giovedì 23 giugno 2011

Les Huguenots a Bruxelles

Il grand-opéra è – tra tutti i generi operistici – quello che oggi ci appare più distante dalla nostra sensibilità. Finita l’epoca dei grandi divi, infatti, e dell’opera intesa come mero intrattenimento popolare (ruolo oggi ricoperto dal cinema o da altre forme di spettacoli di massa) – entrambi elementi portanti del genere – il grand-opéra ha mostrato tutti i suoi limiti. E’ necesssario, dunque, trovare nuovi motivi d’interesse per una sua moderna riproposizione: circoscrivendoli essenzialmente alle sue ragioni musicali e culturali. Nato “ufficialmente” nel 1828 (tradizionalmente si indica La Muette de Portici di Auber, come “primo” grand-opéra), in realtà deriva da una precisa evoluzione di certi elementi del teatro musicale francese (anche se non propriamente autoctoni): la tradizione delle opéra-ballet secentesche (introdotte dall’italiano Lully e poi sviluppatesi nella tragédie-lyrique), le grandi costruzioni spontiniane e cherubiniane modellate su Gluck, la vocalità rossiniana che nella prima metà dell’800 aveva conquistato Parigi (si pensi al Rossini francese del Moïse et Pharaon, Le siége de Corinthe e, successivamente, del Guillaume Tell). Il genere presto conquistò il pubblico della Francia restaurata e del secondo Impero, creando una generazione di compositori “specializzati” e favorendo la nascita di una vera e propria “industria” di grand-opéra che, tra alterne fortune, restò vitale sino alla fine del secolo.

Il teatro musicale francese (particolarmente rigido nelle categorie e nelle codificazioni) si trovò così suddiviso in opéra-comique (composizioni più agili e “leggere”, caratterizzate dall’alternanza tra brani cantati e dialoghi recitati) e, appunto, grand-opéra. Campioni del genere furono Auber, indicato (anche se erroneamente) come capostipite, Meyerbeer, Halevy, Gounod, Thomas sino a Massenet e Saint-Saens, oltre a tutti i minori. Naturalmente anche i compositori stranieri che sbarcavano a Parigi – a parte la parentesi del Theatre des Italiennes – dovevano adeguarsi alle esigenze del nuovo genere componendo (o rielaborando) dei veri e propri grand-opéra: da Donizetti (con La Favorite e il Dom Sebastien) a Verdi (Jerusalem, Les Vêpres Siciliennes e, soprattutto, Don Carlos) sino allo sfortunato Wagner (con l’incompreso Tannhauser). Gli ingredienti comuni, coi quali venivano “confezionati” senza possibilità di varianti rispetto al modello, possono essere sintetizzati in questi elementi:
1) uno sfondo storico “grandioso”, basato su scontri epocali, epopee religiose o grandi conflitti, preferibilmente collocati nel periodo rinascimentale o medievale (erano gli anni della riscoperta romantica dei “secoli bui” e delle suggestioni “gotiche”);
2) passioni “private” che si intrecciano alle vicende storiche e che ne sono condizionate: amori contrastati da culture o fedi diverse, destinati a tragici epiloghi;
3) una struttura drammatica monumentale: divisione in cinque atti ricchi di cambi di scena, con larga presenza di cori e personaggi minori;
4) balletti “obbligatori” solitamente inseriti a metà dell’opera, per permettere ai ritardatari di potervi assistere (tra le critiche mosse a Wagner vi fu l’accusa di aver inserito i balletti al primo atto di Tannhauser);
5) esibizionismo canoro particolarmente “spinto”, derivato essenzialmente dalla elaborata (e imprescindibile) esuberanza vocale rossiniana.
Incontrastato sovrano del genere fu per lungo tempo Giacomo Meyerbeer.
Nato vicino a Berlino nel 1791, dopo la gavetta musicale in Italia (dove, scrivendo opere lunghissime e noiosissime sulla falsariga di Rossini, apprenderà il “mestiere”), trovò il successo vero a Parigi, dove legò il suo nome ai maggiori trionfi del genere (da Robert le Diable a Les Huguenots, da Le Prophéte a L’Africaine, rappresentata postuma). La musica di Meyerbeer – fatto oggetto di un vergognoso libello antisemita scritto dal livoroso Wagner (invidioso per i successi da cui lui era ancora escluso) e largamente sfruttato dalla politica culturale nazionalsocialista nell’edificazione del Reich “millenario” – si caratterizza per un uso sapiente di tutto l’armamentario di cui allora disponeva il teatro musicale. La mancanza di una vena originale e di un’ispirazione autentica, veniva compensata da un’orchestrazione virtuosistica e ricca di effetti, assai complessa e “d’impatto” sicuro, dalla sicurezza nella gestione di una macchina teatrale “smisurata” (anche nella durata), dalla delirante difficoltà della scrittura vocale. Les Huguenots (che, sullo sfondo dei massacri della Notte di San Bartolomeo, quando i cattolici trucidarono nella sola Parigi più di 2.000 protestanti, narra le vicende contrastate di un amore reso impossibile dal fanatismo religioso) furono rappresentati la prima volta alla Salle Le Peletier, il 29 febbraio del 1836, protagonisti i principali divi dell’epoca: Julie Dorus-Gras (Marguerite de Valois), Marie Cornélie Falcon (Valentine), Adolphe Nourrit (Raoul de Nangis), Nicolas-Prosper Levasseur (Marcel) e Prosper Dérivis (Comte de Nevers) – in una ripresa successiva venne ampliato il ruolo del paggio Urbain, in omaggio all’interprete: Marietta Alboni. Fu un successo senza precedenti: tanto da raggiungere le 1.000 repliche nel 1906, e, per più di un secolo dalla sua composizione, non conobbe declino (fu eseguita in tutti i teatri del mondo e da tutti i più grandi interpreti). Ovviamente il successo e la diffusione comportarono necessariamente patteggiamenti (a volte particolarmente dolorosi) con il mutare del gusto e delle circostanze: tagli, modifiche, aggiunte, spostamenti interni, sfigurarono – nel tempo – la complessa architettura immaginata da Meyerbeer, banalizzandola inesorabilmente. Sino ad arrivare ai giorni nostri: l’opera, almeno nella forma maggiormente conosciuta oggi, e di cui si ha memoria o testimonianza, è molto diversa dalla creazione originale, poiché su di essa si sono stratificate tradizioni differenti. Tuttavia, nonostante i rimaneggiamenti posteriori, Les Huguenots (o Gli Ugonotti, nella pessima traduzione italiana con cui si è diffusa), lentamente è sparita dalla programmazione teatrale. Imperdibile, dunque, la ripresa alla Monnaie di Bruxelles, in questo giugno 2011 (personalmente ho assistito alla recita del 17). Innanzitutto per l’approccio esecutivo: l’opera, infatti, viene eseguita nella sua integralità (per un totale di 4 ore e 10 minuti di musica – per intenderci, Bonynge, nella sua incisione “ufficiale”, elimina più di mezz’ora), salvo alcuni piccolissimi tagli, necessari per non superare il limite delle 5 ore (intervalli compresi) previsto contrattualmente per le maestranze del teatro, e limitati a qualche breve passaggio di recitativo, la ripetizione di un coro di damigelle nell’atto II oltre a qualche potatura nel balletto e nel finale III, per dare un po’ di respiro a Raoul (quello che Bonynge, ancora, riduce ad uno scampolo di pochi minuti, è, in realtà, un lungo brano dalla struttura musicale elaborata e imponente). In compenso sono stati reinseriti il Rondeau di Urbain “Non, non, non, vous n’avez jamais je gage”, aggiunto da Meyerbeer per la ripresa del 1847 a Londra, e il suggestivo Choral di Marcel “Veille sur nous, grand Dieu du Ciel” dopo il coprifuoco dell’atto III, non incluso da Meyerbeer nella versione definitiva dell’opera. Viene poi utilizzata la nuova edizione critica predisposta da Ricordi (ma non ancora pubblicata), permettendo così di riscoprire il vero aspetto dell’opera, ripulito da tutte le aggiunte e incrostazioni che ne avevano snaturato il volto (si sono ritrovate molte finezze strumentali andate perdute nel corso degli anni, a causa di certa tradizione esecutiva).

A tenere le fila di questa complessa operazione culturale (che ha comportato enormi sforzi organizzativi, impegno artistico e filologico, senza mai confondere lo spettacolo con il saggio musicologico), il francese Marc Minkowski: direttore che garantisce la necessaria correttezza metodologica e che, contemporaneamente, è sempre molto attento alle ragioni del teatro. Più conosciuto – almeno in Italia – per le sue frequentazioni “barocche” (le più testimoniate discograficamente, attraverso l’attività dei “suoi” Musiciens du Louvre), in realtà i suoi interessi si sono sempre rivolti ad orizzonti più vasti (la sua attività teatrale è molto varia), in particolare quella terra sterminata (e ancora poco esplorata), che è l’800 musicale, di cui ha approfondito con passione e competenza la prassi esecutiva. Particolarmente congeniale gli è la materia del grand-opéra che ha già dimostrato di saper gestire con dimestichezza e visione d’insieme (nel 2001 diresse un’attendibile Robert le Diable a Berlino). Pregio maggiore della sua direzione, infatti, è la restituzione di unitarietà ad un genere che (anche nel recente passato) è stato ridotto ad un insieme insipido di singoli episodi isolati, funzionale alla mera esibizione divistica (complice il gusto dell’epoca, i tanti tagli – che impedivano una visione complessiva dell’opera – e la qualità non certo indimenticabile della musica). Merito di Minkowski, dunque, è dare un significato al tutto, senza cali di tensione nel discorso narrativo: per la prima volta Les Huguenots possiedono un certo senso teatrale! Altro merito non da poco è l’esserci riusciti disponendo di un’orchestra tutt’altro che impeccabile (la scrittura di Meyerbeer è molto complessa). Nonostante le sbavature e qualche sbandamento, però, l’Orchestre symphonique de la Monnaie, osserva con scrupolo le prescrizioni del direttore circa la prassi esecutiva strumentale: ripensamento degli equilibri orchestrali senza la predominanza degli archi, uso attento ed espressivo del vibrato, sonorità trasparenti, fraseggio sfumato, dinamica variegata, senza alcuna concessione a certa retorica, al clangore di piatti e timpani o a volumi eccessivi). Da rimarcare (grazie all’utilizzo della nuova edizione critica) l’utilizzo di strumenti particolari: la viola d’amore che accompagna l’aria di Raoul “Plus blanche que la blanche hermine” (con un effetto nuovo e straniante che avrebbe però beneficiato di un più valente strumentista) o il clarinetto basso nella scena del cimitero nell’atto V. Preziosismi, forse, ma che contribuiscono a dare la misura dell’importanza e della serietà della produzione. Minkowski, dal vivo, si conferma un ottimo concertatore: gestisce con sicurezza e precisione il rapporto palco/buca, nulla sfuggendo al suo gesto (emblematici i grandi finali d’atto o il Settimino). Particolarmente apprezzabile, poi (nella generale scarsità di direttori sensibili alle ragioni del canto e capaci di lavorare “con” e non “contro” il cantante) l’accompagnamento dei solisti: Minkowski aiuta, sostiene, segue i suoi interpreti, soprattutto quando la stanchezza (inevitabile per durata e impegno) inizia a farsi sentire. Anche la musica delle danze è restituita con quel giusto garbo frizzante, leggero e ironico, che ne rende piacevole la sostanziale inconsistenza. Ottimo anche il coro (diretto da Martino Faggiani, già direttore di Santa Cecilia). Quanto alla compagnia di canto, com’era logico aspettarsi (data la lunghezza e gli sforzi richiesti), ha alternato a momenti buoni o ottimi, altri di stanchezza e difficoltà. Prima di considerare in modo più analitico i singoli interpreti è opportuna una premessa: ho ascoltato il secondo cast dell’opera per una scelta ben precisa, e non come ripiego maldestro. Lo stesso Minkowski, peraltro, esplicita le ragioni della scelta dei diversi cantanti, per nulla condotta con la logica del “rimpiazzo”, ma secondo precise valutazioni artistiche: del resto in un lavoro così esigente e vocalmente ambiguo, due cast complementari e diversi, permettono maggiori possibilità di esplorazione. Ma riporta le sue stesse parole (onde evitare polemiche pretestuose o sgradevoli malizie): “nous avons prévu une double distribution pour les rôles principaux, avec parfois des types de voix différents pour un méme rôle: Urbain est par example tour à tour incarné par une sopran lyrique et une mezzo. Nous avons un Raoul grand lyrique, un autre lyrique léger, ce qui correspond à ce que Meyerbeer a pu connaître avec Nourrit et Gilbert Duprez (le successeur de Nourrit dans Robert le diable, Les Huguenots, La Juive et la Muette de Portici”. Cast scientemente diversi, dunque, e non scelta casuale o “low cost”.
Ma procediamo con ordine. Henriette Bonde-Hansen (Marguerite de Valois), è stata, per me, la sorpresa della serata: pur con qualche difficoltà nel registro superiore (percepibile talora in “Ô beau pays de la Touraine”), ha dominato il ruolo con sorprendente sicurezza, buona coloratura e voce piena e sonora: ottimo il duetto con Raoul e splendido il Finale II dove “tira” il concertato e non si risparmia in nulla. Ingela Brimberg (Valentine), applauditissima alla fine, ha avuto qualche momento di incertezza nell’aria dell’atto III “Parmi le pleurs”, ma per il resto ha ben rappresentato il suo personaggio (sottolineandone la drammatica fierezza piuttosto che la malinconica mestizia). Blandine Staskiewicz (Urbain), è stata, invece, un paggio deludente: ma più dei suoni a volte ingolati e di certi acuti difficoltosi, sono mancati quella frivolezza e quel brio che caratterizzano la parte (soprattutto – come in questo caso – se si aggiunge il Rondeau), così come la spregiudicatezza nella coloratura. John Osborn (Raoul de Nangis) ha reso in modo attendibile una parte ingrata, lunghissima e ambigua. A cominciare dalla sortita con i suoi recitativi martellanti, a seguire un’aria di delirante difficoltà (per la sollecitazione del registro sovracuto “di testa” e l’uso delle mezzevoci) e poi duetti, arie e concertati dove nessuno sconto viene fatto al tenore. Osborn, forse non in forma perfetta, è apparso alterno: la prima strofa della prima aria ha denunciato qualche problema, ma già nel secondo couplet l’esecuzione è stata perfetta (peccato per il maldestro accompagnamento della viola d’amore); eccellenti il duetto con Marguerite “Beauté divine, enchantresse” e il Finale II; nel complesso buono l’atto III (in particolare il Finale, seppur alleggerito di qualche passaggio); deludente nel Gran Duo (a parte la stretta); davvero buono l’ultimo atto. La voce è sonora e abbastanza sicura, sale con facilità all’acuto e gestisce bene il registro “di testa”, ma, come Merritt, pare sbandare talvolta nell’intonazione. La lunghezza della parte, tuttavia, deve essere considerata una valida attenuante, così come la conseguente stanchezza (i due brevi intervalli, di 20 minuti ciascuno, erano collocati dopo i primi due atti e dopo il terzo: massacrante!). Buono nel complesso il reparto delle voci gravi, a parte il torniturante Philippe Rouillon (Comte de Saint-Bris). François Lis (Marcel), dopo un esordio non esaltante (a causa della bassissima tessitura del corale luterano) ha dipinto un personaggio agli antipodi delle grottesche caratterizzazioni in cui è degenerato il ruolo: un Marcel elegante, giocato sulla parola, che guarda a Plançon piuttosto che a Christoff. La stessa “Piff, paff” (brano di rara bruttezza), risultava meno volgare del solito. Tuttavia il migliore è stato Jean-François Lapointe (Comte de Nevers), che è riescito a mostrare le due anime del personaggio e il passaggio da nobile frivolo e annoiato (dedito ai piaceri del letto e della tavola, piuttosto che alle dispute religiose) al fiero guerriero d’un tempo, che si rifiuta di diventare un volgare assassino, attraverso un canto nobile e giovanile, non da orco trucibaldo. Senza infamia e senza lode i comprimari (ad eccezione dello sgradevole Tavannes di Avi Klemberg). Infine la deludente regia di Olivier Py. Nella cornice gradevole di una scena molto agile e dai colori ferrigni e opprimenti – che permetteva cambi veloci di scena e la possibilità di costruire diversi “ambienti”, attraverso l’utilizzo di quinte mobili, scalinate, archi, facciate di palazzi e larghi finestroni – si muove una regia che, per l’ansia di voler caricare di significati sottesi, finisce per risultare confusionaria e dispersiva. Premessa la scarsa dimestichezza con la gestione delle masse (il coro è quasi sempre lasciato immobile, schierato sulle ampie scalinate o in fila dietro ai solisti) Py si lascia andare a soluzioni spesso di cattivo gusto, di facile provocazione o di provinciale banalità. Molto maldestra (ed eccessivamente caricata) la festa dell’atto primo, trasformata in una specie di orgia maschile con tanto di accoppiamenti e svestizioni (ma per una sorta di par condicio, la stessa soluzione è adottata – in chiave saffica – nell’atto II con le baigneuses seminude); chiaramente ispirata al bel film di Chéreau La Reine Margot, da cui cerca di riprodurre con poco successo talune atmosfere, la presenza muta (quasi una sorta di eminenza grigia) di Caterina de’ Medici: idea narrativa interessante, ma che diviene grottesca nell’atto IV, quando, mentre i cattolici di Saint-Bris organizzano il massacro dei protestanti, la “vecchia megera”, seduta al tavolo con loro, sbocconcella un pezzo di pollo e tracanna un bicchiere di vino, per poi lasciarsi andare a smorfie orgasmiche durante la benedizione dei pugnali; poco intellegibile la scelta dei costumi: le donne con abiti rinascimentali, mentre gli uomini (all’inizio in giacca e cravatta) alternavano, nel corso dell'opera, armature dorate con gorgiere (cattolici) e marsine ottocentesche (protestanti), brandendo a turno mitragliatori e croci bianche. Belle alcune soluzioni come la luna enorme che illumina la scena all'apertura dell'atto II. Di sconfortante banalità la scena finale: il coro, vestito come gli ebrei cacciati dal ghetto di Varsavia, veniva sterminato contro un muro da una specie di automa senza volto in armatura dorata che brandiva due crocifissi. Nel complesso uno spettacolo importante che, pur tra alti e bassi, è riuscito a dare un senso (soprattutto teatrale e musicale) alla riproposta di un titolo mitico e complesso come Les Huguenots. Non tutto ha funzionato alla perfezione (in particolare l'aspetto visivo), ma resta comunque un evento che segna uno spartiacque nella storia della recente interpretazione operistica.


Cogliamo l'occasione offerta dalla recensione di Duprez per riproporre il Grande concerto meyerbeeriano dei 75.000 ingressi e gli articoli dedicati da Vivian Liff alla discografia de Les Huguenots. Gli ascolti sono stati ripristinati per l'occasione. Buon ascolto e, perdonate l'immodestia, buone riflessioni. - GG & soci

http://ilcorrieredellagrisi.blogspot.com/search/label/huguenots


37 commenti:

mozart2006 ha detto...

Complimenti a Duprez per la recensione e il perfetto inquadramento storico-stilistico.
Non entro nel merito di quanto scritto. Vorrei aggiungere solo una breve considerazione. A Bruxelles allestiscono Les Huguenots, a Stoccarda hanno messo in scena più che degnamente La Juive e Les Troyens, tanto per fare solo due esempi. In Italia, la Scala si barcamena tra Tosche, Rigoletti, Aide e Boheme, più qualche Britten o Janacek per rifarsi il look. Gli altri teatri italiani propongono quattro Lucie in meno di due mesi.
Oltre che di inadeguatezza esecutiva, qui si tratta proprio di inadeguatezza culturale.

Saluti.

Giambattista Mancini ha detto...

Mi complimento con Duprez per la bella recensione, anche se chiamarla recensione è un po’ riduttivo… praticamente è un saggio di musicologia e storia della musica!

E' questa la qualità che fa crepare di rabbia ed invidia gli amministratori dei... siti concorrenti... (dato che costoro stanno sempre qui a leggere, li saluto con la manina: ciao ciao! :P )

Interessanti le parole del direttore a proposito del doppio cast e della diversa natura vocale dei due tenori che interpretano Raoul. Vorrei partire da qui per fare una piccola riflessione.

Io non credo che la diversità tra Nourrit e Duprez si sostanziasse in una maggiore ampleur vocale del secondo rispetto al primo. Non credo cioè che si possa classificare Nourrit come “lyrique léger”, e Duprez come “grand lyrique”. Insomma, non bisogna pensare a Nourrit come ad una vocina, e fare invece di Duprez un “tenorone”... Al contrario, pare che Duprez in natura fosse assai poco dotato, avendo voce debole, velata, sombrée, e che solo con grande fatica riuscì a farne uno strumento potente (e pagò cari questi sforzi… la voce in breve tempo si deteriorò, come ebbe modo di predire quel sommo intenditore di voci che era Rossini). La voce di Nourrit invece era chiara e sonora, anche se di timbro non immacolato.
In ogni caso, la sostanziale differenza tra i due è di carattere tecnico-stilistico più che di peso vocale. Nourrit, tenore di grazia, rispettava tutte le buone maniere del “belcanto”, secondo cui la voce doveva svilupparsi uguale e facile lungo tutta l’estensione, passando senza forzature dalle note più gravi a quelle medie fino alle estreme note acute, e con la imprescindibile capacità di variare dinamica e colori (in Francia fu Nourrit il tenore prediletto da Rossini). Duprez era, come Nourrit, un tenore acuto (cioè non un tenore baritonale, come erano invece i tenori di forza rossiniani: Nozzari, Garcia e Donzelli… [c’è da chiedersi poi se questi ultimi non fossero dei veri e propri baritoni acuti - tenori sfogati...]), ma in vece della grazia belcantistica, preferì valersi della forza bruta, con risultati che accattivarono il pubblico (soprattutto quello francese… evidentemente più di bocca buona rispetto al pubblico italiano, anche in ragione della tradizione francese dell’urlo…), ma devastarono, insieme con le sue corde vocali, il canto morbido sfumato ed aggraziato… Il suo insomma era un canto muscoloso, impetuoso, travolgente, inadatto all’agilità e privo di nuance a mezza voce.
Se dovessi trovare un parallelismo con i cantanti che oggi conosciamo grazie alle registrazioni, direi che Nourrit era una sorta di Lauri-Volpi, Duprez invece qualcosa di vicino a Caruso o Del Monaco...
Dunque faccio senza dirlo… per me Nourrit riveste un fascino immensamente maggiore, e preferirei, oggi, che i cantanti guardassero più a lui, che a Duprez ed i suoi epigoni… ma non è affatto una questione di voce, tanta o poca… è una questione di tecnica e stile.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Innanzitutto grazie per l'apprezzamento!

Molto interessante il discorso sulle diverse vocalità di Duprez e Nourrit.

Concordo sul fatto che sia una forzatura immaginare un Duprez "tenorone" dalla voce stentorea: forzatura che ci viene dalla malcomprensione del suo repertorio avvenuto a cominciare dalla fine dell'800, quando il melodramma (Bellini e Donizetti) veniva rivisto in chiave tardo verdiana o, peggio, verista.

E' noto che Duprez "nascesse" come tenore lirico, quasi contraltino (sul modello di Rubini), e quindi di formazione "vecchio stampo" (con gli acuti estremi raggiunti in "falsettone").

Ad un certo punto però qualcosa cambia: il passaggio dall'uno all'altro (Nourrit/Duprez), però, non è sintomo di decadenza stilistica o "imbarbarimento", ma sintomo di evoluzione. La musica stava cambiando, lo stile si stavo evolvendo verso nuovi lidi, le esigenze estetiche stavano mutando: la vocalità rossiniana non era in grado di adattarsi alle esigenze dei tempi nuovi. Nasce un nuovo linguaggio, non più legado al "bello ideale" e all'astrazione. Ne è esempio la Lucia di Lammermoor.

Rossini - che non apprezzava e non capiva i tempi nuovi - era un nostaglico, e così vanno lette le sue previsioni funeste. E' ovvio che non comprendesse il canto muscolare, gli acuti "di petto", ma non si deve immaginare che qualunque cosa si distanzi da belcanto rossiniano sia "sbagliato". Eseguire Verdi o Donizetti con il linguaggio rossiniano sarebbe ridicolo e poco adatto: pensa alle ingombranti variazioni rossiniane per i Capuleti e Montecchi, o la scena dell'Ernani aggiunta da Verdi per Ivanov (scritta in stile rossiniano)...risultano estranee al contesto, omaggi nostalgici ad un tempo passato. Inutile riproporlo.

Poi il resto è questione di gusti, per carità...ma non parlerei di decadenza.

Tornando a Raoul de Nangis, la parte - come fa intendere giustamente Minkowski - riflette questa "crisi": ancora tendenzialmente fatta su misura per Nourrit, in realtà mostra una scrittura ibrida che porta naturalmente all'evoluzione romantica della musica. Si passa dall'astrazione del bello ideale alla poetica del sentimento (inteso come moto interiore dell'animo scosso dalla storia). La musica non si aggrappa più alle idee, ma dipinge delle sensazioni.

Certo è difficile segnare i limiti con la matita tra uno stile e l'altro...qualcosa sfugge e resta, come la vocalità di Duprez, in una zona di confine.

Antonio Cotogni ha detto...

Complimenti anche da parte mia per il bel saggio/recensione! Sorprendente che un cantante come Duprez abbia avuto come allievo Plancon... Probabilmente Duprez conosceva benissimo i fondamenti del Belcanto ed era perfettamente consapevole (avendoli provati sulla propria pelle) dei rischi del forzare la propria natura vocale! Anche Dame Emma Albani studiò con Duprez. E' un vero peccato che non avremo mai un ascolto (neppure precario) a supporto delle speculazioni sulle voci di questi intepreti leggendari.

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Anch'io non credo che tutte le vocalità che si allontanano dall'ideale rossiniano siano per se sbagliate. In primo luogo perché ogni nuovo stile, compositore e scrittura vocale conduceva ad un riorientamento dei cantanti nell'organizazzione delle loro tecniche - ad esempio, la scrittura verdiana pareva barbarica a certe orecchie, ma poi si è svilupata una scuola che ha saputo fornire una tecnica corrispondente alle esigenze verdiani. Era così in Wagner o nei veristi che tutti ponevano esigenze diversissime. Qualcuno magari pagava con la sua voce, ma conosciamo anche tante cariere costruite interamente su Wagner o su Verdi o sul verismo che hanno durato tanto e hanno durato in gloria (non solo cantanti dell'inizio del XX, ma si pensi anche ad una Flagstad o Nilsson). OGGI il problema non è il fatto che siamo già troppo troppo lontani dall'ideale rossiniano. Il vero problema è che l'approccio tecnico-stilistico è uguale, cioè ugualmente dilettantesco e superficiale, in qualsiasi repertorio. Abbiamo un repertorio chiuso (cioè "tradizionale") composto da diversi compositori, non c'è più nessun compositore moderno che potrebbe rivoluzionare il canto lirico con nouve esigenze uscite dalla sua scrittura vocale. Il problema è che c'è voglia di conservare il repertorio che abbiamo (si ama il Rigoletto come si ama il Tristan, e si vuole vedere in teatro Orlando furioso e Tosca e Elektra e Lucia e L'italiana in Algeri), ma non c'è più né competenza né la volontà né ormai una vera tecnica nel senso più "artigiano" del savoir-faire del canto che potrebbe rendere adeguato il canto alle opere di repertorio. Il punto è che quella tecnica belcantistica che nei suoi elementi più fondamentali (respirazione, impostazione etc.) non è mai stato "rivoluzionato", ma è sempre stata la BASI per ogni rivoluzione vocale da Donizetti fino a R. Strauss, ed è appunto quella tecnica che ormai non è più considerato come basi nemmeno per il repertorio propriamente belcantistico o romantico. E' in questo senso che un peggioramento graduale e storico (come quasi uno sviluppo fatale) non si può ascrivere ai cambiamenti delle scritture vocali per se o alla rivoluzione vocale di un Duprez. E' l'ignoramento del canto come di un fatto TECNICO nel senso più generale che è un problema. Certo che c'è sempre stato un fatto storico che ha influenzato cosi o cosi lo sviluppo della vocalità nel corso del XIX e nel XX secolo, ma appunto perché non c'è nessuna logica interna, astratta come uno spirito hegeliano che guiderebbe la storia del canto da un punto di assoluta gloria (castrati, poi Rossini) verso uno scadimento più miserabile, c'è la possibilità di cambiare qualcosa, prendere dei libri, leggere, studiare, ricercare, ascoltare e ricostruire dei modi di canto che saranno una vera basi per questa professione di gente straziati e infelici che oggi sono i cantanti (perché di quello come si canta oggi, io non sono sicuro che i cantanti ricevino piacere).
Io preferisco d'intendere "belcanto" in questo senso più largo che permette d'integrarci anche i repertori che non avevano più niente da fare con la musica concreta dei compositori belcantistici come Rossini. E' cosi che si potrà reclamare come ideali wagneriani-straussiani una Nilsson o una Flagstad, cantanti fenomenali nella gestione del fiato e nella proezione, o un Pertile ed una Olivero che sono veristi nel senso più esasperato, ma eseguono tutti i suoi "effetti" naturalistici-realistici sul fiato e nell'ambito della tecnica belcantistica inteso nel senso più generale. E' cosi che si potrà dimostrare che in qualsiasi repertorio del canon odierno (dal barocco a Puccini) il canto sul fiato ed immascherato e proiettato è non solo la soluzione più coretta stilisticamente, ma anche la soluzione più prattica, perché risparmia le corde vocali + rende possibile una maggior flessibilità stilistica-espressiva.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Non trovo sia così sorprendente. Intendendo il termine "belcanto" come circoscritto ad un stile delimitato da precise coordinate temporali (ossia l'Opera Seria e, per esteso, a Rossini), né Duprez né, soprattutto, Plançon possono essere definiti "belcantisti". Il primo sicuramente ha avuto una formazione belcantista per poi mutare il suo linguaggio interpretativo attraverso le esigenze differenti che l'attualità del progresso musicale imponeva, il secondo, invece, che ha debuttato nel 1877 (quando, cioè, la musica si era evoluta da Handel a Massenet), non può essere considerato in alcun modo un archetipo di belcanto. Plançon era cantante tardo ottocentesco e come tale era immerso nella sua epoca, così come il suo maestro Duprez (anche lui non è stato certamente impermeabile all'evoluzione musicale, e ben conscio - anche nell'insegnamento - che non si potessero cantare i Meistersinger come Semiramide). Non si può immaginare che il canto ottocentesco sia uno e uno solo, atteso che - col passare del tempo - stile ed elementi tecnici mutano e si adeguano (l'esempio del Do di petto è emblematico, così come i portamenti). Io non credo affatto, poi, che Duprez abbia forzato la sua natura vocale, o che si sia "rovinato" la voce (a questo punto chiunque non canti Rossini si dovrebbe rovinare la voce?): semplicemente ha utilizzato un nuovo, diverso e affascinante linguaggio...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Però Giuditta, non si possono prendere certe elaborazioni teorico metodologico scritte nel '700 e pretendere di applicarle a Wagner (o a Strauss). Ci sono ovviamenti elementi tecnico-vocali che costituiscono il differenziale tra canto impostato e altro, ma esistono moltissime soluzioni tecniche che col tempo sono mutate, sparite o comparse. Il "belcanto" è delimitato ad un certo repertorio, ed estenderlo porta a confusioni (anche terminologiche): non si può affrontare Parsifal con la stessa impostazione vocale (in termine di proiezione, uso dei fiati e accorgimenti tecnici, importanza della parola drammatica) con cui si canta l'Agrippina...altrimenti mi si dovrebbe dire come mai la Sutherland in Wagner o delude o è improponibile, mentre in Norma è straordinaria. Ovviamente c'è una grammatica comune, ma essa si declina in stile ed elementi tecnici diversi (il Do di petto, ad esempio, non esisteva...poi alla fine è comparso: innovazione tecnica). La Flagstad, la Nilsson, la Olivero...non possono essere considerate cantanti belcantiste, poiché usano un linguaggio espressivo completamente diverso.

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Ho usato il belcanto nel senso più largo esattamente per il motivo che un fondamento commune elementarissimo c'è fra tutti questi cantanti che menzioni, malgrado lo stile e l'espressività diversi. Quest'ultima differenza non la nego e non è in quel senso che voglio che Wagner si canti come Rossini. Voglio solo sottolineare (e che è una cosa che non dico solo io) che per arrivare ai risultati soddisfacenti sia in Rossini sia in Wagner bisogna cantare sul fiato e con voce proiettata, per prendere gli aspetti più basilari del canto. E' in questo senso molto molto generale che pure una Nilsson può esere considerata come esponente di un canto i cui fondamenti sono quelli teorettizzati e insegnati dai maestri italiani. Con la voce non si scherza. Si può rivoluzionare, come lo è avvenuto tante volte, ma sempre su una certa basi che garantisce l'integrità della voce stessa che deve essere la base e lo strumento della rivoluzione. E' questo il punto della mia critica contro l'odierno approccio generale al canto.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Su questo sono perfettamente d'accordo: è quella grammatica comune che costituisce il differenziale tra il canto impostato e altro. Però preferisco utilizzare "belcanto" nel senso proprio: meglio evitare fraintendimenti...

Giambattista Mancini ha detto...

Plançon studiò con Duprez – non so di preciso a che punto della sua formazione sia avvenuto l’incontro con il famoso maestro, se all’inizio, oppure a maturazione già inoltrata – ma dubito lo abbia mai sentito cantare (Duprez era già molto vecchio), quindi non poteva prenderlo in considerazione come modello diretto (i modelli sono sempre molto importanti). Plançon infatti dichiarava di aver preso esempio dal baritono Jean-Baptiste Faure. In ogni caso, di Plançon fortunatamente abbiamo diverse incisioni, per giunta con un buon suono. E’ lì da ascoltare, ed indubbiamente è un grande esempio di buono e di bellissimo canto (secondo me non esiste nessun basso nella storia del disco che canti meglio di Plançon, da un punto di vista tecnico, stilistico ed espressivo).

Quanto a Duprez, in verità il nostro Gilberto Luigi non ha inventato niente di nuovo. Già Mancini nelle sue Riflessioni pratiche sul canto figurato (anno 1777) spiega che le voci ordinariamente si dividono in due registri (petto e testa, ossia falsetto), ma che “[…]si dà anche qualche raro esempio, che qualcheduno riceve dalla natura il singolarissimo dono di poter eseguir tutto colla sola voce di petto”. Inoltre, ben prima di Duprez, si sa che già Manoel Garcia padre, ed il francese Jacques Lavigne, avevano fatto uso del do di petto. Si trattava comunque di episodi isolati, in quanto i cantanti all’epoca evitavano l’uso della voce di petto negli acuti, per una questione di stile e buon gusto oltreché per non forzare la voce. La presunta “scoperta” di Duprez in verità è solo una sua personale cifra stilistica: piacque molto al pubblico francese, mentre alcuni, come Rossini, continuavano a preferire un canto più garbato. Se proprio vogliamo parlare di “rivoluzione” (ma chiaramente non può esser stato un uomo da solo, con un bercio, a rivoluzionare per sempre la storia del canto), ebbene la rivoluzione fu nello stile, non nella tecnica. Questo stile dirompente, giocato tutto sugli accenti incisivi e su sonorità stentoree, senza mai fare ricorso alla mezzavoce, determinò, stando alle cronache, un precoce declino del tenore parigino, anche se la carriera proseguì per un altro decennio. Ma questo in fondo importa poco. Ciò che importa è che sul solco tracciato da Duprez (e dal cambiamento dello stile e del gusto musicale) si inserisce l’evoluzione delle voci maschili nel corso dell’Ottocento, sempre più incapaci di sostenere tessiture acutissime, e sempre più estranee al canto d’agilità. Chiaramente fu una generale tendenza, non certo una rivoluzione avvenuta di punto in bianco (tant’è che fino all’inizio del Novecento sopravvivono esempi di tenori versati nel canto di grazia e d’agilità).

Giambattista Mancini ha detto...

Il fatto che Duprez non abbia sancito nessuna evoluzione nella tecnica – tra parentesi, di quale “evoluzione” ci sarebbe mai stato bisogno? O meglio: quale evoluzione sarebbe mai stata possibile? Mah… - si prova assai facilmente leggendo il trattato che lui stesso pubblicò nel 1845, “L’Art du Chant, metodo completo”. La cosa più curiosa è la classificazione dei registri della voce, nell’ordine: registro di petto (poitrine), registro misto, e… FAUSSET (falsetto!!!), ad indicare il registro acuto! Per il resto il suo trattato è solo una collezione di esercizi ginnici per la voce, vuoi sul trillo, vuoi sui gruppetti e le agilità… Niente di diverso dai tanti trattati di canto che l’hanno preceduto. Quindi, un “metodo completo” ancora basato sui principi fondamentali del belcanto. E Plançon imparò bene...

Anche dopo Duprez tutti i didatti ed i cantanti autori di trattati hanno sempre ribadito i medesimi concetti. Emblematica è Lilli Lehmann, soprano d’agilità prestatasi al canto wagneriano, ed autrice di un trattato (Meine Gesangkunst, 1914) che si inserisce senza nessuna sfasatura nella tradizione del canto all’italiana. E poi gli esempi che si possono fare sono tantissimi… La Schumann-Heink possedeva un canto d’agilità ed un trillo fenomenali, ma al Met cantava soprattutto Wagner. Lo stesso vale per l’Onégin. Tra i tenori, un famoso Heldentenor fu Jadlowker, la cui coloratura ancora oggi è esempio ineguagliato. Il modo per cantare è sempre stato uno solo...

Domenico Donzelli ha detto...

tanto per aumentare i dubbi sapete che agli italiani rubini e duprez eseguivamo sempre il duetto del ricciardo è la sfida dell' otello

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Il punto non è cosa eseguissero al Des Italiennes e neppure quel che dicono trattatisti e teorivi (morti magari 100 anni prima della nascita di Rossini), il fatto è che la musica - piaccia o meno - si evolve, progredisce, cambia: poi può piacere di più Rossini o Handel o Verdi o Donizetti. Ma resta un fatto (e non un'opinione) che insieme all'evoluzione musicale si evolve il linguaggio (stile e tecnica), e proprio qui sta la "rivoluzione" di Duprez (rispetto al passato tenore contraltino): Duprez aveva un linguaggio musicale perfettamente congeniale alle nuove istanze estetiche, cosa che probabilmente non si può dire per Nourrit o per Rubini (o per la Tacchinardi -Persiani). Non a caso Duprez diventerà l'interprete del grand-opéra (genere che è ponte tra il passato e il romanticismo) e Donizetti (compositore molto più innovatore di Bellini o del reazionario Rossini) creerà per lui quella Lucia di Lammermoor che fu la più grande rivoluzione del melodramma italiano ottocentesco, poiché trasportò l'opera, dai ristagni settecenteschi (più o meno variati) al romanticismo europeo.

Giulia Grisi ha detto...

Ma poi venne lo storicismo, eda li cambio' tutto.
La storia, o meglio, la coscienza storica tolsero quella liberta' verso l'arte passata che aveva sempre modulato il mutamento della'rta. Il presente si separo' dal passato i nome della coscienza storica e pian piano eccoci qui nelle nostre pastoie, anon poter piu' parlare di mutamento, men che meno di evoluzione, in termini pari a quelli dei nostri antenati dell'ottocento....

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Certamente il nostro atteggiamento verso il passato è mutato profondamente, ma credo dipenda da due elementi: il naturale passare del tempo e la considerazione della singola arte.
1) Il tempo passa e non c'è modo di interromperlo in nome di preferenze o restaurazioni (ci procò il Congresso di Vienna con scarsissimi risultati)...neppure si può parlare di evoluzione in senso hegeliano (che è il fulcro dello storicismo, ormai largamente sorpassato): è semplicemente un mutamento di linguaggio, di esigenze, di comprensione, di bisogni. Questo per dire che non si può/deve parlare in termini qualitativi di un passaggio epocale: non esiste una "degenerazione" stilistica nel canto di Duprez che abbandona gli stilemi passati, semplicemente una rispondenza alle nuove esigenze espressive che non potevano essere soddisfatte con tecniche passate e che, dunque, richiedevano soluzioni tecnico-stilistiche diverse (e poco importa se in qualche trattato secentesco si parlava di "voce di petto", essa era usata in modo totalmente diverso). Del resto sostenere il contrario significherebbe sostenere che dopo Rossini la musica sia qualitativamente decaduta, il che è falso: si pensi agli imitatori sterili di Rossini (che riproducevano stancamente un modello musicale sorpassato, ma adattissimo al vecchio modo di cantare) come Pacini; e si confrontino con chi da quei modelli si è distaccato, come Donizetti e Verdi. E' chiaro come sia poco interessante la riproposizione di stili passati...e nessuno, oggi, si sognerebbe (aldilà dei legittimi gusti personali) di ritenere l'Alessandro nell'Indie opera "più corretta" di Lucia di Lammermoor: la prima riproduce in serie un modello, la seconda si apre a nuovi linguaggi. Rcapitolando: non si può parlare di Rubini come di "modello" di correttezza e di Duprez come "sintomo" di decadenza: in realtà si tratta di un semplice cambiamento. A metà '800 Rubini non era più adeguato alla musica che allora si componeva, come invece lo era Duprez, che seppe intercettare i tempi nuovi...e non si rovinò affatto la voce, semplicemente iniziò a cantare in modo "diverso" (un modo che Rossini non capiva, non poteva capire e che, ignorandolo, disprezzava). Del resto è sempre accaduto che la burocratica ortodossia del reazionariato accademico (attaccato alle sue regoline) teacciasse per "scorretto" ciò che semplicemente non erano in grado di capire, poiché rivoluzionario (si pensi a come vennero trattati dal mondo musicale ufficiale Berlioz o Mussorgsky).

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

2) Ancora più importante è la portata del problema nel mondo dell'opera, poiché essa è forma d'arte particolare. L'opera, oggi, se non è morta, ha quantomeno perso "attualità"...ci si approccia ad essa con atteggiamento "museale" e la si considera al pari di un quadro, ossia un lavoro finito e compiuto, in cui l'apporto umano è più riproduttivo che interpretativo. Il teatro, invece, è ancora vivo e vitale (anche per via del cinema): nessuno si scandalizza, oggi, se si allestisce un Amleto di Shakespeare non integrale e non corrispondente al testo originale! Il lavoro dell'interprete (attore e soprattutto regista) ha la preminenza sul testo...ed è così da almeno un secolo e mezzo. E persino ci apparirebbe intollerabile un Amleto in tutto e per tutto corrispondente all'originale, con tutte le scene (anche quelle di svago) le musiche e la sua durata di 5 ore... E' questione di fruizione: l'opera oggi non è l'opera del 1815 o del 1880 o del 1920...è cambiato tutto: la si può intendere solo con criteri storici (come ad esempio duesti Huguenots di Bruxelles).

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Ma oggi il problema di quel atteggiamento "museale" è che tende ad ignorare anche l'aspetto esecutivo e dinamico dell'opera. E' ignorando quest'ultimo aspetto che l'opera muore davvero.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Allora c'è da intendersi Giuditta, o si ritiene l'opera un pezzo da museo da rispettare ed eseguire in modo coerente con una tecnica consolidata secondo certi parametri (ed è quel che penso io), oppure la si ritiene "materia viva" e allora su di essa si può fare quel che si vuole (e nessuno potrebbe/dovrebbe permettersi di criticare alcunché - in merito a stile e tecnica - salvo la piacevolezza generica della serata). Tertium non datur.

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Io penso che l'opera si può ancora considerare come "materia viva" eseguendolo allo stesso tempo con una tecnica consolidata ed una coerenza stilistica. Bisogna questa sintesi. Una saldezza tecnica vocale che a priori diverrà la condizione di una spontaneità artistica-espressiva che nel caso della voce, della vocalità operistica, deve comunque rimanere in certi limiti per non compromettersi se stesso materialmente. Vediamo bene ed attraverso tanti esempi che questi "giochi" ed "esperimenti", tutti intesi per una rivoluzione ed un ravivvamento dell'opera, finiscono sempre male, perché la voce è un fenomeno materiale-corporale che non si può trattare in mille modi diversi come se fosse una cosa astratta. E' per questo che la tecnica all'italiana si rivela di essere quella veramente corrispondente alle funzioni e capacità della voce come fenomeno fisiologico. Vedi il concerto d'ieri di una vecchia di 63 anni che dimostra con una chiarezza (ed anche fredezza) da manuale scholastico, come si canta fino ad un'età avanzata con una minima perdita: sul fiato.
E' la confusione dello stile e della tecnica che conduce a gravi problemi. Se ci si mette d'accordo che c'è una tecnica di base per il canto che materialmente non può essere molto variata, poi diveranno fecondi anche la discussione sui stili e sull'espressività e gli esperimenti e rivoluzioni diveranno materialmente realizzabili e sostenibili.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Non sono d'accordo, Giuditta: se si considerasse l'opera come "materia viva" allora non ha senso parlare di tecnica corretta (poiché sarebbe corretta rispetto a cosa? a codificazioni di 300 anni fa? ma se è "materia viva e vitale" sgnifica che continua a rinnovarsi). E si dovrebbe accettare qualsiasi cosa, qualsiasi intervento. Se invece si considera "dato artistico fermo" (da museo) allora anche la fruizione e l'esecuzione deve avvenire secondo un certo canone di stile e tecnica. Del resto se l'opera fosse davvero vitale l'80 % delle stagioni operistiche vivrebbe di nuove commissioni e nessuno si sognerebbe di pretendere di ascoltare Handel corretto (e non con un abanda di saxofoni ad esempio). Operazioni come l'Orfeo di Alagna di qualche tempo fa sarebbe del tutto legittima. E invece non è così. Perché l'opera non è il teatro: l'opera ha concluso la sua fase di vitalità creatrice ed è entrata in uno splendido museo. Francamente la cosa non mi dispiace affatto.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Cara Giuditta, forse il tuo approccio è molto hegeliano...io resto alla logica aristotelica :)

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Se il mio approccio è hegeliano, allora piuttosto nel senso del sottolineare l'aspetto materiale ed oggettivo dell'arte che nel senso di una concezione teleologica dello sviluppo dell'opera. C'è un certo realismo (nel senso filosofico) nell'approccio che ho io (e molti altri) alla questione di tecnica vocale.
Voglio comunque ancora una volta contrappormi all'opposizione che tu stabilisci tra opera come materia viva e opera come fenomeno museale. Il problema che vorrei sottolineare è che l'opera non potrà funzionare nemmeno come fenomeno museale se non saranno ogni volta ricreate le sue condizioni materiali. Perché l'opera, se è un museo, è un museo molto mobile e dinamico, no? C'è la presupposizione fondamentale dell'esecuzione "viva" o "dal vivo"; è l'esecuzione ad essere la base sia per una "rivoluzione" che per una "mera" riproduzione. E siccome questo fenomeno di esecuzione vocale è legato ad uno strumento molto particolare che è la voce umana, la gola, le corde vocali ed altri parti del corpo umano, la prassi ed il savoir-faire ottiene una dimensione di fragilità e sottilità che materialmente non c'è nelle prassi esecutivi di qualsiasi altro strumento.
Se si vuole fare l'opera musealmente, questo richiede anche il rispetto per le funzionalità tecniche-acustice che possiede il corpo del cantante: proiettare il suono ed essere udibile senza l'aiuto di un microfono o qualsiasi altro aiuto tecnologico etc. Per questo non ci sono mille possibilità. Il verto tertio non datur di questo problema consiste proprio in questa materialità della voce. O spingi e ti danni le corde vocali o canti sul fiato ed hai una massima sonorità e facilità con minime perdite (poi dipende, certo, anche del repertorio che frequenti etc.). Una "terza" soluzione non c'è; almeno i nuovi "rivoluzionari" degli ultimi decenni non hanno potuto proporre niente di convincente o di permanente. Hanno solo distrutto le loro voci. Intanto quella vecchia di 63 anni (piaccia o no lo stile e l'interpretazione) canta ancora, secondo le regole di "scuola". In realtà, il più grande problema delle nuove rivoluzioni mancate degli ultimi decenni conssite forse non cosi tanto nell'allontanamento della tecnica di scuola, ma nella sostituzione di questo sistema itaiano-italaneggiante con un bel nulla, un caos, un canto "random" che si vuole rivoluzionario.
Quindi, un problema materialissimo c'è ed è questa materia oggettiva, fisiologicamente realista e reale, che richiede certi tipi di reazioni artistiche-tecniche e che esclude certi altri tipi di reazioni. E' cosi che eviteremo la visione dell'opera come materia viva in un senso troppo arbitrario. Se no, soccomberemo anche ad una certa incoerenza logica: sarà come se un poeta volesse rivoluzionare il linguaggio poetico senza usare il linguaggio.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma in questo sono d'accordissimo: l'opera non è un quadro, è opera d'arte dinamica, che necessita di un apporto umano (con tutte le sue variabili) per essere fruiti, altrimenti esiste solo sulla carta (o meglio non esiste).

Ma un conto è affermare che vi sia un'attività esecutiva che necessariamente è mobile e variabile (una sorta di vitalità esecutiva), altro è affermare che vi sia una vitalità artistica (ossia creativa).

Ne discendono conseguenze diverse: nel primo caso - l'approccio museale - la "vitalità esecutiva" dovrà parlare il linguaggio consono alla riproduzione del dato di fatto cristallizzato (e difatti vi è una tecnica comune, imprescindibile, che si declina nei diversi stili e sfrutta le diverse connotazioni tecniche corrispondenti alle evoluzioni della materia); nel secondo caso - se l'opera fosse un genere vivente (così come era nell'800 - allora più o meno tutto sarebbe lecito, e corrisponderebbe, semplicemente, al linguaggio musicale contemporaneo...e si arriverebbe a portati assurdi.

Oggi si fruisce dell'opera in un modo del tutto differente rispetto a solo 80 anni fa: è come entrare in un ricco museo, con sale diverse dedicate a generi e artisti differenti, ciascuno col suo linguaggio, ciascuno suscitante in noi diverse reazioni e per cui nutriamo diverse aspettative.

Oggi noi eseguiamo Rossini e Shostakovich, Verdi e Handel, Wagner e Monteverdi, Henze e Cavalli: due secoli fa era impensabile una tale varietà. Ma ancora: oggi il 90 % delle stagioni operistiche è dedicato al repertorio più o meno allargato, relegando a spazi infimi o inesitenti le nuove commissioni - quasi un racchiuderle in una ipotetica sala distinta dalle altre - nell'800 era vero il contrario, la vita di un titolo era breve e non si pensava troppo alla sua futura riproduzione. E dunque? Dunque l'opera in un certo senso è "morta", restano i suoi frutti che ammiriamo in un bel museo, attraverso esecuzioni che dovrebbero rifarsi, a seconda del titolo, allo stile corretto. Se l'opera fosse viva e vitale che ci importerebbe dello stile, del canto sul fiato, dell'esecuzione della coloratura?

Prendi il teatro: chi mette in scena il Macbeth di Shakespeare ha libertà totale col testo...a cominciare dalla trascrizione del linguaggio, dalla traduzione, dagli interventi sulla struttura, dai cambiamenti testuali, dalle scelte drammatiche...sino al modo di recitare (che è modernissimo, di impostazione cinematografica a volte), alla parte scenica, alla decontestualizzazione storica...il Macbeth inteso come lavoro finito di Shakespeare passa in secondo piano rispetto alla sua interpretazione. Non così l'opera. Per me, per noi, intervenire arbitrariamente e pesantemente sul tessuto musicale è GIUSTAMENTE tabù...e ci lamentiamo quando certi registi prendono l'opera per un canovaccio su cui sfogare le proprie frustrazioni. Questo è l'atteggiamento di chi entra in un museo (splendido) in cui non ammissibile che il personale interno si metta a dipingere scarabocchi sopra un quadro di Botticelli (ad esempio).

In questo senso l'opera è e deve essere intesa in ottica museale.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Mi piace l'espressione "museo dinamico" :)

Giulia Grisi ha detto...

Precoisamo se stiamo parlando di gusto o ditecnicacambia il gusto, la tecnica non cambia. O meglio, no deve cambiare.

Giambattista Mancini ha detto...

La tecnica è UNA, e non è che non debba cambiare... non PUO' fisiologicamente e costitutivamente cambiare, mai potrebbe farlo e mai l'ha fatto. Per cantare c'è un modo solo. Per il resto con la voce si possono fare infinite altre cose, oltre al canto (quello che si pratica oggigiorno, ad esempio, non è canto, ma è pur sempre fatto con la voce: ma non è canto). Il canto però è uno, ed uno soltanto è il modo per praticarlo.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Non vorrei replicare qui l'ennesima diatriba sullo stile...dico solo che non si può affermare che vi sia una degenerazione nel canto perché Duprez, ad esempio, non emetteva più gli acuti in falsettone (e a Rossini buon'anima non piaceva). Dico solo che la musica, come tutto, si evolve e cambia, e un linguaggio che andava bene per Rossini o Handel o Monteverdi, non va bene per Donizetti o Wagner. E chissenefrega se a Rossini non piacevano gli acuti di petto...perché mai bisognerebbe valutare tutto con quel parametro? Aldilà di una grammatica comune (certi presupposti tecnici) i linguaggi mutano col mutare della musica, e i cantanti si adeguano alle nuove esigenze. Non c'entra il gusto è qualcosa di più profondo: ammetterai che Otello non si può cantare con il falsettone...salvo sostenere che Otello sia "sbagliato" poiché non è un'opera modellata sul linguaggio rossininano di 80 anni precedente...

Marco ha detto...

Sono del tutto d'accordo con Duprez, cui faccio i complimenti per il suo articolo. L'opera come un genere all'interno quale c'è una fruizione sempre nuova di creazioni è morta. Di qui le esigenze di correttezza testuale, integralità e tecnica adeguata. Però il trovarsi in un museo non implica freddezza o accademismo; la creatività trova un suo spazio amplissimo fondandosi sulle caratteristiche che ho elencato sopra e da cui l'esecuzione non può prescindere.
Marco Ninci

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

Caro Ninci,
non so se si può dire che è DI QUI, cioè del fenomeno di un "museo dinamico", che emerge l'esigenza di una tecnica adeguata. Se non avessero cantato con tecnica adeguata, cioè con la TECNICA,nei secoli passati quando venivano creati nuove opere, l'opera oggi non sarebbe neanche un museo ma fisicamente morta.

Giulia Grisi ha detto...

Credo che un'esecuzione dovrebbe essere un atto critico da parte di un inteprete . Atto che deve contemperare i valori della storia, dell'antichita', dell'attualita', della personalita' soggettiva. E' un mix di piu' componenti, non solo museo del passato ma nemmeno attualizzazione dell'opera d'arte. Semmai congestualizzazione e prorposta.
Ma occorre pensare e ripensare. Quanti oggi pensano e ponderano cio' che fanno?

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Purtroppo hai ragione: pochissimi si pongono seriamente problemi esecutivi...e così l'esecuzione diventa un problema (soprattutto per chi ascolta) :)

Giulia Grisi ha detto...

...si perchè facciamo discorsi dotti ma....la media dell'andare in scena mi pare del tutto estranea a simili elucubrazioni.
Recensiamo abbado, thielemann, ma la media no sono mica loro. i cast mica sono pensati come dovrebbero ma assemblati alla comemiviene.....
voglio dire, ci masturbiamo il cervello per cose che non esistono o per realtà non rappresentative della media

Giulia Grisi ha detto...

...si perchè facciamo discorsi dotti ma....la media dell'andare in scena mi pare del tutto estranea a simili elucubrazioni.
Recensiamo abbado, thielemann, ma la media no sono mica loro. i cast mica sono pensati come dovrebbero ma assemblati alla comemiviene.....
voglio dire, ci masturbiamo il cervello per cose che non esistono o per realtà non rappresentative della media

Marianne Brandt ha detto...

Dopo aver ascoltato per radio il primo cast (diverso da quello ascoltato da Duprez) di questi "Ugonotti", opera che ieri sera si reggeva solo sulle lungimiranti spalle di Minkowski, e parte de "Les Vepres Siciliennes" napoletani, posso dire che quei due cast sono stati pensati alla "comevieneviene", anche se lo scopo era quello, sicuramente valoroso, di far rivivere un grand-opera nella versione integrale.

Marianne

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Premesso che dalla ripresa radio non emergeva compiutamente la cura del suono che si percepiva dal vivo, né il giusto volume delle voci (piuttosto venivano esaltati alcuni difetti vocali), i due cast erano qualitativamente diversi. Ho letto, però, commenti non particolarmente illuminanti in chat, tra cui alcuni che auspicavano certi tagli (di becere - come sempre - tradizione): in realtà dimostrando di non capire il senso dell'operazione che non era certo quello di strappare applausi, ma proporre un grand-opéra con tutte le sue proporzioni, privilegiando la resa complessiva, al singolo acuto. Se si scorre la discografia dell'opera, comunque, non è che ci si imbatta in chissà quali meraviglie: Gavazzeni taglia così tanto che chiunque all'epoca poteva cantare l'opera (compreso un Corelli che, normalmente, non l'avrebbe potuta vedere neppure col binocolo, e che in quell'occasione la sbraca alla "compare Turiddu", dopo l'eliminazione di quanto gli era impossibile eseguire), così pure i suoi emuli (rendendo l'opera un moncherino o trasformandola in un drammaccio verista e tardo verdiano), Bonynge fa uno dei peggiori buchi nell'acqua della sua carriera (orchestra bandistica, tagli inutili, il Raoul peggiore della storia e il resto da dimenticare: a parte la Sutherland, la quale fa il suo consueto e splendido concerto...fregandosene amabilmente di tutto il resto), l'edizione integrale con Leech non è certo un bel sentire... Che rimane? Il rimpianto che voci adatte non l'abbiano eseguita con coscienza e stile adeguato. Non voglio giustificare certi orrori ascoltati, ma l'opera richiede sforzi inumani, la musica non è certo splendida e onore al merito va reso allo sforzo di rendere credibile il tutto: dal vivo un senso l'aveva...su di un tavolo da autopsia (radiofonico) ovviamente no... Ma se si facesse l'esame autoptico per ogni cosa, non so chi resterebbe privo di critiche... Forse solo i cantanti di cui non abbiamo alcuna testimonianza...

Giulia Grisi ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Giulia Grisi ha detto...

...sarà ma io tra gli ugonotti della scala e quelli di bruxelles mi sentirei più volentieri quelli della scala.