Sul numero di maggio di un noto mensile dedicato alla musica lirica e sinfonica – Classic Voice – compare, annunciato fin dalla copertina e quindi “punto di forza” della pubblicazione suddetta, un articolo a firma di Alberto Mattioli dal suggestivo titolo “Non canta lo straniero”. L’oggetto dello scritto è la pretesa dimostrazione che i “migliori” interpreti d’opera oggi disponibili sul mercato (cantanti, direttori e, ovviamente, registi), snobberebbero l’Italia perché paese di fischiatori scimuniti, retrogradi culturali, vedovi di ogni tipo e natura, passatisti vociomani e livorosi inguaribili.
La “suggestiva” tesi dell’autore dell’articolo (e che in realtà riporta, più o meno, le medesime considerazioni e preoccupazioni di certa critica ufficiale, molto più sensibile agli interessi degli addetti ai lavori, piuttosto che alla funzione che essa dovrebbe svolgere per vocazione) si incentra principalmente su due fattori, additati come origine di tutti gli odierni mali che affliggerebbero il teatro lirico in Italia: la presenza nei loggioni, e non solo, di presunti facinorosi che strepitano e offendono la delicata maestà dei divi incoronati dalle majors straniere e la mala gestio degli enti lirici, retti da sovrintendenti incapaci, ignoranti e di nomina prevalentemente politica. Ora, se sul secondo dei fattori si può essere pure d’accordo (ma occorrerebbe meglio elaborare l’assunto e citare dati e fatti, e non infarcire lo spunto – interessante e condivisibile – della solita e italianissima lamentazione populista del “tutti ladri” e del “tutti alla gogna”), non si può che rimanere basiti circa le argomentazioni che reggerebbero il primo. Tralasciando il tono poco urbano dello scritto (con cadute nell’offesa gratuita e nell’ingiuria, che nulla aggiungono ai ragionamenti dell’autore e che, anzi, ne qualificano l’origine scomposta e uterina), così come i manifesti riferimenti al Corriere della Grisi – evidentemente ritenuto “braccio secolare” di quella supposta inquisizione di “scimuniti che fischiano sempre e comunque” – per cui, specie nel repertorio italiano, i “migliori” boicotterebbero la Scala col timore di una “Grisina lì col ditino alzato e il fischietto in mano perché così avrebbe fatto Rodolfo Celletti” (cito sempre dal pezzo di Mattioli), è proprio la tesi che sconcerta. E su quella – perdonando la mancanza di buon gusto dell’autore – vale la pena soffermarsi. Bisogna, però, preliminarmente porsi una domanda: chi è “il divo”? L’interprete che si guadagna l’onore sul campo (grazie a doti naturali, tecnica e capacità interpretative), traducendo in puro piacere estetico le note scritte e per questo suscitando emozioni? Oppure è chi viene incoronato “divo” dalle majors discografiche e imposto ai pubblici di mezzo mondo grazie a martellanti campagne pubblicitarie, vere artefici di carriere costruite a tavolino? E se è vera, come purtroppo è vera (e l’articolo di Mattioli ne è la dimostrazione), la seconda ipotesi, non è più logico che le suddette majors preferiscano esibire i “cavalli delle loro scuderie” in luoghi sicuri (in cui magari hanno precisi interessi e investimenti economici), con pubblici selezionati, stampa connivente e critica collaborazionista, piuttosto che rischiare una “figuraccia” ai fragili nervi delle loro starlettes su palcoscenici non ancora normalizzati? L’articolo di Mattioli sciorina una serie di nomi (per la verità diversissimi tra loro) la cui classificazione quali “migliori” sconcerta: si passa dalla garbata Kožená alla splendida Netrebko, da Villazón (che continua ad annullare date e impegni a causa di un precoce, ma prevedibilissimo, scempio vocale) a quel che resta della Dessay o alla Bartoli definita iperbolicamente “la più celebre cantante d’opera del mondo” (.....ma in base a quali criteri? Rispetto a chi, poi? In virtù di quale attività svolta? Mattioli non si premura certo di dimostrare i suoi assiomi), per giungere ovviamente ai controtenori che noi “poveracci” disdegneremmo. Nel catalogo, degno di un isterico Leporello, non mancano i direttori (da un Luisi spacciato per novello Karajan, alla baroccara senza qualità Haïm ai comunissimi Welser-Möst o Esa-Pekka Salonen la cui presenza pare invocata manco fossero il fantasma di Kleiber jr.) e i registi (delizia della nostra omologata élite cultural-musicale). E per non correre il rischio di far apparire la propria voce “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”, non poteva che concludersi con la captatio benevolentiae alla nuova gestione scaligera: annunciata come unico spiraglio di luce nella torbida melma della italica retroguardia, naturalmente succeduta alla dittatura di Molfetta (ma mi piacerebbe sapere cosa scrivesse il nostro, dalla metà degli anni ’80 al 2005, quando chi è ora nella polvere, stava sull’altare). Ma qual è, dunque, il vero fine di questo scritto? Credo sia evidente l’intento: la neutralizzazione di ogni dissenso. Perché il dissenso oggi è più scomodo. Le contestazioni a una Callas o a un Pavarotti, ad esempio, non ne scalfivano certo l'immagine, erano parte del gioco e le si accettava con la coscienza pulita o sporca (a seconda della consapevolezza di aver meritato o meno tali contestazioni). Oggi invece, dove le carriere sono fondate sul nulla e basta un titolo su di una rivista a spezzare “l’incanto” (e a spingere il pubblico plaudente a rivolgere altrove il proprio plauso e i propri denari per biglietti e dischi), ogni minima scalfitura, ogni piccola macchia, ogni breve sospetto, viene subito interpretato come possibile elemento passivo nel bilancio sociale e, pertanto, l’ufficio marketing che gestisce il divo di turno non può più permetterselo. Il risultato è, ovviamente, una caduta vertiginosa di livello artistico, supplito da divagazioni che servano a concentrare il pubblico su altri fattori che non siano più musicali (aspetto fisico, fascino, capacità attoriali, stravaganze etc....). Solo questa è la realtà: non la pretesa ignoranza preconcetta dei loggioni, ma gli effetti che ogni forma di dissenso può avere sui bilanci di agenzie e società e riviste. Un mondo in cui la casa discografica impone a teatri sponsorizzati i propri “divi”, costruendone la carriera virtuale, in cui la rivista che attraverso la pagine pubblicitarie acquistate dalle majors suddette (o dalle agenzie o da festival ed enti) rimpolpa i propri introiti sdebitandosi con recensioni positive, in cui i pubblici vengono selezionati attraverso la difficoltà di procurarsi biglietti e l'organizzazione turistica delle prenotazioni, un mondo simile non può più permettersi il dissenso. E noi, allora, che vediamo proprio nella libertà di dissentire l'indicatore più significativo di un consenso vero, all’ironico e stizzito “non canta lo straniero”, rispondiamo con i mormorii del nostro Piave...
Gli ascolti
E.A.Mario - La leggenda del Piave - Giovanni Martinelli (1918)
Verdi - La traviata
Atto III - Teneste la promessa...Addio del passato - Antonietta Stella (1956), Anna Netrebko (2009)
Offenbach - Les Contes d'Hoffmann
Prologo - Chanson de Kleinzach - Richard Tauber (1931), Rolando Villazón (2007)
La “suggestiva” tesi dell’autore dell’articolo (e che in realtà riporta, più o meno, le medesime considerazioni e preoccupazioni di certa critica ufficiale, molto più sensibile agli interessi degli addetti ai lavori, piuttosto che alla funzione che essa dovrebbe svolgere per vocazione) si incentra principalmente su due fattori, additati come origine di tutti gli odierni mali che affliggerebbero il teatro lirico in Italia: la presenza nei loggioni, e non solo, di presunti facinorosi che strepitano e offendono la delicata maestà dei divi incoronati dalle majors straniere e la mala gestio degli enti lirici, retti da sovrintendenti incapaci, ignoranti e di nomina prevalentemente politica. Ora, se sul secondo dei fattori si può essere pure d’accordo (ma occorrerebbe meglio elaborare l’assunto e citare dati e fatti, e non infarcire lo spunto – interessante e condivisibile – della solita e italianissima lamentazione populista del “tutti ladri” e del “tutti alla gogna”), non si può che rimanere basiti circa le argomentazioni che reggerebbero il primo. Tralasciando il tono poco urbano dello scritto (con cadute nell’offesa gratuita e nell’ingiuria, che nulla aggiungono ai ragionamenti dell’autore e che, anzi, ne qualificano l’origine scomposta e uterina), così come i manifesti riferimenti al Corriere della Grisi – evidentemente ritenuto “braccio secolare” di quella supposta inquisizione di “scimuniti che fischiano sempre e comunque” – per cui, specie nel repertorio italiano, i “migliori” boicotterebbero la Scala col timore di una “Grisina lì col ditino alzato e il fischietto in mano perché così avrebbe fatto Rodolfo Celletti” (cito sempre dal pezzo di Mattioli), è proprio la tesi che sconcerta. E su quella – perdonando la mancanza di buon gusto dell’autore – vale la pena soffermarsi. Bisogna, però, preliminarmente porsi una domanda: chi è “il divo”? L’interprete che si guadagna l’onore sul campo (grazie a doti naturali, tecnica e capacità interpretative), traducendo in puro piacere estetico le note scritte e per questo suscitando emozioni? Oppure è chi viene incoronato “divo” dalle majors discografiche e imposto ai pubblici di mezzo mondo grazie a martellanti campagne pubblicitarie, vere artefici di carriere costruite a tavolino? E se è vera, come purtroppo è vera (e l’articolo di Mattioli ne è la dimostrazione), la seconda ipotesi, non è più logico che le suddette majors preferiscano esibire i “cavalli delle loro scuderie” in luoghi sicuri (in cui magari hanno precisi interessi e investimenti economici), con pubblici selezionati, stampa connivente e critica collaborazionista, piuttosto che rischiare una “figuraccia” ai fragili nervi delle loro starlettes su palcoscenici non ancora normalizzati? L’articolo di Mattioli sciorina una serie di nomi (per la verità diversissimi tra loro) la cui classificazione quali “migliori” sconcerta: si passa dalla garbata Kožená alla splendida Netrebko, da Villazón (che continua ad annullare date e impegni a causa di un precoce, ma prevedibilissimo, scempio vocale) a quel che resta della Dessay o alla Bartoli definita iperbolicamente “la più celebre cantante d’opera del mondo” (.....ma in base a quali criteri? Rispetto a chi, poi? In virtù di quale attività svolta? Mattioli non si premura certo di dimostrare i suoi assiomi), per giungere ovviamente ai controtenori che noi “poveracci” disdegneremmo. Nel catalogo, degno di un isterico Leporello, non mancano i direttori (da un Luisi spacciato per novello Karajan, alla baroccara senza qualità Haïm ai comunissimi Welser-Möst o Esa-Pekka Salonen la cui presenza pare invocata manco fossero il fantasma di Kleiber jr.) e i registi (delizia della nostra omologata élite cultural-musicale). E per non correre il rischio di far apparire la propria voce “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”, non poteva che concludersi con la captatio benevolentiae alla nuova gestione scaligera: annunciata come unico spiraglio di luce nella torbida melma della italica retroguardia, naturalmente succeduta alla dittatura di Molfetta (ma mi piacerebbe sapere cosa scrivesse il nostro, dalla metà degli anni ’80 al 2005, quando chi è ora nella polvere, stava sull’altare). Ma qual è, dunque, il vero fine di questo scritto? Credo sia evidente l’intento: la neutralizzazione di ogni dissenso. Perché il dissenso oggi è più scomodo. Le contestazioni a una Callas o a un Pavarotti, ad esempio, non ne scalfivano certo l'immagine, erano parte del gioco e le si accettava con la coscienza pulita o sporca (a seconda della consapevolezza di aver meritato o meno tali contestazioni). Oggi invece, dove le carriere sono fondate sul nulla e basta un titolo su di una rivista a spezzare “l’incanto” (e a spingere il pubblico plaudente a rivolgere altrove il proprio plauso e i propri denari per biglietti e dischi), ogni minima scalfitura, ogni piccola macchia, ogni breve sospetto, viene subito interpretato come possibile elemento passivo nel bilancio sociale e, pertanto, l’ufficio marketing che gestisce il divo di turno non può più permetterselo. Il risultato è, ovviamente, una caduta vertiginosa di livello artistico, supplito da divagazioni che servano a concentrare il pubblico su altri fattori che non siano più musicali (aspetto fisico, fascino, capacità attoriali, stravaganze etc....). Solo questa è la realtà: non la pretesa ignoranza preconcetta dei loggioni, ma gli effetti che ogni forma di dissenso può avere sui bilanci di agenzie e società e riviste. Un mondo in cui la casa discografica impone a teatri sponsorizzati i propri “divi”, costruendone la carriera virtuale, in cui la rivista che attraverso la pagine pubblicitarie acquistate dalle majors suddette (o dalle agenzie o da festival ed enti) rimpolpa i propri introiti sdebitandosi con recensioni positive, in cui i pubblici vengono selezionati attraverso la difficoltà di procurarsi biglietti e l'organizzazione turistica delle prenotazioni, un mondo simile non può più permettersi il dissenso. E noi, allora, che vediamo proprio nella libertà di dissentire l'indicatore più significativo di un consenso vero, all’ironico e stizzito “non canta lo straniero”, rispondiamo con i mormorii del nostro Piave...
Gli ascolti
E.A.Mario - La leggenda del Piave - Giovanni Martinelli (1918)
Verdi - La traviata
Atto III - Teneste la promessa...Addio del passato - Antonietta Stella (1956), Anna Netrebko (2009)
Offenbach - Les Contes d'Hoffmann
Prologo - Chanson de Kleinzach - Richard Tauber (1931), Rolando Villazón (2007)
7 commenti:
Piú che la tesi di fondo,io vorrei contestare la contrapposizione tra un pubblico straniero educato e uno italiano intemperante.Vi dico per esperienza personale che il pubblico tedesco fischia,eccome!Qui a Stoccarda l´anno scorso é stata violentemente contestata l´indecorosa prestazione di Chris Merritt ne La Juive.Saprete certo dei fischi che hanno accolto l´allestimento del Fliegende Holländer a Lipsia,tali da indurre la direzione del teatro a toglierlo dal cartellone.Ricordo una delle mie prime esperienze di ascoltatore qui:un allestimento del Ring a Monaco,talmente assurdo che,alla fine,l´uscita del regista fu accolta addirittura da lanci di monete.Chi scrive di queste cose,evidentemente all´estero ci va poco...
Saluti
Miei cari, e non siete contenti che hanno parlato di voi?
Questo dimostra che tutti, belli e brutti, buoni e cattivi, belcantisti e declamatori, vocalisti e pseudocosime, melomani e onanisti intellettuali, critici e scribacchini, vi leggono, vi esaminano, vi scaricano, commentano e vi citano!
Siete diventati una cartina di tornasole nel bene e nel male...quindi, mi sa che il vostro "lavoro" lo state facendo bene ed in maniera interessante!
Venghino signori venghino e voi continuate pure, continuate ...
Pur essendo uno spettatore di bocca buona e pur non avendo condiviso, a volte, l'eccessivo rigore degli estensori di questo blog, oggi mi trovo completamente concorde con Duprez: fischiare ed esternare il dissenso non è altro che un portato della sacrosanta libertà di manifestazione del pensiero. La critica, se ben motivata, altro non rappresenta che la possibità di instaurare un dialogo foriero (si spera) di progresso e miglioramento. Purtroppo da noi, e non solo in campo lirico, vigono il principio del pensiero unico e il tentativo di addomesticare il pubblico, il consumatore, il cittadino. Ergo, ben vengano i bastian contrari se le loro opinioni si fondano su assunti precisi e oggettivi. Esse possono essere condivise o meno, ma non possono essere tacciate come la causa di tutti i mali.
E' per il fatto che qui si trova sempre qualcosa di interessante che leggo volentiri il Corriere della Grisi: anche quando, alla fine di un post, sono in totale disaccordo!
caro duprez
vorrei aver scritto io quel che hai scritto tu,senza piaggeria alcuna.
Una cosa mi è chiara che il pubblico se non vuole essere sopraffatto deve per passare dal Piave (grande Martinelli) alla linea gotica:
RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE.
Sono d'accordo su tutte le motivazioni di duprez. Ho più volte espresso su questo blog la necessità di una terapia reale al deficit di dissenso che permea tutti i teatri d'Italia. Sorge spontaneo chiedersi da quanto tempo l'"articolista" di Music Voice non varchi la soglia di un teatro per non rendersi conto dell'egemonia del pubblico dall'appaluso facile.
Mi viene un dubbio però rispetto agli ascolti comparativi proposti. Chiedo: considerate le sproporzioni madornali di tecnica vocale ed espressività tra una stella (vera star...) e una netrebko, perché non farle "gareggiare" alla pari, evitando di proporre della divetta slava un live mentre per la stella una registrazione da studio? Le diverse doti sarebbero emerse comunque anche in una comparazione studio-studio, oppure live-live. Siete d'accordo?
La Bartoli è oscena nella canzonetta spagnola, una prestazione da ciarlatana della vocalità. Un mucchio di versacci e sembra una latrina nei gravi, è piena d'aria, le agilità fanno il rumore di una vecchia macchina da cucire, il fraseggio comico e caricato. VERGOGNA!!!!
La Netrebko è da mal di gola, che emissione rozza!
CAro Tripsinogeno,
basterebbe prendere i 1000 live della Lucia della Sutherland ( incredibilmente uguale a se stessa ogni sera....nemmeno un errorino, un suono non perfetto.....ufff ) o una Sills per fare in mille pezzi Anja. Potremmo anche usare una non diva, come la Devia, magari con la serata d'addio milanese.....
Dobbiamo sprecare ancora qualche minuto per provare che l'acqua è bagnata????
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