Dalla ripresa del Maggio Musicale fiorentino 1967 Maria Stuarda è rientrata, quasi stabilmente, in repertorio. Specie in quello di primedonne, giustamente desiderose di mettere in rilievo le proprie qualità e di poco fantasiosi direttori artistici di teatro, i quali si illudono che per fare novità si debba proporre la cosiddetta trilogia Tudor.
Mai Donizetti pensò ad una trilogia né tanto meno impresari e direttori di teatro coevo al maestro. E poi Bolena ed in parte Devereux sopravvissero per anni, mentre la Stuarda conobbe, come moltissime altre produzioni donizettiane, immediato oblio.
Se poi devo esprimere la mia opinione, per quale che vale, la mie preferenza va, piuttosto che alle regine, alle duchesse donizettiane in primo luogo Maria di Rohan e Lucrezia Borgia. Opere queste ultime di lunghissima sopravvivenza nel repertorio. Anzi mai sparite.
La tiepida accoglienza e la rapida sparizione della Stuarda è frutto della debolezza del libretto dove le due regine si incontrano ( e ciò secondo Schiller e contro la storia), ma a parte la famose apostrofe non hanno la possibilità di un vero scontro vocale e il terzo atto è per la più parte occupato da Maria, prima confidente con Talbot e poi, debitamente emendata dai terreni errori, pronta al patibolo, da martire o quasi.
Il limite drammaturgico è pregio assoluto se la Stuarda di turno è una vera grande assoluta primadonna con tutti i sacri crismi vocali, tecnici ed interpretativi. In assenza di queste qualità le caratteristiche drammaturgiche di Maria Stuarda si trasformano in armi a doppio taglio con conseguente affossamento del personaggio e dell’opera che sulla protagonista si regge per buona parte.
Tutte le prime donne del dopo Callas si sono gettate nella mischia. Della prima generazione una sola assente Renata Scotto, che in considerazione dei risultati conseguiti in Bolena e Rohan, sarebbe stata la quinta grande nei panni della regina di Scozia.
Va premesso che Maria Stuarda è parte più da soprano usurpato che da soprano assoluto dalla scrittura, quindi, marcatamente centrale, caratteristica più evidente nella versione per Maria Malibran, fondamentalmente spianata, (se si esclude la cabaletta della sortita, specie nella versione Malibran) propensa ad esprimersi con le “cantilene” tipiche del melodramma italiano dopo Rossini e prima di Verdi. In Stuarda, quando “ a cantilene” siamo quasi al record .
Tutte caratteristiche che non sono proprio le stesse voci delle maggiori Stuarde.
E chiaro quindi, che il successo la fama di grande interprete si acquista con i fraseggio analitico e con l’intervento sul testo dove consentito e in alcuni casi dove opportuno.
La prima caratteristica ufficialmente latita in Joan Sutherland. La seconda via interpretativa, invece, è praticata e con risultati degni della fama.
La scrittura bassa non consente alla Sutherland, particolarmente nella cavatina di sortita l’esibizione del legato, ossia di una delle sue caratteristiche peculiari. L’esecuzione e l’interpretazione crescono sia in disco che in house a partire dalla cabaletta con il da capo alzato di una terza, che consente tessitura agevole e il solito ( si fa per dire) virtuosismo di vero effetto. Anche se, ripeto, il virtuosismo non è proprio una delle chiavi di lettura del personaggio.
E ovvio che la Sutherland, voce, prima ancora che accento malinconico svetti nei passi malinconici a partire dal “ da tutti abbandonata”. Quindi anche la sezione centrale della confessione o le parti elegiache della scena finale si avvalgono dell’accento malinconico e dell’ottava superiore molto facile della cantante.
La Sutherland manca di sfumature rispetto alle altre colleghe. Questa è la sua caratteristica, ma è anche la sigla interpretativa di una Maria, che risponde ad una visione del personaggio molto regale e magniloquente, priva dei tormenti della donna. In questo senso l’esecuzione del famoso “ quando di luce rosea” è paradigmatica.
Certo che la scorrevolezza del “D’un cor che more” piuttosto che del “ se un giorno” hanno pochi confronti. La sola Sills, probabilmente.
La altre dive nei panni della Stuarda ricorrono ad una dinamica molto più sfumata.
Con una sostanziale differenza, non da poco, che le idee interpretative della Gencer e della Sills sono frutto di pensieri e di preparazione, mentre quelle della senora Caballe, dotata di un timbro di assoluta, irripetibile qualità sembrano piazzate a caso.
Dell’assunto gli esempi si sprecano dall’esecuzione pasticciata della chiusa dell’aria ( Scala 1971, soprattutto) agli accomodi nel duetto con Talbot ai risparmi tipo evitare mezza battuta per concedersi una più lunga presa di fiato.
Inoltre la Caballè ha sempre eseguito l’opera con una cospicua serie di tagli a partire dalle cabalette e quando le ha eseguite ( Parigi 1972) gli inserimenti, o abbellimenti, che dir si voglia, sono la quintessenza del casuale, magari in spregio di tempo e ritmo. Certo con una voce unica.
Rimangono “in lizza” la Gencer e la Sills. Entrambe delle quattro le voci più inadatte sulla carta e la Sills ancor più della Gencer.
E’ scontato celebrare la Gencer per la dinamica che all’interno di una stessa frase passa dal pianissimo al mezzoforte come accade nel recitativo iniziale e che differenzia con il colore della voce il “suolo beato” dalla “cruda nube” o dall’equilibrio fra la donna e la regina sia nel duetto con Leicester che, soprattutto, nella scena con Talbot.
La realizzazione della Gencer fa parte della storia dell’opera. E’ difficile ipotizzare protagoniste successive che non si siano misurate con le idee interpretative della cantante. E questo anche se nel 1967 comparivano già certi vizi e vezzi della cantante ( colpi di glottide e una non più perfetta fusione, talvolta fra le note basse ed il resto della voce).
Quanto a vizi e vezzi ne abbonda anche Beverly Sills e stranamente più in disco che in teatro. Certi effetti da disco in teatro sono ad altissimo rischio sulla resa e tenuta della serata e allora la Sills appare più misurata in house. E paradossalmente se ne giova.
Rimangono, tipici di una voce di soprano leggero i suoni aperti della famosa apostrofe “ figlia impura di Bolena” efficace, però per i doverosi interventi sul testo.
E’ difficile però immaginare una accento più vario. Non solo nei luoghi topici come il duetto con Talbot, ma anche il duetto con Leicester dove Maria è una donna innamorata e piacente (chiaramente contro la storia, atteso che Maria ormai matura all’epoca della morte e tutt’altro che avvenente) ed in ogni frase, spesso a condizione che la scrittura vocale sia propizia alla voce della cantante americana. E’ però difficile immaginare un accento più partecipe ed accorato nel “ d’un cor che more” o una più profonda nostalgia nella sortita. Inutile dire la gara a distanza Sills Sutherland nei passi acrobatici.
Davanti a tante primedonne il dopo è un po’ meno allettante anche se tutte le primedonne di fama e rilevanza della generazione successiva hanno affrontato la regina di Scozia.
Tralascio la Ricciarelli, dal timbro di qualità, ma con limiti e mende vocali che impediscono un possesso dello strumento e dell’espressione completo e soddisfacente.
Se la sono cavata molto, molto meglio nei loro approcci sporadici Maria Chiara e Lella Cuberli.
La Chiara era dotata di un timbro di grandissima bellezza, secondo solo alla Caballè, era una cantante che salvo un certo appesantimento della voce, derivato dalla assidua frequentazione con Aida dopo il 1980, possedeva una dinamica sfumata e, senza essere inarrivabile, se la cavava egregiamente come virtuosa. Certo non era una fraseggiatrice irresistibile, anzi piuttosto convenzionale e neppure assistita da una fantasia illimitata.
Il tutto per farne una più che buona protagonista senza la zampata della autentica primadonna.
In altro repertorio era una primadonna autentica Lella Cuberli, pur dotata di una voce limitata quanto a volume e timbro. Limiti che in Rossini, Mozart ed Handel nessuno rilevava, ma che l’operismo post rossiniano progressivamente evidenzia.
Alle prese con la Stuarda e, va detto, con il sostegno di un direttore unico in questo repertorio come Bonynge, la Cuberli fu credibilissima nei panni della Stuarda, anche se il timbro non era quella della Caballé, la facilità, (a rigore i re nat ci sono anche), in alto molto pensata e voluta e l’accento sempre attento, ma sicuramente più neoclassico che romantico. Insomma la Stuarda parigina richiamava anche per l’assoluta precisione di esecuzione, le famose Semiramidi o Giuliette Capuleti.
Per altro i limiti della voce sono ancor più evidenti nei soprani, che oggi più spesso vestono i panni di Maria. Parlo di Mariella Devia ed Edita Gruberova.
Credo, però che il limite di scarsa sonorità della voce al centro e poca propensione ad un rapporto diciamo “sillsiano” con il dato letterale dello spartito siamo più marcati in Mariella Devia. La signora Devia, rimasta con la Gruberova l’unica cantante della propria generazione in carriera e l’unica completa professionista da tempo ha preso gusto a cantare personaggi (Borgia, Stuarda, Bolena, Imogene ed anche donna Anna ed Elettra di Idomeneo, piuttosto che la verdiana Giovanna d’Arco) nei quali desta ammirazione per la longevità, la cosiddetta lezione di canto ed assoluta indifferenza per l’interprete e, in molti casi, anche per la virtuosa.
Che poi alcune frasi siano dette e pensate anche splendidamente sembra il minimo per una cantante di questa tempra.
In Edita Gruberova il limite nei panni di qualsiasi personaggio donizettiano e belliniano è il gusto. La voce al centro suona più ampia e timbrata di quella della Devia ed anche, sempre, in quella zona più giovanile e fresca (credo anche per il tipo di emissione), ma al gusto italiano disturbano i portamenti, costanti per l’emissione di ogni nota superiore al la, le conseguenti stonature sui sovracuti (non capisco, salvo che in nome dell’orgoglio della primadonna l’insistenza ad emetterli, mentre i pochi della Devia sono ancora facili) e soprattutto l’accento manierato e lezioso, che non ha nulla dell’accento sonoro e pieno di chi canta veramente all’italiana.
Ripeto due grandi prime donne con mille motivi per essere ammirati, ma basta sentire un recitativo di Leyla Gencer o una frase di Beverly Sills per essere immediatamente davanti ad una seria e completa raffigurazione della prima donna, nel senso più genuino e completo del termine.
Donizetti - Maria Stuarda
Atto I
- Ah! quando all'ara scorgemi...Ah! dal ciel discenda un raggio
Shirley Verrett, Pauline Tinsley, Marisa Galvany, Martine Dupuy
- Quali sensi!...Era d'amor l'immagine...Sul crin la rivale
Shirley Verrett & Ottavio Garaventa, Pauline Tinsley & John Stewart, Marisa Galvany & Kenneth Riegel, Martine Dupuy & Alejandro Ramirez
Atto II
- O nube che lieve...Nella pace del mesto riposo
Leyla Gencer, Montserrat Caballè, Beverly Sills, Joan Sutherland, Mariella Chiara, Lella Cuberli, Barbara Frittoli, Mariella Devia
- Da tutti abbandonata...Ah! Se il mio cor tremò giammai
Leyla Gencer & Franco Tagliavini, Beverly Sills & John Stewart, Montserrat Caballè & Ottavio Garaventa, Joan Sutherland & Stuart Burrows, Maria Chiara & Francisco Araiza, Lella Cuberli & Douglas Ahlstedt, Barbara Frittoli & Paul Charles Clark, Edita Gruberova & Juan Diego Florez
- Scena del confronto Elisabetta-Maria Stuarda
Leyla Gencer & Shirley Verrett, Montserrat Caballè & Shirley Verrett, Beverly Sills & Pauline Tinsley, Joan Sutherland & Huguette Tourangeau, Edita Gruberova & Martine Dupuy, Barbara Frittoli & Anna Caterina Antonacci, Edita Gruberova & Sonia Ganassi
Atto III
- Quella vita a me funesta...Deh! per pietà sospendi...Vanne indegno, t'appare sul volto
Shirley Verrett, Pauline Tinsley, Marisa Galvany, Martine Dupuy
- Quando di luce rosea...Lascia contenta al carcere
Leyla Gencer, Montserrat Caballè, Beverly Sills, Joan Sutherland, Katia Ricciarelli, Maria Chiara, Barbara Frittoli, Mariella Devia
- Deh! tu di un'umile preghiera il suono
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland, Maria Chiara, Katia Ricciarelli, Edita Gruberova, Lella Cuberli, Mariella Devia
- D'un cor che more reca il perdono
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland
- Ah! se un giorno da queste ritorte
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland, Maria Chiara, Edita Gruberova, Lella Cuberli, Mariella Devia
Se poi devo esprimere la mia opinione, per quale che vale, la mie preferenza va, piuttosto che alle regine, alle duchesse donizettiane in primo luogo Maria di Rohan e Lucrezia Borgia. Opere queste ultime di lunghissima sopravvivenza nel repertorio. Anzi mai sparite.
La tiepida accoglienza e la rapida sparizione della Stuarda è frutto della debolezza del libretto dove le due regine si incontrano ( e ciò secondo Schiller e contro la storia), ma a parte la famose apostrofe non hanno la possibilità di un vero scontro vocale e il terzo atto è per la più parte occupato da Maria, prima confidente con Talbot e poi, debitamente emendata dai terreni errori, pronta al patibolo, da martire o quasi.
Il limite drammaturgico è pregio assoluto se la Stuarda di turno è una vera grande assoluta primadonna con tutti i sacri crismi vocali, tecnici ed interpretativi. In assenza di queste qualità le caratteristiche drammaturgiche di Maria Stuarda si trasformano in armi a doppio taglio con conseguente affossamento del personaggio e dell’opera che sulla protagonista si regge per buona parte.
Tutte le prime donne del dopo Callas si sono gettate nella mischia. Della prima generazione una sola assente Renata Scotto, che in considerazione dei risultati conseguiti in Bolena e Rohan, sarebbe stata la quinta grande nei panni della regina di Scozia.
Va premesso che Maria Stuarda è parte più da soprano usurpato che da soprano assoluto dalla scrittura, quindi, marcatamente centrale, caratteristica più evidente nella versione per Maria Malibran, fondamentalmente spianata, (se si esclude la cabaletta della sortita, specie nella versione Malibran) propensa ad esprimersi con le “cantilene” tipiche del melodramma italiano dopo Rossini e prima di Verdi. In Stuarda, quando “ a cantilene” siamo quasi al record .
Tutte caratteristiche che non sono proprio le stesse voci delle maggiori Stuarde.
E chiaro quindi, che il successo la fama di grande interprete si acquista con i fraseggio analitico e con l’intervento sul testo dove consentito e in alcuni casi dove opportuno.
La prima caratteristica ufficialmente latita in Joan Sutherland. La seconda via interpretativa, invece, è praticata e con risultati degni della fama.
La scrittura bassa non consente alla Sutherland, particolarmente nella cavatina di sortita l’esibizione del legato, ossia di una delle sue caratteristiche peculiari. L’esecuzione e l’interpretazione crescono sia in disco che in house a partire dalla cabaletta con il da capo alzato di una terza, che consente tessitura agevole e il solito ( si fa per dire) virtuosismo di vero effetto. Anche se, ripeto, il virtuosismo non è proprio una delle chiavi di lettura del personaggio.
E ovvio che la Sutherland, voce, prima ancora che accento malinconico svetti nei passi malinconici a partire dal “ da tutti abbandonata”. Quindi anche la sezione centrale della confessione o le parti elegiache della scena finale si avvalgono dell’accento malinconico e dell’ottava superiore molto facile della cantante.
La Sutherland manca di sfumature rispetto alle altre colleghe. Questa è la sua caratteristica, ma è anche la sigla interpretativa di una Maria, che risponde ad una visione del personaggio molto regale e magniloquente, priva dei tormenti della donna. In questo senso l’esecuzione del famoso “ quando di luce rosea” è paradigmatica.
Certo che la scorrevolezza del “D’un cor che more” piuttosto che del “ se un giorno” hanno pochi confronti. La sola Sills, probabilmente.
La altre dive nei panni della Stuarda ricorrono ad una dinamica molto più sfumata.
Con una sostanziale differenza, non da poco, che le idee interpretative della Gencer e della Sills sono frutto di pensieri e di preparazione, mentre quelle della senora Caballe, dotata di un timbro di assoluta, irripetibile qualità sembrano piazzate a caso.
Dell’assunto gli esempi si sprecano dall’esecuzione pasticciata della chiusa dell’aria ( Scala 1971, soprattutto) agli accomodi nel duetto con Talbot ai risparmi tipo evitare mezza battuta per concedersi una più lunga presa di fiato.
Inoltre la Caballè ha sempre eseguito l’opera con una cospicua serie di tagli a partire dalle cabalette e quando le ha eseguite ( Parigi 1972) gli inserimenti, o abbellimenti, che dir si voglia, sono la quintessenza del casuale, magari in spregio di tempo e ritmo. Certo con una voce unica.
Rimangono “in lizza” la Gencer e la Sills. Entrambe delle quattro le voci più inadatte sulla carta e la Sills ancor più della Gencer.
E’ scontato celebrare la Gencer per la dinamica che all’interno di una stessa frase passa dal pianissimo al mezzoforte come accade nel recitativo iniziale e che differenzia con il colore della voce il “suolo beato” dalla “cruda nube” o dall’equilibrio fra la donna e la regina sia nel duetto con Leicester che, soprattutto, nella scena con Talbot.
La realizzazione della Gencer fa parte della storia dell’opera. E’ difficile ipotizzare protagoniste successive che non si siano misurate con le idee interpretative della cantante. E questo anche se nel 1967 comparivano già certi vizi e vezzi della cantante ( colpi di glottide e una non più perfetta fusione, talvolta fra le note basse ed il resto della voce).
Quanto a vizi e vezzi ne abbonda anche Beverly Sills e stranamente più in disco che in teatro. Certi effetti da disco in teatro sono ad altissimo rischio sulla resa e tenuta della serata e allora la Sills appare più misurata in house. E paradossalmente se ne giova.
Rimangono, tipici di una voce di soprano leggero i suoni aperti della famosa apostrofe “ figlia impura di Bolena” efficace, però per i doverosi interventi sul testo.
E’ difficile però immaginare una accento più vario. Non solo nei luoghi topici come il duetto con Talbot, ma anche il duetto con Leicester dove Maria è una donna innamorata e piacente (chiaramente contro la storia, atteso che Maria ormai matura all’epoca della morte e tutt’altro che avvenente) ed in ogni frase, spesso a condizione che la scrittura vocale sia propizia alla voce della cantante americana. E’ però difficile immaginare un accento più partecipe ed accorato nel “ d’un cor che more” o una più profonda nostalgia nella sortita. Inutile dire la gara a distanza Sills Sutherland nei passi acrobatici.
Davanti a tante primedonne il dopo è un po’ meno allettante anche se tutte le primedonne di fama e rilevanza della generazione successiva hanno affrontato la regina di Scozia.
Tralascio la Ricciarelli, dal timbro di qualità, ma con limiti e mende vocali che impediscono un possesso dello strumento e dell’espressione completo e soddisfacente.
Se la sono cavata molto, molto meglio nei loro approcci sporadici Maria Chiara e Lella Cuberli.
La Chiara era dotata di un timbro di grandissima bellezza, secondo solo alla Caballè, era una cantante che salvo un certo appesantimento della voce, derivato dalla assidua frequentazione con Aida dopo il 1980, possedeva una dinamica sfumata e, senza essere inarrivabile, se la cavava egregiamente come virtuosa. Certo non era una fraseggiatrice irresistibile, anzi piuttosto convenzionale e neppure assistita da una fantasia illimitata.
Il tutto per farne una più che buona protagonista senza la zampata della autentica primadonna.
In altro repertorio era una primadonna autentica Lella Cuberli, pur dotata di una voce limitata quanto a volume e timbro. Limiti che in Rossini, Mozart ed Handel nessuno rilevava, ma che l’operismo post rossiniano progressivamente evidenzia.
Alle prese con la Stuarda e, va detto, con il sostegno di un direttore unico in questo repertorio come Bonynge, la Cuberli fu credibilissima nei panni della Stuarda, anche se il timbro non era quella della Caballé, la facilità, (a rigore i re nat ci sono anche), in alto molto pensata e voluta e l’accento sempre attento, ma sicuramente più neoclassico che romantico. Insomma la Stuarda parigina richiamava anche per l’assoluta precisione di esecuzione, le famose Semiramidi o Giuliette Capuleti.
Per altro i limiti della voce sono ancor più evidenti nei soprani, che oggi più spesso vestono i panni di Maria. Parlo di Mariella Devia ed Edita Gruberova.
Credo, però che il limite di scarsa sonorità della voce al centro e poca propensione ad un rapporto diciamo “sillsiano” con il dato letterale dello spartito siamo più marcati in Mariella Devia. La signora Devia, rimasta con la Gruberova l’unica cantante della propria generazione in carriera e l’unica completa professionista da tempo ha preso gusto a cantare personaggi (Borgia, Stuarda, Bolena, Imogene ed anche donna Anna ed Elettra di Idomeneo, piuttosto che la verdiana Giovanna d’Arco) nei quali desta ammirazione per la longevità, la cosiddetta lezione di canto ed assoluta indifferenza per l’interprete e, in molti casi, anche per la virtuosa.
Che poi alcune frasi siano dette e pensate anche splendidamente sembra il minimo per una cantante di questa tempra.
In Edita Gruberova il limite nei panni di qualsiasi personaggio donizettiano e belliniano è il gusto. La voce al centro suona più ampia e timbrata di quella della Devia ed anche, sempre, in quella zona più giovanile e fresca (credo anche per il tipo di emissione), ma al gusto italiano disturbano i portamenti, costanti per l’emissione di ogni nota superiore al la, le conseguenti stonature sui sovracuti (non capisco, salvo che in nome dell’orgoglio della primadonna l’insistenza ad emetterli, mentre i pochi della Devia sono ancora facili) e soprattutto l’accento manierato e lezioso, che non ha nulla dell’accento sonoro e pieno di chi canta veramente all’italiana.
Ripeto due grandi prime donne con mille motivi per essere ammirati, ma basta sentire un recitativo di Leyla Gencer o una frase di Beverly Sills per essere immediatamente davanti ad una seria e completa raffigurazione della prima donna, nel senso più genuino e completo del termine.
Donizetti - Maria Stuarda
Atto I
- Ah! quando all'ara scorgemi...Ah! dal ciel discenda un raggio
Shirley Verrett, Pauline Tinsley, Marisa Galvany, Martine Dupuy
- Quali sensi!...Era d'amor l'immagine...Sul crin la rivale
Shirley Verrett & Ottavio Garaventa, Pauline Tinsley & John Stewart, Marisa Galvany & Kenneth Riegel, Martine Dupuy & Alejandro Ramirez
Atto II
- O nube che lieve...Nella pace del mesto riposo
Leyla Gencer, Montserrat Caballè, Beverly Sills, Joan Sutherland, Mariella Chiara, Lella Cuberli, Barbara Frittoli, Mariella Devia
- Da tutti abbandonata...Ah! Se il mio cor tremò giammai
Leyla Gencer & Franco Tagliavini, Beverly Sills & John Stewart, Montserrat Caballè & Ottavio Garaventa, Joan Sutherland & Stuart Burrows, Maria Chiara & Francisco Araiza, Lella Cuberli & Douglas Ahlstedt, Barbara Frittoli & Paul Charles Clark, Edita Gruberova & Juan Diego Florez
- Scena del confronto Elisabetta-Maria Stuarda
Leyla Gencer & Shirley Verrett, Montserrat Caballè & Shirley Verrett, Beverly Sills & Pauline Tinsley, Joan Sutherland & Huguette Tourangeau, Edita Gruberova & Martine Dupuy, Barbara Frittoli & Anna Caterina Antonacci, Edita Gruberova & Sonia Ganassi
Atto III
- Quella vita a me funesta...Deh! per pietà sospendi...Vanne indegno, t'appare sul volto
Shirley Verrett, Pauline Tinsley, Marisa Galvany, Martine Dupuy
- Quando di luce rosea...Lascia contenta al carcere
Leyla Gencer, Montserrat Caballè, Beverly Sills, Joan Sutherland, Katia Ricciarelli, Maria Chiara, Barbara Frittoli, Mariella Devia
- Deh! tu di un'umile preghiera il suono
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland, Maria Chiara, Katia Ricciarelli, Edita Gruberova, Lella Cuberli, Mariella Devia
- D'un cor che more reca il perdono
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland
- Ah! se un giorno da queste ritorte
Leyla Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballè, Joan Sutherland, Maria Chiara, Edita Gruberova, Lella Cuberli, Mariella Devia
1 commenti:
Nel mio Blog potete vedere un'intervista che fece alla Gencer l'anno scorso!
Posta un commento