“Leoni per tutti!!” : questa è la sintesi finale dell’ennesima spedizione punitiva che ha avuto luogo ieri in quel di Bergamo. E non è un pubblico da circo romano quello che ha giustiziato con violenza, inaudita ma giusta, tre quarti del cast e graziato per miracolo il resto, bensì un pubblico scandalizzato ed arrabbiato dalla mortificazione e dal massacro che annualmente si compie a Bergamo dei capolavori di Donizetti e affini.
Ciclicamente vengono allestite produzioni simili di titoli must della storia dell’opera italiana, titoli rari ma amatissimi, con tale dilettantesca leggerezza, tale sciatta approssimazione ed irritante presunzione di essere all’altezza del compito, da scatenare reazioni furibonde di fronte a cast inadeguati oltre misura, collocati in allestimenti pacchiani e senza idee che finiscono per sfregiare fino alla beffa il compositore che presumono di celebrare.
Volete i dettagli macabri?
Sinteticamente:
- una Paolina indecorosa, chiamata senza alcuna ragione artistica razionale e dimostrabile, che ha urlato, berciato, stonato, ululato, cempennato ( oltre che sforbiciato e manomesso in tonalità la sortita direi..) tutta la parte, aggirandosi per la scena ( per volontà registica, certamente ) come la parodia di una diva del muto. Collocare una cantante dotata di siffatta vocalità, note centrali aperte e sguaiate oppure masticate tra i denti come sassi, acuti buttati fuori come urla, agilità alla miritorniinmente, e soprattutto con un emissione compromessa da anni di repertorio pesante amministrato con scarse cognizioni tecniche, è prova di assoluta ignoranza in fatto di canto, solo perché della malafede non ne abbiamo la prova.
- un Poliuto inadatto al compito, dalla voce vuota al centro e legnosa, senza più possibilità di legare i suoni, stonato nell’entrata e sfiancato già al finale secondo. Ha miracolosamente retto l’intonazione nel duetto finale con la consorte, completamente stonata, per poi gridare esausto l’intero finale, dove la benzina era evidentemente finita. Della sua serata si può salvare soltanto la grande scena del secondo atto, eseguita integralmente e variando opportunamente il da capo, che ha riscosso il solo vero applauso della serata. Spiacente per i Kunde-boys, numerosissimi e affezionati, ma fare il baritenore in Rossini è una cosa, altro è essere tenore di forza in Donizetti, su una scrittura assai più orizzontale e connotata da toni epici differenti. L’anziano contraltino può anche convincere o passare in parti Nozzari, ma ieri era soltanto un tenore….vecchio, con tutti i difetti dei tenori alla fine, ed alle mende suddette aggiungo i portamenti continui, il senso di sforzo, la durezza del timbro, la fatica. Solo gli acuti sono ancora note brillanti, perchè appartengono alla vera voce di questo tenore, ma ahimè, ieri non bastavano.
- Il Severo di Simone del Savio, il solo passato indenne tra le forche caudine del pubblico, è stato incolore, privo di autorità scenica e vocale. Non avere voce per farsi sentire più di tanto a volte aiuta, si scivola via alla chetichella, ma non per questo la prova è stata positiva. Il suo canto non ha avuto ampiezza o rotondità alcuna, le frasi importanti tutte messe là senza colore o accento, gli acuti spinti e di fibra ( alcuni poi ci potevano essere risparmiati davvero…). Una prova insufficiente anche la sua.
- La bacchetta del maestro Rota ha afflitto anche quest’ultima produzione bergamasca. Alla direzione artistica non erano già bastati le precedenti esperienze? Ai melomani si, tutto ci era chiarissimo.
Con una compagine orchestrale che era circa la metà di quella dell’Occasione fa il ladro del progetto Accademia scaligero di sabato sera ( !!!! ), il maestro Rota ha diretto mollemente “polleggiato” una sorta di scampagnata paesana domenicale, ridicolizzando regolarmente il tasso tragico dell’opera di Donizetti a cominciare dal tema delle “Arpe angeliche” dell’ouverture, e di lì sino alla fine, con una desolante assenza di tensione drammaturgica, di nerbo, insomma di senso del testo donizettiano. Non parliamo poi della qualità del suono, chè sarebbe pretender troppo. Come pure è pretender troppo che una bacchetta che si trovi a gestire un cast tanto deficitario sappia suggerire qualche artificio o correzione, ( urgenti per la sig. Marrocu in certe frasi acute del duetto finale, che hanno suscitato gli sbeffeggi a scena aperta del pubblico ) quando non qualche doveroso soccorso, come al tenore in difficoltà nella scena del battesimo, solo per esemplificare.
- Brutto e contestato l’allestimento, corredato pure di note critiche del regista all’opera nel programma di sala, note che da sole dimostrano come l’opera lirica non possa trovare via di riscatto alcuna sin tanto che la riflessione che si fa sui testi è di questo tipo. Ci è stata dispensata la sola commistione di romanità e fascismo, vista rivista e stravista e arcirivista, con protagonisti e coro in abiti anni ’40, salotto da conversazione privata domestica, con tanto di cameriere che serve il thè, stile Macintosh della mutua, immancabile specchio pendente dal soffitto e dio-totem fallico dorato sullo sfondo. Paccottiglia senza idee e senza gusto, e soprattutto, senza niente da dire.
Noi invece abbiamo qualche riflessione da sottoporre, di ordine generale, per un Festival Donizetti che non riesce a trovare una ragione di esistenza. Non mi sento come una mia giovane conoscenza, che durante un intervallo, manifestandomi il suo pensiero, mi ha detto che in fondo a Bergamo si va per ridere. Forse i giovani praticano cinicamente una real politik assai diversa dalla nostra di fronte alla vita e, dunque, anche al teatro…non so. Saremo noi dei dinosauri, ma, a mio modo di vedere, la contestazione doverosa ad un cantante non diverte, soprattutto se un’opera come questa viene fatta a pezzi e snaturata. E se il fatto ciclicamente si ripete, perché si va in scena con spettacoli indecenti ( e cito l’Anna Bolena, preceduta peraltro da un Devereux dello stesso livello anche se di diverso riscontro di pubblico; la Lucrezia Borgia; i Puritani; la Favorite..) vuol dire che non si tratta di casi eccezionali, ma di una regola legata ai criteri di scelta che governano la costruzione del cartellone.
Un festival ha il compito istituzionale di tutelare la memoria storica e le prassi esecutive di un compositore, di rappresentarlo al meglio, di essere il riferimento per tutti gli altri teatri che allestiscano quell’autore. Donizetti con i suoi 70 titoli ed altrettanti rifacimenti, a differenza di Bellini, Rossini o Puccini, è un compositore che ancora necessita di un festival dedicato, perché ci sono questioni filologiche importanti da gestire, titoli anche eccellenti, desueti o rarissimamente proposti, insomma, una produzione musicale ai più ignota per molti aspetti. Eppure il Donizetti Festival non riesce a sganciarsi dal tasso delle produzioni paesane destinate al pubblico bergamasco ( che ieri anche era composto perlopiù da anziani …), produce e coproduce allestimenti di titoli assolutamente impegnativi e per i quali, di fatto, non esistono più cantanti con errori marchiani di cast, si affida a cantanti macroscopicamente inferiori all’onerosità di certe ruoli ( quelli del Donizetti post 1830 richiedono voci anche di un certo tonnellaggio, oggi di fatto inesistenti …) per poi lamentare l’assalto di onde barbariche extramurane, dimenticando che scelte come quelle operate sulla parte di Paolina sono ben più di una semplice provocazione al pubblico dei melomani.
Fatto sta che a Bergamo anziché conservare una memoria del grandissimo compositore e dei suoi coetanei, se ne crea una nuova, quella grottesca che abbiamo visto ieri come già altre volte negli anni recenti, e penso alla Bolena, alla Borgia ed ai Puritani in particolare.
Se si spendono i denari pubblici o degli sponsor sotto l’etichetta “festival” o si cambia rotta, e alla svelta, o si smette, perché i tagli alla cultura che il nostro governo sta praticando appaiono, in questo caso, giustificati e doverosi tagli allo spreco e all’ignoranza.
Dedicheremo alla Direzione Artistica il prossimo post, il "Poliuto della riparazione."
Ciclicamente vengono allestite produzioni simili di titoli must della storia dell’opera italiana, titoli rari ma amatissimi, con tale dilettantesca leggerezza, tale sciatta approssimazione ed irritante presunzione di essere all’altezza del compito, da scatenare reazioni furibonde di fronte a cast inadeguati oltre misura, collocati in allestimenti pacchiani e senza idee che finiscono per sfregiare fino alla beffa il compositore che presumono di celebrare.
Volete i dettagli macabri?
Sinteticamente:
- una Paolina indecorosa, chiamata senza alcuna ragione artistica razionale e dimostrabile, che ha urlato, berciato, stonato, ululato, cempennato ( oltre che sforbiciato e manomesso in tonalità la sortita direi..) tutta la parte, aggirandosi per la scena ( per volontà registica, certamente ) come la parodia di una diva del muto. Collocare una cantante dotata di siffatta vocalità, note centrali aperte e sguaiate oppure masticate tra i denti come sassi, acuti buttati fuori come urla, agilità alla miritorniinmente, e soprattutto con un emissione compromessa da anni di repertorio pesante amministrato con scarse cognizioni tecniche, è prova di assoluta ignoranza in fatto di canto, solo perché della malafede non ne abbiamo la prova.
- un Poliuto inadatto al compito, dalla voce vuota al centro e legnosa, senza più possibilità di legare i suoni, stonato nell’entrata e sfiancato già al finale secondo. Ha miracolosamente retto l’intonazione nel duetto finale con la consorte, completamente stonata, per poi gridare esausto l’intero finale, dove la benzina era evidentemente finita. Della sua serata si può salvare soltanto la grande scena del secondo atto, eseguita integralmente e variando opportunamente il da capo, che ha riscosso il solo vero applauso della serata. Spiacente per i Kunde-boys, numerosissimi e affezionati, ma fare il baritenore in Rossini è una cosa, altro è essere tenore di forza in Donizetti, su una scrittura assai più orizzontale e connotata da toni epici differenti. L’anziano contraltino può anche convincere o passare in parti Nozzari, ma ieri era soltanto un tenore….vecchio, con tutti i difetti dei tenori alla fine, ed alle mende suddette aggiungo i portamenti continui, il senso di sforzo, la durezza del timbro, la fatica. Solo gli acuti sono ancora note brillanti, perchè appartengono alla vera voce di questo tenore, ma ahimè, ieri non bastavano.
- Il Severo di Simone del Savio, il solo passato indenne tra le forche caudine del pubblico, è stato incolore, privo di autorità scenica e vocale. Non avere voce per farsi sentire più di tanto a volte aiuta, si scivola via alla chetichella, ma non per questo la prova è stata positiva. Il suo canto non ha avuto ampiezza o rotondità alcuna, le frasi importanti tutte messe là senza colore o accento, gli acuti spinti e di fibra ( alcuni poi ci potevano essere risparmiati davvero…). Una prova insufficiente anche la sua.
- La bacchetta del maestro Rota ha afflitto anche quest’ultima produzione bergamasca. Alla direzione artistica non erano già bastati le precedenti esperienze? Ai melomani si, tutto ci era chiarissimo.
Con una compagine orchestrale che era circa la metà di quella dell’Occasione fa il ladro del progetto Accademia scaligero di sabato sera ( !!!! ), il maestro Rota ha diretto mollemente “polleggiato” una sorta di scampagnata paesana domenicale, ridicolizzando regolarmente il tasso tragico dell’opera di Donizetti a cominciare dal tema delle “Arpe angeliche” dell’ouverture, e di lì sino alla fine, con una desolante assenza di tensione drammaturgica, di nerbo, insomma di senso del testo donizettiano. Non parliamo poi della qualità del suono, chè sarebbe pretender troppo. Come pure è pretender troppo che una bacchetta che si trovi a gestire un cast tanto deficitario sappia suggerire qualche artificio o correzione, ( urgenti per la sig. Marrocu in certe frasi acute del duetto finale, che hanno suscitato gli sbeffeggi a scena aperta del pubblico ) quando non qualche doveroso soccorso, come al tenore in difficoltà nella scena del battesimo, solo per esemplificare.
- Brutto e contestato l’allestimento, corredato pure di note critiche del regista all’opera nel programma di sala, note che da sole dimostrano come l’opera lirica non possa trovare via di riscatto alcuna sin tanto che la riflessione che si fa sui testi è di questo tipo. Ci è stata dispensata la sola commistione di romanità e fascismo, vista rivista e stravista e arcirivista, con protagonisti e coro in abiti anni ’40, salotto da conversazione privata domestica, con tanto di cameriere che serve il thè, stile Macintosh della mutua, immancabile specchio pendente dal soffitto e dio-totem fallico dorato sullo sfondo. Paccottiglia senza idee e senza gusto, e soprattutto, senza niente da dire.
Noi invece abbiamo qualche riflessione da sottoporre, di ordine generale, per un Festival Donizetti che non riesce a trovare una ragione di esistenza. Non mi sento come una mia giovane conoscenza, che durante un intervallo, manifestandomi il suo pensiero, mi ha detto che in fondo a Bergamo si va per ridere. Forse i giovani praticano cinicamente una real politik assai diversa dalla nostra di fronte alla vita e, dunque, anche al teatro…non so. Saremo noi dei dinosauri, ma, a mio modo di vedere, la contestazione doverosa ad un cantante non diverte, soprattutto se un’opera come questa viene fatta a pezzi e snaturata. E se il fatto ciclicamente si ripete, perché si va in scena con spettacoli indecenti ( e cito l’Anna Bolena, preceduta peraltro da un Devereux dello stesso livello anche se di diverso riscontro di pubblico; la Lucrezia Borgia; i Puritani; la Favorite..) vuol dire che non si tratta di casi eccezionali, ma di una regola legata ai criteri di scelta che governano la costruzione del cartellone.
Un festival ha il compito istituzionale di tutelare la memoria storica e le prassi esecutive di un compositore, di rappresentarlo al meglio, di essere il riferimento per tutti gli altri teatri che allestiscano quell’autore. Donizetti con i suoi 70 titoli ed altrettanti rifacimenti, a differenza di Bellini, Rossini o Puccini, è un compositore che ancora necessita di un festival dedicato, perché ci sono questioni filologiche importanti da gestire, titoli anche eccellenti, desueti o rarissimamente proposti, insomma, una produzione musicale ai più ignota per molti aspetti. Eppure il Donizetti Festival non riesce a sganciarsi dal tasso delle produzioni paesane destinate al pubblico bergamasco ( che ieri anche era composto perlopiù da anziani …), produce e coproduce allestimenti di titoli assolutamente impegnativi e per i quali, di fatto, non esistono più cantanti con errori marchiani di cast, si affida a cantanti macroscopicamente inferiori all’onerosità di certe ruoli ( quelli del Donizetti post 1830 richiedono voci anche di un certo tonnellaggio, oggi di fatto inesistenti …) per poi lamentare l’assalto di onde barbariche extramurane, dimenticando che scelte come quelle operate sulla parte di Paolina sono ben più di una semplice provocazione al pubblico dei melomani.
Fatto sta che a Bergamo anziché conservare una memoria del grandissimo compositore e dei suoi coetanei, se ne crea una nuova, quella grottesca che abbiamo visto ieri come già altre volte negli anni recenti, e penso alla Bolena, alla Borgia ed ai Puritani in particolare.
Se si spendono i denari pubblici o degli sponsor sotto l’etichetta “festival” o si cambia rotta, e alla svelta, o si smette, perché i tagli alla cultura che il nostro governo sta praticando appaiono, in questo caso, giustificati e doverosi tagli allo spreco e all’ignoranza.
Dedicheremo alla Direzione Artistica il prossimo post, il "Poliuto della riparazione."
2 commenti:
Spettacolo indecoroso: concordo. E non perchè - come pure ho letto - "che ci si può aspettare da Bergamo". Nessuno (credo e spero) si aspettava un Poliuto rivelatore, né si figurava una Callas rediviva o la reincarnazione di Nourrit, e neppure si sognava di ascoltare i Wiener diretti da Kleiber. Nessuno pretendeva certo un allestimento di livello internazionale. Si era consapevoli dei limiti (di fondi, di prove, di possibilità) che una realtà "di provincia" come Bergamo sottende. E così pure si potevano immaginare le difficoltà della Marrocu, così come il debutto di Kunde in un ruolo centrale, la cui tessitura non supera il LA, agli antipodi di quello che è sempre stato il suo repertorio (da tenore acuto), lasciava qualche dubbio. Si era consapevoli di tutto questo, ma vi è un limite alla decenza. A Bergamo ha colpito il disinteresse per l'operazione, la mancanza di onestà! La mancanza di dignità: del direttore che ha svogliatamente battuto il tempo (non dirigeva i Berliner, d'accordo, ma quell'orchestra potrebbe suonare molto meglio: vedi la Favorita di un paio d'anni fa); della Marrocu, che non ha voce, tecnica e note per quella parte; per il regista che ha allestito un concerto in costume, occupandosi solo di giocare a fare il trasgressivo riciclando il binomio ormai bollito Antica Roma/Fascismo, non avendo la capacità e l'intelligenza di condurre l'operazione in modo convincente; per i responsabili che non si sono accorti (o hanno fatto finta) di quel che stavano offrendo al pubblico pagante. Kunde in parte lo salvo dallo sfacelo (poichè era l'unico a dare l'idea di saper cantare), ma non giustifico la scelta sconsiderata di approdare a Donizetti: evidentemente fuori dalla sua portata, oggi come ieri! Infatti dove ha convinto? Negli acuti, ancora belli, nelle poche agilità, nelle variazioni della cabaletta...ma è naufragato in tutto il resto (nei concertati, nel canto spianato, nelle frasi lunghe, nel legato). Inqualificabile un Festival dedicato all'unico autore italiano che oggi avrebbe bisogno (più di qualunque altro) di un suo spazio e di una seria indagine musicale, accademica, stilistica e filologica, che tratta in tal modo le opere del suo dedicatario!
Purtroppo è pura illusione sperare che le contestazioni (sacrosante) servano a cambiare le cose! Inutile arrabbiarsi o indignarsi (anche se comprensibile). E' necessario un generale ripensamento delle politiche culturali e della gestione dei teatri. E sarebbe ora di riscoprire la competenza e la professionalità...
E magari c'era pure qualcuno che gridava "Bravi!!!!", fulminando sul nascere le timide proteste di chi paga. Mah, forse fanno bene, magari fra 50 anni qualcuno rimpiangerà i cantanti di adesso.. Scherzo ovviamente, tuttavia questa riflessione non è priva di senso, anzi, mi viene perché ho appena ascoltato l'edizione storica del 1960 (conoscevo solo quella dell'Opera di Roma del 1989) e quando, al termine di uno dei finali più belli e mozzafiato mai sentiti su disco sento il pubblico applaudire piuttosto tiepidamente (applauso pieno, ma niente impazzimenti e urla di consenso), ho provato un po' di astio nei confronti di quella platea: sulle vibrazioni ancora nell'aria dell'ultimo rullo di timpani per me doveva venire giù il teatro intero dal fragore degli applausi! Callas, Corelli, Zaccaria, Bastianini! Mi piacerebbe fare a quei pesci lessi del pubblico quel che ha fatto Tarantino nel suo ultimo film ai tedeschi... (scherzo nuovamente...)
"Parmi" che il pubblico una volta fosse più esigente e lunatico di fronte ad artisti eccelsi, mentre oggi va in delirio sistematicamente per artisti assai meno pregiati. Misteri della fede, anzi no, è la solita storia del pane e dei denti.
Davide Contato
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