbiamo anche sentito anche un paio di suoni in pianissimo la cui ubicazione era discutibile e pure l'intonazione. Qualcuno potrà accusarci di pesare con il bilancino di dare rilievo alla singola nota. Sarà anche vero, però, se il cantante da camera non è in grado di padroneggiare la voce dal piano al forte e di superare le moderate difficoltà che la maggioranza delle pagine prevedono, per quale motivo canta musica da camera?
Poi accompagnato da un sorridente e con l'aria ironica suonatore di una sorta di flauto (Kurai) Abdrazakov ha proposto due canti. E allora la voce non è diventata quella strapotente di certi bassi russi, ma abbiamo visto l'utilizzo del sostegno e del fiato (erano passi di tessitura alta e diciamo vocalizzata) sentito suoni dolci e lucenti che sono quelli del cantante che canta sfruttando le risonanze della maschera. Non solo c'era anche l'anima dell'esecutore, prima piuttosto latitante o compressa dall'idea di far cultura. Per la cronaca se sento Lotte Lehmann, che canta un Lied sento cantare non tentare di far cultura, che viene da sè se il cantante è un professionista, prima ed un artista poi.
Quanto ai bis nella serenata di Don Giovanni c'era ancora il tentativo di cantare dolce e piano, ma intendiamoci bene i don Giovanni insinuanti ed a fior di lbbro sono a 78 giri e don Basilio era di limitata ampiezza e volume, tanto è che era coperto dal suono del piano e la pancia del signor Abdrazakov straordinariamente immobile.


Basso - Ildar Abdrazakov
Pianoforte - Mzia Bachtouridze
Kurai - Robert Yuldashev


Pëtr Il'ič Čajkovskij
Slesa drožit, op. 6 n. 4 / Una lacrima trema
Net, tol'ko tot, kto znal..., op. 6 n. 6 / Solo chi conosce la nostalgia
Blagoslavljaiu vas lesa, op. 47 n. 5 / Vi benedico, boschi
Kolibel'naja, op. 16 n. 1 / Ninna Nanna
Serenata di Don Giovanni, op. 38 n. 1

Sergej Rachmaninov
U vrat obiteli moei / Alla porta del sacro chiostro
Ne poj krasvica pri mne, op. 4 n. 4 / Non cantare, bella fanciulla, in mia presenza
Christos Voskres, op. 26 n. 6 / Cristo è risorto
Cavatina di Aleko, dall’opera Aleko

Franz Liszt
Tre sonetti del Petrarca
Benedetto sia ’l giorno
Pace non trovo
I’ vidi in terra angelici costumi

Maurice Ravel
Trois chansons de Don Quichotte à Dulcinée

Due canzoni popolari bashkire
Azamat per voce e kurai
Irandek per voce, kurai e pianoforte



Gli ascolti

Alexander Kipnis


Brahms - Vier ernste Gesänge: O Tod, wie bitter bist du (1936)

Schubert - Die Winterreise: Der Lindenbaum (1928)

Schumann - Mondnacht (1930)

R. Strauss - Zueignung (1930)

Wolf - Mörike-Lieder: Um Mitternacht (1933)

Kalinka (tradizionale) (1931)


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domenica 10 gennaio 2010

Il mito della tragédienne: Salomè, principessa di Giudea

Alcuni giorni fa, in chat, un lettore riportava la frase che segue, tratta dalle note introduttive al dvd della Rodelinda glyndebournense con Anna Caterina Antonacci, spettacolo ambientato in epoca littoria:

"A registi siffatti viene regolarmente indirizzata, da noi che in fatto di teatro lirico siamo all'avanguardia della retroguardia, la puntuale accusa di stravolgimento, bruttura, leso barocco. Si lede sempre qualcosa, per tali accusatrici anime belle: e mai che sospettino di essere loro quelli lesi e handicappati nella percezione di quanto sta accadendo nella viva realtà teatrale contemporanea, di prosa o lirica poco importa, giacché sempre più stanno, per fortuna, avvicinandosi."

L'estensore di siffatte note si qualifica come persona alquanto sprovveduta o deliberatamente ignara. Non già l'avvicinamento, ma la perfetta fusione di musica e teatro è fenomeno che ha origini ben più remote dell'epoca dei registi cosiddetti provocatori, iconoclasti ed enfant prodige, che nulla hanno inventato, malgrado lo zelo dei loro sostenitori. Per convincersene basta leggere le cronache e ascoltare i documenti risalenti ad anni in cui perduravano in grembo a Giove dvd, dirette in alta definizione e operazioni di "lifting" culturale di varia risma.

Il mito della cantante attrice è antico quanto l'opera e ad essa consustanziale. Ma è alla fine dell'Ottocento che questo mito assunse proporzioni inedite, complici da un lato l'affermazione del repertorio postromantico e liberty, che aveva i suoi esponenti di punta in Puccini e Strauss, dall'altro l'invenzione del grammofono e il conseguente avvento del Divo discografico. Naturalmente poteva assurgere al titolo di Divo discografico solo il cantante che avesse una solida carriera alle spalle nei massimi teatri del mondo. Ai nostri giorni il rapporto appare invertito, ovvero si ritiene che il cantante che disponga dell'appoggio di una solida casa discografica sia, di conseguenza, in grado di cantare nei massimi teatri del mondo, e anzi che questi debbano inchinarsi a lui e all'etichetta che lo sostiene. La realtà dei fatti suole smentire questo assunto.
Uno dei grandi titoli da Diva, se non il supremo, fu ed è Salome. E non è singolare, se si considera che l'opera deriva da un dramma di Wilde destinato alla Diva per eccellenza, Sarah Bernhardt. Vuole la tradizione che Strauss sognasse, per la sua protagonista, una voce da Isotta nel corpo di una sedicenne. Le cronache narrano che la creatrice della parte, Marie Wittich, avesse una bella e robusta voce, ma ben poco dell'adolescente perversa. Facile, vedendola in scena, scambiarla per Erodiade. Ma le cose erano destinate a cambiare.
L'opera calamitò fin dai primi anni l'attenzione di primedonne celebri per la superba presenza scenica, da Gemma Bellincioni, che a Torino fu la prima Salomè italiana, battendo di poche ore Salomea Krusceniski impegnata alla Scala, e riprese più volte il ruolo a Napoli, Roma, Venezia, Bologna e infine a Parigi, a Mary Garden, che cantò l'opera a Manhattan e poi all'Opéra di Parigi, da Emmy Destinn, prima interprete a Berlino e allo Châtelet, e Maria Jeritza, regina della parte alla Staatsoper viennese per quindici anni, a Giulia Tess, Carmen Melis e Franca Somigli, egualmente generose, seppur internazionalmente meno rinomate. Nonostante il grande successo e le numerose produzioni in tutta Europa, l'opera costituì per il Met, dove fu proposta una sola sera nel 1907, protagonista Olive Fremstad, un autentico shock e dovette affrontare un lungo oblio, da cui riemerse a metà degli anni Trenta. Certo dovettero influire anche ragioni legate alla moralità, o assenza di moralità, del titolo, ed è notorio, ad esempio, che Kirsten Flagstad giudicasse indegno di una donna onesta interpretare in scena una creatura così sfrenata e sensuale. Analoghe remore aveva a suo tempo manifestato la Wittich, o come la chiamava bonariamente l'autore, "Nonna Wittich".

Certo accanto alle difficoltà poste dalla morale e dal comune senso del pudore ci sono quelle previste dalla partitura. Che sono molte, variegate e difficili da sormontare.
La tessitura, innanzi tutto. Salomè canta per buona parte della serata in zona centrale (fa3-sol4), con ampie frasi che mettono a dura prova la resistenza polmonare della cantante, ma non mancano improvvise e fulminanti escursioni in zona acuta: nella scena con il Battista, la principessa di Giudea tocca più volte il la, il si bemolle e il si naturale, in coincidenza con i momenti di maggiore intensità delle blasfeme profferte. In basso il limite estremo è dato da due sol bem 2, rispettivamente nella prima scena (al momento in cui Salomè si affaccia alla cisterna, cercando di contemplare per la prima volta l'inviato di Dio) e al termine della prima sezione del monologo conclusivo. Si tratta di una tessitura che può convenire tanto a un soprano drammatico quanto a un mezzosoprano con acuti sicuri, se non saldi e svettanti. E se si possono tollerare suoni un poco tirati e malsicuri sui rari acuti, la perfetta fusione dei registri, ottenuta da una corretta esecuzione del primo passaggio, è cruciale. E' possibile verificare l'assunto ascoltando, in sequenza, Grace Bumbry e Catherine Malfitano.
Si potrà obiettare che, ove si consideri la tessitura e null'altro, la parte di Salomè può essere adeguatamente affrontata anche da un soprano lirico spinto, la cui vocalità, tradizionalmente ritenuta più giovanile di quella del soprano drammatico, meglio risponde alle esigenze del personaggio. Purtroppo fra le suddette esigenze, e non certo all'ultimo posto, va compresa la necessità di passare senza fatica l'orchestra, ed è questo lo scoglio contro cui puntualmente s'infrangono le numerose voci di soprano lirico, anche e soprattutto non spinto, che si avventurano nell'opera. Perché non sarà inutile ribadire che gran parte dei nominali mezzosoprani che hanno affrontato e tuttora affrontano il titolo sono in realtà soprani lirici in difetto di tecnica nella zona del primo passaggio di registro, e di conseguenza assai limitati in acuto. Ma soprani lirici restano, per quanto tentino di gonfiare le gote e scurire artificiosamente la voce, riuscendo solo ad ingolfare ulteriormente l'emissione. E che il timbro scuro o bitumato serva poco o nulla lo rammenta Ljuba Welitsch, forse la più completa declinazione della Salome liliale, voce argentina ma di autentico soprano drammatico, insuperata nel rendere l'estasi erotica e l'osceno abbandono della scena finale. Il gusto appare più datato, invece, nei passi concitati, con i centri che risultano a volte un po' troppo aperti, ma nulla in confronto a quello che combina, nelle medesime pagine, il nominale mezzosoprano Maria Ewing, rinomata Salomè senza veli.
Per capire quali conseguenze produca la mancanza di omogeneità fra primi acuti, centri e gravi, è sufficiente considerare la scena in cui Salomè, dopo avere danzato per il Tetrarca, esige la propria mercede. La frase "Den Kopf des Jochanaan", che attacca sul si3, sale al re#4 e poi al sol#4 per scendere poi lungo l'arpeggio di mi maggiore fino al mi3, è sede privilegiata per la manifestazione del proverbiale "scalino", ossia la frattura dei registri. La relativa contiguità delle note toccate rende la suddetta frattura ben più evidente dei tanti passaggi costruiti su ampi intervalli, nei quali all'interprete risulta più agevole contrabbandare per magnifico ed eloquente chiaroscuro quello che è in effetti mero "buco" vocale. Frase altrettanto perigliosa è quella, di poco successiva, "Ich fordre den Kopf des Jochanaan", con i suoi la naturali sotto il rigo ribattuti e poi la salita al mib3, fa3 e sol3. Un passaggio apparentemente banale, ma sufficiente a verificare se l'interprete disponga di uno strumento che le consenta, per l'appunto, di essere interprete.

Altro momento topico è il finale. Il delirio di Salomè che attende il ritorno del carnefice attacca in zona medio-grave e trapassa, con sempre maggiore veemenza, all'acuto, mentre le frasi rivolte alla testa mozzata di Jochanaan segnano, nell'arco della serata, il momento in cui la tessitura del soprano è in assoluto più alta, malgrado la nota estrema sia un si bemolle. Dopo una sera passata a cantare al centro, in un'opera che vede il soprano protagonista assoluta dell'azione per nove decimi della sua durata, questi venti minuti conclusivi, con sovrabbondanza di frasi di monumentale lunghezza, da cantarsi con grande passione ma senza che vengano meno la purezza d'accento e la qualità del legato, essenziali per ritrarre l'estasi irrecuperabile del personaggio, sono un vero e proprio "cazzaccio" paragonabile alle grandi scene di follia del melodramma romantico. E come in quelle, solo una voce tecnicamente sicura potrà sortirne un effetto che non sia velleitario o fiacco. Come del resto solo un'interprete che padroneggi perfettamente il proprio strumento potrà essere, di volta in volta, seduttiva, insinuante, manipolatrice, furtiva e sognante come può e deve essere Salomè.

Una riflessione peculiare merita Anja Silja, voce di soprano leggero ritenuta, da alcuni, capofila delle cosiddette declamatrici, che gridacchia e stride su un banale fa#4 (conclusione della scena con Narraboth: ascoltare, per comparazione, il filato esibito nel medesimo punto da Grace Bumbry) e che, smessi i panni di Salomè, ha poi con eguale mancanza di proprietà rivestito quelli di Erodiade. Tale madre tale figlia, come suol dirsi.
Anche qui è il caso di intendersi: ove si consideri la declamazione un'alternativa al canto professionale, la designazione della signora Silja come portabandiera della categoria non manca di fondamento. Certo che poi basta sentire quel che resta (in tutti i sensi) di due grandi cantanti attrici, Emmy Destinn e Maria Jeritza, per capire che la declamazione, la scansione bruciante del testo e (almeno in parte) della musica non sono riducibili a un campionario di farfugliamenti e smancerie di quart'ordine. E sì che tanto la Destinn quanto la Jeritza escono proprio male dagli ascolti proposti: in conflitto con l'intonazione, spesso in debito d'ossigeno, con i gravi ovattati (Jeritza, che peraltro negli estratti proposti contava già più di vent'anni di onorata e onerosa carriera) e gli acuti fissi (Destinn), riescono tuttavia entrambe a essere più espressive e appropriate delle loro sventurate epigone, anche solo per la banale ragione che le voci risultano meglio proiettate e di conseguenza possono piegarsi al piano e al pianissimo senza sconfinare nella prosa. A volte basta poco, ma veramente poco!!!

E... i celebri e celebrati exploit scenici - su cui così volentieri s'intrattengono i critici, forse perché così facendo evitano di parlare di musica... - di tante Salome, comprese quelle che scambiano la danza dei sette veli per un numero usurpato alle Folies Bergère?

"Ciò che attrici esotiche, degne di un varietà di infimo ordine, si sono permesse di fare in rappresentazioni posteriori muovendosi come serpenti e facendo volteggiare per aria la testa di Jochanaan, ha spesso superato ogni limite di decenza e gusto! Chi è stato in Oriente e ha osservato il decoro delle donne di laggiù capirà che Salome, giovinetta casta e principessa orientale, deve essere rappresentata con la massima semplicità e nobiltà di gesti; altrimenti, incapace com'è di fronteggiare il miracolo del mondo straordinario, ostile che si trova davanti, invece di pietà susciterà solo raccapriccio e orrore".

Chi è mai l'ottuso reazionario, responsabile di queste righe grondanti disprezzo per la viva realtà teatrale? Il dottor Richard Strauss (Ricordi delle prime rappresentazioni delle mie opere, in Note di passaggio, Torino 1991, p. 130).



Gli ascolti

Strauss - Salome


Ich will nicht bleiben!...Du wirst das für mich tun, Narraboth - Maria Cebotari (con Marko Rothmuller & Karl Friedrich - 1947), Anja Silja (con Gerd Nienstedt & Glade Peterson - 1970), Grace Bumbry (con Norman Bailey & Frank Little - 1978)

Jochanaan! Ich bin verliebt in deinen Leib - Emmy Destinn (1907), Maria Jeritza (1933)

Dein Leib ist grauenvoll...In dein Haar bin ich verliebt - Maria Cebotari (1947), Ljuba Welitsch (1949)

Dein Haar ist gräßlich...Deinen Mund begehre ich, Jochanaan - Emmy Destinn (1907), Catherine Malfitano (1992)

Sieh diesen Mann nicht an...Ich will deinen Mund küssen - Maria Jeritza (con Emil Schipper & Georg Maikl - 1933), Göta Ljungberg (con Friedrich Schorr & Hans Clemens - 1934)

Ah! Herrlich! Wundervoll, wundervoll! - Göta Ljungberg (con Max Lorenz & Dorothee Manski - 1934), Ljuba Welitsch (con Frederick Jagel & Kerstin Thorborg - 1949), Anja Silja (con Ragnar Ulfung & Sona Cervená - 1970), Karita Mattila (con Siegfried Jerusalem & Larissa Diadkova - 2004)

Es ist kein Laut zu vernehmen - Ljuba Welitsch (1949), Anja Silja (1970), Maria Ewing (1988), Catherine Malfitano (1992)

Ah! Du wolltest mich nicht deinen Mund küssen lassen, Jochanaan! - Göta Ljungberg (1929), Maria Jeritza (1933), Maria Cebotari (1941), Ljuba Welitsch (1949), Grace Bumbry (1978), Maria Ewing (1988), Karita Mattila (2004)



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venerdì 8 gennaio 2010

Mese verdiano XVIII - Son giunta! Settima puntata: Montserrat Caballé, Rita Orlandi-Malaspina e Ilva Ligabue

Alla fine degli anni’60 partì la campagna di liricizzazione di Verdi. Ed in questo, complice von Karajan e l’intensa campagna pubblicitaria, che circondava il famoso direttore, Verdi si trovò ancora una volta in compagnia del coetaneo e rivale Wagner. Oggi Verdi e Wagner sono più che mai in coppia nell’assoluta impossibilità di allestire decentemente un titolo del loro catalogo.

Per contro quando partì la campagna di liricizzazione era normale che i massimi teatri proponessero con assoluta regolarità il titolo di Verdi, che fama metaoperistica designa con appellativi tipo “la malefica”, “l’opera mai scritta” e, sopra tutti “la maledetta”.
Al momento in cui la campagna venne lanciata e sostenuta il Verdi lirico parve la salvezza perché si riteneva coincidesse con esecuzioni assolutamente rispettose delle dinamiche di spartito di cui – e mi limito alla corda di soprano- soprananoni e sopranacci tipo Cigna, Caniglia, Milanov e Scacciati, complici direttori di bieca ispirazione toscaniniana avevano fatto scempio.
In questa campagna, intorno al 1968, in una tavola rotonda sulla rivista delle edizioni ERI dedicata a Maria Callas, Rodolfo Celletti indicò in Montserrat Caballé il soprano verdiano del futuro. All’epoca la señora aveva affrontato in teatro il solo Don Carlos e registrato o eseguito in concerto le arie(ovvero i passi elegiaci e sognanti) di Aida, Forza e Ballo.
In teatro la señora approdò al titolo verdiano solo nel 1978 e, decorso un decennio, la recensione di Rodolfo Celletti su Discoteca fu alquanto diversa rispetto agli auspici di dieci anni prima.
Anticipo la conclusione: delle tre Leonore di Vargas oggi esaminate la Caballé è spartito alla mano, tradizione interpretativa nell’orecchio, attenzione ai principi del canto professionale quella più censurabile e discutibile. Poi se qualcuno riesce a convincere che i segni di espressione sono optional, che la tecnica di canto del Garcia, piuttosto che del Lamperti sono invenzioni dei “grissini”, come, con affettuoso disprezzo, ci chiamano, altrove, la “claudiette”, possiamo, anche, proclamare Moneserrat Caballé la più completa Leonora di Vargas mai esistita e coerentemente godere delle attuali, che, una esclusa, ad altro non repertorio, ma mestiere potrebbero con identica coerenza dedicarsi.
E preciso che per omaggio alla memoria artistica dell’illustre cantante catalana è proposto l’ascolto della prima Leonora, ossia la scaligera. Solo che si esamini quella successiva di un semestre, eseguita in Barcellona, i vizi e vezzi sono cresciuti, il canto professionale diminuito, l’interpretazione sempre più approssimata e casuale.
Se vogliamo i conti sulla prestazione della divina Montsita sono presto fatti. In una parte di soprano Falcon la Caballé emette suoni aperti e sgangherati dal do centrale al si nat sotto il rigo. Per la precisione l’inconveniente emerge sin dal recitativo iniziale “estremo asil questo è per me” con esemplare suono di petto senza appoggio in “son giun-ta” trattasi di un mi 3. Idem in “la mia orrenda storia è nota in quell’albergo” di fatto una omofonia. Per completezza suoni sopra il mi4 sono sistematicamente gridati vedasi “son giunta” iniziale.
All’aria “Madre pietosa Vergine” passo nella prima sezione assolutamente patetico proprio la regina dei piani e dei pianissimi risulta assolutamente monotona e piatta. Non serve neppure saper leggere la musica per accorgersi che le forcelle di cui è disseminata la parte non vengono rispettate. L’aria è eseguita perennemente sul mezzo forte e con un tempo anche piuttosto sostenuto. Montserrat Caballé anzi dinanzi alla forcella di “dal core a cancellare” esegue un piano anzichè quanto previsto in spartito. Arrivata alla sezione seconda dell’aria i vari “deh non m’abbandonar” a parte qualche suggestivo piano in zona centrale (do4 mi 4) emette suoni sopra duri e stridenti (vedasi il si bem del primo “deh non m’abbandor), parla sulle battute “a quei sublimi cantici” dando il saggio del suono privo di appoggio e il si nat grave “di calma” non si sa bene come sia collocato. Siccome al “non mi lasciar soccorrimi” Verdi prevede con più forza la Caballé piazza il solito piano, che sul re centrale, le riesce splendido in compenso il “deh non m’abbandonare” dell’ultima invocazione rende Gina Cigna e la Caniglia due forbite vocaliste. Trattasi di un banale fa# 3! Forse non tanto banale perché a rigore su quella nota cade il primo, delicatissimo passaggio della voce femminile! Certo il passaggio do diesis-si centrale del “pietà signor” conclusivo in pianino è suggestivo. Il peso specifico è quello di un soprano da Mimì. E non lo dice solo il povero Domenico Donzelli, ma Giacomo Lauri Volpi, che Mimì e non Verdi fosse il repertorio per grande soprano catalano.
Il pubblico scaligero decreta un autentica ovazione all’idolatrato soprano catalano.
Se vogliamo andare avanti tutte le battute di “conversazione” (salvo il “per carità”) con Melitone dove abbiamo sentito una agitata Stella, una solenne e nobilissima Cerquetti, una nevrotica Kabaiwaska passano via senza nessuna illuminazione e finalmente arriva il padre Guardiano. Padre Guardiano, che vocalmente è il voluminoso rimasuglio di Nicolai Ghiaurov, già Padre Guardiano della Leonora de Vargas di Ilva Ligabue.
Siamo sempre alle solite le esigenze drammatiche, la scrittura vocale da Falcon della sezione “Infelice, delusa” danno luogo a suoni poco appoggiati e prossimi al parlato se collocati sotto il do centrale. Le cose, ossia i suoni sono di miglior qualità e collocazione nella sezione” più tranquilla l’alma sento” che sarebbe lirica, salvo poi arrivare all’urlo del si nat del ”la sua figlia a maledir”, dove non è rispettata la forcella e il si nat è sparato (urlato!) e non legato alla frase come da spartito. Alla frasetta “darmi a Dio” la Caballé si ricorda di interpretare ed esegue una smorzatura sul si nat 4 di “Dio”. Scelta comune ad esempio a Rita Orlandi-Malaspina. Certo che con l’emissione precaria sul primo passaggio la Caballé non è in grado di rispettare l’indicazione di “dolcissimo” alla ripresa di “ah tranquilla l’alma sento”. Il secondo si nat è il degno compagno del primo e le varie indicazioni di crescendo restano una pia indicazione. Siccome l’andante mosso “se voi cacciate” ripete scrittura ed esigenze drammatiche dell’iniziale “infelice delusa” l’esecuzione presenta gli stessi difetti, salvo il rispetto dell’indicazione” sottovoce” di “salvati all’ombra”. La stanchezza ed il peso della parte inducono al Caballé persino ad artefazioni di dizione di marca verista; voi trasformato in “vai”. Inutile sottolineare che il filato di “mi toglierà” sul passaggio discendente sol fa si rompe.
La liricizzazione di Verdi, ossia il far quel che si può quando si dispone della voce –splendida- di Mimì da i suoi frutti alla sezione conclusiva dove la Caballé attacca dolce, ispirata e pucciniana le prime frasi, poi, priva dell’ampiezza e del vigore che Verdi richiede emette suoni spinti e duri a partire dal fa acuto. Tralasciamo il bercio finale. Per il sollievo dei fans del soprano catalano (fra i quali per altri titoli posso anche far parte) l’esecuzione della “vergine degli angeli” la cui nota più acuta è un sol è dolcissima, morbidissima e trasfigurata. Insomma due minuti di Montserrat hoc nomine digna!
Morale: la liricizzazione di Verdi è uno specchio per allodole o meglio un equivoco in cui perfino un critico come Rodolfo Celletti è caduto. Equivoco perché Verdi indica segni di dinamica e questi devono essere rispettati, magari amplificati, ma l’orchestrale, la zona in cui la scrittura vocale gravita non sono quelli che competeranno (e mi limito alla corda di soprano) qualche anno dopo a Mimì o Manon. Il pianissimo e più in generale la dinamica di Montserrat Caballé era, almeno sino al 1975 splendida e suggettiva, ma applicato ad altri autori. In Verdi la dimanica ed il peso vocale esatti sono quelli, che tramandano i 78 giri di una Arangi-Lombardi, di una Raisa, di Frida Leider o Rosa Ponselle. E per completezza non si tiri in ballo Claudia Muzio. Mi spiace, ma nella zona medio grave della voce, nonostante qualche suono un po’ aperto la divina Claudia aveva ben altra saldezza e cognizione.

Rita Orlandi-Malaspina e Ilva Ligabue, cui abbiamo già dedicato le nostre riflessioni tempo addietro con riferimento alle cantanti con faciloneria definite di serie b erano, dopo il ritiro della Cerquetti e l’assenza della Tebaldi dai teatri italiani fra le più accreditate, stimate ed applaudite Leonere di Vargas, quando, appunto, il titolo era titolo di repertorio e non preziosa e raffinata riproposizione, come per certo accadrà per l’imminente bicentenario verdiano, che saggio sarebbe postergare.
La Orlandi-Malaspina aveva un’autentica voce di soprano lirico drammatico e guardava, come modelli interpretativi, alla Tebaldi o alla Cerquetti. Certamente con una maggior solidità nella zona acuta della voce. Per essere chiari i si nat che la parte prevede sono tutti facili, sonori e squillanti ed a conferma che si trattasse della voce di un vero soprano di forza nessuno degli attacchi sul do grave o addirittura sul si nat presenza opacità ed insicurezza. Poi possiamo anche ritenere che la cantante raramente esca da consolidati binari interpretativi per assurgere, appunto, al rango di interprete. Verissimo, ma all’ingresso l’Orlandi-Malaspina anche su frasi scabrose come “del sangue di mio padre” può essere genericamente concitata, ma salda vocalmente e alla fine del recitativo, senza effettacci il morendo di “tanta ambascia” è rispettato alla lettera e con la poderosa voce del soprano cosiddetto di forza. Nell’aria con un tempo piuttosto sostenuto è assai più ligia alle indicazioni di spartito di quanto non faccia la Caballé a partire da buona parte delle forcelle previste (“perdona al mio peccato”, “m’aita quell’ingrato”) ed arrivata al “pietà Signor” che chiude la prima sezione dell’aria esegue, come molti altri soprani, la smorzatura di tradizione sia pure con un suono non bellissimo. Il rispetto delle forcelle previste al “deh non m’abbandonar” rende l’indicazione ‘con passione’ di Verdi; del pari il timbro sontuoso aiuta moltissimo a rendere frasi come “inspirano quest’anima”, ”il pio frate accoglierti” presagio della prossima confessione e conversione della nobile penitente. Timbro sontuoso, appunto, e adeguatezza della voce alla scrittura vocale sono al servizio di una facile chiusa dell’aria. Nelle battute di conversazione con fra’ Melitone Rita Orlandi-Malaspina sfoggi anche un paio di uscite da vera fraseggiatrice, soprattutto per virtù di mezzo vocale. Mi riferisco alle frasi “mi manda il padre Cleto” e “un’infelice” dette con accento mite e dolce, che fanno da contrapposizione alle prime del duetto con il Guardiano, dove il soprano è, invece e giustamente, agitato. E una specie di agitazione interna sembra essere la caratteristica dell’incipit “Infelice, delusa”. Ogni tanto appare qualche accento un poco enfatico (“fremete”), ma siamo dinanzi ad una Leonora nobile e pentita al tempo stesso, che emette con facilità i due si nat della “figlia maledir” (per esattezza più il secondo del primo). Nella seconda drammatica sezione del duetto “Se voi scacciate” compaiono molto suggestivi rallentando su “fin le belve” e sul successivo “chi tal conforto mi toglierà” per contro l’intonazione di alcune frasi come “ah si dal cielo” non è, almeno dalla registrazione, perfetta, come pure la realizzazione del morendo su “mi toglierà” non è esemplare.
Non ho dubbi a rilevare come nella sezione conclusiva del duetto “tua grazia” più che racconsolata, come indica lo spartito dalla confessione e dall’incipiente penitenza, questa Leonora è ben salda e certa nella propria fede e un si naturale alla chiusa è un po’ tirato. Erano questi i vizi e vezzi contro cui la liricizzazione di Verdi si spendeva ed adoperava? Per completezza il duetto viene eseguito con il taglio di tradizione alle battute conclusive. Quanto alla sezione conclusiva della scena della vestizione, allorquando Leonora, dopo il coro maschile eleva la propria voce ripetendo “la vergine degli angeli” possiamo anche ritenere che Rita Orlandi-Malaspina non abbia il timbro serico e sublimato della Caballé, ma siamo sempre alle stesse ossia trattasi di Leonora di Vargas e non già di Manon Lescaut che prega a Saint-Sulpice.

Più interessante, per la storia dell’interpretazione verdiana, la Leonora della Ligabue, qui proposta in un turbulenta inaugurazione scaligera. Per la cronaca il si bem di “maledizione” all’aria del quarto atto non riuscì bene ed il pubblico pizzicò il soprano reggiano.
La Ligabue non era, per i canoni del tempo, un soprano drammatico. Aveva, però una voce veramente bella, femminile, sontuosa, ampia ed una tecnica, che le consentiva di primeggiare non solo in Verdi, fosse il tardo o il primo (Elvira di Ernani ed Amalia dei Masnadieri) ma anche in Mozart e di reggere senza sforzo scritture massacranti come Francesca da Rimini. Oggi sarebbe una star assoluta anche perché l’interprete era specie in Verdi di prim’ordine. Basta sentire l’arrivo al convento della Madonna degli Angeli. Leonora è giustamente agitata e nervosa, sostenuta da un tempo veloce, che le evita le insidie del declamato in zona medio bassa e le consente, per contro, di sfoggiare un si naturale facile e sonoro e di rispettare ed esaltare l’indicazione “morendo” alla chiusa del recitativo. Anche il tempo dell’aria è molto sostenuto, comodo per un soprano di buona, ma non eccezionale potenza. E qui la Ligabue è esemplare all’attacco perché il timbro, l’accento, pur nel tempo sostenuto, rendono il senso del ‘come un lamento’ previsto da Verdi e allora in quest’ottica si può anche accettare e condividere che il soprano reggiano sul “dal core a cancellar” passi dal forte al piano, pur contravvenendo l’indicazione dell’autore. Indicazione “con passione” per i “deh non abbandonar”: la Ligabue, credo complice Gavazzeni, esprime la passione mediante un canto raccolto e sonorità, almeno all’inizio, controllate. In questo modo l’effetto previsto è reso in maniera soddisfacente, inoltre gli acuti sono facili e saldi. Un soprano come la Ligabue, naturalmente, punta moltissimo alla facilità e lucentezza della zona acuta, moderandosi in quella grave. Tanto è che la Ligabue è veramente travolgente nella realizzazione della forcella “il pio frate accoglierti etc” posta in una zona privilegiata della voce e, in generale nella sezione conclusiva dell’aria che sollecita la zona medio alta della voce. Sentire gli applausi convinti del pubblico.
Remissiva e spaventata, già penitente è la Ligabue nelle prime battute del duetto con il Padre Guardiano (sempre Ghiaurov allora, per virtù naturale, integro). Anche se non esprimesse nulla nell’”infelice delusa rejetta” e nel seguente “più tranquilla” la Ligabue dovrebbe essere proposta come modello assoluto di canto di scuola in zona pericolose come quelle medio gravi della voce femminile. Prova quando arriva il si nat la nota è facilissima e squillante, senza alcun segno di sforzo. Per la precisione sia la prima che la seconda volta.
In realtà Ilva Ligabue in questa sezione della scena rappresenta, a mio avviso, un vero paradigma di quello che dovrebbe essere il canto verdiano, per sicurezza e solidità, da un lato, e capacità di esprimere i forti sentimenti di cui la penitente nobildonna spagnola è raffigurazione. Se poi dobbiamo compiacerci di suoni belli basta sentire quelli che Ilva Ligabue emette sul sol acuto di “toglierà” alla chiusa del duetto con il Padre Guardiano. Il bello è che questo bel suono non è solo edonismo ed esibizione vocale: diventa anche interpretazione. Con buona pace di chi blatera sul termine interpretare, un suono dolce, morbido è la rappresentazione del canto dell’anima purificata e redenta. Almeno secondo l’immaginario popolare e, quindi, verdiano! Ancora applausi dal pubblico scaligero, allora non ancora rieducato con massicce dosi di opera ceca e di teatro di regia, ma in grado di accogliere ed apprezzare il vero canto all’italiana.
Buon ascolto! Dimenticavo: la Ligabue è splendida nella Vergine degli angeli.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1965 - Ilva Ligabue (con Nicolai Ghiaurov & Renato Capecchi - dir. Gianandrea Gavazzeni - Milano, Teatro alla Scala)

1970 - Rita Orlandi-Malaspina (con Bonaldo Giaiotti & Alfredo Mariotti - dir. Paolo Peloso - Genova)

1978 - Montserrat Caballé (con Nicolai Ghiaurov & Sesto Bruscantini - dir. Giuseppe Patanè - Milano, Teatro alla Scala)

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mercoledì 6 gennaio 2010

Joyce Di Donato canta "Colbran-The Muse"

E così, dopo il Rubini di J.D.Florez e Maria (Malibran) di C. Bartoli, eccoci al recital dedicato ad un’altra figura mitica del belcanto italiano, (Isabella) Colbran, la Musa, di J. Di Donato. Di nuovo restiamo delusi ancor prima di aver ascoltato il disco dato che il programma è dedicato a ruoli composti per lei esclusivamente da Rossini, dimenticando la Di Donato di attingere brani dal nutrito gruppo di opere che altri e diversi musicisti di primo e secondo piano composero per la Diva spagnola.

Il programma del disco ci restituisce, dunque, una visione parziale della vocalità del cosiddetto “soprano Colbran”, ossia quella di cui si è tanto parlato in questi anni di penombra della Rossini renaissance, in cui si è giunti a far coincidere inopinatamente la vocalità della mitica cantante con quella del “mezzo acuto”( peraltro regolarmente incarnato da soprani lirici dalla voce indietro… ), dimenticando tutti che la signora, tra il 1811 ed il 1822, oltre alle 10 opere per lei composte da Rossini, diede voce alle protagoniste di Vestale di Spontini, Medea in Corinto di Mayr, Donna Caritea Regina di Spagna di Farinelli, la Donzella di Raab di Garcia, Arianna a Nasso e Alonso e Cora di Mayr, Il Califfo di Bagdad di Garcia; la Morte di Semiramide di Nasolini; Ginevra di Scozia di Mayr; Il Sogno di Partenope di Mayr; Gabriella di Vergy di Carafa; Aganadeca di Saccenti; Paul e Virginie di Guglielmi; Mennone e Zemira di Mayr; Ifigenia in Tauride di Carafa; Boadicea Regina delle Amazzoni di Morlacchi; Solimano II e Adelaide di Baviera di Carlini; Sofonisba di Paer; l’Apoteosi di Ercole di Mercadante ( in compagnia della Pisaroni, David e Nozzari ); Valmiro e Zaida di Zampieri, naturalmente inframezzate da titoli rossiniani anche diversi da quelli per lei notoriamente composti, quali Tancredi ( nel title role, presso teatro del Fondo ); Torvaldo e Dorliska; Gazza Ladra etc..Il tutto ad un ritmo di serate che a cavallo del 1816-1818 era nell’ordine di circa 100-120 serate l’anno presso il solo Teatro di San Carlo di Napoli, palcoscenico principale della sua carriera.
Insomma, sarebbe bastato alla signora Di Donato un pomeriggio napoletano in quel luogo straordinario che è la Biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, ove giace la più parte degli spartiti rappresentati al Teatro San Carlo, oppure sottotitolare più correttamente il disco “The Muse of Rossini” per evitare almeno la topica filologica del titolo del disco.
Detto questo, entriamo nel merito della voce e dell’esecuzione offertaci dalla signora Di Donato, che nessuna ridefinizione del sottotitolo può salvare dalle critiche.

Tralasciando di contestare per la milionesima volta l’equivalenza indimostrata dai guru del ROF Colbran = mezzosoprano acuto, o meglio Colbran = mezzosoprani acuti attuali, alla signora Di Donato fa difetto, nel tentativo di assurgere se stessa al ruolo di moderna Colbran, una tecnica di canto di tradizione italiana ( quella di scuola Horne – Callas - Sutherland tanto per intenderci ) ed un gusto schiettamente rossiniano.
Sul lato tecnico, la signora Di Donato è carente sia sul passaggio grave, ove la voce resta vuota oppure di petto, che su quello alto, caratterizzato da evidenti fissità, mi-fa in particolare. Le note acute ( la nat e si bem.) sono sottili rispetto al centro, mentre i gravi non si prestano ad una emissione stilizzata. Ne soffre anche l’agilità, in particolare l’esecuzione delle quartine, che risulta priva di vigore, sfarfalleggiata e poco fluida, sia nel canto di forza che in quello di grazia.
Per quanto il mezzo naturale si sia impoverito negli armonici come nella pienezza del suono che, al contrario, possedeva nei primi anni di carriera, la Di Donato può convincere soltanto laddove il canto rossiniano non richieda qualità di legato per la presenza di frasi declamate ed aggressive, ossia nel finale di Armida. Anche quando il carattere del personaggio è lirico, come nella preghiera di Desdemona, la signora Di Donato tende a cantare secondo l’odierno modo “baroccaro”, privando Rossini della sua imprescindibile connotazione classica, metaforica ed aulica, che solo l’emissione belcantista di tradizione italiana può restituire. L’accento, infatti, si fa “mignardise”, arrivano puntuali i sospiretti e le pause non previste che tolgono nobiltà alla linea di canto ( si veda la scena di Desdemona di Otello, ad esempio ). Rievocare la Colbran significa implicitamente eccellere sia nello stile tragico sia in quello grazioso grazie all’accento aulico ed allo slancio nel virtuosismo. La Di Donato, invece, ci fa sentire agilità “bartolesche”, insopportabili ed inadeguate allo stile di Rossini ( si vedano l’aria di Armida ed il rondò di Donna del Lago ), segno della barocchizzazione in atto del compositore ed opportunamente abbracciata anche da questa cantante. Dato che nel canto “baroccaro” gli interpreti finiscono per essere tutti uguali per modalità e risorse espressive, tanto che persino i timbri si fanno così smunti da rassomigliarsi l’un con l’altro, i brani finiscono per perdere le loro specificità drammaturgiche, perchè risolti nell’antinomia lento-velocissimo, pianino – forte, con le agilità senza mordente e slancio drammatico, mitragliate nevroticamente “Bartoli style”.
Il genio di Rossini è rispettato limitatamente, perché la diva americana inciampa inaspettatamente in passi come il rondò di Elena e la cavatina di Elisabetta Regina d’Inghilterra, mentre il mito di Isabella Colbran è inspiegabile, poiché nulla di ciò che venne grandiosamente scritto per lei può essere stato concepito per il modo di cantare esibito dalla Di Donato in questo disco.

Tanto per esemplificare sperando di non essere noiosi ripetitivi, atteso che i vizi dell’esecutrice e dell’interprete ricompaiono precisi e puntuali in ogni brano.

“D’amore al dolce impero”; “ Se il mio crudel..”, Armida
Alle prese con la maga Armida, che pare fosse una delle realizzazioni più complete di Isabella Colbran (la di Donato propone sia la famosa aria con variazioni che il grandioso finale), la novella Colbran esibisce voce vuota e fioca nella zona grave, difficoltà a scandire ed accentare le agilità, con particolare riferimento alle quartine vocalizzate, sicchè le agilità di forza divengono agilità di grazie, accennate secondo al miglior scuola del “farfuglio” messa in onda dalle Caballé e Ricciarelli e diventata la peculiarità della attuali cantanti.
Le cose vanno leggermente meglio con il grandioso finale, forse il passo migliore dell’intero recital. Abbastanza facile perché il passo non richiede mai canto legato, come accade nella sezione centrale.
Buono l’attacco del recitativo, sempre in difficoltà nelle quartine di “L’alma tua nudrita” .
L’altro guaio e limite piuttosto evidente sono le note tenute che suonano fisse. E se la sezione centrale, che non richiede canto legato non prevede neppure inutili sospetti, al più consoni a personaggi di mezzo carattere, ma non ai soprani tragici. N più nel canto spianato la cantante suona fissa nella zona, che sarebbe del passaggio, secondo il dettato baroccaro e gli acuti (vedi i si nat scoperto di “vieni” o i si bem estremi delle quartine) suonano piccoli e senza ampiezza. Caratteristiche che sono il risultato del cantare senza adeguato sostegno del fiato.
Una postilla per la direzione bandistica e pesante, che fa assurgere ad direttore di rango persino il vituperato Tullio Serafin, che riscoprì l’opera in compagnia di Maria Callas.

“Tanti affetti”, La Donna del Lago
Quando affronta il finale di donna del lago ossia il famoso “Tanti affetti”, brano brillante, ma non strettamente di genere grande agitato come il finale di Armida la di Donato ricorre prevalentemente ad emissioni flautate ( e, poi, prive di appoggio); la tessitura non propriamente acuta, ma nella zona del passaggio porta a suoni spesso stonati ( vedasi il “tronco accento”) o a patteggiamenti di sonorità ed ampiezza come i suonini di “tu sapessi a me donar”. Non che la circostanza sia una novità, perché alcuni soprani alle prese con Elena d’Angus hanno sfarfalleggiato ed alleggerito, ma in un recital che si proporrebbe di celebrare la grandiosa vocalità di Isabella Colbran, la cantante che Rossini, pur sentite la Pasta, la Malibran, la Sontag e la Grisi, continuò a ritenere la più grande è proprio stridente.
La perla è rappresenta dalle variazioni “neo liberty”, non autografe ( e sì che l’edizione critica del titolo gronda varianti d’autori o coeve) , come gli staccati inseriti nelle ripetizioni. E poi abbiamo scritto dell’antirossinianità di molte esecutrici e del Barbiere e della Semiramide ree di avere interpolato picchettati e staccati.

“Quanto è grata all’alma mia”, Elisabetta Regina d’Inghilterra
Se Armida è il pezzo migliore la cavatina di sortita di Elisabetta, che fu il primo ruolo di Rossini per Isabelita è il peggiore. Non andremo a tirare fuori i difetti vocali, che sono gli usati, ma l’ingresso di una regina che sembra una pastorella dell’Arcadia…o Almirena di Rinaldo!!!!
Rossini non è mai stato slavato; l’insignificante contrasto piano-forte, lento-veloce non è la dinamica ed agogica libera e staccata dal metronomo, che era risaputo essere un punto di forza degli esecutori del bel canto, ma una acritica e noiosa adesione alla moda baroccara. Per altro non potrebbe che essere così, in quanto il canto non di scuola ed immascherato non consente di sfumare e modificare in maniera continua ed impercettibile, ma solo di procedere a strappi e balzelloni, senza autentico legato e dinamica

“Bel raggio lusinghier”, Semiramide
Qui si confronta con il Gotha del belcanto.... e volano i fendenti che le arrivano dal passato prossimo come da quello remoto! Una cosuccia questo Bel raggio di fronte a certe dame dei 78 o alla Sutherland o ad alcune sue dirette ed autentiche eredi…..!
Buono l'accento del tempo d'attacco, ma sempre con gli acuti sottili e le agilità “sorvolate” e senza peso, con le quali non può competere con le grandi esecutrici di questa aria. Arriva poi una interpolazione-non interpolazione (!) tra la prima e la seconda strofa del “Dolce pensiero”, ossia una nota tenuta pergiunta fissa, negazione in termini del significato che queste aggiunte ricoprono da che esiste il belcanto, tanto che l'ascoltatore resta in attesa che arrivi qualcosa....che non si sente.
Prosegue scopiazzando malamente la Horne nella prima sezione del da capo, abortendo completamente la sezione finale dell’aria dove, non potendo interpolare verso l’alto da soprano vero, né inabissarsi nel pentagramma come un mezzo vero, decide di restare sul centro, impantanandosi tra due strilletti e tre coccodè che non dicono nulla. Non trova una soluzione musicale di effetto e slancio idonea alla chiusa di un pezzo che va in crescendo, e non ammosciandosi, senza, peraltro, farci sentire, del soprano centrale o mezzo che dir si voglia, una voce piena e corposa.
Insomma un insoluto perfetto, cui peraltro ormai siamo avvezzi al giorno d’oggi, privo anche della presupposta sensualità del personaggio di Semiramide.



Insomma, questi dischi intitolati alle figure mitiche del belcanto continuano ad essere iniziative di natura commerciale, finalizzate alla pubblicizzazione di eventi teatrali impellenti, e non di natura culturale, come invece si vorrebbe far credere. Le prerogative vocali del cantante ottocentesco, prescelto perché privo di testimonianze audio, quindi, più facilmente mistificabili, non vengono né ricostruite sulla base di indagini accurate sul corpus degli spartiti per questo composte, né riproposte in modo adeguato alle prassi vocali che la tradizione ci ha tramandato. E regolarmente le prerogative che li resero famosi non appartengono ai cantanti che pretendono rievocarli! Salta agli occhi la differenza di stile e contenuti che intercorre tra le brevi note che accompagnano le scelte mirate ed oculatissime di un Bonynge per i due volumi dell’Art of Primadonna di Joan Sutherland o quelli dei recitals rossiniani o dei Souvenirs of a Golden Age di una Horne che, intrisi di conoscenze e riflessioni accurate, mai proponevano la completa assimilazione dell’esecutore moderno ad una figura del passato, non foss’altro perché quelle signore erano certe che avrebbero posto anche il loro, di nome, nella storia del canto. Per loro il canto era un'arte solidamente fondata sulla cultura, la conoscenza del passato, la perizia vocale, l'onestà intellettuale. Per noi è solo ......business!



Gli ascolti

Rossini

Otello


Atto III

Assisa a piè d'un salice - Marilyn Horne (1971)

La donna del lago

Atto II

Tanti affetti - Martine Dupuy (1992)

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domenica 3 gennaio 2010

Simone Kermes - La Diva: Arias for Cuzzoni

Smaltiti i pranzi luculliani delle feste di Natale e Capodanno, è buona norma tornare a un regime di maggiore sobrietà. In alcuni casi, urge fare ammenda e penitenza dei trascorsi eccessi gastronomici.
Abbiamo iniziato l'anno con la scoperta di due filmati inediti e assolutamente sontuosi, che ci hanno dato prova - l'ennesima, e di certo non l'ultima in assoluto - di quella che reputiamo una suprema manifestazione dell'arte canora. E' dunque troppo giusto fare un poco di contrizione e mortificare, non già la carne, bensì le orecchie. E lo facciamo trattando, brevemente, di uno degli ultimi dischi di Simone Kermes, fra le più accreditate e impiegate divine del baroccò.
Il baroccò non esaurisce peraltro il repertorio della Kermes, che in quindici anni di carriera ha affrontato, prevalentemente nei teatri tedeschi, ruoli da soprano lirico di coloratura, in particolare nelle opere di Mozart, ma anche Lucia e Gilda. La scorsa estate, al festival di Ludwigsburg, la cantante ha proposto, accanto al Ratto dal Serraglio, addirittura il Trovatore, in un'esecuzione ovviamente supportata da strumenti cosiddetti originali e diretta da uno specialista in materia. Il che per inciso rende di fatto già compiuta la paventata (dal collega Duprez) barocchizzazione del Cigno di Busseto. In tempi di pre-filologia, solo Lilli Lehmann, Elisabeth Rethberg, Eleanor Steber, Maria Callas e poche altre seppero alternare Konstanze e Leonora senza destare la perplessità, se non l'ira del pubblico e di parte consistente della critica. L'operazione Kermes, avvenuta nel più profondo silenzio mediatico (strano che nessuno fra i nostri paladini del "modo novo" esecutivo si sia sentito in dovere di segnalare ed osannare lo storico avvenimento!), dimostra in maniera inequivocabile che i tempi sono cambiati. E non in meglio, con buona pace di chi, leibniziano tardivo, ritiene che nulla di male possa avvenire, quasi che la mera esistenza di un fenomeno fosse sufficiente a dimostrarne la bontà e la necessità.
L'album "La Diva" è dedicato al repertorio di Francesca Cuzzoni, una delle stelle della Londra handeliana, rinomata per la voce angelica, l'eccellenza del registro acuto, la perfezione del legato e l'espressività nel canto elegiaco. Meno eccezionale, a quanto risulta, nel canto di bravura, in cui comunque sfoggiava una notevole sicurezza. Per noi, poveri melomani ignari e retrogradi, il nome della Cuzzoni è legato ai ruoli, scritti per lei, di Cleopatra e Rodelinda e alle interpretazioni che di quei ruoli hanno dato primedonne del calibro di Joan Sutherland, Beverly Sills, Gianna Rolandi e Lella Cuberli. Ce ne scusiamo con i lettori!!!
Per inciso, "La Diva" omette, nella sua tracklist, proprio l'aria simbolo ed epitome dell'arte della Cuzzoni e della diva barocca in genere, la celeberrima Da tempeste il legno infranto. En passant ricordiamo che, in una produzione dell'opera proposta a Genova pochi anni fa, la medesima aria venne soppressa, per non meglio specificate esigenze legate alla regia. Va aggiunto che la protagonista femminile, nel caso in questione, avrebbe potuto interpolare, con maggior profitto, Vedrai carino o Il mio ben quando verrà.
Simone Kermes ha voce di soprano leggero, poco o nulla appoggiata, che evoca fin dalle prime note il timbro chioccio e sbiancato dei controtenori oggi à la page. Forse anche questo dichiarato omaggio alla Cuzzoni è, in realtà, un tributo all'arte dei castrati, che in tempi recenti ha conosciuto ben due cimenti discografici ("Sacrificium" dell'impennacchiata Cecilia Bartoli e "La dolce fiamma" di Philippe Jaroussky, sul quale vi ragguaglieremo prossimamente...)? Segnatamente nelle arie in stile concitato, il canto di sbalzo diviene il pretesto per lo sfoggio di un'assoluta disomogeneità dei registri vocali: artificiosamente pompato il grave (basti ascoltare l'attacco - un re - dell'aria tratta dallo Scipione), privo di sostegno il centro (i si ribattuti dell'ultimo assolo di Laodice nel Siroe), gridacchiato e non di rado stridulo l'acuto (emblematico a questo proposito il brano dal Tolomeo). Le agilità, poi, sono tutte in bocca e sfarfallate, in puro stile Bartoli. A ciò si aggiunga che in zona centrale (do-sol) compaiono spesso suoni al limite della stonatura, e spesso oltre quel limite (ad esempio nella sezione centrale di Piangerò la sorte mia). Non si capisce per quale ragione i suoni spezzati, i sospiri e i gémissement, che per ecumenico giudizio vengono riprovati nelle performance di Renée Fleming, debbano essere tollerati e anzi apprezzati in quelli delle "divine" del baroccò discografico. E sarà bello tacere delle estrose variazioni che la Kermes propone nei da capo, evocando i cimenti di Nella Anfuso. Chi abbia poi avuto la ventura di ammirare almeno uno dei video della signora, che Youtube propone in copia, ricorderà bene come la medesima si produca, specie nei passaggi di agilità (ma non solo), in una plausibile imitazione di una tarantolata, con nutrito contorno di smorfie e boccacce. A ulteriore conferma di una tecnica vocale discutibile, per non dire di peggio. E anche in questo la Kermes è lungi dall'essere un caso isolato, nel panorama del baroccò .
Quale interpretazione sarà mai possibile, con siffatte premesse? Ça va sans dire, quella legittimata e prescritta dalla new wave barocchista, improntata cioè a un'esasperazione naturalistica degli affetti previsti dalle singole arie. Insomma la Kermes singhiozza, sibila, digrigna i denti, strepita. Come e più ancora delle generosissime e deprecate veriste Albanese e Favero, ma con una voce molto meno importante, il che serve solo a rimarcare la velleità di una simile lettura e a renderla, non già un'interpretazione, ma la parodia e la maniera di un'interpretazione. Forse però il termine di paragone più acconcio alla prova della Kermes è da ricercarsi nelle performance temperamentose e assolutamente prive di freni di Dimitra Theodossiou, cui a questo punto consigliamo di ponderare la possibilità di "convertirsi" al repertorio handeliano. Difatti, se la Kermes canta il Giulio Cesare e la Rodelinda, la Theodossiou potrebbe, non senza ragioni, aspirare alle incantatrici Alcina e Melissa e, perché no? a Serse ed Ariodante!
Come di consueto chiudiamo con qualche ascolto di consolazione e di comparazione. Si comincia con un grande esperto di filologia "vera", quella fatta di studio delle prassi esecutive e più ancora di grande e vero amore per la musica e le sue primedonne. A lui, in questo nastro registrato ben prima che il barocco diventasse la parodia di se stesso (ma le pioniere, segnatamente in area britannica, erano già attive...), affidiamo il più eloquente commento alle prodezze di Simone Kermes e di tutte le sue sodali.



Gli ascolti

Haendel

Sosarme, Re di Media


Atto I

O diva Hecate...Dite pace, e fulminate - Michael Aspinall (1979)

Giulio Cesare in Egitto

Atto III

Da tempeste il legno infranto - Gianna Rolandi (1980)

Mozart

Don Giovanni


Atto II

Vedrai carino - Mafalda Favero (1941)

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venerdì 1 gennaio 2010

Il 2010 ci ha fatto un grande regalo!!!!!!!

Miracolo!!!!!!!!!!
Questo 2010 ci ha fatto oggi un regalo incredibile e straordinario: 2 video live di Magda Olivero nel Mefistofele. L'ultima Diva del Verismo, per noi e voi, in scena.
Guardiamola e ammiriamola, ringraziando StuartLou che ha messo a disposizione questo documento rarissimo.
Questo si che è un augurio vero di Buon Anno!




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Concerto di Capodanno - Una voce poco fa

Mentre i nostri detrattori del web e della carta stampata si arzigogolano il cervello per congegnare nuovi insulti a noi diretti nella disperata speranza che la polemica porti loro qualche compratore o lettore in più, vi serviamo come dessert del pranzo di Capodanno un concertino allegro e leggero, che vi metterà di buon umore.

Una selezione delle Rosine soprano più virtuose, quasi tutte assai remote, alcune quasi kitsch, in barba alla noia della moderna filologia e di esempio alle moderne gallinelle dai seni siliconati e gli zigomi al botulino. Queste di lifting non ne avevano proprio bisogno per far spettacolo e divertire, anzi, potremmo dire che il lifting queste signore lo facevano allo spartito, magari non sempre con gusto e misura, ma certo con uno spirito a noi sconosciuto. Si cantava per il piacere di cantare, si era virtuose per il piacere delle orecchie degli ascoltatori, per vanità ed innato esibizionismo. L’importante era stupire, meravigliare e mettersi in mostra, ad ogni costo. E se lo spartito ne usciva stravolto (davvero?), poco importava, perché ciò che contava era sopra ogni cosa il canto, ed in questo risiede ancora la loro modernità. In fondo, oggi più che mai sono stravolti il gusto, come pure le regole del canto e della tradizione, il senso dei libretti, il significato drammaturgico dei testi, la precisione esecutiva…etc.
La differenza tra noi e loro è che oggi nemmeno sappiamo cantare; loro, invece, sì!

Gli ascolti

Concerto di Capodanno

Rossini - Il Barbiere di Siviglia


Atto I - Scena II

Cavatina di Rosina - Una voce poco fa

1906 - María Barrientos
1907 - Sigrid Arnoldson
1908 - Antonina Nezhdanova
1908 - Luisa Tetrazzini
1910 - Frieda Hempel
1917 - Amelita Galli-Curci
1978 - Gianna Rolandi


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