La Tosca rappresentata ieri sera all'Arena di Verona aveva, sulla carta, almeno due motivi d'interesse: la presenza nel cast di "nomi" quali Daniela Dessì, ricondotta al Novecento dopo la zoppicante parentesi belliniana, e Marcelo Alvarez e la ripresa della regia di Hugo de Ana, peraltro già immortalata da un dvd areniano con Fiorenza Cedolins e il suddetto Alvarez. Stupisce quindi aver dovuto vedere la platea e le gradinate veronesi così sguarnite di pubblico, specie ora che, passato il maltempo, il tepore delle notti invita ai divertimenti all'aria aperta. Ma così è.
Inutile girarci intorno: ieri sera la performance della signora Dessì è stata l'unica ragione per seguire sino alla fine lo spettacolo areniano. Spettacolo che il pubblico ha del resto applaudito, alla fine, piuttosto alla svelta, e non certo per l'ora antelucana (a mezzanotte e trenta Floria si era buttata di sotto, o meglio, come vedremo, era stata assunta in cielo) ma per un senso di generale precarietà e scarso impatto della rappresentazione.
Giuliano Carella ha concertato senza eccessiva fantasia, qualche sbavatura (come da tradizione areniana) ma sempre con grande rispetto degli interpreti e delle loro esigenze, dovendosi armare di santa pazienza soprattutto con Alvarez, che particolarmente nell'assolo del terzo atto ha un po', come usa dirsi, fatto di testa propria in fatto di scansione musicale, con il direttore che aveva il suo da fare nell'accompagnare le intemperanze ritmiche e d'intonazione del tenore argentino. La voce baciata da Madre Natura non ha in Arena grande rilevanza, appurato che l'acustica permette alla voci di raggiungere gli spalti solo se queste ultime sono emesse e gestite come arte insegna e prescrive. Il che non è il caso di Alvarez, che scambia la vociferazione per generosità espressiva e risulta grosso, ma poco o punto sonoro, tanto che il Vittoria! Vittoria!, tenuto allo spasimo, dà luogo a una serie di suoni di ridotto volume e assai imprecisi dal punto di vista dell'intonazione. Nessun applauso a scena aperta per lui in un punto che, soprattutto in Arena, non usa lasciare indifferente il pubblico. La sortita è affrontata con piglio canzonettistico, il canto brilla generalmente per assenza di colori e sfumature che non siano i suoni malfermi e sbiancati propinati ad esempio in O dolci mani, che insistendo sul passaggio mette in impietoso rilievo le carenze tecniche di Marcelo. Per sottolineare quelle sceniche basta invece il duetto finale, durante il quale Alvarez barcolla come in preda al mal di mare. Pavarotti, altro conclamato sacco di patate, aveva se non altro la decenza di spostarsi il meno possibile.
Con siffatto sfascio la prova di Daniela Dessì, per quanto imperfetta, non può che contrastare fatalmente. La voce, più leggera per peso e consistenza rispetto a quella del tenore, arriva con facilità incomparabilmente maggiore, anche e anzi direi soprattutto quando la signora ha da cantare fuori scena, rectius sul retro dell'ingrombrante scenografia. Sonorissimi risultano i mi bemolle dei Mario! iniziali. Se la fascia acuta stride non poco e scende spesso a patti con l'intonazione (il do della lama, sebbene puntiforme, è comunque corretto), i centri hanno una solidità che sfida l'impatto del tempo e la naturale usura, risultando basilari per un Vissi d'arte che la Dessì, senza essere la grande fraseggiatrice che peraltro mai è stata, porta a casa con onestà e professionismo, un accorto dosaggio dei fiati e un apprezzabile impiego di pianissimi e mezzevoci. Bene fa il pubblico a chiederle il bis, prontamente concesso. Abbiamo invece qualche dubbio sull'opportunità di invocare la ripetizione di E lucevan le stelle, se non altro perché Alvarez ne approfitta per dar vita a un ignobile siparietto di arte varia: dapprima invoca un bicchier d'acqua, strabuzzando e roteando gli occhi rivolto al retropalco, e poi intercetta una bottiglietta che gli viene lanciata da un professore d'orchestra. Segue bis, puntualmente a squarciagola. Malinconico notare come, della generosità di altri tempi e ben altri interpreti, il simpatico Marcelo trattenga solo l'aspetto più becero: non perché siamo all'interno di un circo dovrebbe essere permesso a un artista lirico di fare il pagliaccio.
Per tornare alla prova della Dessì, se strappa la sufficienza per la performance strettamente vocale (vista anche la miseria del contesto), l'attrice è gravemente deficitaria. Pacifiche le origini popolane di Floria, ma la diva della Roma papalina dovrebbe star in scena con un minimo di allure e non sembrare la Rosetta di Rugantino in maschera per il Carnevale. Particolarmente fuori luogo il finale del secondo atto, in cui l'assassina del Capo della Polizia vaticana abbandona Palazzo Farnese ancheggiando come una soubrettina da poco entrata nelle grazie del capocomico.
Su Alberto Mastromarino, anche lui tutt'altro che un prodigio di finezza, possiamo dire solo che ne benediciamo la scarsa proiezione, che gli impedisce di rovinare fatalmente il finale primo. La voce, di per sé tutt'altro che piccola, giunge a tratti (una frase su cinque, in media): quanto basta a non volerne sentire di più. Quanto al secondo atto, abbiamo trovato semplicemente avvilente il suo "ringhio di conversazione". Il tanto vituperato Gobbi è, al paragone, un emulo di Battistini. Inudibili i comprimari, con l'eccezione di Nicolò Ceriani (Sciarrone), vocalmente più a fuoco del suo principale.
De Ana crea uno spazio astratto dominato da una gigantesca statua di San Michele Arcangelo, ridotta a puzzle. La chiesa sembra un magazzino invaso da vescovi, Scarpia cena su alcuni catafalchi (ricordo della Lucrezia Borgia scaligera) e alla fine Floria entra nella testa dell'Angelo per riemergerne subito dopo alla sommità, con notevole effetto plastico. Per il resto la scena è dominata da cannoni che sparano sovente (non solo all'annuncio della fuga di Angelotti) e ammennicoli religiosi di varia foggia e gusto, ivi compresa una croce a cui viene appoggiato Mario al momento della fucilazione. Misteriosa permane la presenza ai primi due atti di carabinieri che al terzo si mutano in ussari. Trovarobato di altissima classe, insomma, ma forse la disponibilità di uno scenario "naturale" come l'Arena meriterebbe maggiore sobrietà e più contenuti autoimprestiti. Posto che una regia, nel vero senso della parola, non c'è, come dimostra il confuso deambulare dei cantanti lungo lo stretto corridoio che funge da scena.
Antonio Tamburini (in collaborazione con Adolphe Nourrit)
Puccini - Tosca
Atto I
Recondita armonia - Renato Cioni
Mario! Mario! Mario! - Raina Kabaivanska & José Carreras
Tre sbirri, una carrozza - George London
Atto II
Ed or fra noi parliam da buoni amici...Vittoria! Vittoria! - Raina Kabaivanska, José Carreras & Renato Bruson
Vissi d'arte - Antonietta Stella
Atto III
E lucevan le stelle - Jaime Aragall
Inutile girarci intorno: ieri sera la performance della signora Dessì è stata l'unica ragione per seguire sino alla fine lo spettacolo areniano. Spettacolo che il pubblico ha del resto applaudito, alla fine, piuttosto alla svelta, e non certo per l'ora antelucana (a mezzanotte e trenta Floria si era buttata di sotto, o meglio, come vedremo, era stata assunta in cielo) ma per un senso di generale precarietà e scarso impatto della rappresentazione.
Giuliano Carella ha concertato senza eccessiva fantasia, qualche sbavatura (come da tradizione areniana) ma sempre con grande rispetto degli interpreti e delle loro esigenze, dovendosi armare di santa pazienza soprattutto con Alvarez, che particolarmente nell'assolo del terzo atto ha un po', come usa dirsi, fatto di testa propria in fatto di scansione musicale, con il direttore che aveva il suo da fare nell'accompagnare le intemperanze ritmiche e d'intonazione del tenore argentino. La voce baciata da Madre Natura non ha in Arena grande rilevanza, appurato che l'acustica permette alla voci di raggiungere gli spalti solo se queste ultime sono emesse e gestite come arte insegna e prescrive. Il che non è il caso di Alvarez, che scambia la vociferazione per generosità espressiva e risulta grosso, ma poco o punto sonoro, tanto che il Vittoria! Vittoria!, tenuto allo spasimo, dà luogo a una serie di suoni di ridotto volume e assai imprecisi dal punto di vista dell'intonazione. Nessun applauso a scena aperta per lui in un punto che, soprattutto in Arena, non usa lasciare indifferente il pubblico. La sortita è affrontata con piglio canzonettistico, il canto brilla generalmente per assenza di colori e sfumature che non siano i suoni malfermi e sbiancati propinati ad esempio in O dolci mani, che insistendo sul passaggio mette in impietoso rilievo le carenze tecniche di Marcelo. Per sottolineare quelle sceniche basta invece il duetto finale, durante il quale Alvarez barcolla come in preda al mal di mare. Pavarotti, altro conclamato sacco di patate, aveva se non altro la decenza di spostarsi il meno possibile.
Con siffatto sfascio la prova di Daniela Dessì, per quanto imperfetta, non può che contrastare fatalmente. La voce, più leggera per peso e consistenza rispetto a quella del tenore, arriva con facilità incomparabilmente maggiore, anche e anzi direi soprattutto quando la signora ha da cantare fuori scena, rectius sul retro dell'ingrombrante scenografia. Sonorissimi risultano i mi bemolle dei Mario! iniziali. Se la fascia acuta stride non poco e scende spesso a patti con l'intonazione (il do della lama, sebbene puntiforme, è comunque corretto), i centri hanno una solidità che sfida l'impatto del tempo e la naturale usura, risultando basilari per un Vissi d'arte che la Dessì, senza essere la grande fraseggiatrice che peraltro mai è stata, porta a casa con onestà e professionismo, un accorto dosaggio dei fiati e un apprezzabile impiego di pianissimi e mezzevoci. Bene fa il pubblico a chiederle il bis, prontamente concesso. Abbiamo invece qualche dubbio sull'opportunità di invocare la ripetizione di E lucevan le stelle, se non altro perché Alvarez ne approfitta per dar vita a un ignobile siparietto di arte varia: dapprima invoca un bicchier d'acqua, strabuzzando e roteando gli occhi rivolto al retropalco, e poi intercetta una bottiglietta che gli viene lanciata da un professore d'orchestra. Segue bis, puntualmente a squarciagola. Malinconico notare come, della generosità di altri tempi e ben altri interpreti, il simpatico Marcelo trattenga solo l'aspetto più becero: non perché siamo all'interno di un circo dovrebbe essere permesso a un artista lirico di fare il pagliaccio.
Per tornare alla prova della Dessì, se strappa la sufficienza per la performance strettamente vocale (vista anche la miseria del contesto), l'attrice è gravemente deficitaria. Pacifiche le origini popolane di Floria, ma la diva della Roma papalina dovrebbe star in scena con un minimo di allure e non sembrare la Rosetta di Rugantino in maschera per il Carnevale. Particolarmente fuori luogo il finale del secondo atto, in cui l'assassina del Capo della Polizia vaticana abbandona Palazzo Farnese ancheggiando come una soubrettina da poco entrata nelle grazie del capocomico.
Su Alberto Mastromarino, anche lui tutt'altro che un prodigio di finezza, possiamo dire solo che ne benediciamo la scarsa proiezione, che gli impedisce di rovinare fatalmente il finale primo. La voce, di per sé tutt'altro che piccola, giunge a tratti (una frase su cinque, in media): quanto basta a non volerne sentire di più. Quanto al secondo atto, abbiamo trovato semplicemente avvilente il suo "ringhio di conversazione". Il tanto vituperato Gobbi è, al paragone, un emulo di Battistini. Inudibili i comprimari, con l'eccezione di Nicolò Ceriani (Sciarrone), vocalmente più a fuoco del suo principale.
De Ana crea uno spazio astratto dominato da una gigantesca statua di San Michele Arcangelo, ridotta a puzzle. La chiesa sembra un magazzino invaso da vescovi, Scarpia cena su alcuni catafalchi (ricordo della Lucrezia Borgia scaligera) e alla fine Floria entra nella testa dell'Angelo per riemergerne subito dopo alla sommità, con notevole effetto plastico. Per il resto la scena è dominata da cannoni che sparano sovente (non solo all'annuncio della fuga di Angelotti) e ammennicoli religiosi di varia foggia e gusto, ivi compresa una croce a cui viene appoggiato Mario al momento della fucilazione. Misteriosa permane la presenza ai primi due atti di carabinieri che al terzo si mutano in ussari. Trovarobato di altissima classe, insomma, ma forse la disponibilità di uno scenario "naturale" come l'Arena meriterebbe maggiore sobrietà e più contenuti autoimprestiti. Posto che una regia, nel vero senso della parola, non c'è, come dimostra il confuso deambulare dei cantanti lungo lo stretto corridoio che funge da scena.
Antonio Tamburini (in collaborazione con Adolphe Nourrit)
Puccini - Tosca
Atto I
Recondita armonia - Renato Cioni
Mario! Mario! Mario! - Raina Kabaivanska & José Carreras
Tre sbirri, una carrozza - George London
Atto II
Ed or fra noi parliam da buoni amici...Vittoria! Vittoria! - Raina Kabaivanska, José Carreras & Renato Bruson
Vissi d'arte - Antonietta Stella
Atto III
E lucevan le stelle - Jaime Aragall
0 commenti:
Posta un commento