Ritorna, ad un anno di distanza, quel Tristano e Isotta che all’apertura della passata stagione scaligera, aveva segnato – dopo il periodo di assestamento post-mutiano – l’inizio del nuovo corso del teatro milanese. Identico l’allestimento, identico il cast, identico il direttore: identici i pregi e i difetti. Ma stavolta con qualche perplessità in più
Dopo un anno solamente, l’allestimento, infatti, mostra già i segni di un invecchiamento precoce, e quello che nella passata stagione era sembrato un dubbio, un’ombra di deja vu (un nostalgico riflusso di avanguardia anni ‘70) appare oggi compiutamente per quello che è: la riproposizione di un teatro para brechtiano e ideologico, in un’ambientazione astorica di decadenza post industriale, immersa in colori cupi e grigi (opprimenti, ma non notturni) con impianto scenico semi fisso e avulso dalla vicenda narrata e i soliti cappottoni stile DDR uniti a comportamenti da Gestapo di taluni personaggi contrapposti ad altri in guisa di Spartachisti ante-litteram. Questo è Chereau: già era così il suo celebrato (e giustamente) Ring, ma con la differenza che allora (risale al 1980 se non sbaglio) era una novità, oggi – nella palese imitazione di sé stesso – è solo manierismo (e nemmeno di grande fattura). Gli inequivocabili segni del tempo, comparsi così prematuramente, su questo Tristano sono, forse, il segno tangibile di un certo modo di far teatro, oggi purtroppo assai diffuso insieme al cosiddetto teatro di regia (che tanti disastri sta facendo in tutta Europa), che appare sempre più debole, scontato e omologato (e assolutamente privo di idee): ormai non vi è più differenza tra repertori, Carmen o Tosca, il Ring o Aida, Ermione o Lohengrin, Così fan tutte o Orfeo ed Euridice, cambia il titolo, ma le valenze estetiche delle messinscene non mutano e le soluzioni appaiono sempre le stesse (solite scene fisse, solite luci di taglio, solite ambientazioni astratte o astoriche o trasposte, solita spruzzata di sesso&sangue: clichè per illudersi di tragredire a chissà quali regole da benpensanti o per far finta di épater les bourgeois, come si diceva un tempo...)
Daniel Barenboim, ora come allora, si conferma il grandissimo direttore che è. Soprattutto in questo che pare esser veramente il suo repertorio di elezione. Ecco dunque confermata e rafforzata l’opinione già espressa l’anno passato: basta l’attacco del preludio per rilevarlo! Quanta differenza tra il suo Wagner e quello di un Gatti (penso al Pasifal di Bayreuth e al Lohengrin scaligero, noiosi e deludenti). Quanta differernza nell’orchestra (a parte qualche piccola sbavatura in taluni attacchi all’inizio dell’atto III) quando è condotta da una bacchetta con una vera idea interpretativa e capace di infondere la propria visione all’intera compagine, rispetto a direttori che hanno fatto della mediocritas (si badi bene, non routine, che è qualcosa di assai diverso e più “nobile”) la propria scontata e rassicurante cifra stilistica. Il confronto con la pesantezza, la mancanza di precisione, la piattezza, della medesima orchestra all’apertura di quest’anno, infatti, è schiacciante e dovrebbe indurre ad una seria riflessione su certi nomi e su certi incarichi.
Per ciò che riguarda il cast si possono riproporre le medesime considerazioni dell’anno passato (con qualche perplessità in più, dicevo, soprattutto per ciò che riguarda le condizioni della protagonista). Brangania a parte, infatti, il cast di ieri sera ricalca esattamente quello del 7 dicembre 2007. Ian Storey è un Tristano migliore di quello dell’anno scorso, e sfoggia una certa maggiore sicurezza e resistenza, con acuti più saldi e meno sforzati (anche se nell’atto II qualche defaillances si percepisce chiaramente, sia per ciò che riguarda l’intonazione, sia per la precisione degli attacchi, non sempre impeccabili): la voce comunque è abbastanza corposa e ben proiettata ed esegue un buon atto III. Matti Salminen affronta nuovamente l’ingrata parte (poiché la meno interessante dell’opera dal punto di vista musicale) di Re Marco: voce profonda e ferma (pur con un certo effetto di intubamento, dovuto però al trimbro particolare del cantante, e comunque meno presente rispetto all'anno passato), con ottima tecnica e fraseggio nobile e regale, solo offuscata dagli inevitabili cedimenti dovuti alla lunga carriera (ovviamente il registro acuto è sforzato e sofferto). Brangania è Lioba Braun: unico elemento di novità del cast, appare largamente inferiore al compito, compromettendo – almeno in parte – certi momenti tra i più suggestivi della partitura (come il Canto alla notte nell’atto II). Voce piccola e tendente all'indietro, traballava talvolta sia nell'intonazione che nella tenuta. Bravi Gerd Grochowski e Will Hartmann (rispettivamente Kurwenal e Melot), così come efficaci i comprimari: il Giovane Marinaio di Alfredo Nigro (che apre l’opera) e il Pastore di Ryland Davies (con l’eccezione di un eccessivamente torniturante Ernesto Panariello che sbraita come un forsennato ad annunciare l’arrivo di Marco nell’atto III). Discorso a parte per l’Isotta di Waltraud Meier: su di essa infatti si concentrano tutte le perplessità della serata. Già l’anno scorso non nascondeva le difficoltà, soprattutto nel registro acuto. Ieri sera, dopo un primo atto accettabile (ma giocato sull’orlo del precipizio), crolla nel duetto del secondo: il registro acuto è sforzatissimo e ormai compromesso e talvolta indulge nell’urlo o nel parlato, l’intonazione è spesso precaria e l’affanno è evidente. Inoltre denota la difficoltà di legare le lunghe frasi che la parte impone (la cui impeccabile esecuzione è condicio sine qua non in un'opera come questa). Alla fine si riscatta con un appena discreto Mild und Leise (naturalmente se paragonato al disastro del duetto, ma certo non è neppure da confrontare con le grandi Isotte della storia recente e passata). Dell’ovazione che il teatro le ha tributato (per nulla giustificata, secondo me) deve, però, rendere grazie, di nuovo e di più, alla amorevole cura di Barenboim che costantemente le è venuto in soccorso dal podio. Davvero un grande direttore d’orchestra che, conscio dei limiti dei suoi interpreti, si mette a servizio degli stessi rinunciando al protagonismo fine a sè stesso che spesso ha afflitto i suoi predecessori sul podio del Piermarini... Teatro non pienissimo (diversi i posti vuoti in platea e nei palchi) e pubblico più maleducato del solito: parlottii e colpi di tosse hanno accompagnato le 4 ore di musica come un sottofondo ininterrotto e fastidioso. A tal proposito suggerirei alla gestione del servizio caffetteria della Scala di proporre, oltre ai classici generi di conforto, anche delle bevande a base di sciroppi lenitivi e contenitivi.
Al termine, comunque. grandi applausi per tutti (salvo qualche contestazione al regista), meritatissimi (ancora una volta) per il direttore e l’orchestra, un po’ meno per i cantanti….
Dopo un anno solamente, l’allestimento, infatti, mostra già i segni di un invecchiamento precoce, e quello che nella passata stagione era sembrato un dubbio, un’ombra di deja vu (un nostalgico riflusso di avanguardia anni ‘70) appare oggi compiutamente per quello che è: la riproposizione di un teatro para brechtiano e ideologico, in un’ambientazione astorica di decadenza post industriale, immersa in colori cupi e grigi (opprimenti, ma non notturni) con impianto scenico semi fisso e avulso dalla vicenda narrata e i soliti cappottoni stile DDR uniti a comportamenti da Gestapo di taluni personaggi contrapposti ad altri in guisa di Spartachisti ante-litteram. Questo è Chereau: già era così il suo celebrato (e giustamente) Ring, ma con la differenza che allora (risale al 1980 se non sbaglio) era una novità, oggi – nella palese imitazione di sé stesso – è solo manierismo (e nemmeno di grande fattura). Gli inequivocabili segni del tempo, comparsi così prematuramente, su questo Tristano sono, forse, il segno tangibile di un certo modo di far teatro, oggi purtroppo assai diffuso insieme al cosiddetto teatro di regia (che tanti disastri sta facendo in tutta Europa), che appare sempre più debole, scontato e omologato (e assolutamente privo di idee): ormai non vi è più differenza tra repertori, Carmen o Tosca, il Ring o Aida, Ermione o Lohengrin, Così fan tutte o Orfeo ed Euridice, cambia il titolo, ma le valenze estetiche delle messinscene non mutano e le soluzioni appaiono sempre le stesse (solite scene fisse, solite luci di taglio, solite ambientazioni astratte o astoriche o trasposte, solita spruzzata di sesso&sangue: clichè per illudersi di tragredire a chissà quali regole da benpensanti o per far finta di épater les bourgeois, come si diceva un tempo...)
Daniel Barenboim, ora come allora, si conferma il grandissimo direttore che è. Soprattutto in questo che pare esser veramente il suo repertorio di elezione. Ecco dunque confermata e rafforzata l’opinione già espressa l’anno passato: basta l’attacco del preludio per rilevarlo! Quanta differenza tra il suo Wagner e quello di un Gatti (penso al Pasifal di Bayreuth e al Lohengrin scaligero, noiosi e deludenti). Quanta differernza nell’orchestra (a parte qualche piccola sbavatura in taluni attacchi all’inizio dell’atto III) quando è condotta da una bacchetta con una vera idea interpretativa e capace di infondere la propria visione all’intera compagine, rispetto a direttori che hanno fatto della mediocritas (si badi bene, non routine, che è qualcosa di assai diverso e più “nobile”) la propria scontata e rassicurante cifra stilistica. Il confronto con la pesantezza, la mancanza di precisione, la piattezza, della medesima orchestra all’apertura di quest’anno, infatti, è schiacciante e dovrebbe indurre ad una seria riflessione su certi nomi e su certi incarichi.
Per ciò che riguarda il cast si possono riproporre le medesime considerazioni dell’anno passato (con qualche perplessità in più, dicevo, soprattutto per ciò che riguarda le condizioni della protagonista). Brangania a parte, infatti, il cast di ieri sera ricalca esattamente quello del 7 dicembre 2007. Ian Storey è un Tristano migliore di quello dell’anno scorso, e sfoggia una certa maggiore sicurezza e resistenza, con acuti più saldi e meno sforzati (anche se nell’atto II qualche defaillances si percepisce chiaramente, sia per ciò che riguarda l’intonazione, sia per la precisione degli attacchi, non sempre impeccabili): la voce comunque è abbastanza corposa e ben proiettata ed esegue un buon atto III. Matti Salminen affronta nuovamente l’ingrata parte (poiché la meno interessante dell’opera dal punto di vista musicale) di Re Marco: voce profonda e ferma (pur con un certo effetto di intubamento, dovuto però al trimbro particolare del cantante, e comunque meno presente rispetto all'anno passato), con ottima tecnica e fraseggio nobile e regale, solo offuscata dagli inevitabili cedimenti dovuti alla lunga carriera (ovviamente il registro acuto è sforzato e sofferto). Brangania è Lioba Braun: unico elemento di novità del cast, appare largamente inferiore al compito, compromettendo – almeno in parte – certi momenti tra i più suggestivi della partitura (come il Canto alla notte nell’atto II). Voce piccola e tendente all'indietro, traballava talvolta sia nell'intonazione che nella tenuta. Bravi Gerd Grochowski e Will Hartmann (rispettivamente Kurwenal e Melot), così come efficaci i comprimari: il Giovane Marinaio di Alfredo Nigro (che apre l’opera) e il Pastore di Ryland Davies (con l’eccezione di un eccessivamente torniturante Ernesto Panariello che sbraita come un forsennato ad annunciare l’arrivo di Marco nell’atto III). Discorso a parte per l’Isotta di Waltraud Meier: su di essa infatti si concentrano tutte le perplessità della serata. Già l’anno scorso non nascondeva le difficoltà, soprattutto nel registro acuto. Ieri sera, dopo un primo atto accettabile (ma giocato sull’orlo del precipizio), crolla nel duetto del secondo: il registro acuto è sforzatissimo e ormai compromesso e talvolta indulge nell’urlo o nel parlato, l’intonazione è spesso precaria e l’affanno è evidente. Inoltre denota la difficoltà di legare le lunghe frasi che la parte impone (la cui impeccabile esecuzione è condicio sine qua non in un'opera come questa). Alla fine si riscatta con un appena discreto Mild und Leise (naturalmente se paragonato al disastro del duetto, ma certo non è neppure da confrontare con le grandi Isotte della storia recente e passata). Dell’ovazione che il teatro le ha tributato (per nulla giustificata, secondo me) deve, però, rendere grazie, di nuovo e di più, alla amorevole cura di Barenboim che costantemente le è venuto in soccorso dal podio. Davvero un grande direttore d’orchestra che, conscio dei limiti dei suoi interpreti, si mette a servizio degli stessi rinunciando al protagonismo fine a sè stesso che spesso ha afflitto i suoi predecessori sul podio del Piermarini... Teatro non pienissimo (diversi i posti vuoti in platea e nei palchi) e pubblico più maleducato del solito: parlottii e colpi di tosse hanno accompagnato le 4 ore di musica come un sottofondo ininterrotto e fastidioso. A tal proposito suggerirei alla gestione del servizio caffetteria della Scala di proporre, oltre ai classici generi di conforto, anche delle bevande a base di sciroppi lenitivi e contenitivi.
Al termine, comunque. grandi applausi per tutti (salvo qualche contestazione al regista), meritatissimi (ancora una volta) per il direttore e l’orchestra, un po’ meno per i cantanti….
8 commenti:
Buongiorno.
anch'io ero in sala ieri sera (ad ogni rappresentazione wagneriana mi riprometto essere l'ultima a cui assisto....).
Dissento su Storey: non un'oncia di legato, di canto. voce afona in basso, solo qualche acuto sparato. il tutto frutto di un appoggio sul fiato inesistente e di una fonazione dilettantesca. per me un pessimo tristano.
in quanto a Waltraud Meier, certamente non ha più la vocalità rigogliosa (o quanto ricca) del Parsifal del 1992 ed appare sempre in difficoltà. E' chiaro però che il carisma e la personalità scenica sono impressionanti. Da lì forse il consenso del pubblico. Ed è vero che Barenboim - a differenza dell'ultimo direttore musicale - è straordinario nell'aiutare, seguire, completare e aiutare il suo cast. oltre che essere un grande wagneriano.
Trovo per contro notevole la regia di Chéreau. E' vero che ha un che di brechtiano. M è anche vero che per certi aspetti è anche classica (nella direzione degli attori e nel rispetto delle regole del teatro d'opera, nonché nel non oprrimere la musica). E in certi momenti è affascinante, oltre che di grande effetto (finale primo atto).
cari saluti a tutti.
Emanuele
Ciao Emanuele.
Concordo con te su Storey: un pessimo Tristan, spesso inudibile, incapace di proiettare la voce al centro ( dove canta tutta sera...), di legare ( spaventosi il duetto del 2 atto, dove lei stonava spesso e non legava ).
In particolare, sta in scena in modo davvero.....insignificante, un che passa di lì e fa spallucce...
Francamente lei mi è parsa tremenda. LA voce è un pezzo di legno, spinta, gutturale e stretta sotto, calante e berciata sopra. Avrà anche fascino scenico, certo......poi in compagnia di cotali mediocri ma.......per me è stata imbarazzante
a presto
Da quanto riferite, deduco di aver fatto bene a non rivedere questo Tristan; che un anno fa avevo apprezzato abbastanza nell’interpretazione musicale (Barenboim, ma anche Meier) e totalmente disapprovato nella regia. Quest’anno si è persa anche buona parte della prestazione musicale, par di capire...
A proposito di flop: sto proprio ascoltando su RAI FD il Tristan di Kleiber ripreso dal vivo a Bayreuth nel 1975 (o forse ’74): roba da chiodi! (ma almeno qui non pago il biglietto!)
Beh..non direi che sul piano della prestazione musicale questo sia un Tristano da evitare: la concertazione e la direzione d'orchestra sono stati - secondo me - ottimi! Non concordo neppure su Storey: certo non un grande Tristano, ma rispetto all'anno scorso il migliorameto è notevole! La Meier invece resta insalvabile, così come l'idea (?) di base della regia...
.....il miglioramento di chi non ha cantato una frase come Dio comanda all'inauguraizone di uno dei teatri più importanti del mondo.
Beh, continuiamo ad accontentarci di niente!
A postilla del mio precednte: inutile dire che sono ben altri i Tristani che si fanno ricordare... Certo l'anno passato Storey vinse la palma di "peggiore" del cast...l'altra sera il trofeo gli è stato "meritatamente" scippato dalla Meier.. Certo che imbattersi, nello scorrere la cronologia dell'opera alla Scala, nei nomi di Nilsson/Windgasse/Karajan o Flagstad o Grob-Prandl fa sospirare......
Insomma: Tutti gli artisti vivanti sono cattivi, mentre quelli morti o quasi sono o errano bravi.
Vabbe...
Eppur si muove :-)
Dipende da come la si vede, Dolcevita: i cantanti che tu chiami morti lo sono per il mondo, gli altri... per il canto!
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