Potremmo definirle le stagioni dell’Imperial Regio Governo, tanto per offrire un contentino ai nostri detrattori, che vedono in noi pericolosi reazionari anche sotto il profilo politico.
Il cartellone madre, ossia quello della Staatsoper viennese, spicca come di consueto per numero e eterogeneità delle proposte. Anche se a onor del vero quest’anno le novità appaiono meno numerose e soprattutto assai meno nuove del consueto.
Su una quarantina di titoli appena sei le nuove produzioni, alcune delle quali invero poco fantasiose, se non nella scelta del titolo, nell’assemblaggio del cast.
Si prenda ad esempio l’Alcina, che ricalca nei ruoli della protagonista e di Bradamante la distribuzione proposta l’anno scorso nella provinciale (rispetto alla capitale dell'Impero) Milano. Certo si dirà che la novità della proposta risiede nella bacchetta, sempre prestigiosa, di Marc Minkowski. Peccato che la suddetta sarà impegnata a dirigere nella parte di Ruggiero quel che avanza (pochino) della voce di Vesselina Kasarova e nientemeno che Verónica Cangemi (una delle iatture per le quali dobbiamo ringraziare il cosiddetto specialismo applicato all’opera barocca) nei virtuosismi di Morgana. E siccome la filologia impera, non dubitiamo a chi sarà affidata l’aria che conclude il primo atto dell’opera!
Quanto al Don Giovanni, altra nuova produzione, non possono che destare rinnovate perplessità le ormai consunte scelte di Ildebrando d’Arcangelo e Alex Esposito quali padrone e servitore, perplessità che si estendono alla presenza di Saimir Pirgu quale Ottavio. In alcune repliche il tenore sarà Pavol Breslik, già periclitante Gennaro al fianco di Frau Gruberova. Quanto a Sally Matthews, deputata Donn’Anna alla première, invitiamo i lettori a cercare su Youtube traccia della sua Fiordiligi e a trarre le conclusioni e gli auspici del caso.
Le Nozze di Figaro, altra nuova produzione, sanciscono il passaggio (inedito, salvo errore, che naturalmente le nostre maestrine dalla penna rossa provvederanno tosto ad emendare) di Erwin Schrott dal ruolo di Figaro a quello del Conte. La scelta, alla luce della Carmen ultima scorsa e dei numerosi e udibili problemi in acuto del basso-baritono uruguaiano, appare azzardata anche e soprattutto se si considera che il Figaro di turno non sarà certo un basso profondo, bensì Luca Pisaroni. Ogni speranza di differenziare timbricamente servo e padrone sembra così tramontare. Ma è ben vero che lo stesso può dirsi del Don Giovanni. Entrambe le opere, per colmo di ventura, saranno affidate alla direzione, diciamo greve, di Franz Welser-Möst.
Vero titolo “cult” della stagione Anna Bolena, affidata a un quartetto di voci giovani, à la page, altamente innovative: Anna Netrebko, Elina Garanca, Francesco Meli e Ildebrando d’Arcangelo, diretti dallo specialista Evelino Pidò. Se la produzione di Barcellona ha suscitato ironici commenti circa l’età biologica delle primedonne, che si alterneranno nel ruolo della sventurata consorte di Enrico VIII, si potrebbe analogamente commentare che a Vienna andrà in scena una versione “Kindergarten” del titolo donizettiano. Anche e soprattutto, vien da pensare, sotto il profilo dei tagli, che si renderanno necessari stante l’assoluta e totale estraneità al Belcanto, provata da passate Lucie e Sonnambule, della deputata protagonista.
Quanto alla Kata Kabanova, si segnala unicamente per la presenza di Deborah Polaski, ormai confinata a parti di fine dicitrice, quale Kabanicha.
Il resto della stagione scorre più o meno senza sorprese, non fosse che per alcune presenze inquietanti e quasi spettrali, la più notevole delle quali è forse quella di Neil Shicoff quale Hermann della Dama di picche (al fianco di Anja Silja), Pinkerton (con Svetla Vassileva e Hui He), Cavaradossi (al fianco di Catherine Naglestad) e Capitano Vere nel Billy Budd. Una presenza numericamente e qualitativamente così significativa, da parte di un tenore così inequivocabilmente finito, dice, da un lato, di un ricambio generazionale che fatica a emergere, dall’altro, dell’assoluta e totale mancanza di gusto, decenza e vergogna da parte di chi propone al pubblico un siffatto prodotto, che potremmo definire come minimo scaduto. A parità di condizioni vocali, verrebbe da invocare la presenza di Kunde, magari proprio come Gennaro al fianco della sempreverde (nel senso dell’immutabilità di pregi e difetti) Gruberova, che proporrà la Borgia, come già a Barcellona, in forma di concerto. Sempre in forma concertante la signora sarà, al Musikverein, nientemeno che Violetta. Qui naturalmente il problema non è la mancanza di ricambio generazionale, bensì l’insufficiente qualità del medesimo.
Si sbalordisce poi nel vedere Fiorenza Cedolins impegnata come Butterfly e soprattutto come Amelia Grimaldi. Facile supporre, anche in questo caso, tardive e non indolori sostituzioni. L’annotazione vale anche per Annick Massis, ultimamente più rinomata per i forfait che per le apparizioni sceniche, attesa quale Lucia di Lammermoor.
Peraltro il Boccanegra è per tre quarti, protagonista femminile esclusa, il medesimo che fu rappresentato pochi mesi or sono nella provincialissima Parma. Ennesima dimostrazione che possono variare lusso e incidenza mediatica dei contenitori, ma il contenuto è sempre più spesso il medesimo, a qualunque latitudine. E sovente in sprezzo di qualunque logica, che non sia quella del Nome.
Meno folta del consueto la presenza dei divi teatrali e discografici: Flórez affronta il solo Elisir d’amore (non certo una parte che possa valorizzarne le doti, come già visto e udito in passato), la Genaux la sola Isabella (e per fortuna), la Netrebko la sola Bolena (ma non si tratta certo di un cimento da poco), idem come sopra per la Garanca, mentre un'incredibile Waltraud Meier sarà impegnata nientemeno che come Kundry. Roberto Alagna, in una sorta di ritorno (tardivo) alle origini vocali dopo i cimenti verdiani, sarà Faust (accanto al Mefistofele di Erwin Schrott) e Des Grieux di Massenet (con la Manon di Norah Amsellem), José Cura sarà il Des Grieux di Puccini (ed ecco che la cronaca trascolora nella fantascienza) e affronterà in blocco il dittico Cavalleria/Pagliacci, mentre Jonas Kaufmann, per la gioia degli amanti del declamato (non sempre) intonato, riprenderà il suo ormai proverbiale Werther mannaro al fianco della fedele Sophie Koch.
La stellina nascente Julia Novikova, forte della recente popolarità quale Gilda in mondovisione, alternerà Regina della Notte, Adina e Zerbinetta. In questo la signorina si dimostra vera emula del suo pigmalione Domingo, ma un poco di prudenza in più non sarebbe forse fuori luogo, nel teatro che fu il regno di Selma Kurz.
Sarà poi bello tacere di molte delle bacchette coinvolte nella stagione viennese, ma non possiamo non segnalare la presenza, in alcune repliche del Barbiere, di Jean Christophe Spinosi, star della filologia d’oltralpe, che pochi mesi fa rinunciò (per misteriose ragioni) a dirigere il medesimo titolo in Scala.
Quanto a filologia, però, niente e nessuno può battere il cartellone del Theater an der Wien. Come competere con irrinunciabili performance quali la Semele di Cecilia Bartoli, la Rodelinda di Danielle de Niese o i Dialoghi delle Carmelitane con Patricia Petibon (Blanche) e Deborah Polaski (Madame de Croissy)? Appunto, non si può.
Le due stagioni italiane sfigurano fatalmente di fronte a una simile dovizia di titoli e di star.
In realtà la stagione della Fenice appare la più rinunciataria, delineandosi come una successione di titoli da sussidiario dell'opera. Fa eccezione lo spettacolo di apertura, Intolleranza 1960 di Luigi Nono (composizione della quale Beverly Sills, impegnata nella première statunitense del titolo, ebbe a scrivere: Luigi and his opera were both Nonos), di cui ricorre il cinquantesimo anniversario della prima esecuzione, avvenuta proprio alla Fenice, e che si avvale di una nuova produzione realizzata dagli studenti dello IUAV di Venezia, sotto il coordinamento di Luca Ronconi ed altri guru del teatro italiano. Altro “corpo estraneo”, e sulla carta unica produzione allettante (ma il cast è, al solito, un’incognita, allo stato attuale) l’Acis and Galathea di Haendel, allestito al Teatro Malibran con i solisti dell’Académie européenne de musique del Festival d’Aix-en-Provence.
Per il resto siamo nell’ambito dei c.d. grandi titoli, quasi che la Fenice volesse convertirsi in un teatro di repertorio. E talune presenze ricorrenti nei cast (segnatamente nelle opere mozartiane) fanno pensare a un tentativo di costruire una sorta di compagnia stabile attorno al teatro veneziano.
Giusta e opportuna appare, nell’attuale congiuntura, la riproposta di titoli e allestimenti visti nella presente e nelle recenti stagioni. Ma se il desiderio di “fare cassetta” con titoli quali Don Giovanni, Traviata e Rigoletto appare legittimo e sensato, viene naturale interrogarsi su alcune scelte di cast, davvero anacronistiche, quando non assurde.
La più appariscente riguarda forse la Lucia di Lammermoor. Salvo la protagonista il cast è, a voler esseri buoni, degno delle proverbiali spedizioni punitive nei teatri della profondissima provincia. Speriamo almeno che in sede esecutiva prevalga quel minimo di buonsenso capace di suggerire al concertatore un robusto utilizzo della tanto deprecata forbice di Gavazzeni. Ma temiamo sia fallace speranza. Tenore e baritono, per colmo di ventura, saranno assieme a Patrizia Ciofi i protagonisti della ripresa di Traviata.
Da comprimariato, ossia da scuola primaria dell’opera, il cast del Barbiere di Siviglia, che a ogni ripresa del modesto allestimento di Morassi sembra smarrire sempre più ogni residuo contatto non solo con il portato della Rossini renaissance (bersaglio di una damnatio memoriae degna di peggior causa), ma con la capacità di portare in scena in condizioni almeno accettabili uno dei titoli più frequentati, in qualunque epoca, del Pesarese.
Ma il top – si fa per dire – lo si raggiunge con il Trovatore, che vedrà il debutto nel ruolo eponimo di Francesco Meli. Poco danno, si potrebbe dire, anche per le dimensioni contenute della sala di Campo San Fantin. In realtà il danno è molto, e il primo destinatario dello stesso è proprio Meli, che sembra deciso a ripercorrere il cammino, diciamo deleterio, già intrapreso da Marcelo Alvarez, per giunta non potendo vantare in natura la potenza vocale e la facilità in alto che avevano caratterizzato la prima parte della carriera del tenore argentino. Leonora sarà Maria José Siri, preparata e musicale, come già nell’Aida scaligera “last minute” dell’anno scorso, ma anche lei assai distante dal possedere il tonnellaggio della protagonista verdiana. Il secondo cast è, se possibile, ancor più bislacco, combinando il modesto Stuart Neill (già periclitante Don Carlo anch’egli “last minute” sempre a Milano) e la tutt’altro che raffinata Kristin Lewis, già presente in una non memorabile edizione del titolo nei teatri veneti (ancora una volta, si stenta a scorgere una qualsiasi differenza fra la cosiddetta provincia e i cosiddetti grandi teatri).
Rispetto alla veneziana, la stagione del Verdi di Trieste appare più equilibrata fra titoli di forte richiamo e proposte più audaci. Come alla Fenice, purtroppo, le scelte di casting contrastano spesso pesantemente non solo con le richieste della partitura, ma con quelle del buon senso.
Se la Traviata affidata a Mariella Devia è il tributo che il teatro paga volentieri pur di assicurarsi la presenza di una delle poche dive ancora in grado di offrire serate di canto professionale, che cosa dire del cast di contorno, che unisce al modesto vincitore dell’ultima edizione di Operalia il modesto Monterone del Rigoletto dominghiano?
Se si dispone di Maria José Siri, e la si vuole proporre a tutti i costi in un’opera di Verdi, perché non affidarle un titolo (che so, Luisa Miller, o Alice Ford) un po’ meno pesante dei Foscari, per giunta da cantarsi al fianco di due cantanti legnosi e poco rifiniti quali Dalibor Jenis e Jorge de León?
Che senso ha proporre il Samson et Dalila con un protagonista vocalmente ben oltre le frutta come Ian Storey (e per soprammercato, al fianco di una voce non più freschissima, ma ancora d’impatto, almeno in fascia medio-acuta, come quella di Luciana d’Intino) o la Francesca da Rimini (opera di superba invenzione musicale, a dispetto di certa critica) affidata a due soprani leggeri in disarmo, che rispondono ai nomi di Hasmik Papian e Patrizia Orciani (quest’ultima in considerevole difficoltà nella parte lirica e sognante, e assai meno onerosa, di Fidelia, nel recente Edgar bolognese), o ancora la Lucia di Lammermoor assegnata a soprani che stentano in acuto (eufemismo!) come Silvia dalla Benetta e Olga Peretyatko, o il Gianni Schicchi, protagonista un baritono di voce opaca e legnosa, che non significa necessariamente fine dicitore?
Queste e altre domande giriamo ai signori agenti, sovrintendenti e direttori artistici, che sappiamo essere nostri fedeli lettori. Davvero ci stupiamo del fatto che i teatri si svuotino sempre più?
Il cartellone madre, ossia quello della Staatsoper viennese, spicca come di consueto per numero e eterogeneità delle proposte. Anche se a onor del vero quest’anno le novità appaiono meno numerose e soprattutto assai meno nuove del consueto.
Su una quarantina di titoli appena sei le nuove produzioni, alcune delle quali invero poco fantasiose, se non nella scelta del titolo, nell’assemblaggio del cast.
Si prenda ad esempio l’Alcina, che ricalca nei ruoli della protagonista e di Bradamante la distribuzione proposta l’anno scorso nella provinciale (rispetto alla capitale dell'Impero) Milano. Certo si dirà che la novità della proposta risiede nella bacchetta, sempre prestigiosa, di Marc Minkowski. Peccato che la suddetta sarà impegnata a dirigere nella parte di Ruggiero quel che avanza (pochino) della voce di Vesselina Kasarova e nientemeno che Verónica Cangemi (una delle iatture per le quali dobbiamo ringraziare il cosiddetto specialismo applicato all’opera barocca) nei virtuosismi di Morgana. E siccome la filologia impera, non dubitiamo a chi sarà affidata l’aria che conclude il primo atto dell’opera!
Quanto al Don Giovanni, altra nuova produzione, non possono che destare rinnovate perplessità le ormai consunte scelte di Ildebrando d’Arcangelo e Alex Esposito quali padrone e servitore, perplessità che si estendono alla presenza di Saimir Pirgu quale Ottavio. In alcune repliche il tenore sarà Pavol Breslik, già periclitante Gennaro al fianco di Frau Gruberova. Quanto a Sally Matthews, deputata Donn’Anna alla première, invitiamo i lettori a cercare su Youtube traccia della sua Fiordiligi e a trarre le conclusioni e gli auspici del caso.
Le Nozze di Figaro, altra nuova produzione, sanciscono il passaggio (inedito, salvo errore, che naturalmente le nostre maestrine dalla penna rossa provvederanno tosto ad emendare) di Erwin Schrott dal ruolo di Figaro a quello del Conte. La scelta, alla luce della Carmen ultima scorsa e dei numerosi e udibili problemi in acuto del basso-baritono uruguaiano, appare azzardata anche e soprattutto se si considera che il Figaro di turno non sarà certo un basso profondo, bensì Luca Pisaroni. Ogni speranza di differenziare timbricamente servo e padrone sembra così tramontare. Ma è ben vero che lo stesso può dirsi del Don Giovanni. Entrambe le opere, per colmo di ventura, saranno affidate alla direzione, diciamo greve, di Franz Welser-Möst.
Vero titolo “cult” della stagione Anna Bolena, affidata a un quartetto di voci giovani, à la page, altamente innovative: Anna Netrebko, Elina Garanca, Francesco Meli e Ildebrando d’Arcangelo, diretti dallo specialista Evelino Pidò. Se la produzione di Barcellona ha suscitato ironici commenti circa l’età biologica delle primedonne, che si alterneranno nel ruolo della sventurata consorte di Enrico VIII, si potrebbe analogamente commentare che a Vienna andrà in scena una versione “Kindergarten” del titolo donizettiano. Anche e soprattutto, vien da pensare, sotto il profilo dei tagli, che si renderanno necessari stante l’assoluta e totale estraneità al Belcanto, provata da passate Lucie e Sonnambule, della deputata protagonista.
Quanto alla Kata Kabanova, si segnala unicamente per la presenza di Deborah Polaski, ormai confinata a parti di fine dicitrice, quale Kabanicha.
Il resto della stagione scorre più o meno senza sorprese, non fosse che per alcune presenze inquietanti e quasi spettrali, la più notevole delle quali è forse quella di Neil Shicoff quale Hermann della Dama di picche (al fianco di Anja Silja), Pinkerton (con Svetla Vassileva e Hui He), Cavaradossi (al fianco di Catherine Naglestad) e Capitano Vere nel Billy Budd. Una presenza numericamente e qualitativamente così significativa, da parte di un tenore così inequivocabilmente finito, dice, da un lato, di un ricambio generazionale che fatica a emergere, dall’altro, dell’assoluta e totale mancanza di gusto, decenza e vergogna da parte di chi propone al pubblico un siffatto prodotto, che potremmo definire come minimo scaduto. A parità di condizioni vocali, verrebbe da invocare la presenza di Kunde, magari proprio come Gennaro al fianco della sempreverde (nel senso dell’immutabilità di pregi e difetti) Gruberova, che proporrà la Borgia, come già a Barcellona, in forma di concerto. Sempre in forma concertante la signora sarà, al Musikverein, nientemeno che Violetta. Qui naturalmente il problema non è la mancanza di ricambio generazionale, bensì l’insufficiente qualità del medesimo.
Si sbalordisce poi nel vedere Fiorenza Cedolins impegnata come Butterfly e soprattutto come Amelia Grimaldi. Facile supporre, anche in questo caso, tardive e non indolori sostituzioni. L’annotazione vale anche per Annick Massis, ultimamente più rinomata per i forfait che per le apparizioni sceniche, attesa quale Lucia di Lammermoor.
Peraltro il Boccanegra è per tre quarti, protagonista femminile esclusa, il medesimo che fu rappresentato pochi mesi or sono nella provincialissima Parma. Ennesima dimostrazione che possono variare lusso e incidenza mediatica dei contenitori, ma il contenuto è sempre più spesso il medesimo, a qualunque latitudine. E sovente in sprezzo di qualunque logica, che non sia quella del Nome.
Meno folta del consueto la presenza dei divi teatrali e discografici: Flórez affronta il solo Elisir d’amore (non certo una parte che possa valorizzarne le doti, come già visto e udito in passato), la Genaux la sola Isabella (e per fortuna), la Netrebko la sola Bolena (ma non si tratta certo di un cimento da poco), idem come sopra per la Garanca, mentre un'incredibile Waltraud Meier sarà impegnata nientemeno che come Kundry. Roberto Alagna, in una sorta di ritorno (tardivo) alle origini vocali dopo i cimenti verdiani, sarà Faust (accanto al Mefistofele di Erwin Schrott) e Des Grieux di Massenet (con la Manon di Norah Amsellem), José Cura sarà il Des Grieux di Puccini (ed ecco che la cronaca trascolora nella fantascienza) e affronterà in blocco il dittico Cavalleria/Pagliacci, mentre Jonas Kaufmann, per la gioia degli amanti del declamato (non sempre) intonato, riprenderà il suo ormai proverbiale Werther mannaro al fianco della fedele Sophie Koch.
La stellina nascente Julia Novikova, forte della recente popolarità quale Gilda in mondovisione, alternerà Regina della Notte, Adina e Zerbinetta. In questo la signorina si dimostra vera emula del suo pigmalione Domingo, ma un poco di prudenza in più non sarebbe forse fuori luogo, nel teatro che fu il regno di Selma Kurz.
Sarà poi bello tacere di molte delle bacchette coinvolte nella stagione viennese, ma non possiamo non segnalare la presenza, in alcune repliche del Barbiere, di Jean Christophe Spinosi, star della filologia d’oltralpe, che pochi mesi fa rinunciò (per misteriose ragioni) a dirigere il medesimo titolo in Scala.
Quanto a filologia, però, niente e nessuno può battere il cartellone del Theater an der Wien. Come competere con irrinunciabili performance quali la Semele di Cecilia Bartoli, la Rodelinda di Danielle de Niese o i Dialoghi delle Carmelitane con Patricia Petibon (Blanche) e Deborah Polaski (Madame de Croissy)? Appunto, non si può.
Le due stagioni italiane sfigurano fatalmente di fronte a una simile dovizia di titoli e di star.
In realtà la stagione della Fenice appare la più rinunciataria, delineandosi come una successione di titoli da sussidiario dell'opera. Fa eccezione lo spettacolo di apertura, Intolleranza 1960 di Luigi Nono (composizione della quale Beverly Sills, impegnata nella première statunitense del titolo, ebbe a scrivere: Luigi and his opera were both Nonos), di cui ricorre il cinquantesimo anniversario della prima esecuzione, avvenuta proprio alla Fenice, e che si avvale di una nuova produzione realizzata dagli studenti dello IUAV di Venezia, sotto il coordinamento di Luca Ronconi ed altri guru del teatro italiano. Altro “corpo estraneo”, e sulla carta unica produzione allettante (ma il cast è, al solito, un’incognita, allo stato attuale) l’Acis and Galathea di Haendel, allestito al Teatro Malibran con i solisti dell’Académie européenne de musique del Festival d’Aix-en-Provence.
Per il resto siamo nell’ambito dei c.d. grandi titoli, quasi che la Fenice volesse convertirsi in un teatro di repertorio. E talune presenze ricorrenti nei cast (segnatamente nelle opere mozartiane) fanno pensare a un tentativo di costruire una sorta di compagnia stabile attorno al teatro veneziano.
Giusta e opportuna appare, nell’attuale congiuntura, la riproposta di titoli e allestimenti visti nella presente e nelle recenti stagioni. Ma se il desiderio di “fare cassetta” con titoli quali Don Giovanni, Traviata e Rigoletto appare legittimo e sensato, viene naturale interrogarsi su alcune scelte di cast, davvero anacronistiche, quando non assurde.
La più appariscente riguarda forse la Lucia di Lammermoor. Salvo la protagonista il cast è, a voler esseri buoni, degno delle proverbiali spedizioni punitive nei teatri della profondissima provincia. Speriamo almeno che in sede esecutiva prevalga quel minimo di buonsenso capace di suggerire al concertatore un robusto utilizzo della tanto deprecata forbice di Gavazzeni. Ma temiamo sia fallace speranza. Tenore e baritono, per colmo di ventura, saranno assieme a Patrizia Ciofi i protagonisti della ripresa di Traviata.
Da comprimariato, ossia da scuola primaria dell’opera, il cast del Barbiere di Siviglia, che a ogni ripresa del modesto allestimento di Morassi sembra smarrire sempre più ogni residuo contatto non solo con il portato della Rossini renaissance (bersaglio di una damnatio memoriae degna di peggior causa), ma con la capacità di portare in scena in condizioni almeno accettabili uno dei titoli più frequentati, in qualunque epoca, del Pesarese.
Ma il top – si fa per dire – lo si raggiunge con il Trovatore, che vedrà il debutto nel ruolo eponimo di Francesco Meli. Poco danno, si potrebbe dire, anche per le dimensioni contenute della sala di Campo San Fantin. In realtà il danno è molto, e il primo destinatario dello stesso è proprio Meli, che sembra deciso a ripercorrere il cammino, diciamo deleterio, già intrapreso da Marcelo Alvarez, per giunta non potendo vantare in natura la potenza vocale e la facilità in alto che avevano caratterizzato la prima parte della carriera del tenore argentino. Leonora sarà Maria José Siri, preparata e musicale, come già nell’Aida scaligera “last minute” dell’anno scorso, ma anche lei assai distante dal possedere il tonnellaggio della protagonista verdiana. Il secondo cast è, se possibile, ancor più bislacco, combinando il modesto Stuart Neill (già periclitante Don Carlo anch’egli “last minute” sempre a Milano) e la tutt’altro che raffinata Kristin Lewis, già presente in una non memorabile edizione del titolo nei teatri veneti (ancora una volta, si stenta a scorgere una qualsiasi differenza fra la cosiddetta provincia e i cosiddetti grandi teatri).
Rispetto alla veneziana, la stagione del Verdi di Trieste appare più equilibrata fra titoli di forte richiamo e proposte più audaci. Come alla Fenice, purtroppo, le scelte di casting contrastano spesso pesantemente non solo con le richieste della partitura, ma con quelle del buon senso.
Se la Traviata affidata a Mariella Devia è il tributo che il teatro paga volentieri pur di assicurarsi la presenza di una delle poche dive ancora in grado di offrire serate di canto professionale, che cosa dire del cast di contorno, che unisce al modesto vincitore dell’ultima edizione di Operalia il modesto Monterone del Rigoletto dominghiano?
Se si dispone di Maria José Siri, e la si vuole proporre a tutti i costi in un’opera di Verdi, perché non affidarle un titolo (che so, Luisa Miller, o Alice Ford) un po’ meno pesante dei Foscari, per giunta da cantarsi al fianco di due cantanti legnosi e poco rifiniti quali Dalibor Jenis e Jorge de León?
Che senso ha proporre il Samson et Dalila con un protagonista vocalmente ben oltre le frutta come Ian Storey (e per soprammercato, al fianco di una voce non più freschissima, ma ancora d’impatto, almeno in fascia medio-acuta, come quella di Luciana d’Intino) o la Francesca da Rimini (opera di superba invenzione musicale, a dispetto di certa critica) affidata a due soprani leggeri in disarmo, che rispondono ai nomi di Hasmik Papian e Patrizia Orciani (quest’ultima in considerevole difficoltà nella parte lirica e sognante, e assai meno onerosa, di Fidelia, nel recente Edgar bolognese), o ancora la Lucia di Lammermoor assegnata a soprani che stentano in acuto (eufemismo!) come Silvia dalla Benetta e Olga Peretyatko, o il Gianni Schicchi, protagonista un baritono di voce opaca e legnosa, che non significa necessariamente fine dicitore?
Queste e altre domande giriamo ai signori agenti, sovrintendenti e direttori artistici, che sappiamo essere nostri fedeli lettori. Davvero ci stupiamo del fatto che i teatri si svuotino sempre più?
8 commenti:
Non voglio fare il maestrino dalla penna rossa, Tamburini, ma solo aggiungere che ti sei dimenticato un paio di titoli della stagione triestina, e cioè Salome (nell'allestimento che già conosciamo, coproduzione con il "tuo" teatro) e The medium che appunto con lo Schicchi compone il dittico di quest'anno.
Ciao.
Cari amici, non vi pare che si sia sempre detto, in ogni epoca, che l'arte del canto è degradata, nessuno sa più suonare o dirigere e compagnia bella?
Marco Ninci
caro marco ninci
come sempre dissento, ascoltando so di tirindelli, perchè ad esempio quando "venne fuori" la callas nessuno disse che prima di lei la scacciati e la carena eseguissero il trovatore meglio!
ciao alla prossima
Beh, veramente l'hanno detto eccome e non erano tutti cretini. Un solo esempio: Beniamino Dal Fabbro, un critico molto fazioso, ma di grande sensibilità e bellezza di scrittura.
Ciao
Marco Ninci
P. S. non capisco il senso della frase: "ascoltando so di tirindelli".
Di Beniamino Dal Fabbro restano impagabili i giudizi su Wagner (soprattutto le piccole sciabolate - di perfida ironia - che dedica alla vacuità dei suoi scritti teorici). Sì, della Callas scrive "peste e corna", ma credo vi fosse un pregiudizio nei confronti della cantante greca.
..............è certo che siamo una compagnia di pallosi, amministratori ed ospiti!!!! hahahaha
so di pier adolfo tirindelli è una esemplare romanza da salotto, che le persone colte per certo non devono conoscere.
per i palleschi come noi tirindelli è irrunciabile come tosti e come arditi, naturalmente eseguiti da deteriori cantanti come selma kurz o madga olivero
ci sono i palleschi e i pallosi.....
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