Da più parti si ritiene che il pubblico, soprattutto quello di ausoni natali, debba essere sollevato dalla condizione di profonda arretratezza culturale in cui versa. Solitamente i sostenitori di siffatte teorie educative ritengono di essere i migliori pedagoghi, o forse dovremmo dire ammaestratori, del pubblico medesimo. Noi pensiamo invece che, se educazione o rieducazione deve essere, non possa giungere che da quei cantanti che, con la loro arte, hanno saputo rendere alla musica il più alto dei servigi, trasformandola in una fonte di divertimento e, perché no, in una medicina dello spirito.
Non c’è dubbio che la liederistica sia una delle forme musicali più elevate, o per lo meno avvertite come tali da artisti e organizzatori di cartelloni. A tal punto che oggi è raro imbattersi in un cantante che non affronti, in sede di recital, almeno una manciata di pagine in lingua tedesca. Anche se magari il cantante in questione avrebbe difficoltà a ordinare, nella lingua di Goethe, un caffè. Il tedesco “fa” innegabilmente colto, e basta il nome di Schubert, o quello di Schumann o di Wolf a indurre l’ascoltatore a un atteggiamento di vivo interesse. Magari limitato alle prime note del primo brano. Quello che molti interpreti tendono a dimenticare è che il Lied non è, in fondo, che un brano salottiero di carattere di volta in volta patetico o brillante, e non un compendio filosofico. Insomma, malgrado i nobili natali e in alcuni casi l’ottima qualità dei testi letterari, non siamo troppo distanti dai brani, assai più negletti, di un Tosti o un Arditi.
In alcuni casi il Lied mette in scena non un racconto ma un dialogo. E si avvicina così fortemente alla scena operistica. L’Erlkönig schubertiano è forse l’esempio più famoso. Il dialogo fra il fanciullo febbricitante, il padre che tenta di rassicurarlo e l’inquietante figura del Re degli elfi, che tenta e infine riesce a rapire il piccolo, è in sostanza un terzetto a voce sola. In effetti, la presenza evanescente e al tempo stesso oppressiva della creatura sovrannaturale sembra preannunciare un celebre trio operistico, quello dell’atto di Antonia nei Contes d’Hoffmann.
Omogeneità dei registri vocali, perfezione del legato, capacità di variare la dinamica a tutte le altezze sono i requisiti fondamentali per affrontare questa pagina. In difetti è impossibile accentare con proprietà e varietà il testo musicale, ossia interpretarlo nel senso più completo del termine.
Esemplare, in questo senso, l’esecuzione di Sigrid Onégin. Lo strumento vocale è di grande fascino e assoluta compattezza, e il merito va in eguale misura alla natura e alla saldezza tecnica, che consente al registro grave di essere pieno e corposo e al tempo stesso non inquinato da quei suoni gonfi e otturati, che negli ultimi cinquant’anni ci sono stati a più riprese propinati da rappresentanti a volte assai quotate di questa corda. I centri sono timbratissimi, l’acuto luminoso e sicuro. Ma anche più notevole è l’interprete, che dice, sfuma e quasi ricama le parole mantenendo il giusto equilibrio fra la tensione drammatica e l’eleganza inappuntabile che così bene si addice alla musica da camera. Il degno contraltare della Onégin in campo maschile è il baritono svizzero Charles Panzéra, che esegue il Lied con accompagnamento orchestrale e in una traduzione francese piuttosto libera. Poco importa, perché l’emissione di scuola rende la voce meravigliosamente morbida, l’ampiezza del legato permette al cantante di eseguire letteralmente in un solo fiato la perorazione del Re degli elfi, e ancora una volta non c’è una frase che sia buttata via o risolta con cura meno che esemplare. Il risultato finale è struggente, anche in virtù della dolcezza malinconica del timbro.
Ragguardevoli anche le prove di due dei più grandi cantanti di sempre, vale a dire Heinrich Schlusnus e Alexander Kipnis. Se il primo si impone soprattutto per la sontuosità di un timbro scuro e pastoso, mentre il fraseggio non appare molto vario, il secondo sfoggia una varietà di colori e accenti che ha dell’impressionante, riuscendo a differenziare le voci del narratore, del padre, del bambino e del Re degli elfi senza inquinare con effetti naturalistici la linea di canto, sempre aristocratica. Di fronte a loro un cantante sempre autorevole come Samuel Ramey offre non un’interpretazione, ma una lettura, anche corretta e piacevole, ma pur sempre una lettura. Anche per una questione di peso specifico vocale, che nel repertorio abituale dell'americano non è certo un limite ma qui, al cospetto di due pesi massimi, si fa sentire.
Fra le versioni sopranili appaiono di capitale importanza quelle di Lilli Lehmann e Johanna Gadski. Soprani drammatici, avvezze a un repertorio assai oneroso, nutrito di Wagner come dei grandi ruoli italiani, sfoggiano entrambe, colte in differenti fasi della carriera (nel 1906 la Lehmann aveva alle spalle quasi quarant’anni di canto professionale, che a tratti si avvertono nel registro grave, un po’ vuoto, mentre la Gadski poco più di quindici), una voce non solo perfettamente proiettata e sonora ma capace di sostenere tutte le variazioni dinamiche e agogiche, che una pagina del genere richiede. E che per certo sono le stesse che esigono, almeno a livello ideale, le grandi eroine del repertorio drammatico. Anche qui l’ascolto delle signore aiuta a chiarire, a chi non voglia a tutti i costi tapparsi le orecchie, quali siano le nostre perplessità di fronte a molte delle artiste, che oggi nei massimi teatri del mondo si piccano di portare in scena Brünnhilde o Isotta in formato Marescialla (quando va bene) o Rosa Mamai (quando va male). A mo’ di bonus proponiamo un’esecuzione che non poco deve a quelle della Lehmann e della Gadski, vale a dire quella dell’insigne musicologo e “surprising soprano” Michael Aspinall, che esasperando la caratteristica libertà di fraseggio e in taluni casi anche di solfeggio ed enfatizzando l’afflato patetico delle signore consegna al disco (o meglio, al live) un autentico atto di amore per il canto delle suddette.
La versione della sfortunata Marjorie Lawrence, qui colta in un momento della carriera in cui la malattia le aveva già precluso l’utilizzo delle gambe, si impone soprattutto per la straordinaria facilità e robustezza del registro acuto, mentre quella di Germaine Lubin è memorabile non solo per la saldezza vocale, ma anche per la perfetta padronanza della lingua tedesca, una caratteristica destinata a costarle non poco nella vita privata. Ma forse l’interprete che meglio coglie il senso della ballata, affrontata come una fiaba nera, ma pur sempre una fiaba, quindi con grande misura e raccoglimento anche nei momenti maggiormente drammatici, è Lotte Lehmann, la quale, con trent’anni di carriera (e che carriera) alle spalle, risulta peraltro straordinariamente fresca.
E non possiamo che concludere questa rapida e certamente non esaustiva carrellata con una testimonianza video che documenta il canto di una sessantaseienne Ernestine Schumann-Heink, ancora in carriera a quarantanove anni dal debutto. Ebbene, la voce non è certo quella di una debuttante e non è neppure quella dei dischi di una quindicina di anni prima, ma la padronanza del legato, l’omogeneità dei registri e la maestosità del fraseggio sono pressoché intatte. Il che, spiace ripeterlo, suole capitare alle primedonne, che tali siano in virtù principalmente del loro canto.
Gli ascolti
Schubert - Erlkönig, D 328
Lilli Lehmann (1906)
Johanna Gadski (1906)
Sigrid Onégin (1929)
Heinrich Schlusnus (1933)
Charles Panzéra (1934)
Alexander Kipnis (1936)
Lotte Lehmann (1941)
Marjorie Lawrence (1944)
Germaine Lubin (1944)
Michael Aspinall (1979)
Samuel Ramey (1995)
Ernestine Schumann-Heink (1927)
Non c’è dubbio che la liederistica sia una delle forme musicali più elevate, o per lo meno avvertite come tali da artisti e organizzatori di cartelloni. A tal punto che oggi è raro imbattersi in un cantante che non affronti, in sede di recital, almeno una manciata di pagine in lingua tedesca. Anche se magari il cantante in questione avrebbe difficoltà a ordinare, nella lingua di Goethe, un caffè. Il tedesco “fa” innegabilmente colto, e basta il nome di Schubert, o quello di Schumann o di Wolf a indurre l’ascoltatore a un atteggiamento di vivo interesse. Magari limitato alle prime note del primo brano. Quello che molti interpreti tendono a dimenticare è che il Lied non è, in fondo, che un brano salottiero di carattere di volta in volta patetico o brillante, e non un compendio filosofico. Insomma, malgrado i nobili natali e in alcuni casi l’ottima qualità dei testi letterari, non siamo troppo distanti dai brani, assai più negletti, di un Tosti o un Arditi.
In alcuni casi il Lied mette in scena non un racconto ma un dialogo. E si avvicina così fortemente alla scena operistica. L’Erlkönig schubertiano è forse l’esempio più famoso. Il dialogo fra il fanciullo febbricitante, il padre che tenta di rassicurarlo e l’inquietante figura del Re degli elfi, che tenta e infine riesce a rapire il piccolo, è in sostanza un terzetto a voce sola. In effetti, la presenza evanescente e al tempo stesso oppressiva della creatura sovrannaturale sembra preannunciare un celebre trio operistico, quello dell’atto di Antonia nei Contes d’Hoffmann.
Omogeneità dei registri vocali, perfezione del legato, capacità di variare la dinamica a tutte le altezze sono i requisiti fondamentali per affrontare questa pagina. In difetti è impossibile accentare con proprietà e varietà il testo musicale, ossia interpretarlo nel senso più completo del termine.
Esemplare, in questo senso, l’esecuzione di Sigrid Onégin. Lo strumento vocale è di grande fascino e assoluta compattezza, e il merito va in eguale misura alla natura e alla saldezza tecnica, che consente al registro grave di essere pieno e corposo e al tempo stesso non inquinato da quei suoni gonfi e otturati, che negli ultimi cinquant’anni ci sono stati a più riprese propinati da rappresentanti a volte assai quotate di questa corda. I centri sono timbratissimi, l’acuto luminoso e sicuro. Ma anche più notevole è l’interprete, che dice, sfuma e quasi ricama le parole mantenendo il giusto equilibrio fra la tensione drammatica e l’eleganza inappuntabile che così bene si addice alla musica da camera. Il degno contraltare della Onégin in campo maschile è il baritono svizzero Charles Panzéra, che esegue il Lied con accompagnamento orchestrale e in una traduzione francese piuttosto libera. Poco importa, perché l’emissione di scuola rende la voce meravigliosamente morbida, l’ampiezza del legato permette al cantante di eseguire letteralmente in un solo fiato la perorazione del Re degli elfi, e ancora una volta non c’è una frase che sia buttata via o risolta con cura meno che esemplare. Il risultato finale è struggente, anche in virtù della dolcezza malinconica del timbro.
Ragguardevoli anche le prove di due dei più grandi cantanti di sempre, vale a dire Heinrich Schlusnus e Alexander Kipnis. Se il primo si impone soprattutto per la sontuosità di un timbro scuro e pastoso, mentre il fraseggio non appare molto vario, il secondo sfoggia una varietà di colori e accenti che ha dell’impressionante, riuscendo a differenziare le voci del narratore, del padre, del bambino e del Re degli elfi senza inquinare con effetti naturalistici la linea di canto, sempre aristocratica. Di fronte a loro un cantante sempre autorevole come Samuel Ramey offre non un’interpretazione, ma una lettura, anche corretta e piacevole, ma pur sempre una lettura. Anche per una questione di peso specifico vocale, che nel repertorio abituale dell'americano non è certo un limite ma qui, al cospetto di due pesi massimi, si fa sentire.
Fra le versioni sopranili appaiono di capitale importanza quelle di Lilli Lehmann e Johanna Gadski. Soprani drammatici, avvezze a un repertorio assai oneroso, nutrito di Wagner come dei grandi ruoli italiani, sfoggiano entrambe, colte in differenti fasi della carriera (nel 1906 la Lehmann aveva alle spalle quasi quarant’anni di canto professionale, che a tratti si avvertono nel registro grave, un po’ vuoto, mentre la Gadski poco più di quindici), una voce non solo perfettamente proiettata e sonora ma capace di sostenere tutte le variazioni dinamiche e agogiche, che una pagina del genere richiede. E che per certo sono le stesse che esigono, almeno a livello ideale, le grandi eroine del repertorio drammatico. Anche qui l’ascolto delle signore aiuta a chiarire, a chi non voglia a tutti i costi tapparsi le orecchie, quali siano le nostre perplessità di fronte a molte delle artiste, che oggi nei massimi teatri del mondo si piccano di portare in scena Brünnhilde o Isotta in formato Marescialla (quando va bene) o Rosa Mamai (quando va male). A mo’ di bonus proponiamo un’esecuzione che non poco deve a quelle della Lehmann e della Gadski, vale a dire quella dell’insigne musicologo e “surprising soprano” Michael Aspinall, che esasperando la caratteristica libertà di fraseggio e in taluni casi anche di solfeggio ed enfatizzando l’afflato patetico delle signore consegna al disco (o meglio, al live) un autentico atto di amore per il canto delle suddette.
La versione della sfortunata Marjorie Lawrence, qui colta in un momento della carriera in cui la malattia le aveva già precluso l’utilizzo delle gambe, si impone soprattutto per la straordinaria facilità e robustezza del registro acuto, mentre quella di Germaine Lubin è memorabile non solo per la saldezza vocale, ma anche per la perfetta padronanza della lingua tedesca, una caratteristica destinata a costarle non poco nella vita privata. Ma forse l’interprete che meglio coglie il senso della ballata, affrontata come una fiaba nera, ma pur sempre una fiaba, quindi con grande misura e raccoglimento anche nei momenti maggiormente drammatici, è Lotte Lehmann, la quale, con trent’anni di carriera (e che carriera) alle spalle, risulta peraltro straordinariamente fresca.
E non possiamo che concludere questa rapida e certamente non esaustiva carrellata con una testimonianza video che documenta il canto di una sessantaseienne Ernestine Schumann-Heink, ancora in carriera a quarantanove anni dal debutto. Ebbene, la voce non è certo quella di una debuttante e non è neppure quella dei dischi di una quindicina di anni prima, ma la padronanza del legato, l’omogeneità dei registri e la maestosità del fraseggio sono pressoché intatte. Il che, spiace ripeterlo, suole capitare alle primedonne, che tali siano in virtù principalmente del loro canto.
Gli ascolti
Schubert - Erlkönig, D 328
Lilli Lehmann (1906)
Johanna Gadski (1906)
Sigrid Onégin (1929)
Heinrich Schlusnus (1933)
Charles Panzéra (1934)
Alexander Kipnis (1936)
Lotte Lehmann (1941)
Marjorie Lawrence (1944)
Germaine Lubin (1944)
Michael Aspinall (1979)
Samuel Ramey (1995)
Ernestine Schumann-Heink (1927)
4 commenti:
Vorrei, se mi è permesso, aggiungere solo una cosa ispiratami nei riguardi della musica da camera da queste parole: "non siamo troppo distanti dai brani, assai più negletti, di un Tosti o un Arditi".
Nulla di troppo importante... Volevo solo annotare questa glossa: negletti a torto! Ho notato come praticare le arie di Tosti, Donaudy o anche le squisite arie antiche (che belle!)il più sovente possibile nelle lezioni di canto aiuti a capire dove si metta la voce e insegni cosa voglia dire "parlare" quando si canta e cantare piano e con morbidezza. Di più: abitua al solfeggio e insegna ad interpretare. Personalmente ritengo "O del mio amato ben" e "Vaghissima sembianza" due piccoli capolavori lasciati, nella loro semplicità, all'arte "pedagogica" di quei cantanti celebrati da Tamburini.
Nello stesso solco pongo tutto Tosti, in special modo "I due piccoli notturni" e "Le 4 Canzoni di Amaranta che, al di là del testo di D'Annunzio, sono talmente belle che a stento capisco la sola fama di "L'alba separa dalla luce l'ombra", se non per sfoggiare un si bemolle, per altro inesistente nel rigo ( e ben si capisce, se solo si pensa che che è un discorso articolato in 4 momenti).
Eh sì... penso abbia ragione la mia maestra quando mi ripete che a cantare l'opera si impara sulla musica da camera. E la lezione, per giunta, non mi spiace per niente!
Scrivo poi di seguito una osservazione che non c'entra con l'Erlkonig o con la musica da camera. Vi seguo, come accennato altrove, da qualche giorno... Ma mi sono già reso conto che... cavolo! Siete feroci ed implacabili... Mi fate quasi passare la voglia di studiare dallo spavento!!
Scusate lo quest'ultimo sfogo del vostro Tamberlick.
Certo Tamberlick, negletti a torto. Non sono di moda, non sono "culturali", non "elevano"... ma un bel Bacio di Arditi o l'Ideale tostiano sono sempre meritevoli di ascolto, se eseguiti come si conviene.
Veramente noi speriamo di raddoppiare, nei cantanti, la voglia di studiare... dallo spavento!!! Ma per fortuna oggi il pubblico è tanto, ma tanto, ma tanto buono, che qualche cattivo feroce e implacabile, come noi, non disturba più di tanto......... o no???????
Tutt'altro che arrecar disturbo caro Tamburini! Anzi... trovo piacere nel leggervi perché credo di affinare così la mia cultura della voce. Lo spavento viene dalle insicurezze dello studente e da quelle che di per sé genera l'arte del canto non esistendo altra "prova del nove" della correttezza dell'impostazione diversa dall'irrimediabile usura della voce. Soprattutto quando ci si rende conto che si può sputar fuori la voce in tanti modi prima di capire quello giusto! E a maggior ragione quando restano le ultime mete da raggiungere.
Erlkonig è forse l'unico Lied per il quale ho provato amore al primo ascolto.
Probabilmente perchè c'è una storia che richiama le nostre paure più antiche e che messa in musica fa rabbrividire, poi perchè il cantante deve in 3-4 minuti cambiare continuamente fraseggio e colore vocale per rappresentare il Narratore, il Padre, il Bimbo e il re degli ontani.
Geniale!!!
Grazie degli ascolti sempre splendidi.
Gli unici per qui provo un pò di perplessità sono stati Schlusnus e la Lawrence.
Il primo voce magnifica anche se un pò ingolata, ne da una versione chirurgica, quasi cinica.
Dalla Lawrence mi aspettavo più fantasia.
Lilli ne da una lettura stregonesca e diabolica, sembra quasi un'Azucena davanti al fuoco.
Johanna ha un fraseggio così cangiante che sembra di ascoltare 4 cantanti ed è l'unica che ne da una versione "Favolistica".
La grande Sigrid ricorda le sugestioni di Lovecraft e mette letteralmente i brividi (grazie anche al riverbero).
Panzera ne da una lettura razionale e angosciata ed è l'unico che rende seducente il Re, tutto giocato sul fior di labbro.
L'immenso Kipnis (ma quanto è grande?) nonostante la voce gigantesca e intinta nell'inchiostro riesce a trovare le inflessioni sia per il fanciullo ed è geniale nello schiarire la voce per il re. Magnifico!!!
Lotte è quella che la rende perfettamente come la vorrei interpretata.
L'introduzione che già prepara all'angoscia, il fanciullo che esprime esattamente l'infantile paura, il re falso e dolce come un moderno adescatore, il senso di morte e di minaccia nella voce, il nervosismo di certi passaggi.
Da Brivido!
Germaine è quella che ha il mistero già nella voce, implacabile nella scanzione delle parole, riesce a diventare una fata quindi ancora più pericolosa) per la voce del re degli elfi, e l'insicurezza del fanciullo...che meraviglia.
Ramey ci immerge già in una atmosfera gotica e melliflua, se il padre è raziocinnate il bambino, invero cresciutello non come Kipnis, trasmette l'effettiva angoscia e il re è minaccioso, ma troppo elegante.
Con Ernestine siamo dalle parti della Onegin e della Lotte Lehmann.
Aspinall mi sarebbe piaciuto vederlo.
E' sconvolgente l'intonazione e l'istrionismo da grande attore!
Grazie ancora
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