Prima di procedere alla recensione della terza rappresentazione di Maria Stuarda, e del differente cast proposto, vorrei premettere una breve e, ahimè, sconsolata riflessione di carattere più generale. Alla luce delle recenti produzioni nazionali ed internazionali dai risultati più che deludenti (soprattutto per i nomi – anche di un certo prestigio – coinvolti), e mi riferisco in particolare ai pessimi Puritani con la Netrebko o all’assai mediocre Lucia di Lammermoor con la diva Dessay, ma anche al ROF dell’estate scorsa (e pure di quelle precedenti ad essere sinceri..) o alla disastrosa Lucrezia Borgia del Festival Donizetti di Bergamo (con un’esibizione semplicemente indecorosa della Theodossiu), mi chiedo perché ostinarsi a rappresentare e proporre un repertorio che presenta indubbi problemi legati alla vocalità, senza avere (non perché non esistano in assoluto, ma piuttosto perché non si vogliono o non si possono scritturare) interpreti adeguati, adatti per stile e tecnica al belcanto e capaci di superare (o almeno di affrontare degnamente) tutte le difficoltà che esso comporta. E il mio stupore e il mio domandarmi perché, si ripropone anche di fronte a questa Maria Stuarda scaligera, programmata nell’ambito di una delle stagioni più sgangherate e raffazzonate, che la storia di quel teatro rammemori.
Detto questo – e preso atto della situazione – passerei alla Maria Stuarda andata in scena domenica 20 gennaio. Il motivo di interesse della serata, nonchè di questa ulteriore recensione (dopo quella pubblicata in occasione della prima) è la presenza di un cast parzialmente diverso. Accade spesso, infatti, che i “secondi cast” riservino sorprese inaspettate e si rivelino migliori dei più blasonati (a volte) interpreti del cast principale (così era successo anche l’anno scorso, sempre con Donizetti: con la Fille du Regiment, dove le “riserve” erano decisamente più in forma delle – o meglio dire – della star, che a parte l’esposizione mediatica e il risibile affaire del bis “spontaneo”, in realtà programmato a tavolino già dalle settimane precedenti, e ampiamente dibattuto sulla stampa ancor prima che accadesse, ha deluso assai, soprattutto in termini di corpo e volume). A tale “regola” questa Maria Stuarda non fa eccezione: certo non fa nemmeno gridare al miracolo poiché molti problemi si sono ripresentati identici, ma nel complesso – accanto ad elementi rimasti appunto immutati (e che hanno perpetuato gli stessi vizi e difetti, già riscontrati nelle sere precedenti) – il cambio delle due protagoniste ha portato ad un certo miglioramento. Ad esso va ad aggiungersi un piccolo aggiustamento nella concertazione che, lungi dall’aver raggiunto almeno un livello di mediocrità, non è stata così disastrosa come alla prima.
Ma procediamo con ordine, iniziando proprio dal manico: dalla bacchetta. Fogliani (premesso che non mi spiego come possa dirigere alla Scala un Fogliani: e pensando a quando si faceva la gavetta vera e non si passava, in virtù di chissà quali meriti, dall’anonimato al podio del Piermarini) è la riprova della sacrosanta utilità dei fischi: infatti, dopo essere stato contestato sonoramente, ha pensato bene di “correggere” qualcosa (non molto a dir il vero) nella sua direzione. Resta un pessimo direttore – da far rimpiangere i tanto criticati “battisolfa” (che però il mestiere sapevano farlo ed erano in grado, consci dei propri limiti, di fare un passo indietro e lasciar spazio ai cantanti) – incapace di reggere il palco, con sbavature e scollature di ogni tipo tra orchestra e cantanti e con scelte di tempi grottescamente letargici (la cavatina di Maria e il suo "quando di luce rosea" dilatate sino allo spasimo, interminabili, così come il coro che apre la scena finale, lugubre e funereo). Ciò che però è più grave (e che invece dovrebbe essere il minimo indispensabile per svolgere quella professione) è la totale incapacità di assecondare i cantanti, di aiutarli, di sostenerli, di coprirne le difficoltà, e la completa mancanza di duttilità nell’adattare la propria concertazione ai differenti interpreti che si trova a disposizione. Per intenderci, impone alla Lungu i tempi della Devia, ignaro (colpevolmente) o non curante delle diverse vocalità e tecniche, caratteristiche e limiti. Tanto che le difficoltà incontrate dalla protagonista sono per lo più imputabili ai tempi assurdamente lenti staccati da Fogliani. La cosa si è fatta evidente e palese nell’atto II quando la Lungu, al termine della cabaletta – mentre il direttore impostava una nenia soporifera laddove occorrerebbe ritmo, perdendo così per strada palco e buca (chissà in quali pensieri si era perso Fogliani in quel momento) – giustamente stizzita, gli fa un evidente cenno con la mano per dirgli di spicciarsi, di darsi una mossa. A quel punto il maldestro direttore fa una brusca accelerata chiudendo il brano in un pasticcio indegno persino di un teatro di provincia, figurarsi alla Scala…ma tant’è. Tuttavia, a parte le suddette costanti, rispetto alle recite precedenti (e grazie, immagino, ai fischi che le hanno accolte, come dicevo) qualche miglioramento c’è: qualche tempo è più sostenuto e meno lugubre, a volte si sente maggiore mordente, l'orchestra è più precisa, la sinfonia in particolare (che resta sempre brutta, ma la colpa qui è di Donizetti) non è più quel pesante e lento clangore della prima, dove ognuno sembrava fare un po’ quello che gli pareva. Tutto questo naturalmente non basta a salvare una direzione, ma è utile come dimostrazione della necessità dei fischi e delle contestazioni (doverose, quando meritate) anche a scopi curativi (alla faccia di chi accusa chi esprime il proprio dissenso, di essere un facinoroso sobillatore).
Ma passiamo ai cantanti. La protagonista è Irina Lungu che sostituisce la Devia e che nel complesso risulta decisamente migliore. La parte è difficile, certo, e non tanto per il virtuosismo (che è qui ridotto), ma per la tessitura (che impegna molto i bassi) e per l’accento nobile, la tenuta, l’interpretazione e la richiesta ampiezza di fraseggio e di fiati. Certo la Maria Stuarda non è opera adatta alla sua voce (che non è di un vero soprano centrale, adatta piuttosto a Lucia e Giulietta Capuleti...), e di una regina la Lungu non possiede né il temperamento né tutte le credenziali tecniche, tuttavia il timbro è bello, gli acuti sono sicuri e sonori – mentre i bassi sono più problematici (ma anche le grandi interpreti del ruolo hanno sofferto in questa zona). La voce infine, pur rimanendo un pò piccola, possiede più corpo e sicurezza rispetto a quella della Devia (e non incappa in quelle piccole stonature in cui è inciampata la più celebre collega, graziata la sera della prima da un pubblico che più che l’esibizione ha applaudito nome e carriera) e sono certo che, con altro direttore, il risultato sarebbe stato molto più convincente (purtroppo Fogliani affloscia in modo intollerabile persino l’invettiva, che risulta spenta e pallida). Bella invece la preghiera, purtroppo non risolta sulla tenuta di fiato (come quella meraviglia che ci fa ascoltare la Sutherland), ma intelligentemente cesellata (anche se costretta a prendere qualche respiro di troppo), con tanto di salita all'acuto.
L’altra regina è una Maria Pia Piscitelli in forma, che surclassa l’Elisabetta della Antonacci sia nel volume che nella correttezza tecnica. Certo risultava un po’ ingolata (ma nell’atto III è migliorata sensibilmente), ma mai ha mostrato i gravi problemi di emissione della collega (voce indietro, ovattata, chiusa). Due protagoniste quindi, che sicuramente avrebbero meritato gli onori del primo cast.
Con esse però, purtroppo terminano le cose buone. Meli infatti è risultato uguale a sé stesso: inaccettabile. Il problema è il solito: voce bella, bellissima, corposa, calda, ma lasciata allo stato brado. Semplicemente Meli non canta con tecnica da professionista. L’emissione è costantemente forzata e “di gola”, col risultato di sbiancare i suoni man mano che raggiunge la zona acuta, sino a strozzarsi in una parte che non è certamente tra le più impervie della letteratura tenorile, tutt’altro. Non si può, però affrontare Donizetti e i ruoli di “tenore protoromantico” come se si cantasse una romanza di Tosti o “Mattinata” di Leoncavallo. La voce poi, a causa di questa mancanza di tecnica e di questi sforzi immani per salire, si sta usurando e accorciando sempre di più. Non capisco poi come mai Meli continui ad ostinarsi a cantare ruoli con tessiture per lui proibitive, quando certe note non le ha, non ci arriva. E la natura non fa sconti, soprattutto se si ignorano i limiti che essa impone e se non si sopperisce ad essi con la giusta tecnica. E pensare che dopo Leicester dovrà affrontare il ben più complesso Edgardo nella Lucia di Lammermoor bolognese, e lo sa solo il cielo come, in una condizione del genere, potrà reggere il finale. Davvero un peccato, uno spreco (ma sono le stesse parole che mi ripeto ogni qualvolta ho occasione di sentirlo).
Resta da parlare di regia, scene e costumi, del solito Pizzi, ormai in pieno delirio autoreferenziale: le solite scalinate, i soliti cieli lividi, i soliti bei costumi che non c’entrano nulla con la scena circostante (qui rappresentata da una struttura sostanzialmente fissa e macchinosa di grate metalliche con passerelle che venivano spostate con rumori e strepiti di ogni sorta, tali che spesso coprivano voci e orchestra). Insomma la solita inutile minestra già vista e rivista che ormai ha decisamente stancato. I cantanti sembrano poi lasciati a sè stessi, liberi di improvvisare gesti e movimenti. E dunque alla fine? Che dire? Sicuramente un applauso sincero alla Lungu che ha affrontato coraggiosamente e dignitosamente un ruolo estraneo alla sua vocalità, con buoni risultati, nonostante i tanti ostacoli una direzione dilettantesca ed un partner maschile inadeguato hanno frapposto. Dimostrando ancora che non necessariamente un “secondo cast” è inferiore al primo. E vincendo pienamente la “sfida” con la Devia sul campo della Stuarda. Un applauso anche alla Piscitelli che ha fatto bene in una parte complessa, anche drammaticamente. Un biasimo a tutto il resto ed in particolare alla Scala, che sembra ormai aver perso una qualsiasi logica artistica/organizzativa e una precisa direzione di percorso.
Detto questo – e preso atto della situazione – passerei alla Maria Stuarda andata in scena domenica 20 gennaio. Il motivo di interesse della serata, nonchè di questa ulteriore recensione (dopo quella pubblicata in occasione della prima) è la presenza di un cast parzialmente diverso. Accade spesso, infatti, che i “secondi cast” riservino sorprese inaspettate e si rivelino migliori dei più blasonati (a volte) interpreti del cast principale (così era successo anche l’anno scorso, sempre con Donizetti: con la Fille du Regiment, dove le “riserve” erano decisamente più in forma delle – o meglio dire – della star, che a parte l’esposizione mediatica e il risibile affaire del bis “spontaneo”, in realtà programmato a tavolino già dalle settimane precedenti, e ampiamente dibattuto sulla stampa ancor prima che accadesse, ha deluso assai, soprattutto in termini di corpo e volume). A tale “regola” questa Maria Stuarda non fa eccezione: certo non fa nemmeno gridare al miracolo poiché molti problemi si sono ripresentati identici, ma nel complesso – accanto ad elementi rimasti appunto immutati (e che hanno perpetuato gli stessi vizi e difetti, già riscontrati nelle sere precedenti) – il cambio delle due protagoniste ha portato ad un certo miglioramento. Ad esso va ad aggiungersi un piccolo aggiustamento nella concertazione che, lungi dall’aver raggiunto almeno un livello di mediocrità, non è stata così disastrosa come alla prima.
Ma procediamo con ordine, iniziando proprio dal manico: dalla bacchetta. Fogliani (premesso che non mi spiego come possa dirigere alla Scala un Fogliani: e pensando a quando si faceva la gavetta vera e non si passava, in virtù di chissà quali meriti, dall’anonimato al podio del Piermarini) è la riprova della sacrosanta utilità dei fischi: infatti, dopo essere stato contestato sonoramente, ha pensato bene di “correggere” qualcosa (non molto a dir il vero) nella sua direzione. Resta un pessimo direttore – da far rimpiangere i tanto criticati “battisolfa” (che però il mestiere sapevano farlo ed erano in grado, consci dei propri limiti, di fare un passo indietro e lasciar spazio ai cantanti) – incapace di reggere il palco, con sbavature e scollature di ogni tipo tra orchestra e cantanti e con scelte di tempi grottescamente letargici (la cavatina di Maria e il suo "quando di luce rosea" dilatate sino allo spasimo, interminabili, così come il coro che apre la scena finale, lugubre e funereo). Ciò che però è più grave (e che invece dovrebbe essere il minimo indispensabile per svolgere quella professione) è la totale incapacità di assecondare i cantanti, di aiutarli, di sostenerli, di coprirne le difficoltà, e la completa mancanza di duttilità nell’adattare la propria concertazione ai differenti interpreti che si trova a disposizione. Per intenderci, impone alla Lungu i tempi della Devia, ignaro (colpevolmente) o non curante delle diverse vocalità e tecniche, caratteristiche e limiti. Tanto che le difficoltà incontrate dalla protagonista sono per lo più imputabili ai tempi assurdamente lenti staccati da Fogliani. La cosa si è fatta evidente e palese nell’atto II quando la Lungu, al termine della cabaletta – mentre il direttore impostava una nenia soporifera laddove occorrerebbe ritmo, perdendo così per strada palco e buca (chissà in quali pensieri si era perso Fogliani in quel momento) – giustamente stizzita, gli fa un evidente cenno con la mano per dirgli di spicciarsi, di darsi una mossa. A quel punto il maldestro direttore fa una brusca accelerata chiudendo il brano in un pasticcio indegno persino di un teatro di provincia, figurarsi alla Scala…ma tant’è. Tuttavia, a parte le suddette costanti, rispetto alle recite precedenti (e grazie, immagino, ai fischi che le hanno accolte, come dicevo) qualche miglioramento c’è: qualche tempo è più sostenuto e meno lugubre, a volte si sente maggiore mordente, l'orchestra è più precisa, la sinfonia in particolare (che resta sempre brutta, ma la colpa qui è di Donizetti) non è più quel pesante e lento clangore della prima, dove ognuno sembrava fare un po’ quello che gli pareva. Tutto questo naturalmente non basta a salvare una direzione, ma è utile come dimostrazione della necessità dei fischi e delle contestazioni (doverose, quando meritate) anche a scopi curativi (alla faccia di chi accusa chi esprime il proprio dissenso, di essere un facinoroso sobillatore).
Ma passiamo ai cantanti. La protagonista è Irina Lungu che sostituisce la Devia e che nel complesso risulta decisamente migliore. La parte è difficile, certo, e non tanto per il virtuosismo (che è qui ridotto), ma per la tessitura (che impegna molto i bassi) e per l’accento nobile, la tenuta, l’interpretazione e la richiesta ampiezza di fraseggio e di fiati. Certo la Maria Stuarda non è opera adatta alla sua voce (che non è di un vero soprano centrale, adatta piuttosto a Lucia e Giulietta Capuleti...), e di una regina la Lungu non possiede né il temperamento né tutte le credenziali tecniche, tuttavia il timbro è bello, gli acuti sono sicuri e sonori – mentre i bassi sono più problematici (ma anche le grandi interpreti del ruolo hanno sofferto in questa zona). La voce infine, pur rimanendo un pò piccola, possiede più corpo e sicurezza rispetto a quella della Devia (e non incappa in quelle piccole stonature in cui è inciampata la più celebre collega, graziata la sera della prima da un pubblico che più che l’esibizione ha applaudito nome e carriera) e sono certo che, con altro direttore, il risultato sarebbe stato molto più convincente (purtroppo Fogliani affloscia in modo intollerabile persino l’invettiva, che risulta spenta e pallida). Bella invece la preghiera, purtroppo non risolta sulla tenuta di fiato (come quella meraviglia che ci fa ascoltare la Sutherland), ma intelligentemente cesellata (anche se costretta a prendere qualche respiro di troppo), con tanto di salita all'acuto.
L’altra regina è una Maria Pia Piscitelli in forma, che surclassa l’Elisabetta della Antonacci sia nel volume che nella correttezza tecnica. Certo risultava un po’ ingolata (ma nell’atto III è migliorata sensibilmente), ma mai ha mostrato i gravi problemi di emissione della collega (voce indietro, ovattata, chiusa). Due protagoniste quindi, che sicuramente avrebbero meritato gli onori del primo cast.
Con esse però, purtroppo terminano le cose buone. Meli infatti è risultato uguale a sé stesso: inaccettabile. Il problema è il solito: voce bella, bellissima, corposa, calda, ma lasciata allo stato brado. Semplicemente Meli non canta con tecnica da professionista. L’emissione è costantemente forzata e “di gola”, col risultato di sbiancare i suoni man mano che raggiunge la zona acuta, sino a strozzarsi in una parte che non è certamente tra le più impervie della letteratura tenorile, tutt’altro. Non si può, però affrontare Donizetti e i ruoli di “tenore protoromantico” come se si cantasse una romanza di Tosti o “Mattinata” di Leoncavallo. La voce poi, a causa di questa mancanza di tecnica e di questi sforzi immani per salire, si sta usurando e accorciando sempre di più. Non capisco poi come mai Meli continui ad ostinarsi a cantare ruoli con tessiture per lui proibitive, quando certe note non le ha, non ci arriva. E la natura non fa sconti, soprattutto se si ignorano i limiti che essa impone e se non si sopperisce ad essi con la giusta tecnica. E pensare che dopo Leicester dovrà affrontare il ben più complesso Edgardo nella Lucia di Lammermoor bolognese, e lo sa solo il cielo come, in una condizione del genere, potrà reggere il finale. Davvero un peccato, uno spreco (ma sono le stesse parole che mi ripeto ogni qualvolta ho occasione di sentirlo).
Resta da parlare di regia, scene e costumi, del solito Pizzi, ormai in pieno delirio autoreferenziale: le solite scalinate, i soliti cieli lividi, i soliti bei costumi che non c’entrano nulla con la scena circostante (qui rappresentata da una struttura sostanzialmente fissa e macchinosa di grate metalliche con passerelle che venivano spostate con rumori e strepiti di ogni sorta, tali che spesso coprivano voci e orchestra). Insomma la solita inutile minestra già vista e rivista che ormai ha decisamente stancato. I cantanti sembrano poi lasciati a sè stessi, liberi di improvvisare gesti e movimenti. E dunque alla fine? Che dire? Sicuramente un applauso sincero alla Lungu che ha affrontato coraggiosamente e dignitosamente un ruolo estraneo alla sua vocalità, con buoni risultati, nonostante i tanti ostacoli una direzione dilettantesca ed un partner maschile inadeguato hanno frapposto. Dimostrando ancora che non necessariamente un “secondo cast” è inferiore al primo. E vincendo pienamente la “sfida” con la Devia sul campo della Stuarda. Un applauso anche alla Piscitelli che ha fatto bene in una parte complessa, anche drammaticamente. Un biasimo a tutto il resto ed in particolare alla Scala, che sembra ormai aver perso una qualsiasi logica artistica/organizzativa e una precisa direzione di percorso.
5 commenti:
La Piscitelli è stata anche una Maria decisamente plausibile a Macerata questa estate, in particolare con un bel primo atto e una bella confessione (smortino, invece, il finale). Tra l'altro mi sa che l'allestimento era lo stesso, o comunque parzialmente modificato... ma Macerata era nominata da qualche parte durante queste recite scaligere?
No...non era assolutamente nominata! Segno anche questo della poca professionalità che ha caratterizzato questo allestimento.
Sono davvero felice che Maria Pia Piscitelli sia andata decisamente meglio della Antonacci. Maria Pia che tra l'altro ho personalmente intervistato nel mio blog L'orecchio di Dioniso - http://alexromanelli.blogspot.com/
meriterebbe senz'altro una maggiore considerazione dalle fondazioni liriche italiane.
Complimenti per il tuo blog...Nourrit. Quando ci ricanti il...Guglielmo Tell???
Siete tutti formidabiliiiiii!!!!!!!!
non è molto ke vi conosco, ma adoro il vostro blog!
x me, italiano, ke vi scrivo da Zurigo e sono abituato qui ad altre sonorità vocali (e ke sonorità!!!!forse in Italia se ne sente davvero la mancanza, carenza di voci o potere del soldo?ma?nn credo, parlerei piuttosto di una scellerata scelta di cantanti e direttori...), è un pò un dispiacere avere le tristi nuove ke apprendo da voi circa l'andare a rotoli della Scala...
e non solo della Scala...
però d'altronde è anke vero ke se nessuno apre la bocca finiamo tutti in un penoso bidone lirico ke ci fa trangugiare come stellare una serata in realtà poi oscena come è stata appunto la prima scaligera della Stuarda...(e x l'Italia è davvero una vergogna se consideriamo anke solo la grande carriera passata del teatro meneghino o di altri Enti lirici oramai allo sbaraglio...)
a questo proposito vorrei solo kiedervi come mai la diretta di radio 3 ke io ho ascoltato quella sera riportasse una serata “signanda lapillo” incurante dei fiski ke si sentivano provenire dalla sala e del mio msg spedito via mail ( e credo non solo mio...) circa un più ke oggettivo punto di vista critico della performance?
Sono rimasto sbalordito ke addirittura proprio le più eclatanti cadute della Devia venissero ostentate come un ritorno ai fasti del Belcanto...ma quali fasti?
Fa bene Mme Grisi a dire ke ai suoi tempi il canto era altra cosa...
E ci credo!!!!!
ho studiato un pò pianoforte in passato, con questo nn voglio sembrare saccente, ma anke il più erudito di musica sa benissimo ke la tessitura della Stuarda è ben più ardita di quella della Bolena e nn capisco xkè (x quanto ritenga la Devia sia stata una eccezionale interprete belcantistica, vedasi la Lucia del '93), dopo il fiasco delle recite veronesi con Bolena si sia voluta addentrare in un ruolo non più ormai nelle sue possibilità...
e non capisco ancora di più perchè la cronaca radiofonica e molti giornali poi non abbia riportato anke i msg critici e negativi di quella serata piuttosto ke osannare a squarciagola l’interpretazione della Devia o dell’Elisabetta o del Leicester...son rimasto un pò amareggiato, capisco xkè poi si finisce così in basso se riteniamo sfolgorati esecuzioni simili....
sarà duro a dirsi ed anke a scriversi, ma vi giuro ke provo davvero pena per i nostri grandi Lumi della Musica, Donizetti in primis...
vabbè, ke dire?
Resto in attesa della Lucrezia torinese con la Cedolins, unico baluardo futuro italiano in cui spero e vi saluto caramente!
Lasp
PS:cmq volevo riportarvi ke l'allestimento scaligero era lo stesso dello Sferisterio e nessuno ne ha davvero parlato!Ank’io non avevo disdegnato la Piscitelli nella Stuarda (pazienza per i fan dei mi bemolli...)e tantomeno l’Elisabetta della Polverelli
E' tempo che si riconoscano la bravura e la professionalità di Maria Pia Piscitelli.Soprano pluripremiato ed adorato in sud america.Qui in italia comincia solo ora a farsi conoscere,meravigliosa Stuarda a Macerata e poi alla Scala.Tosca di grande carisma a Modena,Ferrara e Piacenza lo scorso mese. Ora aspettiamo con trepidazione la sua Norma al comunale di Bologna il 2,6 e 8 maggio 2008.Norma che ha già interpretato numerose volte e per la quale è stata premiata come migliore soprano straniero in Argentina nel 2006 e 2007.Andiamo ad applaudirla a bologna.
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