Prima opera della Riforma gluckiana, Orfeo ed Euridice nasce sotto una stella austera, per non dire arcigna. Parlando della sua collaborazione con il compositore, il librettista Calzabigi scrive: "Lo pregai di bandire i passaggi, le cadenze, i ritornelli, e tutto ciò che di gotico, di barbaro, di stravagante è stato inserito nella nostra musica. Il signor Gluck aderì ai miei punti di vista". E in effetti l'opera, anzi, l'azione teatrale è, nella sua prima versione (Vienna 1762), quanto mai lineare nella struttura (azione semplicissima, tre soli personaggi, massiccio uso del coro e recitativi sempre accompagnati dagli archi) e spoglia nella linea di canto. Fortuna (o sfortuna: dipende dai punti di vista) volle che questa situazione non dovesse durare a lungo.
Già nella stagione 1769-70, quando l'opera venne ripresa a Londra, era diventata tutt'altra cosa, trasformandosi in un pasticcio su musiche ovviamente di Gluck ma anche di Johann Christian Bach, Pietro Alessandro Guglielmi e dello stesso Gaetano Guadagni, evirato cantore già creatore del ruolo a Vienna, che sostituì l'ultima strofe del quadro delle Furie con un'arietta in tempo di Minuetto da lui stesso composta. Charles Burney, che ebbe modo di vedere Guadagni in questa ripresa londinese del (fu) lavoro gluckiano, scrive di Guadagni: "Egli aveva raggiunto una estensione quasi doppia di quella che aveva prima e da contralto era divenuto soprano, ma così facendo aveva in parte sciupato la bellezza e la forza della sua voce. La musica che cantava era la più semplice che si possa immaginare; poche note con frequenti pause e la possibilità di liberarsi dal compositore e dall'orchestra era tutto ciò che desiderava. E in questi passaggi, che solo in apparenza erano estemporanei, egli dimostrava come il potere proprio della melodia fosse completamente indipendente dall'armonia e non venisse aiutato nemmeno da un accompagnamento all'unisono". Il fascino del suono puro, insomma, a dispetto delle intenzioni dei riformatori. Del resto Guadagni poteva permettersi questo e altro. Il virtuoso non doveva essere stellare, ma certo lo era il cantante. Lo stesso Burney ricorda che Guadagni era particolarmente noto per la capacità di ottenere, partendo da toni estremamente sonori, smorzature che suonavano "come note morenti in un'arpa eolica". Il che attesta, per inciso, che la voce dei castrati (quelli bravi, almeno) aveva una potenza e una proiezione, oltre che una flessibilità e capacità dinamica, impensabili per i loro falsettanti epigoni. E in generale per la gran parte dei cantanti di oggi.
Dodici anni dopo la prima viennese, Gluck (che nel frattempo, a Parma nel 1769, aveva riscritto la parte di Orfeo per il soprano maschile Giuseppe Millico) riallestì l'opera a Parigi e per l'occasione la ripensò completamente: Orfeo fu infatti il tenore Joseph Legros (che aveva da poco creato la parte di Achille nell'Ifigenia in Aulide e in seguito avrebbe interpretato Admeto nella prima francese di Alceste e Rinaldo in Armida). Il primo atto vide l'aggiunta di un'aria di sortita per il personaggio di Amore e soprattutto l'inserimento di un assolo per Orfeo in finale d'atto. L'aria L'espoir renaît dans mon âme deriva forse dal Tancredi di Ferdinando Bertoni, presentato nella stagione 1766-7: c'è però da dire che la stessa aria compariva già nel Parnaso confuso gluckiano del 1765, e successivamente era stata riciclata nelle sue Feste d'Apollo. Chiunque ne sia l'autore, questo brano di squisito segno italiano contribuì a indirizzare la parte di Orfeo verso una più canonica accezione di virtuosismo. Nel secondo atto, da altre composizioni gluckiane provengono la Danza delle furie (dal balletto Don Juan) e la Gavotta della scena dei Campi Elisi (dal Paride ed Elena). Nel quadro degli Elisi fanno poi la loro comparsa un lungo assolo di flauto e un'aria per Euridice. Quanto al terzo atto, oltre a un duettino Orfeo-Euridice (tratto ancora una volta dal Paride) inserito prima del "da capo" dell'aria del soprano, nuova è quasi tutta la scena finale, con l'inserimento di numerose danze (fra cui la Ciaccona conclusiva, squisito omaggio al gusto francese) e del terzetto Tendre Amour, derivato da Il Trionfo di Clelia (1763). Insomma, non solo il nuovo finale primo, così "italiano" nella struttura e nelle linee musicali (soprattutto rispetto al postludio stile "scale e arpeggi" di cui prende il posto), ma tutta l'opera, con l'aggiunta di siffatti divertissement, si allontana con decisione dall'idea di severità che caratterizzava la versione viennese.
Gli anni si succedono e così le modifiche apportate alla versione di Parigi (fra cui, dagli anni '90 del Settecento, la sostituzione del Coro finale con uno derivato da Eco e Narciso, mentre nel 1824 Adolphe Nourrit canta, alla fine del primo atto, un'aria dalla medesima opera al posto di quella prevista da Gluck). Ed eccoci alla terza grande versione di Orfeo, quella nata dalla volontà di Pauline García-Viardot di impersonare l'eroico cantore. L'adattamento curato da Berlioz (per l'occasione anche direttore) e riorchestrato per ampia compagine da Saint-Saëns va in scena al Théatre Lyrique di Parigi nel novembre 1859. Interessante notare che Berlioz considera senza dubbio spuria l'aria finale del primo atto, ma non fa nulla per toglierla dalla partitura. E' anzi lo stesso Berlioz a "istigare" la Viardot a comporre una cadenza spettacolare e strappa applausi (riproposta in tempi a noi più vicini dalla Horne e dalla Podles) per chiudere l'aria, arrivando a scriverle: "Se è necessario diremo che si tratta della cadenza che faceva Legros. I Parigini la berranno di sicuro". E così Madame chiude l'atto con una megacadenza scritta a sei mani, come lei stessa avrà in seguito occasione di ricordare: "La cadenza che mi hanno fatto l'onore di rimproverarmi è stata decisa da noi tre: la prima parte (di Berlioz) è bella; la seconda (di Saint-Saëns) è un po' strana; la piccola sezione scritta dalla cantante è troppo "da cantante"; e l'ultima parte, di Berlioz, potrebbe anche essere del portiere". Fortunata l'epoca in cui le ragioni di una vera primadonna hanno la precedenza sugli scrupoli filologici! L'anno successivo la Viardot riprese il "suo" Orfeo a Londra: la capitale inglese, che già nel 1792 aveva visto stampare presso l'editore Preston un Orfeo ed Euridice definito "a Grand Serious Opera with Music by Gluck, Haendel, Bach, Sacchini, Weichsel and W. Reeve" (!), avrebbe dovuto aspettare altri quarant'anni prima di udire la versione francese così come concepita dall'autore. Ma evidentemente una Viardot val bene un pasticcio.
Assodato che ogni interprete (piccolo o grande che sia) ha diritto a scegliere la versione che ritiene più acconcia per le proprie caratteristiche e per il proprio stato di salute vocale, appare evidente che un buon Orfeo non può fare a meno di possedere una voce di puro velluto ovvero un accento di grandiosa essenzialità di stampo autenticamente tragico ovvero un'attitudine ben radicata al virtuosismo vocale in tutte le sue declinazioni. Anche più di una delle succitate caratteristiche, ove possibile.
Le interminabili arcate melodiche (per risolvere le quali occorrono fiati all'altezza) del tombeau al primo atto, gli elegiaci effetti d'eco in Chiamo il mio ben così, il tripudio vocale del finale primo (Addio, o miei sospiri, nella traduzione italiana) o, a scelta, la grandiosità di Divinità infernal dall'Alceste (è questa la scelta adottata da interpreti quali Stignani e Barbieri, cui mal si addice uno spoglio recitativo in finale d'atto), la grandiosa perorazione alle Furie (esaltata dalle puntature di un Kozlovsky), la morbida e impeccabile emissione richiesta dall'arioso Che puro ciel, la stilizzata disperazione del duetto con Euridice e del successivo Che farò senza Euridice sono altrettanti scogli per qualunque cantante che non possieda un'altissima padronanza della tecnica e al tempo stesso idee ben chiare su come utilizzare detta tecnica a fini espressivi. Serve inoltre un direttore che sia in grado di evocare la compostezza del bassorilievo classico (anche percorso da bridivi espressionisti: vedasi in proposito la memorabile conclusione della scena delle Furie nel live da Buenos Aires diretto da Kleiber padre, con il progressivo spegnersi del Coro di fronte alla vittoria dell'Orfeo della Stevens) senza deragliare nell'arazzo grigiastro o, ancora peggio, nel biscuit fuori tempo massimo. Tutti rischi da cui la corrente filologia non sembra mettere abbastanza in guardia.
Già nella stagione 1769-70, quando l'opera venne ripresa a Londra, era diventata tutt'altra cosa, trasformandosi in un pasticcio su musiche ovviamente di Gluck ma anche di Johann Christian Bach, Pietro Alessandro Guglielmi e dello stesso Gaetano Guadagni, evirato cantore già creatore del ruolo a Vienna, che sostituì l'ultima strofe del quadro delle Furie con un'arietta in tempo di Minuetto da lui stesso composta. Charles Burney, che ebbe modo di vedere Guadagni in questa ripresa londinese del (fu) lavoro gluckiano, scrive di Guadagni: "Egli aveva raggiunto una estensione quasi doppia di quella che aveva prima e da contralto era divenuto soprano, ma così facendo aveva in parte sciupato la bellezza e la forza della sua voce. La musica che cantava era la più semplice che si possa immaginare; poche note con frequenti pause e la possibilità di liberarsi dal compositore e dall'orchestra era tutto ciò che desiderava. E in questi passaggi, che solo in apparenza erano estemporanei, egli dimostrava come il potere proprio della melodia fosse completamente indipendente dall'armonia e non venisse aiutato nemmeno da un accompagnamento all'unisono". Il fascino del suono puro, insomma, a dispetto delle intenzioni dei riformatori. Del resto Guadagni poteva permettersi questo e altro. Il virtuoso non doveva essere stellare, ma certo lo era il cantante. Lo stesso Burney ricorda che Guadagni era particolarmente noto per la capacità di ottenere, partendo da toni estremamente sonori, smorzature che suonavano "come note morenti in un'arpa eolica". Il che attesta, per inciso, che la voce dei castrati (quelli bravi, almeno) aveva una potenza e una proiezione, oltre che una flessibilità e capacità dinamica, impensabili per i loro falsettanti epigoni. E in generale per la gran parte dei cantanti di oggi.
Dodici anni dopo la prima viennese, Gluck (che nel frattempo, a Parma nel 1769, aveva riscritto la parte di Orfeo per il soprano maschile Giuseppe Millico) riallestì l'opera a Parigi e per l'occasione la ripensò completamente: Orfeo fu infatti il tenore Joseph Legros (che aveva da poco creato la parte di Achille nell'Ifigenia in Aulide e in seguito avrebbe interpretato Admeto nella prima francese di Alceste e Rinaldo in Armida). Il primo atto vide l'aggiunta di un'aria di sortita per il personaggio di Amore e soprattutto l'inserimento di un assolo per Orfeo in finale d'atto. L'aria L'espoir renaît dans mon âme deriva forse dal Tancredi di Ferdinando Bertoni, presentato nella stagione 1766-7: c'è però da dire che la stessa aria compariva già nel Parnaso confuso gluckiano del 1765, e successivamente era stata riciclata nelle sue Feste d'Apollo. Chiunque ne sia l'autore, questo brano di squisito segno italiano contribuì a indirizzare la parte di Orfeo verso una più canonica accezione di virtuosismo. Nel secondo atto, da altre composizioni gluckiane provengono la Danza delle furie (dal balletto Don Juan) e la Gavotta della scena dei Campi Elisi (dal Paride ed Elena). Nel quadro degli Elisi fanno poi la loro comparsa un lungo assolo di flauto e un'aria per Euridice. Quanto al terzo atto, oltre a un duettino Orfeo-Euridice (tratto ancora una volta dal Paride) inserito prima del "da capo" dell'aria del soprano, nuova è quasi tutta la scena finale, con l'inserimento di numerose danze (fra cui la Ciaccona conclusiva, squisito omaggio al gusto francese) e del terzetto Tendre Amour, derivato da Il Trionfo di Clelia (1763). Insomma, non solo il nuovo finale primo, così "italiano" nella struttura e nelle linee musicali (soprattutto rispetto al postludio stile "scale e arpeggi" di cui prende il posto), ma tutta l'opera, con l'aggiunta di siffatti divertissement, si allontana con decisione dall'idea di severità che caratterizzava la versione viennese.
Gli anni si succedono e così le modifiche apportate alla versione di Parigi (fra cui, dagli anni '90 del Settecento, la sostituzione del Coro finale con uno derivato da Eco e Narciso, mentre nel 1824 Adolphe Nourrit canta, alla fine del primo atto, un'aria dalla medesima opera al posto di quella prevista da Gluck). Ed eccoci alla terza grande versione di Orfeo, quella nata dalla volontà di Pauline García-Viardot di impersonare l'eroico cantore. L'adattamento curato da Berlioz (per l'occasione anche direttore) e riorchestrato per ampia compagine da Saint-Saëns va in scena al Théatre Lyrique di Parigi nel novembre 1859. Interessante notare che Berlioz considera senza dubbio spuria l'aria finale del primo atto, ma non fa nulla per toglierla dalla partitura. E' anzi lo stesso Berlioz a "istigare" la Viardot a comporre una cadenza spettacolare e strappa applausi (riproposta in tempi a noi più vicini dalla Horne e dalla Podles) per chiudere l'aria, arrivando a scriverle: "Se è necessario diremo che si tratta della cadenza che faceva Legros. I Parigini la berranno di sicuro". E così Madame chiude l'atto con una megacadenza scritta a sei mani, come lei stessa avrà in seguito occasione di ricordare: "La cadenza che mi hanno fatto l'onore di rimproverarmi è stata decisa da noi tre: la prima parte (di Berlioz) è bella; la seconda (di Saint-Saëns) è un po' strana; la piccola sezione scritta dalla cantante è troppo "da cantante"; e l'ultima parte, di Berlioz, potrebbe anche essere del portiere". Fortunata l'epoca in cui le ragioni di una vera primadonna hanno la precedenza sugli scrupoli filologici! L'anno successivo la Viardot riprese il "suo" Orfeo a Londra: la capitale inglese, che già nel 1792 aveva visto stampare presso l'editore Preston un Orfeo ed Euridice definito "a Grand Serious Opera with Music by Gluck, Haendel, Bach, Sacchini, Weichsel and W. Reeve" (!), avrebbe dovuto aspettare altri quarant'anni prima di udire la versione francese così come concepita dall'autore. Ma evidentemente una Viardot val bene un pasticcio.
Assodato che ogni interprete (piccolo o grande che sia) ha diritto a scegliere la versione che ritiene più acconcia per le proprie caratteristiche e per il proprio stato di salute vocale, appare evidente che un buon Orfeo non può fare a meno di possedere una voce di puro velluto ovvero un accento di grandiosa essenzialità di stampo autenticamente tragico ovvero un'attitudine ben radicata al virtuosismo vocale in tutte le sue declinazioni. Anche più di una delle succitate caratteristiche, ove possibile.
Le interminabili arcate melodiche (per risolvere le quali occorrono fiati all'altezza) del tombeau al primo atto, gli elegiaci effetti d'eco in Chiamo il mio ben così, il tripudio vocale del finale primo (Addio, o miei sospiri, nella traduzione italiana) o, a scelta, la grandiosità di Divinità infernal dall'Alceste (è questa la scelta adottata da interpreti quali Stignani e Barbieri, cui mal si addice uno spoglio recitativo in finale d'atto), la grandiosa perorazione alle Furie (esaltata dalle puntature di un Kozlovsky), la morbida e impeccabile emissione richiesta dall'arioso Che puro ciel, la stilizzata disperazione del duetto con Euridice e del successivo Che farò senza Euridice sono altrettanti scogli per qualunque cantante che non possieda un'altissima padronanza della tecnica e al tempo stesso idee ben chiare su come utilizzare detta tecnica a fini espressivi. Serve inoltre un direttore che sia in grado di evocare la compostezza del bassorilievo classico (anche percorso da bridivi espressionisti: vedasi in proposito la memorabile conclusione della scena delle Furie nel live da Buenos Aires diretto da Kleiber padre, con il progressivo spegnersi del Coro di fronte alla vittoria dell'Orfeo della Stevens) senza deragliare nell'arazzo grigiastro o, ancora peggio, nel biscuit fuori tempo massimo. Tutti rischi da cui la corrente filologia non sembra mettere abbastanza in guardia.
Atto I
Ah se intorno a quest'urna funesta - Fedora Barbieri, Ebe Stignani
Chiamo il mio ben così - Margarete Klose, Kerstin Thorborg, Shirley Verrett
Addio, o miei sospiri - Marilyn Horne, Ewa Podles, Rockwell Blake
Atto II
Deh! placatevi con me - Ivan Kozlovsky, Léopold Simoneau, Risë Stevens
Danza delle furie - Arturo Toscanini
Danza degli spiriti beati - Arturo Toscanini
Quest'asilo di placide calme - Daniela Dessì
Che puro ciel - Ivan Kozlovsky, Marilyn Horne, Ebe Stignani
Atto III
Vieni, segui i miei passi... Vieni: appaga il tuo consorte - Risë Stevens & Isabel Marengo, Nicolai Gedda & Janine Micheau
Qual vita è questa mai... Che fiero momento - Lella Cuberli
Che farò senza Euridice - Ernestine Schumann-Heink, Sigrid Onégin, Tito Schipa, Kirsten Flagstad, Ebe Stignani, Grace Bumbry, Marilyn Horne
1 commenti:
Ho ascoltato uno dei brani piu' belli dell'opera, ovverossia l'implorazione di Orfeo "Deh! Placatevi con me" nell'interpretazione di Kozlovsky. Voi sapete quanto odi sentire le opere cantate in lingua diversa dall'originale. Ebbene, per questo fenomenale artista russo mi ha fatto dimenticare la lingua, affascinato da una tecnica vocale ineguagliabile e fiati interminabili. Un Orfeo femmineo ma tutt'altro che slabbrato. Grande e grazie a voi per la chicca!!!
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