La diva impegnata e nomade che sono, i miei ingaggi mi hanno ancora una volta portata a Berlino dove il 1 maggio, quando tutta la città dimostrava fuori contro le ingiustizie inflitte dai potenti di questo mondo, ho preferito di deliziarmi ancora una volta della forma d’arte più borghese, conservatrice, decadente ed inutile assistendo al Don Carlo verdiano rappresentato alla Staatsoper di Berlino che per il momento funziona nel Schillertheater. E poche delizie mi sono procurata…
L’allestimento a firma di un certo Philipp Himmelmann è tipicamente eurotrash. Il concetto sarebbe di presentare la tragedia reale come un dramma di una famiglia disfunzionale, mentre l’unica cosa che risulta veramente disfunzionale è la regia stessa. Ultimamente abbiamo visti tanti dei Don Carli assolutamente privi di qualsiasi spettacolarità e di senso per la complessità dell’azione e psicologia schilleriana-verdiana, banali e monotoni, con le scene alternate senza alternanza di scenografia e di colori. Così anche in questo Don Carlo abbiamo uno spettacolo tutto in bianco-nero, qualche seggiola ed una sola tavola su cui si mangia, si beve, si balla, si fa lo spogliarello, si scopa e si muore. Sarà che in un periodo di crisi economica ci sono poche possibilità per allestire un Don Carlo lussuoso, ma non si può nemmeno ridurre un’opera di tante faccette psicologiche, scene festive e notturne, massive ed intime, profane e religiose ad una tavola e due-tre pallidi cambiamenti d’illuminazione. Ed a redimere questo pallore non servono sicuramente i frammentari “coup de genie” come un’Elisabetta che inizia a stirare nella parte finale del duetto del primo atto con Carlo o un Filippo che all’inizio della scena del gabinetto ritroviamo proprio nel momento di orgasmo dopo il coito (sulla mitica tavola, ben inteso!) con Eboli.
Per questo trovo particolarmente peccato che il maestro Massimo Zanetti non abbia resa particolarmente eloquente la sua orchestra soprattutto nei momenti monumentali che richiedevano più volume e colori, come nell’intera scena dell’autodafé dove invece il coro di Eberhard Friedrich ha dimostrato ancora una volta la sua ottima preparazione. Il signor Zanetti si è mostrato più a suo agio nelle scene di carattere intime e personali, dipingendo con grande varietà di accento ed un raffinato odorato per la coerenza drammatica sia l’intero complesso quadro del gabinetto che la scena notturna nel giardino o la morte di Posa. Ha fatto anche il massimo nel accompagnare i cantanti con moderato volume orchestrale nei momenti più impegnanti ed usando sempre il giusto ritmo, anche lì dove i cantanti stessi, ostaggi tanto della regia insensata e faticosa quanto delle proprie perplessità vocali, facevano niente o poco per rendere plausibile il dramma e la musica al pari del direttore.
Iniziamo col personaggio gerarchicamente più alto, ossia il Filippo II della star di casa, René Pape. Avendo letto una recensione della prima che dichiarava che con questa produzione si trattasse di un Don Carlo “di” René Pape, incontrando dappertutto la grande pubblicità che lo circonda e considerando che, rispetto a quello che oggi siamo di solito costretti a sentire, un basso-baritono come René Pape è comunque un’artista generalmente apprezzabile, mi aspettavo ad una prestazione se non di altissima levatura, allora almeno di una qualità vocale convincente. Invece il Filippo di Herr Pape è risulto del tutto privo di qualsiasi autentica regalità e dimensione tragica-malinconica, poco sonoro (a parte qualche bella nota centro-acuta) anche in una minuscola sala come quella del Schillertheater e – ancora più che nella recentissima Valchiria berlinese – sempre in lotta ed al limite con il peso del ruolo. La voce è quella che è: piccola, piuttosto omogenea nell’emissione in tutti i registri, anche se non completamente immascherata (e quindi, anche poco “corrente”). Le intenzioni musicali ci saranno, anzi, ma le loro risoluzioni vocali lasciano piuttosto perplessi: nella grande aria le frasi come “Ella giammai m’amò” o “Se dorme il prence” sono tutte falsettate o letteralmente sussurrate nel peggior modo naturalistico per esprimere banalmente l’ansia o la tristezza. La parte più sonora della voce rimane, come già indicato, il registro centro-acuto, e questo non perché nel centro ed in basso non avrebbe “niente”, ma piuttosto per il motivo che Herr Pape non appoggia comme il faut il suono quando canta nella zona inferiore. Insomma, un Filippo senza mordente e sempre al limite dei propri mezzi nei momenti che richiedono il massimo accento. Dopo l’aria ed alle uscite finali per lui un entusiasmo generico e spento prestissimo.
Rispetto al padre, l’infante, incarnato (forse anche con… troppa carne…) da Fabio Sartori sembrava un prodigio vocale, anche perche nella piccola sala la sua voce ben dotata risultava molto sonora. A parte le difficoltà d’intonazione nel duetto con Posa, ha cantato solidamente, ma senza molta varietà di fraseggio, l’intera parte ed è stato il migliore nel cast, ma il sistema di canto del signor Sartori suscita comunque qualche dubbio. L’emissione è piuttosto bassa in tutti i registri, nella zona acuta la voce va indietro e lo squillo che assordava le orecchie nella piccola sala è ottenuto più per uno sforzamento del suono aperto che per un libero andamento della voce correttamente coperta. Così anche l’abbondante sonorità della voce risulta più stancante che impressionante e convertibile in un’autentica esperienza estetica-acustica. Alla fine – i più grandi applausi e meritatamente, perché almeno una voce ce l’ha dimostrata.
Il baritono Alfredo Daza quale Rodrigo tende regolarmente ad abbaiare in acuto ed a spingere in genere, perché la voce rimane parzialmente bloccata dalla propria emissione ingorgata. Per questo anche timbricamente la voce riceve una qualità piuttosto sgradevole e, malgrado le parecchie intenzioni (come anche la prova di trillare – solo tremolando, in verità – nella prima aria), il personaggio risulta più aggressivo che nobile. Un generale successo anche per lui.
E adesso le signore… L’Elisabetta di Amanda Echalaz o urla o miagola appena sale in zona acuta, perché non appoggia un sol suono, è vuota in basso su cui si estende abbondantemente la tessitura del ruolo, ed è o gutturale o nasale nel centro. Riprende fiato dopo ogni tre note, lasciando andare in pezzi ogni frase, non provando e non potendo mai legare. Ha miagolato tanto nel “Tu che le vanità” a ricevere un “buu” subito dopo l’aria – un “buu” rotondo, ma di colore soffocato perché di tecnica teutonica e non iniziata nei segreti dell’onorabile scuola italiana ed il buu immascherato e sostenuto sul fiato. E’ stata una contestazione spontanea tipicamente berlinese contro l’inspiegabile entusiasmo che aveva suscitato questa penosa esecuzione – il più grande entusiasmo della serata, più grande anche degli applausi – in verità, pochi – dopo l’aria della star ufficiale René Pape.
Per quanto riguarda la nostra Eboli, che cosa potrei dirvi sulla signora Nadia Krasteva? Ho finito la mia carriera nella prima metà dell’ottocento e da allora vagabondo quale spettro in tutti i teatri del mondo, ma fino adesso non mi ero pure accorta che avevano canonizzato nel regolamento di vocalità suoni da lavatrice meccanica nello stato bloccato e gorgogliante. Perché più di una “tigre ferita”, l’Eboli di Nadia Krasteva assomigliava ad una gallina in procinto di essere strangolata o un acquedotto stoppato (siamo sempre alle metafore acquatiche…), una voce intubata ed artificiosamente scurita fino all’insopportabile nel centro ed in basso, e per questo talmente penosa e transennata in alto a non potere emettere altro che un gemito soffocato al posto di un do bemolle ed un si bemolle nell’aria finale. Complice anche una regia banale e di cattivo gusto, il suo personaggio era reso eccessivamente volgare, nel “concetto” registico tenendo la funzione della “bad girl” di casa. Un generale indifferente entusiasmo anche per lei, con un singolo buu ancora una volta dalla parte da dove aveva sparato l’assalitore della regina.
Imponente, ma stomacale l’Inquisitore di Rafael Siwek, in ogni caso molto più carismatico e maestoso del re. Poco significante il Frate di Andreas Bauer, cantando pure con garbo ed un bel legato la prima scena. Accettabili i vari comprimari al di fuori della Voce dal Cielo della brasiliana Adriane Queiroz i cui impegni importanti alla Staatsoper in diverse opere (soprattutto per la prossima stagione) lasciano stupiti visto che si tratta di una voce certamente non di brutto timbro da soprano leggero, ma tutta priva di qualsiasi consistenza ed omogeneità nella gestione sia del timbro sia dei registri della voce. Che si canti “dal cielo” non vorrebbe comunque dire che si canti “in aria” e senza ogni sostegno di respirazione.
Insomma, una serata poco brillante, malgrado la presenza di qualche star attualmente risplendente in cui sono state soprattutto le signore ad avere toccato un livello talmente basso da sembrare difficilmente raggiungibile. Non hanno lasciato tante chance né a se stessi né al pubblico nemmeno i signori, soprattutto il re ed il suo confidente. Una compagnia che in un pezzo come il quartetto del gabinetto sembrava il quartetto dei musicanti di Brema. Lascio a voi la distribuzione della corrispondenza fra personaggi regali ed animali.
L’allestimento a firma di un certo Philipp Himmelmann è tipicamente eurotrash. Il concetto sarebbe di presentare la tragedia reale come un dramma di una famiglia disfunzionale, mentre l’unica cosa che risulta veramente disfunzionale è la regia stessa. Ultimamente abbiamo visti tanti dei Don Carli assolutamente privi di qualsiasi spettacolarità e di senso per la complessità dell’azione e psicologia schilleriana-verdiana, banali e monotoni, con le scene alternate senza alternanza di scenografia e di colori. Così anche in questo Don Carlo abbiamo uno spettacolo tutto in bianco-nero, qualche seggiola ed una sola tavola su cui si mangia, si beve, si balla, si fa lo spogliarello, si scopa e si muore. Sarà che in un periodo di crisi economica ci sono poche possibilità per allestire un Don Carlo lussuoso, ma non si può nemmeno ridurre un’opera di tante faccette psicologiche, scene festive e notturne, massive ed intime, profane e religiose ad una tavola e due-tre pallidi cambiamenti d’illuminazione. Ed a redimere questo pallore non servono sicuramente i frammentari “coup de genie” come un’Elisabetta che inizia a stirare nella parte finale del duetto del primo atto con Carlo o un Filippo che all’inizio della scena del gabinetto ritroviamo proprio nel momento di orgasmo dopo il coito (sulla mitica tavola, ben inteso!) con Eboli.
Per questo trovo particolarmente peccato che il maestro Massimo Zanetti non abbia resa particolarmente eloquente la sua orchestra soprattutto nei momenti monumentali che richiedevano più volume e colori, come nell’intera scena dell’autodafé dove invece il coro di Eberhard Friedrich ha dimostrato ancora una volta la sua ottima preparazione. Il signor Zanetti si è mostrato più a suo agio nelle scene di carattere intime e personali, dipingendo con grande varietà di accento ed un raffinato odorato per la coerenza drammatica sia l’intero complesso quadro del gabinetto che la scena notturna nel giardino o la morte di Posa. Ha fatto anche il massimo nel accompagnare i cantanti con moderato volume orchestrale nei momenti più impegnanti ed usando sempre il giusto ritmo, anche lì dove i cantanti stessi, ostaggi tanto della regia insensata e faticosa quanto delle proprie perplessità vocali, facevano niente o poco per rendere plausibile il dramma e la musica al pari del direttore.
Iniziamo col personaggio gerarchicamente più alto, ossia il Filippo II della star di casa, René Pape. Avendo letto una recensione della prima che dichiarava che con questa produzione si trattasse di un Don Carlo “di” René Pape, incontrando dappertutto la grande pubblicità che lo circonda e considerando che, rispetto a quello che oggi siamo di solito costretti a sentire, un basso-baritono come René Pape è comunque un’artista generalmente apprezzabile, mi aspettavo ad una prestazione se non di altissima levatura, allora almeno di una qualità vocale convincente. Invece il Filippo di Herr Pape è risulto del tutto privo di qualsiasi autentica regalità e dimensione tragica-malinconica, poco sonoro (a parte qualche bella nota centro-acuta) anche in una minuscola sala come quella del Schillertheater e – ancora più che nella recentissima Valchiria berlinese – sempre in lotta ed al limite con il peso del ruolo. La voce è quella che è: piccola, piuttosto omogenea nell’emissione in tutti i registri, anche se non completamente immascherata (e quindi, anche poco “corrente”). Le intenzioni musicali ci saranno, anzi, ma le loro risoluzioni vocali lasciano piuttosto perplessi: nella grande aria le frasi come “Ella giammai m’amò” o “Se dorme il prence” sono tutte falsettate o letteralmente sussurrate nel peggior modo naturalistico per esprimere banalmente l’ansia o la tristezza. La parte più sonora della voce rimane, come già indicato, il registro centro-acuto, e questo non perché nel centro ed in basso non avrebbe “niente”, ma piuttosto per il motivo che Herr Pape non appoggia comme il faut il suono quando canta nella zona inferiore. Insomma, un Filippo senza mordente e sempre al limite dei propri mezzi nei momenti che richiedono il massimo accento. Dopo l’aria ed alle uscite finali per lui un entusiasmo generico e spento prestissimo.
Rispetto al padre, l’infante, incarnato (forse anche con… troppa carne…) da Fabio Sartori sembrava un prodigio vocale, anche perche nella piccola sala la sua voce ben dotata risultava molto sonora. A parte le difficoltà d’intonazione nel duetto con Posa, ha cantato solidamente, ma senza molta varietà di fraseggio, l’intera parte ed è stato il migliore nel cast, ma il sistema di canto del signor Sartori suscita comunque qualche dubbio. L’emissione è piuttosto bassa in tutti i registri, nella zona acuta la voce va indietro e lo squillo che assordava le orecchie nella piccola sala è ottenuto più per uno sforzamento del suono aperto che per un libero andamento della voce correttamente coperta. Così anche l’abbondante sonorità della voce risulta più stancante che impressionante e convertibile in un’autentica esperienza estetica-acustica. Alla fine – i più grandi applausi e meritatamente, perché almeno una voce ce l’ha dimostrata.
Il baritono Alfredo Daza quale Rodrigo tende regolarmente ad abbaiare in acuto ed a spingere in genere, perché la voce rimane parzialmente bloccata dalla propria emissione ingorgata. Per questo anche timbricamente la voce riceve una qualità piuttosto sgradevole e, malgrado le parecchie intenzioni (come anche la prova di trillare – solo tremolando, in verità – nella prima aria), il personaggio risulta più aggressivo che nobile. Un generale successo anche per lui.
E adesso le signore… L’Elisabetta di Amanda Echalaz o urla o miagola appena sale in zona acuta, perché non appoggia un sol suono, è vuota in basso su cui si estende abbondantemente la tessitura del ruolo, ed è o gutturale o nasale nel centro. Riprende fiato dopo ogni tre note, lasciando andare in pezzi ogni frase, non provando e non potendo mai legare. Ha miagolato tanto nel “Tu che le vanità” a ricevere un “buu” subito dopo l’aria – un “buu” rotondo, ma di colore soffocato perché di tecnica teutonica e non iniziata nei segreti dell’onorabile scuola italiana ed il buu immascherato e sostenuto sul fiato. E’ stata una contestazione spontanea tipicamente berlinese contro l’inspiegabile entusiasmo che aveva suscitato questa penosa esecuzione – il più grande entusiasmo della serata, più grande anche degli applausi – in verità, pochi – dopo l’aria della star ufficiale René Pape.
Per quanto riguarda la nostra Eboli, che cosa potrei dirvi sulla signora Nadia Krasteva? Ho finito la mia carriera nella prima metà dell’ottocento e da allora vagabondo quale spettro in tutti i teatri del mondo, ma fino adesso non mi ero pure accorta che avevano canonizzato nel regolamento di vocalità suoni da lavatrice meccanica nello stato bloccato e gorgogliante. Perché più di una “tigre ferita”, l’Eboli di Nadia Krasteva assomigliava ad una gallina in procinto di essere strangolata o un acquedotto stoppato (siamo sempre alle metafore acquatiche…), una voce intubata ed artificiosamente scurita fino all’insopportabile nel centro ed in basso, e per questo talmente penosa e transennata in alto a non potere emettere altro che un gemito soffocato al posto di un do bemolle ed un si bemolle nell’aria finale. Complice anche una regia banale e di cattivo gusto, il suo personaggio era reso eccessivamente volgare, nel “concetto” registico tenendo la funzione della “bad girl” di casa. Un generale indifferente entusiasmo anche per lei, con un singolo buu ancora una volta dalla parte da dove aveva sparato l’assalitore della regina.
Imponente, ma stomacale l’Inquisitore di Rafael Siwek, in ogni caso molto più carismatico e maestoso del re. Poco significante il Frate di Andreas Bauer, cantando pure con garbo ed un bel legato la prima scena. Accettabili i vari comprimari al di fuori della Voce dal Cielo della brasiliana Adriane Queiroz i cui impegni importanti alla Staatsoper in diverse opere (soprattutto per la prossima stagione) lasciano stupiti visto che si tratta di una voce certamente non di brutto timbro da soprano leggero, ma tutta priva di qualsiasi consistenza ed omogeneità nella gestione sia del timbro sia dei registri della voce. Che si canti “dal cielo” non vorrebbe comunque dire che si canti “in aria” e senza ogni sostegno di respirazione.
Insomma, una serata poco brillante, malgrado la presenza di qualche star attualmente risplendente in cui sono state soprattutto le signore ad avere toccato un livello talmente basso da sembrare difficilmente raggiungibile. Non hanno lasciato tante chance né a se stessi né al pubblico nemmeno i signori, soprattutto il re ed il suo confidente. Una compagnia che in un pezzo come il quartetto del gabinetto sembrava il quartetto dei musicanti di Brema. Lascio a voi la distribuzione della corrispondenza fra personaggi regali ed animali.
1 commenti:
Mia cara amica,
la vostra lingua italiana si avvicina orami alla perfezione...
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