Se non fosse stato per rispetto a Marianne Brandt ed Antonio Tamburini, con i quali ci eravamo preventivamente accordati, avrei tagliato dal planning la recensione di questo Rigoletto, indegno anche di qualche riga sommaria.
Che sia stato un flop di ascolti non lo so, ma che sia stato un flop musicale è certo.
E' stata l'ulteriore dimostrazione di come l'opera in TV continui ad oscillare tra il teletrash di concorsi vocali improvvisati e lussuosi Luna Park senza alcuna qualità musicale.
Premetto che non amo molto l’opera in dvd, men che meno queste produzioni live “nei luoghi e nelle ore” delle opere. Anzi, trovo che confliggano intimamente con ciò che sia l’opera in teatro, ossia con il senso che ha il teatro d’opera, poiché ci restituiscono, anche nei casi migliori, prodotti che sanno di “cinema musicale” più che di “opera al cinema”.
Il cinema è altro dal recitar cantando sul palcoscenico, e non solo perché gli attori cinematografici hanno modi e forme di espressione diverse da quelle del cantate lirico, ma perché lo spazio dell’opera, i luoghi, fantastici o realmente esistenti che siano, non sono mai luoghi della realtà documentaria e cinematografica, anche quando si tratti di luoghi “storici”, come nel caso della Mantova di Rigoletto appunto.
Intendo dire che il Castel Sant’Angelo della Tosca non è il vero Castel Sant’Angelo che si visita Roma, con i muri scrostati, le macchie di umidità, architettura straordinaria, ma anche danneggiata ed “imperfetta” per i secoli, che le sono trascorsi sopra. Il Castel Sant’Angelo di Tosca è, comunque, un luogo sempre rivisitato, la rappresentazione di una architettura storica esistente e prima di tutto, il luogo ove si svolge un’azione scenica. Se così non fosse, se il teatro non funzionasse per rappresentazioni, ma per realtà oggettive e fisse, non potremmo e dovremmo ricostruire ad ogni produzione di Tosca un Castel Sant’Angelo sempre diverso, anche stilizzato al limite, ma sempre variamente collocato e diversamente riprodotto. E lo stesso può valere per le altre scene di Tosca, piuttosto che per la Ferrara di Lucrezia Borgia e Parisina o la Parigi degli Ugonotti.
Il cinema ha influenzato l’opera, ma a volte l’ha anche danneggiata. La commistione tra generi è inevitabile oggi come oggi e può contribuire ad arricchire forme d’arte tra loro diverse ( penso al rapporto fotografia - pittura ), ma questa produzione è stata un manifesto di invadenza del cinema sull’opera, tanto da danneggiarla, senza peraltro ottenere buon cinema.
Il Rigoletto di Bellocchio è stato posto nei luoghi ( esatti, poi? perchè Rigoletto non è un personaggio realmente esistito) dell’azione del libretto, nel senso che la troupe si è ivi installata, senza, però, sfruttarne la forza suggestiva ed evocativa. Con buona pace del genio di Storaro abbiamo visto assai poco della Mantova cinquecentesca perchè è stata adottata una regia tutta focalizzata sui primi piani dei cantanti che, già di per sè bruttini da vedere, causa i movimenti facciali che il canto impone loro, non ha giustificazione alcuna in mancanza di attori cinematografici, abituati ad esprimersi anche col volto. Placido Domingo non ha certo l’intensità espressiva di uno Sean Penn, anzi, gli capita pure di sputacchiare schifosamente mentre canta; né Ruggero Raimondi ha il ghigno ieratico di Al Pacino, anche se entrambi mi pare che abbiano denti installati di recente; né Grigolo mi pare avere il look di uno sciupafemmine padano del Cinquecento. A poco è valso il pittoricismo evidente cui Bellocchio è ricorso nel metter in posa da ritrattistica lombarda il Borsa di Leonardo Cortellazzi o il Marullo di Giorgio Caoduro, che parevano usciti delle mani di un Moroni o di un Lotto. Insomma, Bellocchio ha scelto la via che Chéreau percorse con la sua Reine Margot, senza però averne gli attori e depurando la storia dal suo crudo realismo. E tralasciamo la coerenza con l'idea di fondo Rigoletto nei luoghi di Rigoletto. A questo punto andava benissimo una via di Pavia o di Cremona ed un qualsiasi cortile cinquecentesco in buono stato.
In compenso certe architetture sensibili e rilevanti sono state messe a dura prova dal trambusto portato dalla produzione che avrebbe ben potuto essere realizzata in studio per tanto così.
Certi svarioni, poi, come l’orchestrina della festa del I atto, composta, incredibilmente, da violini e violoncelli oltre che munita di leggii “Aiazzone”; il “Pari siamo” cantato per intero davanti ad un pluviale in pvc; l’interno della casa di Rigoletto arbitrariamente collocato nella Groota degli Innamorati e nel giardino Segreto del Tè, con tanto di grottesche e stucchi; la taverna di Maddalena linda ed ordinata, potevano esserci risparmiati, a tutto vantaggio della plausibilità della ricostruzione storica. “Rigoletto nei luoghi e nelle ore” ? Direi che dell’obbiettivo dell’operazione si sono ben scordati ……sempre ammesso che l’obbiettivo fosse questo......e più genericamente che un obbiettivo diverso da quello di Figaro o don Basilio, tanto per restare nell'opera, vi fosse.
Tralasciamo, pietosamente, di addentrarci sul sospetto, più che fondato perché suscitato in molti, che la diretta fosse, invece, almeno in parte un playback in certi momenti, aria del tenore al II atto ad esempio, per giunta anche mal realizzato perché le bocche di protagonista e coristi non erano sincronizzate con la musica. Ma forse è stata colpa del nostro chattare furibondo in diretta, quello si!, a renderci poco attenti e un filo strabici….
Se poi mi addentrassi nella disamina delle prestazioni attoriali dei protagonisti, dovrei star qui un secolo a cercare perifrasi idonee ad una descrizione lieve e gentile di un disastro di varie proporzioni.
Gli interpreti più blasonati son usciti con le ossa rotte, per non dire ridicolizzati, dall’impietosa registrazione ed amplificazione che la macchina da presa, soprattutto se vicina, fa di loro, anziani signori travestiti come in una scherzosa sagra storica paesana. I giovani sono andati meglio, ma l’insieme, da un punto di vista meramente cinematografico, è risultato improbabile ed incredibile. Nessuna logica in questo modo di tagliare la produzione, ripeto. Era meglio affidarsi ai luoghi, collocare i cantanti lontano, fare regia vera, e non movimenti stereotipati e smaccatamente falsi di protagonisti, coro e comparse.
Scelte di fondo e svarioni assortiti ci hanno dato l’idea di una produzione improvvisata, poco pensata, montata con abbondanza di mezzi ma assenza di idee e buon gusto, un’opulenta iniziativa senza contenuti né registici, né, ahinoi, musicali, come vi diranno ora Marianne Brandt, Antonio Tamburini e Domenico Donzelli.
Giulia Grisi
Alla fine del primo atto in realtà si esclama: “che spreco!”
Spreco assoluto di denaro pubblico l’ingaggio del regista Marco Bellocchio e del direttore della fotografia Vittorio Storaro!
Peccato venale grave, perché per mettere in scena questo film d’opera sarebbe bastato un bravo montatore in sala di regia che coadiuvasse le 30 telecamere, le 4 regie digitali, i 7 chilometri di cavi in fibra ottica ed una lampadina gialla perennemente accesa ad illuminare gli ambienti.
Bellocchio apprezzato, abile, talentuoso regista cinematografico di film celebrati come “I pugni in tasca”, “La Cina è vicina”, “Nel nome del padre”, “Addio del passato”, “Buongiorno, notte”, “L’ora di religione”, “Vincere” etc. già nel Marzo 2004 fu chiamato a dirigere la medesima opera al Teatro Municipale di Piacenza ambientandolo in una Italia anni ’50 carnevalesca e felliniana che viveva di citazioni pittoriche (le collezioni farnesiane, la pala d’altare della Madonna Sistina) e suggestioni cinematografiche del neorealismo di quegli anni, che però lasciò perplessi pubblico e critica e poco soddisfatto lo stesso regista a causa della “rigidità della dimensione scenica”.
Magari avesse approfondito e raffinato tali idee invece di perdersi in una ingenua, statica, provinciale dimensione registica di maniera che sarebbe stata giudicata “vecchia” anche 30 anni fa.
Inutile trasformare l’orgia del primo atto in una pacchiana balera in cui manca solo la presenza della gloriosa Titti Bianchi; inutili le vogliose Duca-Girls presenti al solo scopo di sottolineare quanto focoso sia il tenore; inutili i costumi che vorrebbero ispirarsi ad una presunta filologia ed ai quadri di Caravaggio, La Tour, El Greco, ma che evocano feste paesane e sagre della porchetta; inutile il comico tira e molla durante l’addio tra il Duca e Gilda; inutile e micidiale la presenza dei rapitori ad un metro da Gilda al termine del “Caro nome”; inutile la totale mancanza di azione o di tensione cinematografica che annulla ogni tentativo di coinvolgimento.
Così come completamente smidollata si presenta la lettura di Mehta il quale dirige dal Teatro Bibiena l’Orchestra Sinfonica della RAI. Ammiro molto Zubin Mehta, apprezzo la volontà di creare un suono ovunque morbido e omogeneo, di cercare la bellezza delle note e di avvolgere i cantanti nella melodia verdiana come se fosse una dolce protezione, ma mai che il direttore voglia esprimere qualcosa, mai che l’orchestra ed il suo gesto scatenino la tensione emotiva e strumentale. Tutto è rigorosamente annacquato, assurdamente dilatato fino alla paralisi e espressivamente gelido fino alla banalità. L’orgia del I atto è semplicemente tirata via alla buona, ancora peggio vanno le cose con l’insipido duetto con Sparafucile o il narcolettico dialogo con Gilda. Praticamente inesistente la presenza dell’orchestra nel duetto d’amore tra Duca e Gilda o nel finale, quanto micidiale l’interminabile “Caro nome”. In tutto questo i cantanti si arrangiano come possono per riuscire ad andare a tempo con una agogica tanto molle e inespressiva.
Dopo il “trionfale” esordio come Simon Boccanegra, il “giovane baritono” Plácido Domingo aggiunge al suo repertorio, avendolo sperimentato in forma di concerto, il ruolo di Rigoletto.
Scherzi a parte, Domingo anche qui non è un baritono e dovrebbe mettersi l’anima in pace su questo punto: lo rivelano il colore chiaro e schiettamente tenorile del timbro, il tipo di canto nella tessitura centrale, l’emissione degli acuti e la carriera anche recente che sta li per testimoniarlo.
Il tremore e l’usura naturale della voce lo fanno partire male nel I atto e si nota anche un non ottimale studio delle prime frasi; manca l’ironia sadica nella prima scena e l’accento è molto vecchio stile anteguerra inficiato da un birignao maldestro e invadente. Il duetto con Sparafucile è generico e manca di mistero, ma qualche zampata soprattutto nel fraseggio riesce a regalarcelo nel monologo “Pari siamo” trasformato nella versione anziana di “Forse la soglia attinse e posa alfin” dal “Ballo in maschera”; stesso dicasi per il duetto con Gilda praticamente identico negli accenti alla scena d’amore nell’orrido campo con Amelia: sembra di assistere infatti al corteggiamento tra un vegliardo attempato, ma non domo ed una fanciulla poco più che adolescente; orrido e ridicolo il “gildare” alla fine dell’atto. Si apprezza il carisma innato, l’artista, la robustezza dello strumento pieno di crepe, ma ancora intatto nella timbratura e nel suo sostegno, eppure tutto è finto, costruito, volutamente strappa applauso, molto vecchio e risaputo. Domingo monumento di se stesso; Domingo che a fine carriera (quando?) si toglie gli sfizi inventandosi baritono; Domingo onore e rispetto alla carriera; Domingo lezione di canto e di carisma; Domingo, basta così!
Con Julia Novikova, vincitrice del primo premio all’ “Operalia 2009 Plácido Domingo The World Opera Competition” a Budapest, il personaggio di Gilda passa un brutto quarto d’ora; si, perché il soprano ha il dono di portarci indietro nel tempo di oltre 100 anni.
Vocetta bianca, bianca, esile, esile quella della Novikova, poggiata praticamente sul niente, o meglio, sostenuta da un falsetto etereo, vetroso soprattutto nel registro acuto e da un accento interpretativo talmente vecchio, zuccheroso, generico da mutare Gilda nella solita insignificante oca con gli occhi a cuore e la boccuccia paralizzata in un eterno fastidioso sorrisetto compiaciuto.
Quindi sia il duetto con il padre, sia il duetto con il Duca, in cui semplicemente sparisce, sia il “Caro nome”, sono momenti che oltre ad essere annegati in un mare di melassa, dimostrano come una voce miagolante e con problemi di intonazione uccida anzitempo il personaggio.
Su un livello simile il Duca di Vittorio Grigolo, super-tenore in ascesa.
Grigolo fa parte di quella schiera di cantanti belli da guardare, meno da ascoltare e non per mende timbriche, quanto per mende puramente tecniche e vocali.
Per quale motivo Grigolo deve fingere di essere un tenore spinto scurendo artificiosamente il timbro in “Questa o quella” per poi cantare il resto dell’atto con la sua vera voce? Forse per mascherare una voce piccola ed evanescente, dotata in natura di una certa gradevolezza, ma lanciata allo sbaraglio, perché priva di appoggio ed una adeguata respirazione.
Perché contorcersi o mettersi sulle punte dei piedi per l’emissione degli acuti? Forse perché l’unico modo per raggiungere le note sopra al rigo in tali condizioni è ghermirli forzando e spingendo usando non il diaframma, non la maschera, ma le sole corde vocali e gli innaturali movimenti del corpo. Perché emettere suoni sbadiglianti e facilmente confondibili con i falsetti della Novikova? Forse, perché non si hanno i pianissimi, e forse per mascherare il vibrato del registro centro-acuto come dimostra il duetto con Gilda. Insomma, Grigolo avrebbe la voce giusta, sempre se aggiustasse l’emissione, per Broadway, per la grande tradizione della commedia musicale italiana, ma per un’opera come “Rigoletto” c’è bisogno di altro oltre al fisico.
Terribile l’amichevole presenza di Ruggero Raimondi nei panni di Sparafucile.
Il duetto con Domingo sembra uscito direttamente da “La notte dei morti viventi” di Romero; la voce usurata è al limite della decenza e si sfilaccia di continuo cercando di prendere corpo attraverso inflessioni bieche ed emissioni gutturali; inesistente poi il registro grave ridotto ad un inudibile sbuffo d’aria. Quando parla della “sorella” si ha paura che al terzo atto spuntino a sedurre il Duca la Cossotto o la Obraztsova odierne nei panni di Maddalena vista l’età anagrafica del signore, poiché la povera Surguladze potrebbe al limite impersonare la nipote del buon Raimondi. Va bene il rispetto per la grande carriera e per il grande basso, ma anche il rispetto per le orecchie del pubblico (pagante!) ha la sua importanza!
Discreti tutto sommato sia il coro sia i comprimari, con una menzione speciale per il tonante Monterone di Gianfranco Montresor e la Giovanna con il quadruplo della voce della Novikova di Caterina di Tonno.
Marianne Brandt
Un tempo si riteneva l’aria del Duca all’inizio del secondo atto, e segnatamente il cantabile “Parmi veder le lagrime”, il brano ideale per saggiare un tenore in sede di concorso ovvero di audizione. L’attacco (un sol bemolle) permette di valutare se, e come, il tenore sappia risolvere il passaggio di registro superiore. Un’esecuzione come quella proposta in mondovisione avrebbe suscitato reazioni perplesse, per non dire di peggio, in una qualsiasi commissione esaminatrice d’antan. Fin dal recitativo “Ella mi fu rapita” Grigolo gonfia le gote e spinge, onde conferire alla voce (una voce adatta in natura al più a Camillo de Rossillon) un supposto spessore drammatico, con il brillante risultato di gridacchiare malamente in acuto (“Ma ne avrò vendetta”), di “grattare” in basso (“e la magion deserta”) e di falsettare nei punti in cui lodevolmente si sforza di rispettare le indicazioni “dolce” e “cantabile” (“quell’angiol caro”). L’aria è affrontata con numerose e abusive riprese di fiato, che però non bastano a mascherare un canto che è fibra purissima, ignaro di qualsiasi nuance o smorzatura. Il che è torto capitale per un Duca che non ha certo nella protervia dello squillo o nel fascino timbrico le proprie doti peculiari. Molto provato dalle frasi di scrittura centrale della cabaletta “Possente amor mi chiama”, il tenore opta per il tradizionale taglio del da capo. Vista anche la dimensione molto tradizionale (e pesantemente provinciale) dell’allestimento e della direzione d’orchestra (da mal di mare le sbandature del coretto, musicalmente elementare, dei cortigiani), oltre che del canto, non sarebbe stato fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di cassare del tutto la seconda parte dell’aria.
La grande scena del baritono mostra un Domingo vocalmente allo stremo, di voce dura e legnosa anche e soprattutto in acuto, zona che per natura dovrebbe essergli propizia, ma che in effetti sottolinea impietosamente l’età avanzata del tenore, specie nelle note tenute, fra cui il sol su “dei figli l’onor” che il cantante ben pensa d’inserire in luogo del mi bemolle scritto. Concitazione tutta esteriore, da Canio in età pensionabile, e urla scomposte caratterizzano l’invettiva, mentre la disperata perorazione mette in evidenza la mancanza di un autentico legato, sostituito da suoni tutti e invariabilmente nella bocca e nel naso. Nessuna vibrazione, nessuno scavo d’interprete, anzi, a tratto nemmeno le parole, per tacere delle note, spesso d’incerta intonazione. Vergogna, signor Domingo.
Julia Novikova, timbricamente indistinguibile dal paggio della Duchessa (dolente di contraddire la collega Brandt, ma un secolo fa, e per limitarci all’area esteuropea, Gilda poteva avere la voce di una Boronat o di una Nezhdanova, senza contare che né la scrittura della parte né l’orchestrale del terzo atto saprebbero tollerare un sopranino), dimostra nell’arioso “Tutte le feste al tempio” una preparazione e una musicalità superiore a quelle dei signori uomini, ma non sufficienti a conferire carattere e polso a una Gilda a dir poco inerte, scolastica nel fraseggio, di voce larvale e bianca, stridula e sempre al limite dell’intonazione nei parchi acuti dispensati, mi bemolle della vendetta incluso. Se non altro il soprano, a differenza del neobaritono, non ha dovuto cassare buona parte delle battute precedenti per concedersi la puntatura di tradizione.
La regia e la direzione proseguono, nel secondo atto, sulla strada tracciata nel primo.
Per la serie “il bello della diretta” va segnalato il microfono incautamente rimasto aperto dopo l’uscita di scena di Rigoletto e Gilda, grazie al quale sentiamo l’orchestra… applaudirsi da sola! O era un tentativo di infondersi coraggio in vista del terzo atto?
Antonio Tamburini
E siamo al terzo atto. Si svolge in una locanda che aspira alle stelle Michelin, pulita, ordinata posta in una struttura antica, anzi anticata. Un bel falso cinquecento il cui più pregante simbolo è il lampione pendente all'ingresso.
Rigoletto, i cui compensi presupponiamo, vista anche la casa in cui ha "sequestrato" la figlia per difenderne, invano l'onore, sono da star di Hollywood vi giunge in barca.
Che l'esercizio commerciale renda bene è manifesto dal magnifico impianto dentario nuovo di pacca del titolare il Signor Sparafucile, i cui capelli unticci, invece, confermano la diceria del rapporto conflittuale fra i francesi e l'acqua corrente. Il successivo conflitto è con l'apparizione della sorella Maddalena, che fa presuppore in capo al padre dei due più matrimoni e potenza sessuale in tardissima età. Ma è un conflitto apparente perchè allorquando l'adescatrice apre bocca rivela età vocale assai prossima a quella del fratello e, quindi, siamo in un episodio della "Morte ti fa bella" e la Maddalena è chiaramente un capolavoro di chirurgia estetica stile Nip e Tuck.
Non ritorno sulla prestazione indecorosa dei cantanti che si erano già prodotti negli atti precedenti salvo precisare che Vittorio Grigolo è stato, come è giusto per un principiante del canto, in difficoltà nelle frasi che al quartetto chiamano in causa la zona del passaggio, che Julia Novikova ignora per la serie di suonini flautati che emette dal do centrale in che consistano appoggio e sostegno che Ruggero Raimondi non abbia cantato una sola nota, parlando con la dizione artefatta da diva dei telefoni biaaaaaanchi. Non posso però tacere dei suoni gutturali, aperti e sgraziati che emette costantemente la Maddalena di Nino Surgulazde. Non me la sento neppure di tirar fuori la difesa d'ufficio che Maddalena è un contralto e la Surgulazde un soprano, bastando a smentire una siffatta difesa una lunga serie di Maddalena di fatto soprani o mezzi acuti, tipo Fiorenza Cossotto e a livelli più normali Adriana Lazzarini, Franca Mattiucci e tante oneste professioniste.
Le oneste professioniste mi consentono di ricordare che il terzo atto ha confermato la carenza di tale dote in capo a Palcido Domingo ed a Zubin Mehta. Quanto a quest'ultimo sempre presente agli eventi, sempre preparato da eventi basta ricordare un quartetto slentato ed incoerente, una bandaccia orrenda al tragico terzetto, che precede l'ingresso di Gilda in quella che diviene la sua ara sacrificale. E tanto per infierire una canzone del duca a tempo di romanzetta da salotto o canzonetta.
Ma il peggio è venuto sempre dal protagonista, che sfida leggi del tempo, regole della tecnica, decoro professionale e pazienza del pubblico.
Le frasi del Rigoletto giustiziere davanti il sacco che conterrebbe il Duca, il trapasso fra la gioja del raggiunto scopo e la macabra scoperta, che darebbero al cantante, anche vocalmente limitato o sconnesso o declinante la possibilità di essere personaggio sono state l'apoteosi del generico di cui Domingo, sono certo passerà alla storia per essere stato il più completo rappresentante.
Tutto questo offende e ferisce. Autore, tradizione interpretativa, colleghi e pubblico, giovane precipuamente.
Un buon Galeffi o un buon Tagliabue riconciliano e restaurano orecchie ed umore.
Domenico Donzelli
Cesare Siepi & Giuseppe Valdengo - La Stitichezza
Vignetta tratta da http://comingsoonvignettaio.splinder.com/
Che sia stato un flop di ascolti non lo so, ma che sia stato un flop musicale è certo.
E' stata l'ulteriore dimostrazione di come l'opera in TV continui ad oscillare tra il teletrash di concorsi vocali improvvisati e lussuosi Luna Park senza alcuna qualità musicale.
Premetto che non amo molto l’opera in dvd, men che meno queste produzioni live “nei luoghi e nelle ore” delle opere. Anzi, trovo che confliggano intimamente con ciò che sia l’opera in teatro, ossia con il senso che ha il teatro d’opera, poiché ci restituiscono, anche nei casi migliori, prodotti che sanno di “cinema musicale” più che di “opera al cinema”.
Il cinema è altro dal recitar cantando sul palcoscenico, e non solo perché gli attori cinematografici hanno modi e forme di espressione diverse da quelle del cantate lirico, ma perché lo spazio dell’opera, i luoghi, fantastici o realmente esistenti che siano, non sono mai luoghi della realtà documentaria e cinematografica, anche quando si tratti di luoghi “storici”, come nel caso della Mantova di Rigoletto appunto.
Intendo dire che il Castel Sant’Angelo della Tosca non è il vero Castel Sant’Angelo che si visita Roma, con i muri scrostati, le macchie di umidità, architettura straordinaria, ma anche danneggiata ed “imperfetta” per i secoli, che le sono trascorsi sopra. Il Castel Sant’Angelo di Tosca è, comunque, un luogo sempre rivisitato, la rappresentazione di una architettura storica esistente e prima di tutto, il luogo ove si svolge un’azione scenica. Se così non fosse, se il teatro non funzionasse per rappresentazioni, ma per realtà oggettive e fisse, non potremmo e dovremmo ricostruire ad ogni produzione di Tosca un Castel Sant’Angelo sempre diverso, anche stilizzato al limite, ma sempre variamente collocato e diversamente riprodotto. E lo stesso può valere per le altre scene di Tosca, piuttosto che per la Ferrara di Lucrezia Borgia e Parisina o la Parigi degli Ugonotti.
Il cinema ha influenzato l’opera, ma a volte l’ha anche danneggiata. La commistione tra generi è inevitabile oggi come oggi e può contribuire ad arricchire forme d’arte tra loro diverse ( penso al rapporto fotografia - pittura ), ma questa produzione è stata un manifesto di invadenza del cinema sull’opera, tanto da danneggiarla, senza peraltro ottenere buon cinema.
Il Rigoletto di Bellocchio è stato posto nei luoghi ( esatti, poi? perchè Rigoletto non è un personaggio realmente esistito) dell’azione del libretto, nel senso che la troupe si è ivi installata, senza, però, sfruttarne la forza suggestiva ed evocativa. Con buona pace del genio di Storaro abbiamo visto assai poco della Mantova cinquecentesca perchè è stata adottata una regia tutta focalizzata sui primi piani dei cantanti che, già di per sè bruttini da vedere, causa i movimenti facciali che il canto impone loro, non ha giustificazione alcuna in mancanza di attori cinematografici, abituati ad esprimersi anche col volto. Placido Domingo non ha certo l’intensità espressiva di uno Sean Penn, anzi, gli capita pure di sputacchiare schifosamente mentre canta; né Ruggero Raimondi ha il ghigno ieratico di Al Pacino, anche se entrambi mi pare che abbiano denti installati di recente; né Grigolo mi pare avere il look di uno sciupafemmine padano del Cinquecento. A poco è valso il pittoricismo evidente cui Bellocchio è ricorso nel metter in posa da ritrattistica lombarda il Borsa di Leonardo Cortellazzi o il Marullo di Giorgio Caoduro, che parevano usciti delle mani di un Moroni o di un Lotto. Insomma, Bellocchio ha scelto la via che Chéreau percorse con la sua Reine Margot, senza però averne gli attori e depurando la storia dal suo crudo realismo. E tralasciamo la coerenza con l'idea di fondo Rigoletto nei luoghi di Rigoletto. A questo punto andava benissimo una via di Pavia o di Cremona ed un qualsiasi cortile cinquecentesco in buono stato.
In compenso certe architetture sensibili e rilevanti sono state messe a dura prova dal trambusto portato dalla produzione che avrebbe ben potuto essere realizzata in studio per tanto così.
Certi svarioni, poi, come l’orchestrina della festa del I atto, composta, incredibilmente, da violini e violoncelli oltre che munita di leggii “Aiazzone”; il “Pari siamo” cantato per intero davanti ad un pluviale in pvc; l’interno della casa di Rigoletto arbitrariamente collocato nella Groota degli Innamorati e nel giardino Segreto del Tè, con tanto di grottesche e stucchi; la taverna di Maddalena linda ed ordinata, potevano esserci risparmiati, a tutto vantaggio della plausibilità della ricostruzione storica. “Rigoletto nei luoghi e nelle ore” ? Direi che dell’obbiettivo dell’operazione si sono ben scordati ……sempre ammesso che l’obbiettivo fosse questo......e più genericamente che un obbiettivo diverso da quello di Figaro o don Basilio, tanto per restare nell'opera, vi fosse.
Tralasciamo, pietosamente, di addentrarci sul sospetto, più che fondato perché suscitato in molti, che la diretta fosse, invece, almeno in parte un playback in certi momenti, aria del tenore al II atto ad esempio, per giunta anche mal realizzato perché le bocche di protagonista e coristi non erano sincronizzate con la musica. Ma forse è stata colpa del nostro chattare furibondo in diretta, quello si!, a renderci poco attenti e un filo strabici….
Se poi mi addentrassi nella disamina delle prestazioni attoriali dei protagonisti, dovrei star qui un secolo a cercare perifrasi idonee ad una descrizione lieve e gentile di un disastro di varie proporzioni.
Gli interpreti più blasonati son usciti con le ossa rotte, per non dire ridicolizzati, dall’impietosa registrazione ed amplificazione che la macchina da presa, soprattutto se vicina, fa di loro, anziani signori travestiti come in una scherzosa sagra storica paesana. I giovani sono andati meglio, ma l’insieme, da un punto di vista meramente cinematografico, è risultato improbabile ed incredibile. Nessuna logica in questo modo di tagliare la produzione, ripeto. Era meglio affidarsi ai luoghi, collocare i cantanti lontano, fare regia vera, e non movimenti stereotipati e smaccatamente falsi di protagonisti, coro e comparse.
Scelte di fondo e svarioni assortiti ci hanno dato l’idea di una produzione improvvisata, poco pensata, montata con abbondanza di mezzi ma assenza di idee e buon gusto, un’opulenta iniziativa senza contenuti né registici, né, ahinoi, musicali, come vi diranno ora Marianne Brandt, Antonio Tamburini e Domenico Donzelli.
Giulia Grisi
Alla fine del primo atto in realtà si esclama: “che spreco!”
Spreco assoluto di denaro pubblico l’ingaggio del regista Marco Bellocchio e del direttore della fotografia Vittorio Storaro!
Peccato venale grave, perché per mettere in scena questo film d’opera sarebbe bastato un bravo montatore in sala di regia che coadiuvasse le 30 telecamere, le 4 regie digitali, i 7 chilometri di cavi in fibra ottica ed una lampadina gialla perennemente accesa ad illuminare gli ambienti.
Bellocchio apprezzato, abile, talentuoso regista cinematografico di film celebrati come “I pugni in tasca”, “La Cina è vicina”, “Nel nome del padre”, “Addio del passato”, “Buongiorno, notte”, “L’ora di religione”, “Vincere” etc. già nel Marzo 2004 fu chiamato a dirigere la medesima opera al Teatro Municipale di Piacenza ambientandolo in una Italia anni ’50 carnevalesca e felliniana che viveva di citazioni pittoriche (le collezioni farnesiane, la pala d’altare della Madonna Sistina) e suggestioni cinematografiche del neorealismo di quegli anni, che però lasciò perplessi pubblico e critica e poco soddisfatto lo stesso regista a causa della “rigidità della dimensione scenica”.
Magari avesse approfondito e raffinato tali idee invece di perdersi in una ingenua, statica, provinciale dimensione registica di maniera che sarebbe stata giudicata “vecchia” anche 30 anni fa.
Inutile trasformare l’orgia del primo atto in una pacchiana balera in cui manca solo la presenza della gloriosa Titti Bianchi; inutili le vogliose Duca-Girls presenti al solo scopo di sottolineare quanto focoso sia il tenore; inutili i costumi che vorrebbero ispirarsi ad una presunta filologia ed ai quadri di Caravaggio, La Tour, El Greco, ma che evocano feste paesane e sagre della porchetta; inutile il comico tira e molla durante l’addio tra il Duca e Gilda; inutile e micidiale la presenza dei rapitori ad un metro da Gilda al termine del “Caro nome”; inutile la totale mancanza di azione o di tensione cinematografica che annulla ogni tentativo di coinvolgimento.
Così come completamente smidollata si presenta la lettura di Mehta il quale dirige dal Teatro Bibiena l’Orchestra Sinfonica della RAI. Ammiro molto Zubin Mehta, apprezzo la volontà di creare un suono ovunque morbido e omogeneo, di cercare la bellezza delle note e di avvolgere i cantanti nella melodia verdiana come se fosse una dolce protezione, ma mai che il direttore voglia esprimere qualcosa, mai che l’orchestra ed il suo gesto scatenino la tensione emotiva e strumentale. Tutto è rigorosamente annacquato, assurdamente dilatato fino alla paralisi e espressivamente gelido fino alla banalità. L’orgia del I atto è semplicemente tirata via alla buona, ancora peggio vanno le cose con l’insipido duetto con Sparafucile o il narcolettico dialogo con Gilda. Praticamente inesistente la presenza dell’orchestra nel duetto d’amore tra Duca e Gilda o nel finale, quanto micidiale l’interminabile “Caro nome”. In tutto questo i cantanti si arrangiano come possono per riuscire ad andare a tempo con una agogica tanto molle e inespressiva.
Dopo il “trionfale” esordio come Simon Boccanegra, il “giovane baritono” Plácido Domingo aggiunge al suo repertorio, avendolo sperimentato in forma di concerto, il ruolo di Rigoletto.
Scherzi a parte, Domingo anche qui non è un baritono e dovrebbe mettersi l’anima in pace su questo punto: lo rivelano il colore chiaro e schiettamente tenorile del timbro, il tipo di canto nella tessitura centrale, l’emissione degli acuti e la carriera anche recente che sta li per testimoniarlo.
Il tremore e l’usura naturale della voce lo fanno partire male nel I atto e si nota anche un non ottimale studio delle prime frasi; manca l’ironia sadica nella prima scena e l’accento è molto vecchio stile anteguerra inficiato da un birignao maldestro e invadente. Il duetto con Sparafucile è generico e manca di mistero, ma qualche zampata soprattutto nel fraseggio riesce a regalarcelo nel monologo “Pari siamo” trasformato nella versione anziana di “Forse la soglia attinse e posa alfin” dal “Ballo in maschera”; stesso dicasi per il duetto con Gilda praticamente identico negli accenti alla scena d’amore nell’orrido campo con Amelia: sembra di assistere infatti al corteggiamento tra un vegliardo attempato, ma non domo ed una fanciulla poco più che adolescente; orrido e ridicolo il “gildare” alla fine dell’atto. Si apprezza il carisma innato, l’artista, la robustezza dello strumento pieno di crepe, ma ancora intatto nella timbratura e nel suo sostegno, eppure tutto è finto, costruito, volutamente strappa applauso, molto vecchio e risaputo. Domingo monumento di se stesso; Domingo che a fine carriera (quando?) si toglie gli sfizi inventandosi baritono; Domingo onore e rispetto alla carriera; Domingo lezione di canto e di carisma; Domingo, basta così!
Con Julia Novikova, vincitrice del primo premio all’ “Operalia 2009 Plácido Domingo The World Opera Competition” a Budapest, il personaggio di Gilda passa un brutto quarto d’ora; si, perché il soprano ha il dono di portarci indietro nel tempo di oltre 100 anni.
Vocetta bianca, bianca, esile, esile quella della Novikova, poggiata praticamente sul niente, o meglio, sostenuta da un falsetto etereo, vetroso soprattutto nel registro acuto e da un accento interpretativo talmente vecchio, zuccheroso, generico da mutare Gilda nella solita insignificante oca con gli occhi a cuore e la boccuccia paralizzata in un eterno fastidioso sorrisetto compiaciuto.
Quindi sia il duetto con il padre, sia il duetto con il Duca, in cui semplicemente sparisce, sia il “Caro nome”, sono momenti che oltre ad essere annegati in un mare di melassa, dimostrano come una voce miagolante e con problemi di intonazione uccida anzitempo il personaggio.
Su un livello simile il Duca di Vittorio Grigolo, super-tenore in ascesa.
Grigolo fa parte di quella schiera di cantanti belli da guardare, meno da ascoltare e non per mende timbriche, quanto per mende puramente tecniche e vocali.
Per quale motivo Grigolo deve fingere di essere un tenore spinto scurendo artificiosamente il timbro in “Questa o quella” per poi cantare il resto dell’atto con la sua vera voce? Forse per mascherare una voce piccola ed evanescente, dotata in natura di una certa gradevolezza, ma lanciata allo sbaraglio, perché priva di appoggio ed una adeguata respirazione.
Perché contorcersi o mettersi sulle punte dei piedi per l’emissione degli acuti? Forse perché l’unico modo per raggiungere le note sopra al rigo in tali condizioni è ghermirli forzando e spingendo usando non il diaframma, non la maschera, ma le sole corde vocali e gli innaturali movimenti del corpo. Perché emettere suoni sbadiglianti e facilmente confondibili con i falsetti della Novikova? Forse, perché non si hanno i pianissimi, e forse per mascherare il vibrato del registro centro-acuto come dimostra il duetto con Gilda. Insomma, Grigolo avrebbe la voce giusta, sempre se aggiustasse l’emissione, per Broadway, per la grande tradizione della commedia musicale italiana, ma per un’opera come “Rigoletto” c’è bisogno di altro oltre al fisico.
Terribile l’amichevole presenza di Ruggero Raimondi nei panni di Sparafucile.
Il duetto con Domingo sembra uscito direttamente da “La notte dei morti viventi” di Romero; la voce usurata è al limite della decenza e si sfilaccia di continuo cercando di prendere corpo attraverso inflessioni bieche ed emissioni gutturali; inesistente poi il registro grave ridotto ad un inudibile sbuffo d’aria. Quando parla della “sorella” si ha paura che al terzo atto spuntino a sedurre il Duca la Cossotto o la Obraztsova odierne nei panni di Maddalena vista l’età anagrafica del signore, poiché la povera Surguladze potrebbe al limite impersonare la nipote del buon Raimondi. Va bene il rispetto per la grande carriera e per il grande basso, ma anche il rispetto per le orecchie del pubblico (pagante!) ha la sua importanza!
Discreti tutto sommato sia il coro sia i comprimari, con una menzione speciale per il tonante Monterone di Gianfranco Montresor e la Giovanna con il quadruplo della voce della Novikova di Caterina di Tonno.
Marianne Brandt
Un tempo si riteneva l’aria del Duca all’inizio del secondo atto, e segnatamente il cantabile “Parmi veder le lagrime”, il brano ideale per saggiare un tenore in sede di concorso ovvero di audizione. L’attacco (un sol bemolle) permette di valutare se, e come, il tenore sappia risolvere il passaggio di registro superiore. Un’esecuzione come quella proposta in mondovisione avrebbe suscitato reazioni perplesse, per non dire di peggio, in una qualsiasi commissione esaminatrice d’antan. Fin dal recitativo “Ella mi fu rapita” Grigolo gonfia le gote e spinge, onde conferire alla voce (una voce adatta in natura al più a Camillo de Rossillon) un supposto spessore drammatico, con il brillante risultato di gridacchiare malamente in acuto (“Ma ne avrò vendetta”), di “grattare” in basso (“e la magion deserta”) e di falsettare nei punti in cui lodevolmente si sforza di rispettare le indicazioni “dolce” e “cantabile” (“quell’angiol caro”). L’aria è affrontata con numerose e abusive riprese di fiato, che però non bastano a mascherare un canto che è fibra purissima, ignaro di qualsiasi nuance o smorzatura. Il che è torto capitale per un Duca che non ha certo nella protervia dello squillo o nel fascino timbrico le proprie doti peculiari. Molto provato dalle frasi di scrittura centrale della cabaletta “Possente amor mi chiama”, il tenore opta per il tradizionale taglio del da capo. Vista anche la dimensione molto tradizionale (e pesantemente provinciale) dell’allestimento e della direzione d’orchestra (da mal di mare le sbandature del coretto, musicalmente elementare, dei cortigiani), oltre che del canto, non sarebbe stato fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di cassare del tutto la seconda parte dell’aria.
La grande scena del baritono mostra un Domingo vocalmente allo stremo, di voce dura e legnosa anche e soprattutto in acuto, zona che per natura dovrebbe essergli propizia, ma che in effetti sottolinea impietosamente l’età avanzata del tenore, specie nelle note tenute, fra cui il sol su “dei figli l’onor” che il cantante ben pensa d’inserire in luogo del mi bemolle scritto. Concitazione tutta esteriore, da Canio in età pensionabile, e urla scomposte caratterizzano l’invettiva, mentre la disperata perorazione mette in evidenza la mancanza di un autentico legato, sostituito da suoni tutti e invariabilmente nella bocca e nel naso. Nessuna vibrazione, nessuno scavo d’interprete, anzi, a tratto nemmeno le parole, per tacere delle note, spesso d’incerta intonazione. Vergogna, signor Domingo.
Julia Novikova, timbricamente indistinguibile dal paggio della Duchessa (dolente di contraddire la collega Brandt, ma un secolo fa, e per limitarci all’area esteuropea, Gilda poteva avere la voce di una Boronat o di una Nezhdanova, senza contare che né la scrittura della parte né l’orchestrale del terzo atto saprebbero tollerare un sopranino), dimostra nell’arioso “Tutte le feste al tempio” una preparazione e una musicalità superiore a quelle dei signori uomini, ma non sufficienti a conferire carattere e polso a una Gilda a dir poco inerte, scolastica nel fraseggio, di voce larvale e bianca, stridula e sempre al limite dell’intonazione nei parchi acuti dispensati, mi bemolle della vendetta incluso. Se non altro il soprano, a differenza del neobaritono, non ha dovuto cassare buona parte delle battute precedenti per concedersi la puntatura di tradizione.
La regia e la direzione proseguono, nel secondo atto, sulla strada tracciata nel primo.
Per la serie “il bello della diretta” va segnalato il microfono incautamente rimasto aperto dopo l’uscita di scena di Rigoletto e Gilda, grazie al quale sentiamo l’orchestra… applaudirsi da sola! O era un tentativo di infondersi coraggio in vista del terzo atto?
Antonio Tamburini
E siamo al terzo atto. Si svolge in una locanda che aspira alle stelle Michelin, pulita, ordinata posta in una struttura antica, anzi anticata. Un bel falso cinquecento il cui più pregante simbolo è il lampione pendente all'ingresso.
Rigoletto, i cui compensi presupponiamo, vista anche la casa in cui ha "sequestrato" la figlia per difenderne, invano l'onore, sono da star di Hollywood vi giunge in barca.
Che l'esercizio commerciale renda bene è manifesto dal magnifico impianto dentario nuovo di pacca del titolare il Signor Sparafucile, i cui capelli unticci, invece, confermano la diceria del rapporto conflittuale fra i francesi e l'acqua corrente. Il successivo conflitto è con l'apparizione della sorella Maddalena, che fa presuppore in capo al padre dei due più matrimoni e potenza sessuale in tardissima età. Ma è un conflitto apparente perchè allorquando l'adescatrice apre bocca rivela età vocale assai prossima a quella del fratello e, quindi, siamo in un episodio della "Morte ti fa bella" e la Maddalena è chiaramente un capolavoro di chirurgia estetica stile Nip e Tuck.
Non ritorno sulla prestazione indecorosa dei cantanti che si erano già prodotti negli atti precedenti salvo precisare che Vittorio Grigolo è stato, come è giusto per un principiante del canto, in difficoltà nelle frasi che al quartetto chiamano in causa la zona del passaggio, che Julia Novikova ignora per la serie di suonini flautati che emette dal do centrale in che consistano appoggio e sostegno che Ruggero Raimondi non abbia cantato una sola nota, parlando con la dizione artefatta da diva dei telefoni biaaaaaanchi. Non posso però tacere dei suoni gutturali, aperti e sgraziati che emette costantemente la Maddalena di Nino Surgulazde. Non me la sento neppure di tirar fuori la difesa d'ufficio che Maddalena è un contralto e la Surgulazde un soprano, bastando a smentire una siffatta difesa una lunga serie di Maddalena di fatto soprani o mezzi acuti, tipo Fiorenza Cossotto e a livelli più normali Adriana Lazzarini, Franca Mattiucci e tante oneste professioniste.
Le oneste professioniste mi consentono di ricordare che il terzo atto ha confermato la carenza di tale dote in capo a Palcido Domingo ed a Zubin Mehta. Quanto a quest'ultimo sempre presente agli eventi, sempre preparato da eventi basta ricordare un quartetto slentato ed incoerente, una bandaccia orrenda al tragico terzetto, che precede l'ingresso di Gilda in quella che diviene la sua ara sacrificale. E tanto per infierire una canzone del duca a tempo di romanzetta da salotto o canzonetta.
Ma il peggio è venuto sempre dal protagonista, che sfida leggi del tempo, regole della tecnica, decoro professionale e pazienza del pubblico.
Le frasi del Rigoletto giustiziere davanti il sacco che conterrebbe il Duca, il trapasso fra la gioja del raggiunto scopo e la macabra scoperta, che darebbero al cantante, anche vocalmente limitato o sconnesso o declinante la possibilità di essere personaggio sono state l'apoteosi del generico di cui Domingo, sono certo passerà alla storia per essere stato il più completo rappresentante.
Tutto questo offende e ferisce. Autore, tradizione interpretativa, colleghi e pubblico, giovane precipuamente.
Un buon Galeffi o un buon Tagliabue riconciliano e restaurano orecchie ed umore.
Domenico Donzelli
Cesare Siepi & Giuseppe Valdengo - La Stitichezza
Vignetta tratta da http://comingsoonvignettaio.splinder.com/
49 commenti:
Non si può negare che abbiate ragione con le critiche. Ma penso sia ingiusto giudicare questo "esperimento" con il metro che useremmo in un teatro.
Prendendolo come esperimento, e come modo per avvicinare all'opera la gente (ricordate che non l'ascolta quasi nessuno). In questo modo io trovo la cosa accettabile. Sperando che, dopo avere goduto questo programma (perché io non riesco a non godere Verdi anche se traballante) magari si compri qualche bel disco o ancora meglio entri in un teatro.
se questo rigoletto fosse stato allestito in un teatro il glorioso nome del protagonista - credo - sarebbe servito a rinviare le proteste del pubblico alla fine del secondo atto anzichè alla fine del primo quadro.
caro r in forza del tuo ragionamento ipoteticamente corretto avremo molti altri tentativi di avvicinare il pubblcio all'opera che, in realtà, sono esiti sicuri di riempire il portafoglio a chi di questi ulteriori guadagni post pensione non ha punto necessità.
Ma l'opera non è qual potacchio servito ed ammannito ieri ed ier l'altro è qualcosa di completamente differente ed a suon di tentativi ed esperimenti ed auspici di avvicinare siamo come il medico pietoso, che ingrandisce la piaga.
perdona la franchezza di queste nequizie fra don giovanni, traviate e tosche ne abbiamo già avute molte, di cantanti che si prestano a questi carrozzonio molti e gli stessi alla prova del teatro soccombono. E soccombe pure il pubblico che non ha più il piacere di andare all'opera. Ti preciso che quest'anno al Simone di Domingo i posti in piedi erano reperibili all'ultimo momento per tutte le serate. Eppure si esibivano un divo dell'ugola ed uno della bacchetta......lascio a Te trarre le conclusioni
ciao
Domenico Donzelli
Dico la mia in proposito.
Innanzi tutto non si trattava di un esperimento, perchè la prima iniziativa del genere, come ben saprete, fu la Tosca, nel 1992.
Chi avesse ascoltato l´opera per la prima volta con questo Rigoletto, secondo me ben difficilmente entrerà mai in un vero teatro.
L´opera ha delle convenzioni e un codice che vanno conosciuti, allo stesso modo in cui, per assistere a una partita di calcio, é necessario conoscere le regole del gioco.
Il tentativo di spacciare come iniziativa culturale queste mascherate che servono solo a riempire le tasche di chi vi prende parte è la cosa più penosa dell´iniziativa.
L´unico modo di avvicinare la gente all´opera è quello di trasmettere veri spettacoli da veri teatri, come infatti avviene in tutti i paesi piú civilizzati dell´Italia.
Saluti.
r, se veramente questo "Rigoletto a Mantova" avesse avuto come principale destinatario un pubblico più ampio ed eterogeneo rispetto ai soliti quattro gatti che vanno a teatro, l'avrebbero dovuto gestire e di conseguenza presentare con ben altre modalità.
partendo da questioni puramente tecniche: i sottotitoli, visto che buona parte dei cantanti/attori (se è lecito definirli tali) soffrivano di evidenti dislessie e problemi di pronuncia e di apprendimento delle parti (vedi protagonista).
poi, ma qui è un ambito che poco mi compete, i primi piani e i paesaggi: far vedere per le 3 puntate della serie solo e soltanto le rughe e gli acciacchi di messer Raimondi e don Domingo, oltretutto accentuati dalla perfida mimica facciale a cui il canto porta, e i certamente più sollazevoli lienamenti di Gilda sinceramente non attirano molto l'attenzione di un pubblico di per sè poco esperto. anche perchè il tutto è stato a scapito di paesaggi e panorami del mantovano (oltretutto bellissimi come tutti gli edifici storici di cui sono cornice) annunciati come i veri protagonisti della vicenda e che poi sono spariti improvvisamente tra le nebbie del mincio e i suoi laghi.
insomma, detto in poche parole, sarebbe stato più accattivante un rigoletto (o forse un'altra opera verdiana???) alla Peter Jackson o alla Ridley Scott che almeno sanno come tenere i nostri sederoni attaccati alle poltrone! e forse sarebbe stato anche più comodo per la rai.
Qualche nota dal commentatore in diretta che si firmava "Edgardo". Non sono d'accordo sulla validità dei comprimari, in particolare il Monterone; avrà voce buona, ma la figura (secondaria certo, ma le cui due uniche apparizioni sono assai incisive nell'economia della storia) è stata tratteggiata malissimo; dove'erano l'austerità e la distruzione morale nel grido "Novello insulto!" e negli anatemi? Scialbissimo. E i cortigiani? Non pervenuti.
Riguardo all'impostazione classicissima della regia, guarderei invece il bicchiere mezzo pieno: tanti difetti, ingenuità, pochissime perle che lasciassero piacevolmente sorpresi, però l'impostazione di base era quella giusta (cioè non idee strampalate come rivisitazioni moderne, surreali, bordelli o manicomi e compagnia cantante).
A voi questa chicca di giornalismo:
http://www.ilgiornale.it/spettacoli/rigoletto_e_stupendo_ma_ascolti_sono_bassi/opera-spettacoli-rai-rigoletto/06-09-2010/articolo-id=471504-page=0-comments=1
La RAI non c'ha messo alcun impegno (il danaro è molto ma non è tutto). Bastava chiedere a Fazio di fare uno speciale la domenica prima o il mercoledì, invitando i protagonisti, dieci minuti di introduzione, e il pubblico coinvolto sarebbe stato ben maggiore.
Saluti a tutti
I sottotitoli c'erano, nel televideo.
Una mancanza, a mio giudizio, è stato l'avere omesso una sinopsi prima dell'inizio del programma ed un riassunto prima del secondo e terzo atto.
Ripeto: a me l'opera piace così tanto da apprezzarla anche male cantata. E tenete presente che la gente è abituata a Bocelli e Gigi D'Alessio.
Ma lì ci vanno i non udenti, si sa!
...posto che non è stato questo il problema. Ieri c'era da augurarsi di essere non eddenti in certi momenti...
r,
Grigolo infatti canta più o meno come Bocelli e Gigi D´Alessio....
...non udenti, pardon!
personalmente ho visto ed ascoltato solo sino al "pari siamo" e poi ho pensato che la vita è troppo corta per perdere tempo ad ascoltare simili porcherie ed ho passato la serata sino a notte tarda ad ascoltarmi l'integrale delle registrazioni di Antonio Cortis, quelle acutische 1918-1925 e quelle elettriche 1925-1930, che goduria :-)
Caro r,
perdonami ma il tuo ragionamento fa acqua da tutte le parti.
Non si aiuta la divulgazione dell´opera provando a trasformarla in un film o in un concerto rock, e lo dico col massimo rispetto per due generi che hanno una loro dignità artistica autonoma.
L´opera va fatta in un certo modo, allo stesso modo in cui una partita di calcio è tale solo se giocata da due squadre di 11 giocatori in un campo con due porte.
Altrimenti, cosa sei disposto ad accettare e cosa inventiamo in nome della divulgazione? Shakira che canta Violetta? Bon Jovi interprete del Don Giovanni?
Tranquillo: visto che stavolta abbiamo sentito un tenore canzonettaro, prima o poi ci arriveremo...
"a me l'opera piace così tanto da apprezzarla anche male cantata"...che strano..mmm. non dovrebbe essere "a me l'opera piace così tanto da incazzarmi quando è male cantata"???????
vabbè...restiamo su rigoletto e le sue furie...
Che dire? Non posso che concordare con la recensione. Spettacolo indecente e inutile. Capisco il punto di vista di R (avvicinare il pubblico - abituato a Bocelli e Al Bano - all'opera "vera"): ma, domando, davvero il pubblico può essere interessato a seguire uno spettacolo del genere? Quali attrattiva poteva mai suscitare? Quali aspetti potrebbero aver avvicinato il grande pubblico all'opera? E, infine, è davvero necessario avvicinare all'opera chi, dall'opera non è attratto? Premesso, infatti, che non vedo il motivo di evangelizzazioni o acculturamenti (ognuno sia libero di non apprezzare l'opera), mi chiedo come abbia reagito un pubblico fatto di non amanti della musica lirica. La regia era di infimo ordine (neppure nei reality show è così raffazzonata); le luci erano indegne del premio Oscar Storaro e di qualsiasi principiante che giocherelli con una videocamera (contrasto, saturazione, luminosità); dei cantanti si è già detto tutto, e il peggiore resta Domingo: non perchè tenore che finge - senza riuscirci - di fare il baritono (erano scontati gli squilibri nella scrittura verdiana), ma per la mancanza di amor proprio nell'accontentarsi di un'esibizione generica, sbagliata, improvvisata... Tenore, baritono, foss'anche trascritto per soprano, ma Rigoletto va cantato in modo professionale, non con il piglio di chi fischietta sotto la doccia! A fronte di tutto ciò - e molto altro vi sarebbe da dire - il pubblico di non melomeni cosa avrebbe potuto percepire? Uno spettacolo brutto è brutto per tutti...un vino che puzza di tappo disgusta il più raffinato dei sommelier come il mero bevitore occasionale...giusto gli ubriachi non si rendono conto della differenza!
http://www.ilsensodellamusica.com/wp/?p=377
copio la pagina del mio sito nella quale ho già espresso la mia opinione
Bocelli e Al Bano cantano molto meglio di Grigolo.
Un ultimo commento e poi chiudo.
Non che segnali non ne siano stati dati. Se saranno raccolti, bene. Se no, saranno sempre meno quelli disposti all'omaggio alla carriera. Sei intoccabile una volta, due. Alla terza, il pubblico non perdona.
Buona osservazione caro mozart2006!
Intanto lui, gli omaggi, se li fa da solo e la gente ci casca!
Intanto vi ringrazio per la cultura musicale che veicolate. Vi ho scoperto per caso cercando una nota su Jessica Pratt prima di andare a Caracalla per Rigoletto.
Su Rigoletto a Mantova concordo in parte. Certo, come scrive Mozart2006 "L´opera ha delle convenzioni e un codice che vanno conosciuti, allo stesso modo in cui, per assistere a una partita di calcio, é necessario conoscere le regole del gioco" ed è questo, a mio modesto avviso, il peccato originale. Ciò che maggiormente mi ha indispettito, a parte la migrazione funesta da tenore a baritono di Domingo, è stata la poderosa ouverture messa come sfondo ai titoli di testa cosicché il pubblico vergine ha creduto che Rigoletto cominciasse dal ballo nella magione del duca di Mantova.
Quanto al film, che di film si tratta, invece penso che la regia e la fotografia siano state di buon livello. Parafrasando Umbero Eco a proposito della polemica ai tempi de "Il nome della rosa" film e libro: un film è un film, un'opera è un'opera, il medium (cinema e teatro) sono differenti.
Io, amante dell'opera e di Rigoletto in particolare, sono come r che scrive " io non riesco a non godere Verdi anche se traballante".
Lungi da me voler fare il professorino, però Fiorella, giusto per correttezza, il brano d'esordio del Rigoletto è un Preludio, pezzo orchestrale più breve che accompagna fin da subito lo spettatore nel clima della storia (forma molto congeniale a Verdi); l'Ouverture francese e la Sinfonia italiana sono invece, com'è noto, brani di più ampio respiro, che spesso accolgono i alcuni temi dell'opera (Von Weber & Donizetti) e danno spazio al virtuosismo del compositore (Mozart & Rossini). Detto questo, capita spesso che nelle versioni cine-televisive entrambe queste musiche vengano sovrapposte ai titoli e alla grafica. Non mi pare questa una lacuna, mi soffermerei sugli altri aspetti discutibili di questa edizione. Rigoletto merita una GRANDE REGIA. La regia era fatta con mediocrità, siamo sinceri, niente di più. Perché? Perché persino Spielberg farebbe un macello con il fatto di filmare in diretta, senza prove diversificate, montaggio, ecc... Le sfide grosse si colgono se si hanno le capacità... (Ponnelle infatti ha fatto dei film veri e propri).
Davide,
la televisione in sé genera questo tipo di fruizione e così come del Rigoletto si apprezzano le immagini e non la musica allo stesso modo nei talk show si guarda se il politico è simpatico e non si ascolta quelloche dice.
D'altronde siamo governati da un imprenditore della comunicazione, una specie di entertainer che si vanta in privato di essere stato, in tempi passati, una sorta di "ghost writer" dei testi di molte trasmissioni delle sue tv, dunque non c'è da stupirsi di nulla.
Forse è questa la "tragedia dell'ascolto" di cui parlavano Nono e Cacciari tanti anni fa.
L'ascolto è morto e al suo posto c'è l'audience.
Intanto ti ringrazio per la lezione: non si smette di imparare mai, caro Davide.
Allora diciamo che il Preludio surclassato a “colonna sonora” per i titoli di testa mi indispettisce.
Io insegno italiano e non musica. La musica e la lirica in particolare, la ascolto e la guardo nei luoghi deputati. Non disdegno la rappresentazione operistica attraverso il cinema che ripeto è un altro medium. Se vogliamo aprire un dibattito sui media, ben venga. Un’avvertenza, in tal caso: non stiamo parlando di scienze esatte, ma di comunicazione e se sulle scienze le opinioni divergono, figuriamoci in questo ambito. La modestia è una virtù in decadenza, caro mozat2006, la saccenza impera!
Premessa i). Non frequento i teatri d’opera, mi limito ad ascoltare voci del passato (di un passato che non rivivrà, e che neppure è bene che riviva), che esprimono il mio gusto e la mia idea del canto: ad esempio, Mattia Battistini, Victor Maurel, Adelina Patti, Fernando De Lucia, Alessandro Moreschi, Jean de Reszke, Clara Butt, Giuseppe Anselmi, Marcella Sembrich & C. [E si badi: per come queste voci emergono dai dischi, e non: nonostante il disco. È evidentemente una posizione di retroguardia, tanto sincera quanto eccentrica, che può essere sostenuta solo tra piccoli gruppi di amici innocui e fanatici, ma che se diventasse maggioritaria farebbe il male, non il bene, dell’opera, perché a me, e forse a molti di voi, piacciono anche numerosi difetti dei cantanti, che alle mie, e forse vostre, orecchie suonano come pregi: v. qui sotto le critiche di Shaw all’età d’oro del bel canto.]
Premessa ii). Sono sempre più favorevole ai, e sempre più apprezzo i, controtenori: in breve, perché più aggraziati e duttili degli altri cantanti uomini. E ho molta fiducia che le ragazze transessuali possano fare culturalmente molto anche nel mondo dell’opera, rinnovando e innovando l’estetica e il gusto musicale (e poiché voi e i vostri affezionati lettori, quorum ego, siete persone appassionate e colte, segnalo questo libro: Naomi André, Voicing Gender – Castrati, Travesti, and the Second Woman in Early-Nineteenth-Century Italian Opera, Indiana University Press, 2006).
Ho letto la recensione e i commenti al Rigoletto:
-poiché la tesi, da voi qui sempre difesa -il passato è sempre meglio del presente-, non è, e non può essere, vera, sotto il profilo storico, per ovvie ragioni (certo, lo possiamo affermare “noi” passatisti [ma con qualche cautela! che voi, mi sembra, non avete, pur rivolgendovi a tutti, e non soltanto ai collezionisti di cimeli o dei CD che quei cimeli hanno riversato], ma può essere apprezzabile come mero desiderio estetico, o come riflessione storico-critica (ma allora bisogna anche dar conto del contesto culturale, altrimenti si fa cattiva storia e cattiva critica; altrimenti non vi spieghereste come mai oggi -2010- se Battistini tornasse in scena verrebbe sonoramente fischiato: e chi potrebbe oggi rimanere stupito? Io certamente no, e non so se mi sentirei di dire che chi lo fischia ha torto), senza però alcuna valenza prescrittiva rivolta al teatro d’opera: valenza prescrittiva, quale criterio di giudizio, può avere solo rispetto ai nostri ascolti privati;
-poiché io, vociologicamente passatista, sono e resto perplesso nel leggere, qui, che tutti i cantanti e le cantanti del passato che avete proposto sono sempre almeno ottimi, e spesso eccellenti;
-poiché sono fedele al motto di Luigi Einaudi: «conoscere per deliberare», ho deciso, forzandomi, di ascoltare (e sforzandomi di arginare molti dei miei pre-giudizi, e giudizi, vociologici) ieri sera su Radio 3, e di vedere, su youtube, questo Rigoletto.
[I. continua]
Nessuna recensione, sia chiaro, ma solo qualche osservazione.
Un inciso. L’idea che oggi - per cantar bene - si debba cantare come l’altro ieri, perché allora si cantava meglio di ieri e di oggi, e forse di domani, è certamente infondata (se non altro perché è un lamento diffuso da sempre tra gli umani).
Leggetevi, o rileggetevi, quanto ad esempio scrisse G. B. Shaw, How to Become a Musical Critic, New York, 1961, nella «Coda: We Sing Better than Our Grandparents!», p. 329 ss.: «We are now idolizing the singers of sixty years ago [l’articolo di Shaw è del 1950] in this fashion: This does not impose on me: I have heard them. The extraordinary singers were no better than ours; the average singers were much worse… As to the robust tenors who came between Mario and Jean de Reszke, the educated and carefully-taught ones sang so horribly that they were classed as “Goatbleaters”: Heddle Nash is an Orpheus compared to the once famous Gayarré [sic]… Voice production in general is now immeasurably better than it was fifty years ago. Voices so strained by singing continually in the top fifth of their range that they could not sustain a note without a tremolo, nor keep the pitch, like those of Faure and Maurel… Let us hear no more of a golden age of bel canto. We sing much better than our grandfathers. I have heard all the greatest tenors (except Giuglini) from Mario to Heddle Nash, and I know what I am writing about; for, like De Reszke, I was taught to sing by my mother, not by Garcia».
Se non vi è simpatico Shaw, prendiamo, in senso opposto, Giacomo Lauri-Volpi (da me amatissimo e di certo da poi molto apprezzato): aveva purtroppo vezzi intellettualistici, e gli capitò molto spesso di dire solenni assurdità: su youtube c’è un’intervista, del 1974 credo, in cui dice, più o meno: “In tutta la mia vita io sono stato fedele all’idea della voce come specchio del logos e dell’anima, cioè all’idea del bel canto. Oggi tutti strillano, tutti cantano col verismo, perché tutti i corpi sono corrotti, maschi e femmine. La civiltà ha toccato il fondo”. Autentiche follie, ridicolaggini (e sul LV cantante aulico e cavaliere del bel canto antico, molto ci sarebbe da dire e da precisare e da ripensare: si attende ancora una biografia sui suoi anni americani: al Met lasciò tutto tranne che un bel ricordo di sé [vedi molte recensioni, on line grazie al sito del Met], e non parliamo dei rapporti umani con i suoi colleghi: le parole così dure, e a distanza di tanti anni, di Rosa Ponselle dovrebbero almeno far riflettere).
[II. continua]
Al dunque.
Giudico questo Rigoletto piuttosto ben riuscito, e credo che avrà il successo che merita: è un film musicale, è una narrazione scenografica a base musicale, che non può che esser fedele allo spirito del tempo di oggi: tempo in cui l’opera come piacerebbe a me (lasciando però i teatri deserti) è recessiva e altri generi musicali sono dominanti (e grazie a questi, oggi, soprattutto vive: chi va a teatro e ama assistere ad un’opera li ringrazi). [Ho rivisto velocemente il Rigoletto del 1946 con Gobbi & C.: è un’opera-film, con tanti limiti (dire che, oggi, sia meglio del nostro Rigoletto, non me la sento proprio), ma è un’opera messa su di uno schermo; però oggi, se si fa, ha senso, e si può solo fare, un film-opera, dove il canto non può avere la meglio sulla narrazione: in questo, l’età anagrafica di Domingo è un punto di forza, più che di debolezza: evita effetti canori che in un film non possono prevalere sulla narrazione visiva: il canto interrompe la narrazione e disturba, e infatti l’opera in teatro è statica, perché non ci dovrebbe essere narrazione, ed è bene sia così; ma non se si fa un film con soggetto operistico, com’è questo Rigoletto.
È del tutto ovvio che l’opera, sia in teatro che altrove, per vivere (non per ri-vivere) debba essere influenzata dagli altri generi dominanti, musica genericamente detta “leggera”. (Ma da sempre esiste la contaminazione tra i generi artistici.) E non mi stupisco che Grigolo, e come lui la maggior parte dei tenori e dei, e delle, cantanti di oggi, abbiano quel modo di porgere, diciamo un po’ genericamente, “a-lirico” (cioè: non stentoreo, ma non nel senso di canto di grazia, ma nel senso di canto ammiccante à la Julio Iglesias, tale da non disturbare troppo le orecchie di chi ascolta emettendo suoi smaccatamente lirici: per es. quelli di Filippeschi del film – peraltro, tenore di solito inelegante quant’altri mai, ma non nel film).
Ma questa è una necessità estetica del tempo, che non si può imputare a Grigolo, e che peraltro non canta davvero così male come emerge dalla vostra recensione; e non si può certo rimproverare Grigolo per essere soltanto Grigolo e non, come magari voi vorreste (non io), un giovane Pavarotti (al quale, qua e là, si ispira).
[III. continua]
Voci usurate, quelle di Domingo e di Raimondi? Certamente sì. Ma Raimondi ha cantato, in piena carriera, pure peggio, e Domingo è addirittura meglio di come mi sarei atteso (molto, molto peggio il Pavarotti anziano del Domingo anziano).
Il soprano: le vostre critiche sono incomprensibili; è ovvio che non canta come Nellie Melba, ma se io nel 2010 mi accosto all’ascolto di una Gilda non posso e non debbo aspettarmi di ascoltare una Melba (che oggi sarebbe derisa, come la Sembrich, la Galvany ecc.).
Potreste obiettarmi che voi non esaltate solo i cantanti dei 78 gg., ma anche molti cantanti moderni (Lina Pagliughi, per dire). È vero, ma allora, e a maggior ragione, non sento nulla nella voce della Novikova che mi scandalizza e che giustifichi il tono così aspro della recensione.
Io non so davvero, oggi, cosa passi il convento operistico, e nemmeno m’importa molto saperlo. Ma se Grigolo e Novikova sono il peggio o quasi, come voi scrivete, c’è qualcosa che non va: o io non sono in grado di distinguere un cantante decente da uno pessimo (tenendo fermo questo criterio generalissimo ma che dovrebbe trovare il consenso di tutti: il professionista, che è un cantante decente, controlla la voce, il non professionista, che è un cantante pessimo, no; naturalmente, si può poi essere professionisti decenti ma non artisti ecc. ecc.: le combinazioni sono quasi infinite), oppure voi seguite un criterio di giudizio che, come dicono i giuristi, prova troppo, e dunque c’è qualcosa che non va.
Poiché mi pare indiscutibile che Grigolo e Novikova sappiamo sufficientemente controllare la propria voce, propendo per la seconda delle due alternative.
Resta naturalmente salva una via d’uscita, che unirebbe molti passatisti: trovare generosi finanziatori, a partire da noi stessi, per dar vita ad una scuola di canto (à la Garcia? à la Marchesi?) e aprire un piccolo teatro dove udire gli allievi dei 78 gg. Aprireste le sottoscrizioni?
Saluti, e scusate la lunghezza.
[IV. fine]
Mauro Grondona, lei bara, perché, per argomentare le sue discutibilissime tesi, fa ricorso, da una parte, all’opinione di un irlandese, grande drammaturgo, ma del canto analfabeta come Bernard Shaw (ed in quanto analfabeta del canto, fonte per niente autorevole, ma semplice discutibile opinionista), e dall’altra cita, come antitesi, un’intervista del grande Lauri Volpi (lui sì esperto autorevole), travisandone però completamente il significato e le parole. L’intervista si trova su youtube a disposizione di tutti, Lauri Volpi dice una cosa ben diversa e assai più sottile del brutale riassunto che lei ne fa; le parole di Lauri Volpi sono queste:”E’ una cosa meravigliosa quella di poter celebrare a 85 anni questa simbiosi, questa unione, questa convivenza della mia mente con la mia voce; per me questa è come una incarnazione del verbo – logos - e dell’intelligenza nei suoni; e per me il canto è stato esclusivamente una realizzazione dell’ideale del belcanto dell’Ottocento; oggi col Verismo tutti strillano, tutti urlano, non hanno una mezza voce! La voce deve essere completa, la voce deve essere espressione dell’anima, altrimenti è espressione di un corpo! Oggi tutti i corpi sono corrotti, maschi e femmine, perché abbiamo toccato il fondo della civiltà”. Queste,caro Mauro Grondona, visto che lei sembra atteggiarsi da intellettuale, non sono affatto ridicolaggini: questo è un compendio perfetto della più intima essenza dell’estetica del melodramma, e più in generale dell’arte e del suo significato nella nostra civiltà occidentale. L’arte, la musica, il canto, la voce come espressioni di un ideale incorporeo, avulse da ogni tipo di realismo o verismo: il melodramma come rappresentazione di sentimenti astratti, puri, slegati dalle loro manifestazioni terrene, corporali. Questa è l’essenza del melodramma ottocentesco, traviarla significa perdere di vista il senso ed il significato di questa forma d’arte.
Sul Rigoletto di Domingo non credo sia il caso di sprecare altre parole, tutto è già stato detto e altro non c’è da dire. Mi permetto solo ancora due considerazioni in risposta al suo intervento.
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I nuovi generi musicali non contribuiscono affatto ad allungare la vita del teatro lirico. Semmai è il teatro lirico che spesso ha servito quei generi come docile ancella, basti pensare alle gesta disfattiste di Pavarotti, esponente di spicco del tenorismo operistico del secondo Novecento, che negli ultimi vent’anni della sua vita ha scelto di trasformarsi in una star da discoteca. Sono intimamente convinto che questo non sia affatto un servizio per l’opera lirica, ma che al contrario sia un grande favore fatto alla musica pop. Il fatto che oggi non esistano praticamente più voci che conoscano una impostazione professionale del suono è la diretta conseguenza di questo gusto che si è imposto per il vociare dilettantesco dei canzonettari della musica leggera. Checché lei ne dica – francamente dubito che, pur lei dichiarandosi ascoltatore di 78 giri, ne capisca qualcosa di canto – una voce come quella di Grigolo o come quella di Domingo non padroneggiano affatto una tecnica professionale e di conseguenza ignorano completamente ogni tipo di controllo (salvo che lei per “controllo” intenda il passare dall’urlo becero e sguaiato alla mugolante lagna stimbrata e spoggiata: la negazione cioè del canto professionale). Senza tante inutili perifrasi e mezze misure, Grigolo e Domingo sono, e sempre sono stati, due dilettanti della vocalità, e qualsiasi ascoltatore che abbia una minima idea di cosa sia il vero canto li troverebbe a dir poco ripugnanti. Sottolineo, ripugnanti, e raccapriccianti.
Lei parla e si atteggia da intellettuale, ma mi pare che ignori completamente quale sia il significato e l’importanza della parola TRADIZIONE. Tradizione come trasmissione viva, mutevole, NON immobile, ma ancorata a PRINCIPI saldi, perché essenziali, fondamentali, che segnano la continuità con il passato. L’opera lirica che prescinde dal canto, ed ignora pertanto il proprio basilare principio, la propria ragion d’essere, la propria più intima essenza, semplicemente NON è l’opera lirica. L’Opera senza il Canto (il canto autentico, non quello zotico ed incivile cui Lauri Volpi fa riferimento nella sua intervista, e di cui abbiamo perfetta manifestazione in Grigolo, Domingo e Raimondi) non è più Opera. E’ televisione, cinema, culturame da quattro soldi, fenomeno di costume mondano, di certo non è teatro lirico. Si inizi a chiamare questa impostura con il nome che le spetta.
Le parole di Lauri Volpi, riportate nella loro integralità, mi sembrano anche peggiori di come le ha riassunte il Sig. Grondona, con le cui tesi sostanzialmente concordo; grondano di fatua retorica.
Marco Ninci
comunque su Pavarotti il discorso sarebbe un pò piu complesso,resta il fatto che prima di morire disse che voleva essere ricordato per quello che era cioè un cantante d'opera...
Prima di tutto vorrei suggerire a Cesconegre un approccio più urbano e meno aggressivo: ciascuno ha le proprie opinioni e anche se non condivise non meritano di essere derise o svillaneggiate. Soprattutto quando esse vengono motivate per esteso.
Il Sig. Grondona ha espresso, in modo educato, le sue idee, e per farlo ha argomentato in modo esauriente. Tu potrai non essere d'accordo (e neppure io lo sono, sia per quanto riguarda Rigoletto, sia per i controtenori), ma non puoi accusarlo di "imbrogliare", di "essere in mala fede", di "atteggiarsi da intellettuale", di "non capire un tubo di canto". Questo è un luiogo aperto a tutti, e come noi non gradiamo le offese così pretendo che non le dispensiamo ad altri.
Questo per intenderci.
In secondo luogo avrei da ridire su alcuni tuoi concetti che ritengo non condivisibili:
1) Non è vero che oggi NESSUNO sa cantare con la tecnica giusta: le generalizzazioni sono sempre stupide. Dire che tutto è uno schifo è equivalente a dire che tutto è splendido. Poichè deriva da preconcetti che nascono da un rifiuto aprioristico.
2) La TRADIZIONE non è un totem sacro e immutabile, da venerare e a cui genuflettersi. A volte è responsabile di scorrettezze, storture, travisamenti di interi repertori (ad esempio Rossini). A volte è becera (penso a certe opere buffe sbracate e piene di caccole). A volte è sopravvalutata. A volte, con essa, si perpetuano scempi più o meno gravi. A volte è solo una scusa per giustificare pigrizia mentale a modificare le proprie abitudini. OVVIAMENTE c'è anche un'altra tradizione, a cui guardare per confrontarsi e per apprendere. Bisogna però evitare sacralizzazioni, soprattutto dei vizi e delle storture che, con la scusa di nome grandi e grandissimi, vengono giustificati e presi ad esempio. Sostenere che il Bellini in salsa verista di alcune incisioni anteguerra sia un esempio da seguire è semplicemente inaccettabile. O che il Rossini che si faceva nei primi anni del '900 (riorchestrato e riscritto) sia un qualcosa da imitare, è assurdo. Bisognerebbe evitare sempre estremismi e atteggiamenti preconcetti. E soprattutto ritenere che si stia sempre sul campo di battaglia, al suono di parole d'ordine manichee: o con noi o contro! Non è così grazie a Dio. Io critico certi aspetti del passato, ma non mi bevo il presente con entusiamo. Circa la tradizione mi piace sempre ricordare Furtwangler quando diceva che spesso essa è il brutto ricordo dell'ultima brutta esecuzione a cui abbiamo assistito.
Allora mi scuso, se il mio modo di pormi a qualcuno è sembrato un po' villico e scontroso, anche se non mi pare, Duprez, di essere scivolato nell'offesa personale: semplicemente ho fatto notare la notevole inconsistenza delle fonti citate dal Sig. Grondona, visto che, da parte di chi scrive un commento di così largo respiro culturale, sostenendo tesi così intricate e stravaganti, ci si dovrebbe aspettare perlomeno un’argomentazione più onesta e trasparente. Chi come il Sig. Grondona travisa le fonti e le rigira in modo approssimativo a favore della propria opinione , per me non fa altro che barare ed imbrogliare, e merita pertanto una risposta un po' sopra le righe. Una commento come quello del Sig. Grondana, con quel piglio intellettualistico, e quel severo procedere per punti e premesse, in cui però nel citare un'intervista di Lauri Volpi se ne storpiano brutalmente le parole, fino a stravolgerne completamente il significato, a me sa proprio di imbroglio. Le opinioni degli altri non mi danno fastidio, purché siano sviluppate con rigore e correttezza (rigore e correttezza sostanziali, delle scalette e degli elenchi numerati ne faccio a meno, grazie), e purché non siano internamente contraddittorie.
Rispondo alle due osservazioni che mi fai.
La prima sui cantanti. Oggi, se esiste qualcuno nel panorama professionistico che canta con una tecnica degna di tale nome, penso possa essere menzionato solo come rara eccezione. Sarei felice comunque di venire smentito: quando però mi capita di andare a teatro, trovo per lo più amare conferme a questa mia 'stupida' e 'preconcetta' generalizzazione.
Quanto al discorso sulla tradizione, ti invito, insieme con tutti quanti coloro che, evidentemente, non hanno capito il senso delle mie parole, a rileggere con maggiore attenzione quel che ho scritto nel mio precedente commento, badando bene a tutte le parole che ho usato per descrivere la mia nozione di TRADIZIONE. Tra l'altro, il discorso che mi fai sul Bellini verista anteguerra e sul Rossini caccoloso di quegli anni, mi pare, qui, abbastanza fuori luogo. Io rispondevo infatti a Mauro Grondona, il quale sosteneva che il teatro lirico per vivere abbia bisogno oggi di una contaminazione con generi musicali e con codici artistici differenti, e che quindi sia giusto relegare il canto ad una posizione di secondo piano. Il discorso che si faceva, quindi, non c'entrava niente con la discussione sulla tradizione esecutiva iniziata l’altro giorno in chat. Per quella rimanderei ad altra sede, qui non ho certo intenzione di affrontarla.
Saluti
Sono grato a Duprez per le sue parole e per quanto da lui scritto nel merito della questione, che ogni persona ragionevole (passatista o modernista che sia) condividerà facilmente.
A Cesconegre vorrei qui brevemente replicare come segue.
Ho citato Shaw, e non mi sembra una citazione così scorretta: ad es., Michael Scott, The Record of Singing, 1977, lo cita spesso, evidentemente stimandolo affidabile (il che non vuol dire che si debba sempre concordare con Shaw: basta richiamare Herman Klein, e i suoi saggi e articoli raccolti in Herman Klein and The Gramophone, Amadeus Press, 1990: su Shaw, pp. 353-356); e lo stesso Scott, nell’ottimo libretto introduttivo al CD Marston dedicato alla Patti e Maurel, lo cita qualificandolo come “stringent vocal critic”, e non come un analfabeta del canto. (Sarei invece stato poco corretto se, per dire, avessi citato il famoso e sintetico giudizio di James Joyce su Lauri Volpi).
Ho citato Lauri Volpi e una sua infelice intervista, che documenta una serie di affermazioni sconclusionate, come ha osservato anche Marco Ninci.
Sulla tradizione mutevole ma fondata su principi saldi. Non la penso così: tutto cambia, anche il contenuto dei principi, se non il loro nome. Libertà, responsabilità, bel canto, uguaglianza, correttezza stilistica, dignità, falsetto, Dio, giustizia: tutte parole il cui contenuto, nel corso del tempo, non è rimasto costante.
Naturalmente ognuno di noi fa bene a difendere la propria concezione del mondo (e del canto), purché non si pensi che ogni cambiamento sia un tradimento e una profanazione di una presunta purezza.
Un saluto a tutti
Cesconegre...BASTA, ti prego, con questo tono saccente! Nessuno "imbroglia", nessuno "bara", nessuno ha citato "fonti inconsistenti" (Lauri Volpi è stato riassunto, ma il concetto espresso era il medesimo; Bernanrd Shaw non era un analfabeta musicale), nessuno si è atteggiato da "intellettuale" (solo per il fatto di essersi dilungato, poi...). Se hai problemi con punti, premesse ed elenchi non so che dirti...questione di gusti (a me non piacciono le sbrodolate di retorica, ad esempio, o l'incedere arrogante e piccato del tuo intervento).
Ti ringrazio altresì, per aver concesso agli altri di professare idee differenti dalla tua (unica colpa, credo, del Sig. Grondona) e prendo atto con "piacere" che BONTA' TUA le altrui opinioni "non ti danno fastidio"...
Mi spiace dirtelo, ma effettivamente le parole di Lauri Volpi (ridotte o integrali che siano) sono una sbrodolata retorica che, in realtà, non significa nulla: l'opera dal '700 al verismo ha avuto un suo percorso estetico ed espressivo, è passata dalla pura ricerca del bello ideale e della perfezione formale ed astratta, allo sviluppo di un'estetica degli affetti (ove la musica è chiamata a rappresentare la realtà dei sentimenti e delle emozioni), sino alla ricerca della verosimiglianza drammatica. Con buona pace tua e di Lauri Volpi, l'Opera Seria ha un suo linguaggio (astratto e metafisico), il melodramma un altro, l'opera romantica un altro ancora, così come il wort-ton-drama wagneriano, il naturalismo, il verismo e l'espressionismo. Dire che Tosca o Werther, ma anche Otello Cavalleria Rusticana (per non parlare di Lulu o Moses und Aron) siano "espressioni di un ideale incorporeo", avulso da ogni tipo di realismo o verismo, è dire una "bischerata"! Attribuire all'avvento del verismo una sorta di tramonto della civiltà (come fa un evidentemente annebbiato Lauri Volpi) è opinione non condivisibile, poichè errata nei presupposti: il canto ottocentesco non è un monoblocco, e dal primo Rossini al tardo Verdi (passando per Donizetti, Bellini, Weber,Wagner, Mussorgsky etc...) non può essere ricondotto ad una sola idea di astrazione, ad una retorica di "espressione dell'anima pura, non corrotta dal marciume del corpo" (a mezza via tra Neoplatonismo e pruderie cattolica)! E lo stesso Lauri Volpi NON canta come David o Nozzari...
Quanto al resto: ribadisco che sostenere come tutto sia uno schifo, è cosa poco credibile. Ripeto, è lo stesso atteggiamento di chi si beve tutto quello che gli offrono! E poi, se si usasse il metro del "pelo nell'uovo" nessun cantante ne uscirebbe indenne: presente, passato e futuro. Io non ho pregiudizi: ascolto e ragiono. Circa il ritenere tutti dilettanti (anche tu sei dell'idea che il canto corretto finirebbe con lo scoppio della II Guerra Mondiale?) mi sembra boutade dovuta a spirito di contraddizione, o slancio giovanilistico. Quando non dovuta ad integralismo (che proprio non mi è mai piaciuto: in nessun campo). Quanto alla tradizione: io non la elevo a totem, né a fattore scriminante per giudicare il presente. Preferisco ragionare in termini di stile più o meno consono (stile che, IN TALUNI REPERTORI, la tradizione ha contribuito a travisare e falsificare).
Ps: aggiungo che non si dovrebbe confondere stile e tecnica, che restano concetti diversi (essendo la seconda riconducibile ad una sola corretta, mentre il primo assume molteplici forme e si declina in molti modi differenti). Così come la grammatica dal linguaggio, altrimenti - come scrissi l'altro giorno in chat - si arriverebbe a dire che basta conoscere alla perfezione le regole della sintassi per scrivere come Manzoni!
Sono assolutamente d'accordo in tutto e per tutto con l'amico Duprez.
Nonostante non condivida in molti concetti l'interessante punto di vista di Mauro Grondona (i cantanti dei primi del '900 che oggi verrebbero fischiati, il Blog che non contestualizza le voci e l'evoluzione del gusto, affermazione facilmente smentibile con una attenta lettura dei nostri articoli dedicati ad esempio ai personaggi del "Don Carlo", o alla Carmen, oppure le analisi comparate sulla Leonora di Vargas della “Forza del destino”, le considerazioni sulla tecnica del canto e la qualità cinematografica e canora di questo Rigoletto), il nostro lettore ha espresso il suo punto di vista, un giustamente diverso punto di vista, in maniera civile e argomentata, virtù rarissime che i nostri detrattori e consimili hanno perennemente dimostrato di non conoscere e di non possedere.
Gli va dato atto di questo e della pacatezza con cui ha risposto agli attacchi, non capisco sinceramente perchè così aggressivi, di Cesconegre!
Non si può chiamare un grande scrittore ed intellettuale come Shaw "analfabeta del canto" visti i suoi trascorsi storici tra Bayreuth, Wagner, il Met e quant'altro; non si può accusare tutto lo scibile canoro di essere dilettantesco e ridicolizzare o incolpare la musica leggera che ha valore, storia e cultura al pari dell'opera.
Criticare è lecito, stigmatizzare le carenze tecniche ed espressive anche, siamo brutti-cattivi-feroci, si fa dell'ironia, ci si confronta, ma spaccare il capello in otto, perchè in quattro sembra poco, demolendo indiscriminatamente ciò che si analizza per il gusto di demolire usando toni "eufemisticamente" sprezzanti non fa bene né ai lettori, né al blog, non mi piace né mi diverte.
Marianne Brandt
Penso che, da parte mia, non valga la pena andare avanti in questa discussione. Le reciproche posizioni mi sembrano chiare abbastanza, perlomeno a me sono chiare le vostre, le mie non mi pare lo siano a voi, ma in tal caso non ho certo intenzione di ripetermi: quel che avevo da dire l'ho scritto, chi vuole lo rilegga.
Da parte di chi non riconosce universalità e perpetuità ai valori fondamentali che, proprio in ragione del loro carattere fondante e del loro porsi come cardini per qualsiasi evoluzione (etica, politica, giuridica, artistica, stilistica, ecc.), si dicono 'principi', non mi stupisco affatto che le parole di Lauri Volpi, estranee al relativismo paraculturale che oggi va per la maggiore, vengano liquidate quali "affermazioni sconclusionate", "sbrodolate retoriche", "ridicolaggini". La vostra negazione tautologica, comunque, non toglie che la maniera in cui Mauro Grondona le ha citate ne abbia travisato profondamente il significato. Basta leggere quanto sopra riportato, non mi va qui di annoiarmi ed annoiarvi con pleonastiche ripetizioni, o ancora peggio con una spiegazione logica e sintattica del perché quel riassunto in verità non sia affatto un riassunto ma sia invece un equivoco se non una menzogna.
Ringrazio Duprez per la essenziale ed efficace dissertazione a proposito delle diverse fasi storiche attraversate dal teatro in musica. Io parlavo di "opera lirica", 'melodramma', 'teatro lirico', menzionandoli tutti semplicemente quali sinonimi, in riferimento all'ambito generale del teatro musicale, forma d’arte che, a mio modo di vedere, non ha mai pretese di realismo, ma che anzi si fonda su di un codice, su di un linguaggio che per sua natura è quanto di più distante ci sia dalla realtà (non so, forse voi a casa vostra vi esprimete quotidianamente attraverso versi poetici e magari intonando temi musicali, io sfortunatamente non ancora … perdonate la facile ironia). Ed il primo elemento di questo codice è appunto la tecnica di canto: tecnica di canto che è UNA, e che fa tutt’uno con l’estetica del teatro in musica, o meglio si pone quale strumento fondamentale per la realizzazione di tale estetica. Una tradizione che voglia porsi in un rapporto dialettico con il proprio passato e che voglia rispettare l’essenza di quest’arte, non può vedere il canto e la sua tecnica essere considerati come concetti relativi, transeunti, secondari: sarebbe come affermare che la danza può prescindere dalla preparazione atletica dei ballerini, o che la scrittura può prescindere dalla conoscenza e dall’applicazione della grammatica.
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Sui cantanti di oggi, ripeto, sarei felice che le mie affermazioni venissero smentite. Non mi basta però sentirmi dire da voi che la mia posizione è poco credibile (non esigo infatti che voi mi crediate, sono io a crederci, e tanto mi basta), perché l'unica smentita può derivare solo dall'ascolto di qualcuno che sappia cantare. Cosa che a me capita molto raramente.
Comunque sì, Duprez, a mio parere è a partire dagli anni '40 del secolo scorso che inizia il verticale declino dell'arte canora. Semolino (per inciso, su questo blog lui è l’esempio massimo di coerenza) ha ragione quando dice che una voce come quella della Sutherland, eccezionale per i tempi in cui ha fatto carriera, mezzo secolo prima sarebbe stata solo una tra le tante, o forse nemmeno quello, vista la pronuncia del tutto evanescente. Ci sono stati comunque, negli ultimi decenni, cantanti formidabili, non lo nego, ma sono esistiti come specie protetta, in via d'estinzione. Oggi infatti non ce n'è più traccia: il declino è totale, forse il prossimo passo sarà l'avvento del parlato in vece del canto (ad oggi per la verità non parlerei nemmeno di ‘canto’, ma piuttosto di uno starnazzare, di uno strombazzare, di un grugnire a mo' di uomini delle caverne).
Via, già adesso mi risponderete tutti scandalizzati, rimproverandomi per i miei “slanci giovanilistici” da integralista fanatico, quindi non mi sembra il caso di continuare: ripeto, le posizioni reciproche sono chiare.
Saluti a tutti
Ma coerenza a cosa Cesconegre? Con che diritto dispensi patenti di coerenza? Ti inviterei a non permetterti ulteriori arroganze, io non devo dimostrare certo a te (e a nessun altro) la correttezza delle mie idee: Semolino ha le sue (che rispetto anche se spesso non le condivido), ma non fa il processo a nessuno! Liberissimo di credere che il canto "finisca" nel 1940! Non pretendere però che tale affermazione (a mio avviso ASSURDA) sia accolta come verità assoluta. Dire che la Sutherland sarebbe stata una delle tante e forse neppure, mi spiace per te, per Semolino (che pure non afferma certo questa cosa: il suo discorso è ben diverso) per chiunque lo dovesse dire, ma è e resta una ASSURDITA'! Basti solo dire che prima di lei (e di Bonynge) il melodramma belliniano e donizettiano erano ridotti, nel migliore dei casi ad una lettura paraverdiana, nel peggiore erano sbraitati come Cavalleria o Pagliacci! Tutto torna alla questione dello stile: non è relativismo, ma rispetto dei principi! Bellini o Rossini scrissero le loro opere nella prima metà dell'800 e secondo quello stile vanno eseguite (e parlo di colorature corrette, variazioni coerenti all'epoca, cadenze di gusto o d'autore, fraseggio, volumi), già nel periodo verdiano l'estetica era mutata, figuriamoci dopo! Quello che si ascolta in talune testimonianze prebelliche è l'idea che del belcanto aveva il verismo e il tardo ottocento (lo si vede nell'esecuzione di agilità ed ornamentazioni che NULLA hanno a che fare con lo stile di un Rossini, ad esempio: senti che "roba" sono certe Rosine soubrette con picchettati e svolazzi liberty). Anche se gli interpreti sono eccellenti (non sempre) lo stile resta scorretto e l'intera fetta di repertorio è fraintesa! Bada bene: io differenzio belcanto e melodramma (Rossini, Donizetti e Bellini) da altri repertori, per cui non vi è stata una cesura così netta. Il Werther di Thill resta il massimo, così come certe incisioni del repertorio del tardo '800 russo di Kozlovsky e Lemeneshev, o la Dalila della Onegin, o il Wagner di Urlus! Ho molte più difficoltà a giodere di talune incisioni del medesimo periodo di opere di Rossino o Bellini, dove non rimane proprio nulla dello stile belcantista, dove il canto spianato e volgare si sostituisce all'astrazione e alla coloratura, dove l'orchestrazione è riscritta, dove le proporzioni sono compromesse da tagli sconsiderati, dove - solitamente - i ruoli tenorili (spesso fondamentali) venivano ridotti a bercianti comprimari! E' oggettivo che una corretta idea dello stile belcantista ed un suo effettivo recupero, è stato fatto solo nel periodo postcallasiano: da Bonynge, Sutherland, Gencer, Horne, fino alla Rossini Renaissance...che nulla, NULLA, hanno da invidiare alle divine dell'anteguerra (è piuttosto il contrario). Ci sarà un motivo per cui il Rossini serio è stato eseguito solo dopo gli anni '50 (salvo qualche titolo, ma talmente manomesso da risultare irriconoscibile)!
Non c'entra nulla il relativismo (premesso che non vi è nulla di male a non credere all'immutabilità dei valori: ti rammento che pure chi sosteneva che fosse la terra a girare intorno al sole veniva tacciato di eresia e relativismo...e magari bruciacchiato sui ceppi, in nome di una immutabile Tradizione...). Ripeto che sono il primo a sostenere l'unicità della tecnica corretta! E so bene che oggi lo studio di tale tecnica sia carente, per vari motivi, ma è argomento lungo e complesso.
PACE V'INTIMO!!!!
rispondo citando un episodio di vita vissuta e non credo sia la prima volta, che lo faccio attesa la prossimità alla senescenza o, comunque, all'età in cui i ricordi e il passato remoto cominciano a prendere il sopravvento.
Ventidue anni or sono studiando notte tempo per l'orale di procuratore legale mi tenevo sveglio ascoltando la televisione ed una notte su antenne 2 intervistarono la quasi centenaria madelein mathieu (zia della più nota mireille) che era stata un noto soprano falcon fra il 1910 ed il 1920.
Alla rituale domanda, che tutti i critici francesi propongono circa la grandezza della Callàs (per i Galli la migliore è quella del 1964) la vegliarda, battagliera, rispose che la Callas non aveva inventato nulla perchè nel 1909 lei aveva sentito Lilli Lehmann a Parigi.
Era la verità Maria Callas e con lei le solite Sutherland, Horne, Gencer etc non avevavo inventato nulla si erano limitate a riportare in auge una tecnica che era stata la regola sino al 1920 ossia per le cantanti nate sino al 1880 circa. Era la tecnica che consentiva ad un Margarete Siems di essere Marescialla e Zerbinetta, Crisotemide e Lucia.
Cito la Siems, ma l'esempio potrebbe essere riproposto con altre cantanti.
Poi la scuola non si è persa. Basta sentire come cantavano Frida Leider, Giannina Arangi Lombardi o Sigrid Onegin ed Ebe Stignani.
Erano però spesso sopraffatte e preferite a favore di cantanti che praticavano il gusto imperante. Cito una Favero una Caniglia. Si badi il gusto . E qui scatta a mio avviso quello che qualcuno a definito revisionismo. Mi spiego chi oggi ascolta l'atto di san Suplizio della Favero inorridisce e con ragione e perchè il personaggio diviene una baldracca da sbarco (non che Manon sia a San Sulpizio per la novena dell'Immacolata) e lo diviene per i suoni aperti in una certa zona della voce. E' sempre e solo un esempio, potrei prenderne altri come la linea di canto e la poca attenzione ai segni di espressione da parte di una Varnay in confronto alla Flagstad. Però il suono di Mafalda Favero con le artefazioni ed i birignao sta in una posizione dove, oggi, una Machaizde o una Dessay non sanno manco, protese come sono ad imitare la Caballè post 1975 o la Ricciarelli, o si sognano di piazzare i suoni. E l'unica attenuante, che hanno le citate signore e più ancora le poverette che studiano canto è che le maestre di canto, pure ex soprani deputati e rifiniti tecnicamente vanno insegnando a respirare con la panza in fuori o dicendo che non esiste il passaggio,fatto che è anche vero, se vogliamo, a condizione di respirare come Blake o la signora Magda Olivero.
Nessuna pretesa di completezza; e come potrei davanti a questi giovani vuoi trentenni o ventenni da cui ho solo da imparare.
Per chi intende la mia sola lingua devo toglier "el stignat dal fogh"
ciao domenico
I. Premessa doverosa: ho riletto alcuni commenti di Cesco dal suo ingresso nella famiglia Grisi fino ad oggi, ed ho notato che nella sua evoluzione (o involuzione) “stilistica” si è passati da un candore pacato e riverenziale iniziale ad un estremismo sufficiente e spocchioso odierno, da me più volte contestatogli in chat come estremismo.
Dopo questa premessa, commenterò l’intervento di Mauro Grondona ma vorrei veramente invitare Cesco allo studio, alla ricerca di uno stile di scrittura pacato, corretto e critico, e soprattutto umiltà perché ci vuole tutta una vita per imparare e migliorare, spesso non raggiungendo pienamente quel che si vuole. Questo è un consiglio di vita!
II. Il signor Grondona offre tanti e problematici punti di vista che ne aprono altrettanti ad essi legati.
Risposta alla premessa i) il fatto che il signor Grondona non frequenti il teatro ma soprattutto il disco offre una differente visione da quella dei collaboratori e lettori fedeli del blog, frequentatori di entrambi, e credo una visione dimidiata perché esclude i codici del teatro che nel disco non sono né immaginabili né pensabili. Senza contare che gli ascolti degli albori del disco presentano diversi problemi tecnici (dal suono disturbato, fino anche ad accelerare la velocità se non persino alterare le tonalità) ed anagrafici di certi cantanti (vedi un Tamagno) che registrarono a fine carriera.
Quindi, penso di poter affermare che la visione del Grondona è in parte viziata da questo metro e tendo a sottolineare come non lo intendo quale demerito ma come parzialità di visione.
Risposta alla premessa ii) il blog è veramente molto attivo per la diatriba sui castrati, e credo che al seguente link http://ilcorrieredellagrisi.blogspot.com/2010/08/mese-di-agosto-iii-castrati-falsettisti.html ci sia quanto di più esauriente si possa trovare.
III. Credendo molto sbrigativo il sunto “Il passato è sempre meglio del presente”, il blog della Grisi può rispondere in generale a questa affermazione, ma evidentemente risponde anch’esso alla regola che ci sono cose in cui è meglio il presente ed altre in cui è meglio il passato.
Sul Battistini si apre tutta la parentesi del gusto e del canto corretto (tecnica) che è un argomento profondo ma che vorrei riassumere dicendo che è innegabile che Battistini cantasse corretto, ma il gusto potrebbe non piacere oggi; ma ciò non esime reputare la sua tecnica corretta.
Dal punto vista tecnico-vocale, dal Tosi (Mancini, Garcia, Marchesi, Lamperti, Panseron, Shakespeare, Panofka, Lehmann) fino al Juvarra non si fa che ripetere che in generale si canta male.
Tre secoli che sentiamo sempre la stessa storia, eppure a me sembra che anche ai giorni nostri ci siano buoni cantanti, uscendo da una generazione di grandissimi nomi. Quindi, concordo sul fatto che ieri e oggi ci siano buoni cantanti: il problema è che oggi ce e sono tanti (troppi e non cito l’apporto del mercato discografico come propulsore) e come ce ne sono tanti, ce ne sono meno di qualità, rispondendo a mio avviso alla stessa legge economica per cui se 100 anni fa, la frutta aveva gusto ma si pativa la fame, oggi non si patisce più la fame ma i prodotti (in generale) non hanno più gusto, ed è raro ma non difficile trovarne come un tempo!
Quindi, signor Grondona, un punto su cui secondo me non si sofferma pienamente è la correttezza della tecnica del canto: questa si ha dei punti base che per certi aspetti variano nel tempo come per esempio l’ascesa in acuto in periodo rinascimentale ed in periodo romantico, ma come la tecnica di pittura e di scultura che si basano sulle mani e sugli arnesi, e saperli usare, anche il canto ha delle leggi “fisse”. Il risultato, che nel canto è l’espressione, dipende dal tempo storico, dall’autore e dall’opera stessa, però senza tecnica è molto difficile dare l’espressione che si vuole, e su questo punto concordo pienamente con Cesco, perché il cantante deve essere padrone del suo mezzo.
IV. Sapevo degli interessi di Shaw per l’opera e delle sue frequentazioni, ma non conoscevo i suoi saggi. Se il saggio proposto è del 1950 (anno della morte), io terrei bene a mente gli anni in cui Shaw segue il mondo operistico, e soprattutto cosa lui veramente intendesse per voice production e che rapporto dava al binomio tecnica/espressione perché (tenendo la convivenza obbligata di entrambe) se nel BelCanto il maggiore accento era sulla tecnica, nel Verismo (e non nei figli!) l’accento era sull’espressione ma che si sviluppava sui cantanti figli del BelCanto.
Il commento di Lauri Volpi lascia filosoficamente il tempo che trova, però è innegabile che i cantanti veristi sono cosa ben diversa dalla generazione seguente!
V. Parlando del Rigoletto televisivo, la mia attenzione audio – visiva si è fermata al primo atto , scena IX ed anche a me non è piaciuto.
Ci terrei a sottolineare, signor Grondona, quello su cui lei non si sofferma abbastanza secondo me, ossia la tecnica dei cantanti: non si pretende e come abbiamo detto non è immaginabile che dovessero cantare alla Battistini, alla Mardones, alla Pavarotti, ma Domingo e Raimondi (che per me sono dei grandi professionisti) ormai non hanno più voce e senza voce non si fa niente; Grigolo (di cui apprezzo il timbro) potrebbe essere studiato da un qualsiasi studente di canto (me per esempio) per tutte le cose che non si devono fare: acuti con gli slanci verso l’alto, la faccia tutta contorta, la bocca con smorfie laterali… E questa carenza di tecnica nel secondo hanno portato ai problemi espressivi sopra citati, diventando schiavo della voce e non parone!
Quindi, io andrei molto cauto nel considerare Grigolo (non ho sentito la Novikova) un buon cantante: potrà esserlo forse tra 5 anni, ma al momento ha più demeriti che meriti.
@Duprez E chi ha mai detto che il Bellini ed il Rossini anteguerra erano migliori di quelli dell'era post Callas? L'ho forse mai detto? Io ho evidenziato solo qual è stata la tendenza generale del canto nel Dopoguerra. Ma ho anche specificato che, fino a pochi anni or sono, non sono mancati artisti che andavano contro questa tendenza, artisti formidabili, come la Sutherland, come la Horne, come la Berganza, come Samuel Ramey, Rockwell Blake, Chris Merritt, Lella Cuberli, artisti tecnicamente solidi, e per questo sovrapponibili (a livello di tecnica di emissione, a livello di voce) ai cantanti anteguerra, ai quali certo si può e si deve rimproverare il cattivo gusto e la mancanza di stile, ma assolutamente non la mancanza di una fonazione corretta. Proprio per questa ragione ho detto che la Sutherland era come tante altre prima di lei: a livello di tecnica di emissione era infatti allo stesso livello. I cantanti d'inizio Novecento tradivano l'essenza del belcanto e del melodramma protoromantico poiché ne stravolgevano lo stile, ignorandone l’estetica. Però, almeno, conoscevano la grammatica del canto, e quindi loro sì avrebbero potuto, come poi è stato fatto con la Rossini Reinassance, riproporre l'autentico belcanto, se solo fossero stati istruiti da qualche studioso filologo. Oggi invece, malgrado la scienza ci abbia aiutati a ricostruire uno stile idoneo a quel repertorio, si sono perse le cognizioni tecniche elementari (respirazione e proiezione), e, se da un lato si è consapevoli dell'estetica belcantistica, dall'altro non si possiedono gli strumenti, non si possiede la tecnica, non si possiede "l'arte" per riprodurre tale estetica. E la cosa grave è che, contro questa tendenza al declino della tecnica di canto, nulla è servito l'esempio dei grandi cantanti della Rossini Reinassace: lo vediamo oggi! Chi segue il loro esempio? Chi riconosce il loro immenso valore, quando sono gli stessi critici a sminuirne la portata, con affermazioni del genere:"Merritt, Blake, Horne ecc. hanno mostrato come Rossini va cantato, oggi finalmente lo si interpreta"??? Oggi addirittura si sta compiendo una forma di regresso perfino stilistico, non solo tecnico, basti pensare al ROF di quest'anno, dove abbiamo risentito la più brutta tradizione di bassi buffi sbraitanti e caccolosi e una disarmante incapacità di scrivere ed eseguire variazioni decenti.
...SEGUE...
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Ma questo, Duprez, è un discorso che c'entra poco con quello che io avevo iniziato con il Sig. Grondona. Si faceva un discorso più generale, sul senso del teatro in musica oggi, sul valore di una produzione come quella appena vista del Rigoletto mantovano.
La stessa mia nozione di tradizione c'entra poco con la becera tradizione esecutiva (che vera tradizione non è) cui tu continui a fare riferimento, e sul cui disvalore, in rapporto al gusto odierno, concordo pienamente. La tradizione cui faccio riferimento è invece una TRASMISSIONE viva, mobile, mutevole, che si RINNOVA, e che è non fissa, non è morta, ma che comunque si ispira a valori e principi CARDINE che ne segnano la continuità con il passato, con la storia. Uno di questi cardini inderogabili è l’emissione della voce, pulita, sul fiato, immascherata, vibrante, squillante, espressiva, variabile nell’intensità, nei colori, nelle sfumature. Insomma, l’abc dell’artista! Gli strumenti, la tecnica, l’”arte” attraverso cui il cantante può esprimere se stesso (la propria “anima” dice Lauri Volpi) e non fare semplice sfoggio di doti fisiche tali da rendere il proprio corpo il FINE, anziché il MEZZO, della propria espressione. Questo è il senso delle parole di Lauri Volpi, e se per voi questa è retorica fatua e ridicola, allora non so proprio cosa dirvi: tenetevi le sciaquette strillacchianti e i bellimbusti che grugniscono, e che stanno sul palcoscenico per fare mero vanto del loro CORPO. Questo non solo è un tradimento nei confronti del melodramma, ma più in generale è un tradimento del significato che l’arte ha sempre avuto nella nostra civiltà, come espressione trascendente, iniziatica, anche divina, come espressione appunto di un “logos” attraverso una “tecnica”. Cercate di cogliere il senso delle parole, non prendetele alla lettera giudicandomi come un bigotto… è forse retorica, cieco tradizionalismo, assolutismo estremistico sostenere il valore non solo materiale ma anche spirituale dell’arte?
Saluti
Caro Donzelli, ovviamente mi lascio "intimare pace", ci mancherebbe. E concordo pienamente con te riguarda ad una tecnica di cui oggi, purtroppo, in molti casi si è persa memoria ed esercizio. Su quella non discuto: è l'ABC del canto, che oggi in molti (troppi) tendono a ridimensionare o prescindere. Ma se ci spostiamo su gusto e stile, i discorsi cambiano. Coi "se" e i "ma" mi hanno insegnato che non si fa la storia: non so cosa avrebbero fatto i soprani pre Sutherland e Callas se avessero avuto l'opportunità di conoscere uno stile più coerente. So solo che il Rossini che ci piace (a me, a te, a tutti quelli che scrivono qui sul Blog, o intervengono nei commenti o in chat) è stato possibile solo a partire dagli anni '60! Ci sarà un motivo, no? Ecco io credo che questo motivo risieda nel recupero di uno stile che prima della Sutherland, Callas, Gencer etc...era stato dimenticato. Per molte ragioni: per un certo gusto d'epoca, per l'ossequio (a volte ottuso) ad una tradizione ritenuta immutabile, per mancanza di una seria ricerca sulle fonti... E soprattutto perchè, all'epoca, l'opera era "cosa viva", non il museo che è oggi come negli ultimi 50 anni (e forse è meglio così: ma come museo andrebbe maggiormente tutelato). Il canto del primo '900 risente di evoluzioni storiche precise, da Rossini a Massenet è cambiato tutto e poco importa che nella cronologia e genealogia di maestri e allievi si arrivi alla Malibran...non esiste una proprietà transitiva per cui l'ultimo anello della catena è l'erede dello stesso stile del primo (di 100 anni precedente magari), perchè tutt'intorno è cambiato tutto! E' un po' come la pretesa di Kempff di suonare come Beethoven (pretesa indimostrabile ed inconsistente) perchè il suo maestro era Karl Heinrich Barth, allievo a suo tempo di Carl Tausig, a sua volta allievo di Liszt, che studiò da Carl Czerny, il quale ebbe come maestro Beethoven in persona! Si può dire che Kempff sia l'erede diretto del pianismo beethoveniano? Direi di no, visto cosìè successo nell'Europa musicale tra Beethoven e Busoni! E così nel canto. La tecnica è una, ma lo stile cambia...e a volte va recuperato per ridare dignità a certi repertori.
caro duprez
pace v'intimo era ovviamente una battuta come il ludus del blog impone ed il fatto che siamo sulla stessa barca di chi soffre il presente.
Sono d'accordo anche io che alcuni dettagli stilistici sopratutto di una sutherland sono una grande conquista. L'esecuzione ad esempio dell'aria di sortita di Elvira della Muette de Portici di Frieda Hempel , splendida nell'adagio cade nella sezione conclusiva per l'eccesso di picchettati. se poi ascolti la Anderson nello stesso brano ti addormenti sopratutto alla cabaletta.
Per chiudere i miei interventi così rispondo a grondona non possiamo mai rifiutare il passato la storia è, tautologico il dirlo, maestra. Ma la storia va interpretata. Quindi non credo affatto che Battistini verrebbe fischiato ( se mai non sarebbe scritturato, attesa la crassa ignoranza degli addetti ai lavori) al massimo qualche arbitrio gli verrebbe contestato. Anche se gli arbitri dei cantanti odierni che ignorano i segni di espressione confondono Chalais con Compare Turiddu sono ancor più gravi di quelli del commendator Battistini perchè negano la poetica del personaggio e il gusto del tempo. Non posso pretendere di cantare come cantavano la Grisi o Mario, ma quando per la Grisi e Mario (Lucrezia e Gennaro) si spendevano parole come angelici, sognanti mica posso tollerare Fleming e Grigolo.
Ah, decisamente, caro Donzelli (il mio riferimento al "pace v'intimo" era un gioco, null'altro). E' proprio questo il senso del recupero di uno stile: comprendere come e cosa cantavano i creatori del ruolo, prendersi gli arbitri che loro si prendevano (e che pur non essendo scritti erano ritenuti obbligatori: cadenze, variazioni, coloratura...), ma in modo coerente a quei modelli. Una cadenza per Rossini non può essere la stessa per Handel o per Gounod.
Oggi quello che manca è la "civiltà del canto", il saper porgere il suono, il gusto per la parola cantata, l'eloquenza. Il rispetto per i segni d'espressione - da molti nostri detrattori, derisa come pignoleria - è la base e la condicio sine qua non per ogni interpretazione! Che non vuol dire pedissequa aderenza a forcelle e legature, ma significa saper usare forcelle e legature, magari prendendosi talune libertà che divengono credibili nella bellezza dell'esecuzione (non dimenticando che spesso, tali segni espressivi, non erano scritti, poichè patrimonio comune di "bel" canto). A Battistini non vi è nulla perdonare, semmai ci si può chiedere perchè adesso si sbraca! Il che non vuol dire fare come faceva lui (e chi non lo fa è un fesso), ma piegare, come lui, la linea vocale in morbidezze e sfumature! Oggi si strilla a volte, sopra orchestre che sono bandacce (anche quelle più blasonate).
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