Parlare di Marilyn Horne, Teresa Berganza, Lucia Valentini-Terrani e Martyne Dupuy, interpreti del ruolo di Angelina-Cenerentola di Rossini rappresenta l’opportunità per un piccolo viaggio nei ricordi di ascoltatore.
Crea, purtroppo, seri rapporti con il presente, non essendo un passato remoto, ma un passato molto prossimo.
Naturalmente della prima (Cenerentola solo due volte nella propria carriera nel 1956 e nel 1982 a San Francisco) ho ascoltato solo in concerto l’esecuzione del rondò. Reieterate le occasioni di ascoltare e vedere le altre tre interpreti. Perché va detto subito soprattutto Teresa Berganza e Martyne Dupuy andavano anche viste nei panni di Cenerentola. Attrici misurate e sobrie, ma efficaci trovavano nel personaggio di Angelina sguardi e gesti, che, con assoluta linearità connotavano la creatura rossiniana.
Delle opere comiche di Rossini Cenerentola, che è anche l’ultima della produzione, è la più simile nel ruolo protagonistici, per scrittura vocale, alle parti drammatiche del maestro.
Se escludiamo la cantilena “una volta c’era un re” di scrittura centrale e spianata, la protagonista si esprime sempre ricorrendo al virtuosismo. Basti pensare agli interventi nel finale primo “parlare pensar vorrei”, al sestetto all’atto secondo “questo è un nodo”, piuttosto che all’incipit del quintetto “signor una parola” o al duetto d’amore.
Angelina ricorre a tutti i mezzi dell’apparato melismatico rossiniano (terzine quartine, sestine) agilità di sbalzo, arpeggiati e volate e, per giunta, su una cospicua estensione di più di due ottave (anzi 18 toni, come ebbe a scrivere proprio la prima esecutrice Geltrude Righetti Giorgi) e di tessitura acuta, pur precipitando anche nella zona grave della voce.
Teresa Berganza la riteneva la più ardua da Lei affrontata nel repertorio rossiniano. A tale assunto, nel corso di una trasmissione radiofonica del 1983, se non mi sbaglio, Martine Dupuy rilevò che l’Arsace di Semiramide fosse ben peggio.
Insomma una piccola scaramuccia, a distanza, fra grandi primedonne rossiniane.
Una parte simile non può che essere monopolio di autentiche fuoriclasse. La circostanza espressamente scritta da Geltrude Righetti-Giorgi, è confermata dal fatto che nell’800 le più famose Cenerentole furono Adelaide Borghi Mamo, Marietta Alboni (che, spesso criticata, per la sua ingombrante figura trovava, invece, in Cenerentola la possibilità di essere una mite ragazzona, schiacciata e maltrattata) e Barbara Marchisio, le cui imponenti variazioni sono da sempre pubblicate più volte. Eseguite, talora. E abbiamo fatto tre nomi, che con pochi altri, costituiscono il gotha del belcantismo rossiniano ottocentesco in chiave di mezzo soprano.
E’ difficile e forse inutile scegliere fra le quattro esecuzioni vuoi che si prenda in considerazione il famoso rondò finale, sia l’ingresso di Cenerentola alla scena della festa. Occasione nella quale la protagonista, complice il travestimento, sfoggia una vocalità da autentica prima donna tragica. Insomma per Rossini in quell’occasione, che entri Semiramide o Angelina cambia poco o nulla. Entra una regina o aspirante tale, che deve cantare da regina.
Premetto che quanto alla Cenerentola di Marylin Horne abbiamo scelto il rondò di un concerto Rai del 1971 e l’ingresso nel finale dell’unica registrazione (a meno che non compaia quella del debutto del 1956) live della cantante.
Finale primo “sprezza quai don che versa”
A Buenos Ayres 1967 Teresa Berganza tiene non troppo l’ “a piacere” previsto sul mi di “sprezzo”, esegue con precisione assoluta le quartine di “don che versa” inserisce, però, un fiato prima del salto di due ottave previsto fra “fortuna e capricciosa” e un altro, contrariamente a quanto in spartito, prima del fa di “osa”. Quando però, arriva il gruppetto su “amor” e le ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa” è precisissima nell’esecuzione e la voce nella zona centrale è perfettamente risonante ed a fuoco. E il “bontà” finale è eseguito con un piano progressivamente rinforzato e, poi, smorzato di grande effetto. Dal vivo, anche in seconda galleria del loggione scaligero, la voce era sonora, dolce e penetrante e la registrazione scelta anche se fortunosa, rende a distanza di quarant’anni questa peculiarità della voce.
A Chicago nel 1983 Marylin Horne scambia, arrivando incognita alla festa, sotto il profilo interpretativo, Cenerentola con Tancredi. Accento scanditissimo e suoni di petto, però, ben immascherati da si bem centrale, quindi.
A differenza della Berganza tiene a lungo l’ “a piacere” iniziale, anche lei inserisce per dare maggior senso al salto di due ottave il fiato fra “fortuna e capricciosa” solo che le note basse della Horne, molto scure e di petto rendono espressivo il fiato. Alla fine della figura ornamentale prevista per “capricciosa” ci scappa un rubato non particolarmente ben riuscito. La Horne è molto espressiva realizzando, con un fiato solo (o con un rubato esemplare) e con una forcella non prevista le ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa” , nella volata di “rispetto” la Horne vocalizza su una “a” anziché sulla “i” prevista da Rossini, fiorisce l’ “amor” finale e anche lei esegue una messa di voce sul “bontà” conclusivo.
A Venezia 1978 Lucia Valentini sfoggia una voce di qualità, superiore in natura rispeto alle altre primedonne. Sono però, in nuce presenti quei limiti tecnici, che avrebbero condotto ad un precoce declino la cantante. Dove la Horne emette suono di petto immascherati e coperti la Terrani è tubata e la voce artificiosamente scurita. Alludo, a titolo di esempio, al sol centrale di “quei”, però, nel “fortuna capricciosa” la freschezza vocale e la dote naturale evitano la presa di fiato prima del salto. La presa di fiato viene effettuata prima del fa di “osa”. In tutto il resto del passo, marcatamente centrale la Valentini quello che colpisce è il timbro. L’interprete, però, latita. Non ci sono l’eleganza astratta e ricercata di dona Teresita o di Mademoiselle Martyne o lo slancio un poco androgino, ma rossiniano di Mrs. Horne.
A Marsiglia 1990 Martine Dupuy erige il monumento alla prima donna rossiniana. La voce suona molto proiettata e chiara (come deve essere quella di un mezzo soprano in zona centro-alta), rispetta alla lettera la prescrizione di non inserire prese di fiato nel lungo vocalizzo “fortuna capricciosa”, Inserisce, invece, un espressivo rallentando nel primo “vuol sposa”. Non è esasperata come la Horne nella scelta dinamica delle ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa”, in quanto si limita ad eseguire una forcella sull’ultima scala discendente, l’ “amor” finale, è arricchito da una delle specifiche del mezzosoprano marsigliese, il trillo.
Nell’esecuzione del rondò finale le prime donne danno fuoco alle polveri ognuna secondo le proprie caratteristiche.
Va precisato che in teatro sia Teresa Berganza che Lucia Valentini tagliavano nella parte conclusiva mentre sono integrali le esecuzioni le altre esecuzioni proposte a confronto.
Nell’incipit dell’aria Teresa Berganza ha un colore vocale dolente omette i due trilli di “soffri” e di “tacendo” inutile dire come esegua con una precisione assoluta le varie quartine di cui la prima sezione è disseminata. Secondo il gusto allora indiscusso non aggiunge nulla all’andante, neppure la cadenza al punto coronato di “cangiò”. Nelle batture di conducimento del rondò sfoggia un elegantissimo e languido portamento dal re centrale al fa diesis di “in me”. In sostanza languore e dolcezza sembrano essere la sigla della Cenerentola di Teresa Berganza, che arrivata al famosissimo “non più mesta” è precisissima nelle due sestine discendenti del primo “lungo palpitar” Sempre sulle stesse parole ripetute alla ripresa un rallentamento è strumentale a rendere il passato dolore e tormento della ragazza. Quando attaccano la serie di quartine vocalizzate la Berganza appare con la Dupuy la più precisa nell’esecuzione. Manca, però, (il tempo è piuttosto “comodo”) del mordente che le colleghe, o per dote naturale o per idea della coloratura rossiniana, sfoggiano. Arrivata al lungo vocalizzo sempre per quartine ne semplifica l’esecuzione sulla parola “lungo” e, poi, taglia l’ulteriore ripetizione per arrivare alla conclusione dove sfoggia un si nat facile e sonoro.Il taglio, per altro evita la salita in volata due si nat., che, però in altre occasioni (ad esempio nell’edizione scaligera) la cantante spagnola eseguì.
Anche la Valentini Terrani taglia, in misura ridotta limitandosi alla terzine vocalizzate conclusive, che sono una ripetizione e che, se eseguite, imporrebbero una variazione.
Quanto al’ornamentazione la Valentini non è precisissima; omette, come la Berganza i trilli. Alla volata di “core” rallenta fra il moto ascendente (previsto per gradi) e quello discendente. Questo era un vezzo della cantante padovana. Nell’esecuzione delle volate il rallentamento non sta affatto bene, perché viene meno l’effetto elettrizzante della figura. Come Teresa Berganza, sia pure meno marcatamente, il primo enunciato di “la sorte mia cangiò” e la frase seguente sono connotate da un timbro e da un accento marcatamente dolce. All’ultimo enunciato del “baleno rapido” (una serie di quartine) Lucia Valentini semplifica la figura e neppure le quartine di “volate” sono precisise. Come tutte le esecutrici la Terrani rallenta e sfoggia il suo bellissimo timbro nell’ultimo “trovate in me”. Nell’esecuzione della prima sezione del rondò vero e proprio il fa ed il mi accentati del “lungo palpitare” sono spinti e gridati. Quando arrivano le quartine vocalizzate l’esecuzione è mordente e vibrante. Il dubbio, però, come sempre accade nelle esecuzioni della Valentini è che la brillantezza dell’esecuzione sia più naturale che non frutto di una reale cognizione tecnica, dubbio fondato sul fatto che le note basse suonino spinte ed ingolate e le acute spinte e un poco forzate. Non per nulla la Terrani omette la sezione conclusiva del rondo ed il si nat non è certamente una splendore.
L’esecuzione di Marilyn Horne (Rai 1971) e Martine Dupuy (Marsiglia 1990) sono invece integrali. Sono anche le cantanti, che aderiscono all’idea di coloratura espressiva così squisitamente rossiniano.
Ovvio che entrambe eseguano tutti gli ornamenti previsti da Rossini e molto spesso intervengano sul testo.
La Dupuy, poi, acuisce il contrasto fra le due parti del rondò scegliendo un tempo lentissimo nell’andante ed uno velocissimo nella sezione conclusiva. L’uno e l’altro esaltano le qualità dell’esecutrice e dell’interprete.
Nella salita al si bem del “core” Martine Dupuy accenta moltissimo le note della salita e stringe il tempo sulle successive quartine di “incanto”. E’ la stessa scelta di Marilyn Horne, che emette, per inciso, in tutto il rondò le più marcate note di petto.
La Dupuy esegue con abbandono e dolcezza “la sorte mia cangiò”.E’ un tipico caso in cui il sostegno tecnico fa sembrare bella una voce, che tale in natura non era. Specie se paragonata a quella di Lucia Valentini.
Quando ricompare il mi di “come un baleno” la vera filologia esplode. La Horne piazza una magistrale messa di voce, cui la Dupuy replica con un trillo ad inflessione.
Il confronto con il trillo assai simile ad una scaracchiata di rablesiana memoria che la signora Bartoli emette è eloquente e non sono necessita di altro commento per esemplificare la differenza fra una cantante ed un’impostura.
Alla volata discente dell’ultimo “baleno rapido” la Dupuy per esibire (tipica ostentazione della vera cantante rossiniana) il registro basso progressivamente rallenta e sulla “sorte mia” inserisce una cadenza al punto coronato. Strano, invece, che la Horne ometta l’inserimento di una cadenza.
Arrivate al “non più mesta” la Dupuy è lentissima nelle prime battute. Sia la Horne che la Dupuy rallentano alla quartina di “fuoco” che, nell’ultima ripresa, entrambe variano. Ferrea applicazione del principio che se non vi abbia provveduto l’autore debba farlo l’esecutore, atteso che la poetica belcantista non ammetteva ripetizioni identiche.
A differenza della Terrani il fa ed il mi del “lungo palpitare” della Horne sono saldissimi.
Quando arrivano le quartine vocalizzate la Horne esegue in ottavi anziché in sedicesimi, ossia semplifica la figura per rispettare lo spartito alla ripresa, mentre la Dupuy parte con un tempo vorticoso, che esalta le figure ornamentali. Quanto, poi, nella sezione conclusiva allorchè ricompaiono i salti di “ ah fu un giuoco” la Dupuy esegue una variazione, ispirata a Barbara Marchisio.
Entrambe eseguono in chiusa la puntatura all’ottava per emettere il si nat conclusivo, ma nell’esecuzione marsigliese la Dupuy si prende il lusso (o lo sfizio?) di toccare la nota e poi trillarla. Se non alla storia quanto meno alla cronaca passarono alcuni soprani di coloratura che trillavano sul do diesis o sul re naturale i mezzo soprani dovrebbero passarci per i trilli sul si nat.
Ripeto l’impressione dell’apertura di questo ricordo.
E’ difficilissimo fare classifiche la Terrani supera tutte le altre per la intrinseca dote naturale con riferimento alla scrittura rossiniana, ma la Berganza ha una precisione ed una misura oggi insuperata, mentre può dar luogo a qualche dubbio il gusto. Gusto e splendore belcantistico che sono espressi al massimo grado dalla Horne e dalla Dupuy.
Sono osservazioni forse minuzioso, forse un divertimento un po’ fine a se stesso. Se non fosse che questo divertimento ci mette dinnanzi al mediocre e squallido presente dove assistiamo e si vorrebbe che applaudissimo alle scomposte grida di Daniela Barcellona per la quale, nonostante le insistenti frequentazioni, i ruoli di mezzo acuto sono impossibili, alle agilità accennate e farfugliate dalla voce non impostata, e quindi piccola ed aperta di Cecilia Bartoli.
Questo, scusate, è fisicamente impossibile.
E le ultime due protagoniste, che andremo ad esaminare fra breve, ossia Joyce di Donato e Madgalena Kozena sono, come è logico nella scia della soprannominate Bartoli e Barcellona.
La Cenerentola
Entrata di Cenerentola alla festa
1967 - Teresa Berganza
1978 - Lucia Valentini-Terrani
1982 - Marilyn Horne
1990 - Martine Dupuy
2007 - Cecilia Bartoli
Rondò finale - Nacqui all'affanno e al pianto
1967 - Teresa Berganza
1971 - Marilyn Horne
1978 - Lucia Valentini-Terrani
1990 - Martine Dupuy
2005 - Daniela Barcellona
2007 - Cecilia Bartoli
Crea, purtroppo, seri rapporti con il presente, non essendo un passato remoto, ma un passato molto prossimo.
Naturalmente della prima (Cenerentola solo due volte nella propria carriera nel 1956 e nel 1982 a San Francisco) ho ascoltato solo in concerto l’esecuzione del rondò. Reieterate le occasioni di ascoltare e vedere le altre tre interpreti. Perché va detto subito soprattutto Teresa Berganza e Martyne Dupuy andavano anche viste nei panni di Cenerentola. Attrici misurate e sobrie, ma efficaci trovavano nel personaggio di Angelina sguardi e gesti, che, con assoluta linearità connotavano la creatura rossiniana.
Delle opere comiche di Rossini Cenerentola, che è anche l’ultima della produzione, è la più simile nel ruolo protagonistici, per scrittura vocale, alle parti drammatiche del maestro.
Se escludiamo la cantilena “una volta c’era un re” di scrittura centrale e spianata, la protagonista si esprime sempre ricorrendo al virtuosismo. Basti pensare agli interventi nel finale primo “parlare pensar vorrei”, al sestetto all’atto secondo “questo è un nodo”, piuttosto che all’incipit del quintetto “signor una parola” o al duetto d’amore.
Angelina ricorre a tutti i mezzi dell’apparato melismatico rossiniano (terzine quartine, sestine) agilità di sbalzo, arpeggiati e volate e, per giunta, su una cospicua estensione di più di due ottave (anzi 18 toni, come ebbe a scrivere proprio la prima esecutrice Geltrude Righetti Giorgi) e di tessitura acuta, pur precipitando anche nella zona grave della voce.
Teresa Berganza la riteneva la più ardua da Lei affrontata nel repertorio rossiniano. A tale assunto, nel corso di una trasmissione radiofonica del 1983, se non mi sbaglio, Martine Dupuy rilevò che l’Arsace di Semiramide fosse ben peggio.
Insomma una piccola scaramuccia, a distanza, fra grandi primedonne rossiniane.
Una parte simile non può che essere monopolio di autentiche fuoriclasse. La circostanza espressamente scritta da Geltrude Righetti-Giorgi, è confermata dal fatto che nell’800 le più famose Cenerentole furono Adelaide Borghi Mamo, Marietta Alboni (che, spesso criticata, per la sua ingombrante figura trovava, invece, in Cenerentola la possibilità di essere una mite ragazzona, schiacciata e maltrattata) e Barbara Marchisio, le cui imponenti variazioni sono da sempre pubblicate più volte. Eseguite, talora. E abbiamo fatto tre nomi, che con pochi altri, costituiscono il gotha del belcantismo rossiniano ottocentesco in chiave di mezzo soprano.
E’ difficile e forse inutile scegliere fra le quattro esecuzioni vuoi che si prenda in considerazione il famoso rondò finale, sia l’ingresso di Cenerentola alla scena della festa. Occasione nella quale la protagonista, complice il travestimento, sfoggia una vocalità da autentica prima donna tragica. Insomma per Rossini in quell’occasione, che entri Semiramide o Angelina cambia poco o nulla. Entra una regina o aspirante tale, che deve cantare da regina.
Premetto che quanto alla Cenerentola di Marylin Horne abbiamo scelto il rondò di un concerto Rai del 1971 e l’ingresso nel finale dell’unica registrazione (a meno che non compaia quella del debutto del 1956) live della cantante.
Finale primo “sprezza quai don che versa”
A Buenos Ayres 1967 Teresa Berganza tiene non troppo l’ “a piacere” previsto sul mi di “sprezzo”, esegue con precisione assoluta le quartine di “don che versa” inserisce, però, un fiato prima del salto di due ottave previsto fra “fortuna e capricciosa” e un altro, contrariamente a quanto in spartito, prima del fa di “osa”. Quando però, arriva il gruppetto su “amor” e le ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa” è precisissima nell’esecuzione e la voce nella zona centrale è perfettamente risonante ed a fuoco. E il “bontà” finale è eseguito con un piano progressivamente rinforzato e, poi, smorzato di grande effetto. Dal vivo, anche in seconda galleria del loggione scaligero, la voce era sonora, dolce e penetrante e la registrazione scelta anche se fortunosa, rende a distanza di quarant’anni questa peculiarità della voce.
A Chicago nel 1983 Marylin Horne scambia, arrivando incognita alla festa, sotto il profilo interpretativo, Cenerentola con Tancredi. Accento scanditissimo e suoni di petto, però, ben immascherati da si bem centrale, quindi.
A differenza della Berganza tiene a lungo l’ “a piacere” iniziale, anche lei inserisce per dare maggior senso al salto di due ottave il fiato fra “fortuna e capricciosa” solo che le note basse della Horne, molto scure e di petto rendono espressivo il fiato. Alla fine della figura ornamentale prevista per “capricciosa” ci scappa un rubato non particolarmente ben riuscito. La Horne è molto espressiva realizzando, con un fiato solo (o con un rubato esemplare) e con una forcella non prevista le ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa” , nella volata di “rispetto” la Horne vocalizza su una “a” anziché sulla “i” prevista da Rossini, fiorisce l’ “amor” finale e anche lei esegue una messa di voce sul “bontà” conclusivo.
A Venezia 1978 Lucia Valentini sfoggia una voce di qualità, superiore in natura rispeto alle altre primedonne. Sono però, in nuce presenti quei limiti tecnici, che avrebbero condotto ad un precoce declino la cantante. Dove la Horne emette suono di petto immascherati e coperti la Terrani è tubata e la voce artificiosamente scurita. Alludo, a titolo di esempio, al sol centrale di “quei”, però, nel “fortuna capricciosa” la freschezza vocale e la dote naturale evitano la presa di fiato prima del salto. La presa di fiato viene effettuata prima del fa di “osa”. In tutto il resto del passo, marcatamente centrale la Valentini quello che colpisce è il timbro. L’interprete, però, latita. Non ci sono l’eleganza astratta e ricercata di dona Teresita o di Mademoiselle Martyne o lo slancio un poco androgino, ma rossiniano di Mrs. Horne.
A Marsiglia 1990 Martine Dupuy erige il monumento alla prima donna rossiniana. La voce suona molto proiettata e chiara (come deve essere quella di un mezzo soprano in zona centro-alta), rispetta alla lettera la prescrizione di non inserire prese di fiato nel lungo vocalizzo “fortuna capricciosa”, Inserisce, invece, un espressivo rallentando nel primo “vuol sposa”. Non è esasperata come la Horne nella scelta dinamica delle ornamentazioni di “m’offra chi mi vuol sposa”, in quanto si limita ad eseguire una forcella sull’ultima scala discendente, l’ “amor” finale, è arricchito da una delle specifiche del mezzosoprano marsigliese, il trillo.
Nell’esecuzione del rondò finale le prime donne danno fuoco alle polveri ognuna secondo le proprie caratteristiche.
Va precisato che in teatro sia Teresa Berganza che Lucia Valentini tagliavano nella parte conclusiva mentre sono integrali le esecuzioni le altre esecuzioni proposte a confronto.
Nell’incipit dell’aria Teresa Berganza ha un colore vocale dolente omette i due trilli di “soffri” e di “tacendo” inutile dire come esegua con una precisione assoluta le varie quartine di cui la prima sezione è disseminata. Secondo il gusto allora indiscusso non aggiunge nulla all’andante, neppure la cadenza al punto coronato di “cangiò”. Nelle batture di conducimento del rondò sfoggia un elegantissimo e languido portamento dal re centrale al fa diesis di “in me”. In sostanza languore e dolcezza sembrano essere la sigla della Cenerentola di Teresa Berganza, che arrivata al famosissimo “non più mesta” è precisissima nelle due sestine discendenti del primo “lungo palpitar” Sempre sulle stesse parole ripetute alla ripresa un rallentamento è strumentale a rendere il passato dolore e tormento della ragazza. Quando attaccano la serie di quartine vocalizzate la Berganza appare con la Dupuy la più precisa nell’esecuzione. Manca, però, (il tempo è piuttosto “comodo”) del mordente che le colleghe, o per dote naturale o per idea della coloratura rossiniana, sfoggiano. Arrivata al lungo vocalizzo sempre per quartine ne semplifica l’esecuzione sulla parola “lungo” e, poi, taglia l’ulteriore ripetizione per arrivare alla conclusione dove sfoggia un si nat facile e sonoro.Il taglio, per altro evita la salita in volata due si nat., che, però in altre occasioni (ad esempio nell’edizione scaligera) la cantante spagnola eseguì.
Anche la Valentini Terrani taglia, in misura ridotta limitandosi alla terzine vocalizzate conclusive, che sono una ripetizione e che, se eseguite, imporrebbero una variazione.
Quanto al’ornamentazione la Valentini non è precisissima; omette, come la Berganza i trilli. Alla volata di “core” rallenta fra il moto ascendente (previsto per gradi) e quello discendente. Questo era un vezzo della cantante padovana. Nell’esecuzione delle volate il rallentamento non sta affatto bene, perché viene meno l’effetto elettrizzante della figura. Come Teresa Berganza, sia pure meno marcatamente, il primo enunciato di “la sorte mia cangiò” e la frase seguente sono connotate da un timbro e da un accento marcatamente dolce. All’ultimo enunciato del “baleno rapido” (una serie di quartine) Lucia Valentini semplifica la figura e neppure le quartine di “volate” sono precisise. Come tutte le esecutrici la Terrani rallenta e sfoggia il suo bellissimo timbro nell’ultimo “trovate in me”. Nell’esecuzione della prima sezione del rondò vero e proprio il fa ed il mi accentati del “lungo palpitare” sono spinti e gridati. Quando arrivano le quartine vocalizzate l’esecuzione è mordente e vibrante. Il dubbio, però, come sempre accade nelle esecuzioni della Valentini è che la brillantezza dell’esecuzione sia più naturale che non frutto di una reale cognizione tecnica, dubbio fondato sul fatto che le note basse suonino spinte ed ingolate e le acute spinte e un poco forzate. Non per nulla la Terrani omette la sezione conclusiva del rondo ed il si nat non è certamente una splendore.
L’esecuzione di Marilyn Horne (Rai 1971) e Martine Dupuy (Marsiglia 1990) sono invece integrali. Sono anche le cantanti, che aderiscono all’idea di coloratura espressiva così squisitamente rossiniano.
Ovvio che entrambe eseguano tutti gli ornamenti previsti da Rossini e molto spesso intervengano sul testo.
La Dupuy, poi, acuisce il contrasto fra le due parti del rondò scegliendo un tempo lentissimo nell’andante ed uno velocissimo nella sezione conclusiva. L’uno e l’altro esaltano le qualità dell’esecutrice e dell’interprete.
Nella salita al si bem del “core” Martine Dupuy accenta moltissimo le note della salita e stringe il tempo sulle successive quartine di “incanto”. E’ la stessa scelta di Marilyn Horne, che emette, per inciso, in tutto il rondò le più marcate note di petto.
La Dupuy esegue con abbandono e dolcezza “la sorte mia cangiò”.E’ un tipico caso in cui il sostegno tecnico fa sembrare bella una voce, che tale in natura non era. Specie se paragonata a quella di Lucia Valentini.
Quando ricompare il mi di “come un baleno” la vera filologia esplode. La Horne piazza una magistrale messa di voce, cui la Dupuy replica con un trillo ad inflessione.
Il confronto con il trillo assai simile ad una scaracchiata di rablesiana memoria che la signora Bartoli emette è eloquente e non sono necessita di altro commento per esemplificare la differenza fra una cantante ed un’impostura.
Alla volata discente dell’ultimo “baleno rapido” la Dupuy per esibire (tipica ostentazione della vera cantante rossiniana) il registro basso progressivamente rallenta e sulla “sorte mia” inserisce una cadenza al punto coronato. Strano, invece, che la Horne ometta l’inserimento di una cadenza.
Arrivate al “non più mesta” la Dupuy è lentissima nelle prime battute. Sia la Horne che la Dupuy rallentano alla quartina di “fuoco” che, nell’ultima ripresa, entrambe variano. Ferrea applicazione del principio che se non vi abbia provveduto l’autore debba farlo l’esecutore, atteso che la poetica belcantista non ammetteva ripetizioni identiche.
A differenza della Terrani il fa ed il mi del “lungo palpitare” della Horne sono saldissimi.
Quando arrivano le quartine vocalizzate la Horne esegue in ottavi anziché in sedicesimi, ossia semplifica la figura per rispettare lo spartito alla ripresa, mentre la Dupuy parte con un tempo vorticoso, che esalta le figure ornamentali. Quanto, poi, nella sezione conclusiva allorchè ricompaiono i salti di “ ah fu un giuoco” la Dupuy esegue una variazione, ispirata a Barbara Marchisio.
Entrambe eseguono in chiusa la puntatura all’ottava per emettere il si nat conclusivo, ma nell’esecuzione marsigliese la Dupuy si prende il lusso (o lo sfizio?) di toccare la nota e poi trillarla. Se non alla storia quanto meno alla cronaca passarono alcuni soprani di coloratura che trillavano sul do diesis o sul re naturale i mezzo soprani dovrebbero passarci per i trilli sul si nat.
Ripeto l’impressione dell’apertura di questo ricordo.
E’ difficilissimo fare classifiche la Terrani supera tutte le altre per la intrinseca dote naturale con riferimento alla scrittura rossiniana, ma la Berganza ha una precisione ed una misura oggi insuperata, mentre può dar luogo a qualche dubbio il gusto. Gusto e splendore belcantistico che sono espressi al massimo grado dalla Horne e dalla Dupuy.
Sono osservazioni forse minuzioso, forse un divertimento un po’ fine a se stesso. Se non fosse che questo divertimento ci mette dinnanzi al mediocre e squallido presente dove assistiamo e si vorrebbe che applaudissimo alle scomposte grida di Daniela Barcellona per la quale, nonostante le insistenti frequentazioni, i ruoli di mezzo acuto sono impossibili, alle agilità accennate e farfugliate dalla voce non impostata, e quindi piccola ed aperta di Cecilia Bartoli.
Questo, scusate, è fisicamente impossibile.
E le ultime due protagoniste, che andremo ad esaminare fra breve, ossia Joyce di Donato e Madgalena Kozena sono, come è logico nella scia della soprannominate Bartoli e Barcellona.
La Cenerentola
Entrata di Cenerentola alla festa
1967 - Teresa Berganza
1978 - Lucia Valentini-Terrani
1982 - Marilyn Horne
1990 - Martine Dupuy
2007 - Cecilia Bartoli
Rondò finale - Nacqui all'affanno e al pianto
1967 - Teresa Berganza
1971 - Marilyn Horne
1978 - Lucia Valentini-Terrani
1990 - Martine Dupuy
2005 - Daniela Barcellona
2007 - Cecilia Bartoli
1 commenti:
Wow! how original...
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